UN CONSEJO: NO DESPRECIEN WIKIPEDIA... Venga il tuo Regno! 8. CONOSCENZA E LINGUAGGIO Problematica Nell‘età antica e nella modernità, il linguaggio attira l‘attