Ricerca antropologica presso il Centro di Primo Soccorso e

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Ricerca realizzata nell’ambito del progetto, finanziato dal Ministero dell’Interno,
“Svolgimento prestazioni sanitarie specialistiche nel Centro
di Primo Soccorso e Assistenza (CPSA) dell’isola di Lampedusa”
Maggio-Novembre 2015
Layout grafico e impaginazione: Stefano Schiaroli.
Immagini in copertina: Imbarcazione usata dalle persone migranti per attraversare il
Mar Mediterraneo. Porto Nuovo, Lampedusa, Maria Concetta Segneri.
Istituto Nazionale per la promozione della salute delle popolazioni Migranti e per il
contrasto delle malattie della Povertà (INMP) - Via di San Gallicano 25/A, 00153,
Roma.
Pubblicazione web: aprile 2016
Indice
Introduzione
p. 3
Metodologia
p. 3
Risultati
p. 4
3.1. Il profilo del migrante
p. 4
3.2 Ragioni delle migrazioni: violenze, torture e carcerazioni forzate
p. 4
3.3. Il viaggio migratorio
p. 7
3.4. Il progetto migratorio
p. 12
3.5. Percezioni sul proprio stato di salute psico-fisica
p. 15
Conclusioni
p. 16
Bibliografia
p. 19
2
Ricerca antropologica presso il Centro di Primo Soccorso e Assistenza (CPSA) di Lampedusa
Introduzione
L’indagine antropologica dal titolo Ricerca antropologica presso il Centro di Primo Soccorso e Assistenza (CPSA) di
Lampedusa è stata svolta dal 4 maggio
al 20 settembre 2015 nell’ambito del più
ampio progetto finanziato dal Ministero
dell’Interno: Svolgimento prestazioni sanitarie specialistiche nel Centro di Primo
Soccorso e Assistenza (CPSA) dell’isola
di Lampedusa.
Lo studio ha indagato i progetti di emigrazione/immigrazione delle persone migranti forzate ospitate nel CPSA e i fattori
sociali, culturali, economici, politici, e
non ultimo, istituzionali determinanti le
loro condizioni di salute.
Metodologia
Il lavoro etnografico è stato suddiviso in
una fase iniziale di start-up (15 giorni) in
cui, a seguito della conoscenza diretta
del contesto di realizzazione dello studio
– il Centro di assistenza – e degli attori
coinvolti nell’assistenza primaria – ente
gestore, organi di sicurezza, agenzie internazionali – è stata progettata la ricerca e gli strumenti di rilevazione dei dati
qualitativi/quantitativi etnografici: questionario per l’intervista, database, diario
di campo. Ha fatto seguito una fase di
rilevazione del dato etnografico (5 mesi)
e, in conclusione, una fase di analisi e di
restituzione dei risultati emersi (15 giorni).
L’indagine è stata svolta all’interno del
Centro di assistenza. La raccolta dei dati
etnografici è avvenuta mediante il metodo dell’osservazione partecipante e le
tecniche dell’intervista semistrutturata e
strutturata, nonché del questionario a
risposta aperta/chiusa. Questo ultimo è
stato somministrato in collaborazione
con mediatori transculturali e ha indagato le seguenti aree: 1. Anagrafica generale, 2. Ragioni emigratorie e percorso migratorio 3. Percezione del proprio stato di
salute psico-fisica, 4. Progetto migratorio
e aspettative, 5. Percezione dell’influen-
za del sistema di accoglienza italiano
messo in atto nel CPSA rispetto al progetto migratorio. La somministrazione del
questionario è avvenuta attraverso l’intervista, i cui obiettivi e argomenti sono
stati presentati e spiegati mediante modalità di comunicazione semplici e concise, tali da permettere una reciproca comprensione. Ciò in considerazione della
distanza che la rilevazione crea inevitabilmente rispetto all’orizzonte socioculturale di riferimento degli intervistati,
la complessa condizione di cui la persona
stava facendo esperienza al momento della rilevazione e il contesto all’interno del
quale sono state realizzate le interviste.
I dati quantitativi/quantitativi raccolti sono stati inseriti nel database realizzato
per la ricerca1.
La proposta di adesione allo studio antropologico è avvenuta durante lo screening sanitario e le visite mediche specialistiche realizzate dal personale medico
dell’INMP in collaborazione con quello
del CPSA.
Le persone intervistate in totale dal 4
maggio al 20 settembre 2015 sono state
113.
1 Il database cui si fa riferimento è stato realizzato mediante la collaborazione con A. Saponaro e L. Pratesi dell’INMP, che hanno curato anche i grafici presenti nel report.
3
Report INMP 2016
Risultati
3.1. Il profilo del migrante
Il profilo demografico delle persone intervistate non è difforme da quello delle
persone migranti sbarcate nel corso del
2015 sulle coste Italiane e in particolar
modo lampedusane, secondo i dati diffusi dal Ministero dell’Interno (2015) e
dall’OIM (2015). Si tratta per lo più di uomini di età media intorno ai 25 anni, celibi, con un livello di studio medio basso,
provenienti dalle aree del Golfo di Gui-
nea e dal Corno d’Africa.
3.2 Ragioni delle migrazioni: violenze,
torture e carcerazioni forzate
Per quanto riguarda le motivazioni che
hanno spinto i rispondenti a lasciare il
proprio paese di origine (Cfr. Fig. 1 e 2),
dalle interviste è emerso che esse sono
dipendenti dalla mancanza di risorse
economiche e dalla percezione di minacce alla propria incolumità e dignità e a
quella dei propri familiari.
Grafico 1 - Prima motivazione di partenza dichiarata
Grafico 2 - Seconda motivazione di partenza dichiarata
4
Ricerca antropologica presso il Centro di Primo Soccorso e Assistenza (CPSA) di Lampedusa
L’impossibilità di continuare a vivere nel
proprio contesto di origine costituisce un
tema che attraversa le narrazioni degli
uomini e delle donne intervistate.
La ragione della partenza che più è stata
indicata è la “povertà” (nel 31% dei casi
come prima motivazione e nel 27% come seconda motivazione2); intendendo
per questa una povertà assoluta che non
permette la sopravvivenza di se stessi e
dei membri della propria famiglia, pur con
le contestuali differenze tra persone, generi, ruoli sociali e nazionalità che non saranno approfonditi in questa sede testuale.
Al secondo posto come prima motivazione (19% delle risposte fornite) è emersa
la “guerra” (e al 5% come seconda motivazione). Questa ragione è stata verbalizzata in particolar modo da donne e uomini fuggiti dalla Siria (dal conflitto civile
iniziato dalla fine del 2011 tra numerose
forze governative, dell’opposizione e alleanze internazionali) e dalla Nigeria
(dagli atti terroristici, dalle persecuzioni
religiose, dalle violenze e torture compiute dell’organizzazione jihadista Boko Haram nata nel 2002).
Al terzo posto tra le prime motivazioni è
stata menzionata “l’assenza del rispetto
dei diritti umani” con il 16% (nel 7% come seconda motivazione). A tal proposito, è rilevante enfatizzare che sono soprattutto le persone eritree ad averlo riferito, in fuga dal regime militare instaurato dal 1993 dal presidente Isaias
Afewerki.
Tra le ragioni migratorie riportate a causa di detto regime, sono emerse: impedimenti della libertà personale e l’obbligo
della leva militare maschile e femminile
a partire dai 16 anni a tempo indeterminato3, che non permetteva alla popolazione di guadagnare a sufficienza per il
fabbisogno minimo familiare e che vedeva le persone costrette a forme di lavori
forzati, oltre a una feroce repressione
per coloro i quali tentano di evadere il
servizio militare.
In questi casi, la “povertà” costituiva certamente un fattore espulsivo del paese,
tuttavia, approfondendo le conoscenze
soggettive del contesto socio-politico eritreo in cui le persone vivevano, ne emergeva un quadro ben più complesso, basato su politiche di repressione, violenza
e sospensione dei diritti umani che spinge da generazioni la popolazione locale
alla migrazione verso il nord Europa4.
Analizzando il dato relativo al motivo della migrazione è emersa anche un’altra
informazione interessante. Nel 25% dei
casi (Cfr. Fig. 3) le risposte sono state
solo parzialmente corrispondenti ai motivi della migrazione indicati nel questionario. Queste persone non hanno risposto direttamente alla domanda in maniera circoscritta e diretta, ma lo hanno fatto nel corso dell’intervista; comportamento interpretato da una parte, quale
2 Il questionario adottato per l’intervista prevedeva per questa domanda la possibilità della risposta multipla. All’intervistato è stato
suggerito di fare un distinguo tra le motivazioni principali della partenza dal paese di origine e quelle secondarie.
3 Il servizio militare nazionale, istituito nel 1995, prevede che ogni persona adulta debba svolgere un periodo di leva di 18 mesi. In
pratica, tuttavia, un’elevata proporzione di coscritti lo svolge a tempo indeterminato (Amnesty International, 2015).
4 La Commissione di Inchiesta istituita dal United Nations Human Rights Council’s nel 2014 fa riferimento a più del 5% della popolazione eritrea costretta a fuggire per i motivi cui si fa riferimento.
5
Report INMP 2016
indice di una tenue consapevolezza della
capillare ricaduta sociale ed economica
delle scelte politiche adottate dai governi, dall’altra, di una difficoltà narrativa
verosimilmente dipendente dalla traumaticità degli eventi vissuti, tale da richiedere maggiore conoscenza, fiducia ed empatia, nonché un uso soggettivo del narrato emigratorio. A tal riguardo, è stato
esemplificativo il dato emerso dalle interviste di quei cittadini eritrei che in prima
battuta hanno riferito di essere fuggiti
per le condizioni di povertà in cui verteva
il proprio paese, poi durante l’intervista
hanno dichiarato di averlo fatto a causa
della leva militare.
Tale interpretazione non si sostituisce alle
narrazioni portate, ma vuole costituire un
elemento di riflessione biopolitica sui corpi
migranti e sulle istituzioni che li edificano.
Una percentuale consistente delle persone intervistate, il 39%, ha dichiarato di
aver subito forme di violenza nel proprio
paese di origine (Cfr. Fig. 4); in percentuali
più basse dichiarano di aver subito forme
di tortura e di essere stati detenuti, rispettivamente 7% e 4% (Cfr. Fig. 5 e 6).
Grafico 3 - Corrispondenza tra la motivazione della partenza dichiarata
dal rispondente e quella rilevata dall'intervistatore
Grafico 5 - Forme di tortura subite
nel paese di origine
Grafico 4 - Forme di violenza subite
nel paese di origine
6
Ricerca antropologica presso il Centro di Primo Soccorso e Assistenza (CPSA) di Lampedusa
Grafico 6 - Carcerazione subita nel paese di origine
I rispondenti che sono stati detenuti in
carcere hanno indicato una permanenza
che varia da una settimana a circa 4 anni, con una media di circa 2 anni.
Come si vedrà avanti, il dato relativo alle
forme di violenza e tortura subita dagli
intervistati rappresenta un elemento fortemente connotativo dell’esperienza migratoria, sia nella fase della partenza dal
paese di origine che nelle varie fasi del
viaggio, a conferma del carattere forzato
della migrazione e della conseguente
precarietà delle condizioni di transito,
benché altri dati, illustrati di seguito, ne
mostrino anche aspetti completamente
opposti, come ad esempio la presenza di
reti di riferimento dei migranti in Europa
e la correlata progettualità del viaggio
migratorio.
3.3. Il viaggio migratorio
Considerando i dati medi, il viaggio migratorio delle persone intervistate ha
avuto una durata di 5 mesi a partire dalla decisione di migrare in Europa, che
diventano 2 anni se lo si calcola dal momento in cui è stato lasciato il paese di
origine. Per quanto riguarda la durata del
viaggio dalla partenza dal proprio paese,
7
si va da un minimo di un giorno (come
nel caso dei libici) a un massimo di circa
23 anni (come nel caso di persone che
vivono anche in altri contesti, quali campi di rifugiati, prima di arrivare in Europa), mentre la durata del viaggio a partire dalla decisione di migrare in Europa
varia da un giorno a circa 3 anni. Dal
confronto tra i dati relativi alle due durate del viaggio in base agli stessi intervalli
temporali (Cfr. Fig. 7), si nota che nel
23% dei casi il viaggio dalla partenza dal
proprio paese ha una durata maggiore di
1000 giorni (quasi 3 anni) e quasi nel
54% dei casi ha una durata di 250 giorni
(8 mesi), percentuale che si alza al 90%
dei casi se si considera la durata a partire dalla decisione di migrare in Europa.
Per quanto riguarda l’organizzazione del
viaggio, la metà dei rispondenti afferma
di aver organizzato il viaggio in parte da
solo e in parte affidandosi ad altri (Cfr.
Fig. 8), per un costo medio di circa 2.400
euro, con un massimo di circa 11.000
euro. Si registrano anche casi in cui il
viaggio non è stato pagato in denaro, ma
con lavoro.
Per quanto riguarda il fenomeno di forme
Report INMP 2016
Grafico 7 - Durata del viaggio migratorio dalla partenza dal proprio paese
di origine e dalla decisione di migrare in Europa
Grafico 8 - Organizzazione del viaggio migratorio
di violenza e/o tortura nel corso del viaggio (Cfr. Fig. 9 e 10), le percentuali, rispetto alla situazione nel paese di origine (Cfr. Fig. 4 e 5), crescono dal 39%
all’81% dei casi, per i casi di violenza,
mentre per quanto riguarda le forme di
tortura la percentuale di risposte positive
sale dal 7% al 41%.
Richiamando le riflessioni precedenti relative ai dati sulla violenza/tortura subite
8
Ricerca antropologica presso il Centro di Primo Soccorso e Assistenza (CPSA) di Lampedusa
nel paese di origine, queste appaiono
confermare quanto emerge dalla letteratura riguardante i traumi del viaggio emigratorio, dai quali pare non potersi sottrarre: nell’arco dei 2 anni medi di spostamenti le persone intervistate sono
state esposte senza alcuna possibilità di
protezione a qualsiasi tipo di violenza/
tortura, in quanto persone transitanti,
prive di permesso di soggiorno, non raggiungibili da alcun ente di tutela internazionale (a prescindere della sua natura).
Un’alta percentuale di rispondenti, il 30%,
afferma di essere stato fermato da polizia
Grafico 9 - Violenze subite da trafficanti
e/o da polizia durante il viaggio migratorio
e/o altri militari nel corso del viaggio (Cfr.
Fig. 11) e di aver subito, nel corso del fermo, violenze nel 69% dei casi (Cfr. Fig. 12)
e torture nel 9% (Cfr. Fig. 13).
Inoltre, il 72% dei rispondenti dichiara di
essere stato messo in detenzione (Cfr.
Fig. 14), che nell’89% dei casi è avvenuta in Libia. Di questi, l’11% è stato detenuto in un carcere e il 53% in altra struttura detentiva. Il periodo medio di permanenza in carcere nel corso del viaggio
si attesta sui 2 mesi (circa 65 giorni), con
un minimo di un giorno e un massimo di
circa 2 anni. Dal confronto tra i dati rela-
Grafico 10 - Torture subite da trafficanti
e/o da polizia durante il viaggio migratorio
Grafico 11 - Fermi subiti da polizia e/o militari durante il viaggio migratorio
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Report INMP 2016
tivi alle due durate della permanenza in
carcere in base agli stessi intervalli temporali (Cfr. Fig. 15), si nota che, se durante il viaggio il periodo di detenzione è inferiore ai 30 giorni in circa la metà dei
casi, come per la detenzione nel paese
di origine, risulta significativo che la detenzione durante il viaggio superi i 90
giorni nel 25% dei casi.
In carcere la maggioranza degli intervistati dichiara di essere stato oggetto di
violenza (nel 71%), e il 29% dichiara di
Grafico 12 - Forme di violenza subite da parte
di polizia e/o militari durante il fermo
essere stato oggetto di tortura (Cfr. Fig.
16 e 17).
Pertanto, dalle narrazioni degli intervistati emergono episodi specifici del viaggio
in cui le violenze/torture ricorrono maggiormente, come per esempio nei controlli delle frontiere, negli snodi di transito, nel periodo della detenzione. Rispetto
a quest’ultima, approfondimenti sull’incidenza relativa alle strutture non riconducibili allo stato, hanno fatto emergere
dalle narrazioni aspetti quali: la capillari-
Grafico 13 - Forme di tortura subite da parte
di polizia e/o militari durante il fermo
Grafico 14 - Carcerazione subita durante il viaggio
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Ricerca antropologica presso il Centro di Primo Soccorso e Assistenza (CPSA) di Lampedusa
tà e la forza economica della criminalità
organizzata legata al traffico di esseri
umani e presente in Libia, la complementarietà tra trafficanti e alcuni corpi militari corrotti dello Stato, la difficoltà stessa
delle persone intervistate nel distinguere
tra trafficanti e personale corrotto delle
forze dell’ordine. Inoltre, la Libia emerge
come paese estremamente violento, corrotto e razzista nei confronti dei cittadini
subsahariani.
Grafico 15 - Durata della permanenza in carcere durante il viaggio
Grafico 17 - Forme di tortura subite in
carcere durante il viaggio
Grafico 16 - Forme di violenza subite in
carcere durante il viaggio
11
Report INMP 2016
3.4 Il progetto migratorio
Nella maggioranza dei casi il progetto
migratorio sembra essere un viaggio in
solitudine o, in minor misura, con il coniuge e i figli, verso parenti meno prossimi quali cugini, fratelli/sorelle/cognati,
zii (cfr. Fig. 18); infatti il 49% degli intervi-
stati conta di fare affidamento, per il proprio progetto migratorio, su familiari che
già vivono in Europa (Cfr. Fig. 19). È in tal
senso rilevante che, a conferma di questo dato, il (92%) aveva un’idea di dove
sarebbe migrato (Cfr. Fig. 20).
Grafico 18 - Ubicazione geografica membri famiglia
Grafico 19 - Affidamento del progetto
migratorio su parenti già in Europa
Grafico 20 - Progetto migratorio definito
prima della partenza
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Ricerca antropologica presso il Centro di Primo Soccorso e Assistenza (CPSA) di Lampedusa
Come si accennava in precedenza, questo dato mostra una natura idiosincratica
rispetto a quelle che potrebbero essere
considerate le caratteristiche contingenti
di chi emigra forzatamente, dove sovente
l’evento che determina la fuga dal paese
di origine non permette alcun genere di
pianificazione né del viaggio, tanto meno
del progetto emigratorio. Da quest’ultimo
deriverebbe la grande precarietà delle
persone e l’alto rischio di imbattersi in
violenze/torture durante gli spostamenti.
Tuttavia, l’approfondimento dei vissuti
emigratori ha permesso di smascherare
questa apparente contraddizione nei narrati, rendendo possibili altre interpretazioni, come per esempio la testimonianza di stati di cronicità politica, sociale ed
economica presenti in alcuni contesti
che non conoscono miglioramento nel
corso delle generazioni tali per cui la popolazione locale inizia ad emigrare, scegliendo dei paesi europei “bersaglio” dove poter ricostruire la propria “comunità”
di provenienza, trasformandoli in una seconda patria, una meta possibile per le
nuove generazioni.
Per quanto riguarda le previsioni circa
ciò che riserva il futuro, nel complesso la
visione è positiva nella maggior parte dei
casi: l’80% degli intervistati è convinto di
riuscire a realizzare il proprio progetto di
migrazione (Cfr. Fig. 21). Questo dato è
probabilmente influenzato da quella propaganda mediatica che mostra i paesi
occidentali come il “luogo” per eccellenza del benessere, delle opportunità, dei
servizi, della democrazia, dei diritti umani, ecc., ma è frutto anche dei racconti
non sempre veritieri (per varie ragioni) di
chi è già emigrato, come anche di un immaginario “altrove” che le persone si sono costruite nel tentativo di farsi forza
per affrontare il peso dell’esperienza
emigratoria – in primis la condizione di
esilio.
La quasi totalità dei rispondenti (96%)
non tornerebbe indietro subito e immagina un arco temporale del progetto ampio
(Cfr. Fig. 22) e di tornare in futuro nel
proprio paese nel 71% dei casi.
La fiducia circa il futuro non sembra es-
Grafico 21 - Aspettative positive riguardanti il progetto migratorio
13
Report INMP 2016
sere intaccata dalla pur alta incidenza
riscontrata dei fenomeni di violenza durante il viaggio, né da eventi vissuti al
momento dello sbarco a Lampedusa. Le
impressioni sul viaggio nel suo complesso risultano, infatti, essere totalmente
positive nel 66% dei casi (Cfr. Fig. 23).
Grafico 22 - Ipotesi riguardanti la durata del progetto migratorio
Grafico 23 - Impressioni sul viaggio
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Ricerca antropologica presso il Centro di Primo Soccorso e Assistenza (CPSA) di Lampedusa
Inoltre il 58% dei rispondenti dichiara di
non essere stato colpito da vicende o fenomeni particolari durante lo sbarco e,
del 36% di coloro che ha dichiarato di esserlo stato, solo il 17% ha dichiarato che
questi elementi avranno influenza sulla
realizzazione del progetto migratorio.
L’apparente incoerenza che la lettura di
questi dati potrebbero suscitare è stata
interpretata a partire dai contesti di partenza delle persone intervistate, dove
violenze e torture sono presenti nelle
pratiche quotidiane delle persone e dei
gruppi sociali, ne regolano le relazioni
socio-culturali ed economiche, ne modificando il significato e la capacità di sopportazione. In aggiunta, gli intervistati si
sono narrati in un momento del loro viaggio emigratorio in cui erano appena
scampati ai maltrattamenti e alle reclusioni avvenute in terra libica ed erano
sopravvissuti alla traversata del Mar Mediterraneo. Molte persone hanno dichia-
Grafico 24 - Malattie precedenti
la partenza
rato di non aver mai visto il mare, di non
conoscerne le reali dimensioni e di non
saper nuotare. Pertanto, la lettura di questi dati è stata interpretata come un verosimile desiderio di sopravvivenza e di speranza conseguente la sopravvivenza a
eventi che possono essere sembrati alquanto feroci da un punto di vista umano.
3.5. Percezioni sul proprio stato di
salute psico-fisica
Prima di lasciare il proprio paese, lo stato di salute dei rispondenti risultava essere buono: l’87% ha dichiarato di non
aver contratto malattie prima della partenza (Cfr. Fig. 24).
Circa lo stato di salute al momento
dell’intervista, poi, oltre il 63% ha dichiarato di essere in uno stato di salute da
buono a ottimo. Nonostante la dichiarazione del buono stato di salute, il 64%
dei rispondenti dichiara di essersi rivolto
ai medici durante la permanenza al CPSA
(Cfr. Fig. 25).
Grafico 25 - Richiesta personale di
controlli medici successivi allo sbarco
15
Report INMP 2016
Osservando le conseguenze del viaggio
sullo stato di salute, sembra che le persone intervistate stessero meglio prima
di iniziare il loro viaggio (quasi il 67% dei
rispondenti dichiara un peggioramento
dello stato di salute rispetto alla partenza), ma peggio al momento dell’imbarco
in Libia (il 53% degli intervistati dichiara
condizioni di salute migliori ora rispetto
al momento dell’imbarco).
Tali dati confermano la conoscenza dello
stato di salute dei migranti forzati: si tratta di persone sane che si ammalano durante l’emigrazione a causa delle condizioni di viaggio, della precarietà e della
scarsa igiene dei luoghi dove pernottano,
della bassa qualità del cibo che assumono, delle violenze/torture che subiscono
durante gli spostamenti e dei possibili
periodi di detenzione che sperimentano
e subiscono. Il peggioramento delle condizioni di salute in Libia è attribuibile ai
disagi, alle violenze e le reclusioni che gli
intervistati hanno riferito di aver vissuto
nel periodo precedente l’imbarco presso
i porti libici. Per tal motivo, arrivati nel
CPSA di Lampedusa numerose persone
si sono rivolte ai medici chiedendo attenzione e cure per malesseri e sofferenze
insorte in Libia. È stato inoltre interessante osservare che un numero rilevante
di persone intervistate hanno richiesto
un’attenzione medica a causa di un disagio psico-fisico non meglio specificato,
derivante dai tempi e dalle modalità delle procedure di identificazione all’arrivo
nel CPSA e dai trasferimenti presso altre
strutture italiane e/o europee che non si
aspettavano e hanno suscitato sentimenti esplicitati di stupore, sorpresa e
delusione. Ciò perché non si aspettavano
di essere sottoposti a controlli nella frontiera italiana così come era loro accaduto
nei contesti attraversati, ove vigevano
pratiche violente, abbrutenti e spietate,
nella totale assenza di democrazia. Benché le procedure burocratiche espletate
all’arrivo in Italia non fossero paragonabili alle “pratiche della violenza” subite
nei contesti di provenienza e durante il
viaggio migratorio, gli intervistati hanno
espresso un disagio emotivo nei confronti di alcuni processi (l’accoglienza al molo, la fotosegnalazione, la consegna del
numero identificativo, ecc.), attingendo
alla chiave di lettura delle esperienze vissute, anche se molto distanti da quelle
del contesto di arrivo italiano.
Conclusioni
Il quadro generale che emerge dall’analisi dei dati raccolti conferma quanto sostiene la letteratura (antropologica e
non) relativamente alla migrazione forzata: si è in presenza di una migrazione
“mista”, dove i confini tra ragioni forzate
ed economiche perdono consistenza. Infatti, è sempre più diffusa l’esistenza di
contesti politico-sociali i cui governi, per
innumerevoli ragioni, non contrastano i
fattori di espulsione della propria popolazione, costringendola di fatto a emigrare
sia per sopravvivere, come nei casi conclamati di guerra, sia per sperare in un
futuro migliore, nei casi di mancata risposta ai processi di crisi innescati dai
conflitti e dall’incapacità di risposta alle
carenze strutturali conseguenti ad essi.
Molteplici sono le testimonianze del
mancato rispetto dei diritti fondamentali,
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Ricerca antropologica presso il Centro di Primo Soccorso e Assistenza (CPSA) di Lampedusa
di privazioni, di prevaricazioni, di degrado, di violenze e di torture. Come ampiamente discusso in letteratura, le persone
migranti che hanno subito numerose violenze tendono a “normalizzare” queste
esperienze traumatiche, esprimendo
questo vissuto durante le interviste.
Simili esperienze biografiche rendono
prezioso il lavoro etnografico che ne facilita l’emersione in un’ottica conoscitiva,
analitica e restitutiva. Includere tale indagine in un contesto di prima assistenza dà la possibilità di potenziare e migliorare le strategie di presa in carico e cura
di questa eterogenea popolazione in un
momento estremamente destabilizzante
della vita come quello dell’arrivo e
dell’approdo.
Disegno realizzato da un bambino migrante sulla
parete della stanza dove era alloggiato
Dalle interviste è emerso spesso il desiderio di riappropriarsi di un’umanità
spezzata dalle vicende legate alla fuga
dal paese, dalle condizioni di viaggio, dalle incarcerazioni, dalle violenze e dalle
torture subite. Nei racconti degli intervistati i propri corpi sono narrati a tratti
come oggetti inanimati, a tratti come testimoni di teatri disumani: persone private della capacità di agire, della parola,
dello spirito critico e della dignità.
Dalle interviste emergono, tuttavia, profonde risorse individuali e collettive, queste ultime ove si emigra con nuclei familiari. Risorse che si concretizzano anche
nella possibilità che ogni persona si è
17
data di poter pensare, e dunque rendere
concreto nell’immaginario soggettivo, un
progetto di emigrazione e di immigrazione, di lasciare dunque un contesto e di
raggiungere un obiettivo, spesso attraverso una rete familiare o amicale in specifici ambiti europei. In questo senso, l’Italia è emersa come un territorio di transito e non una meta.
All’arrivo a Lampedusa la stanchezza psico-fisica degli intervistati è apparsa a tal
punto profonda, e la gioia di essere sopravvissuti anche al mare così incontenibile, da scontrarsi sovente con la realtà
del sistema di accoglienza. In un luogo
che potenzialmente, ma anche immaginariamente, metteva le persone in condizione di potersi riappropriare di quelle
funzioni primarie (nutrirsi, lavarsi, riposarsi, curarsi, ecc.) senza il timore di essere sorprese e sottoposte a rinunce, soprusi e violenze, le difficoltà inerenti processi amministrativi e burocratici sono
sembrate da un lato accettate, dall’altro
intollerabili. Dalle interviste è emerso il
sentimento contraddittorio dell’essere
accolti e “salvi” nel CPSA e contemporaneamente quello di essere costretti nelle
maglie di prassi burocratiche, amministrative, strutturali (tempi di trattenimento di minori e adulti; difficoltà di reperire
notizie di familiari imbarcati con loro e
sbarcati in altre coste italiane; difficoltà
di comprensione effettiva dei propri diritti, ecc.). A tali vissuti va associato l’essere sottoposti alle regole del CPSA alle
quali i migranti erano soggetti (quali la
separazione obbligatoria tra uomini e
donne se non familiari, ma la contemporanea promiscuità; quali la “reclusione”
degli uomini in uno spazio del Centro
chiuso da cancellate, tra gli altri aspetti)
che essi associavano a paesi, attraversa-
Report INMP 2016
ti nel corso del viaggio, i quali si erano
dimostrati estremamente violenti nei loro
confronti.
Nella lettura di questo dato è stato molto
importante connettere simili stati d’animo,
con i vissuti emigratori – e quelli biografici
in generale – lasciando spazio all’emersione di storie personali legate a grandi
aspettative familiari, forte desiderio di ricominciare per lasciarsi alle spalle le difficoltà incontrate, trepidazione per la ripresa
del viaggio verso l’Europa dove parenti,
amici e conoscenti erano in loro attesa.
Se da un lato l’obiettivo della ricerca antropologica è stato quello di definire le
caratteristiche della popolazione che migra forzatamente e arriva sull’isola di
Lampedusa, di conoscere e spiegare i
vissuti dei migranti forzati in un ambito di
primo soccorso e accoglienza, questo al
fine di mettere a disposizione questa conoscenza per trasformarla in azioni migliorative delle pratiche di accoglienza e
presa in cura, dall’altro lato la disciplina
antropologica ha potuto osservare, ascoltare e interagire anche con gli attori impegnati nell’accoglienza, raccogliendone
sensazioni, difficoltà e contraddizioni.
Dalle persone migranti intervistate è
emersa la drammaticità delle esperienze, ma anche la difficoltà di far dialogare
il loro immaginario nei riguardi dell’accoglienza italiana con la realtà effettivamente incontrata. Il processo di negoziazione che il nuovo contesto richiedeva,
sembrava andare oltre le loro capacità di
sopportazione e di conseguente adeguamento; probabilmente a causa delle feroci esperienze migratorie ai limiti dell’umana sopportazione. Simili difficoltà, anche riconducibili alla diversità socioculturale esistente tra le persone migranti, le logiche italiane dell’accoglienza e gli
attori che la realizzano, suggeriscono
azioni finalizzate al loro superamento.
L’osservazione etnografica ha fatto
emergere la necessità di una maggiore e
migliore condivisione della forma e del
contenuto delle informazioni rivolte ai
migranti tra tutti coloro i quali partecipano al processo di accoglienza. Il miglioramento di questo aspetto potrebbe avere
una ricaduta positiva sia sui migranti
trattenuti nel centro, dando loro la possibilità di affrontare il tempo di permanenza con maggiore consapevolezza e serenità circa gli sviluppi futuri legati alla loro
accoglienza, sia di conseguenza sugli
operatori che si occupano della gestione
di copiosi flussi di persone che affluiscono presso il CPSA, sovente ben oltre la
sua capienza.
Un altro aspetto rilevato nella ricerca che
appare meritevole di attenzione è costituito dalla necessità di un maggior numero di mediatori transculturali che gestiscano le lingue veicolari delle persone
accolte, che operino trasversalmente con
tutti gli attori coinvolti (ente gestore del
Centro, associazioni umanitarie e onlus,
presenti; unità sanitarie, psicologiche,
antropologiche, ecc.) al fine di migliorare
la relazione tra autoctoni e persone migranti, entrambi portatori di eterogenee
realtà socio-culturali.
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Ricerca antropologica presso il Centro di Primo Soccorso e Assistenza (CPSA) di Lampedusa
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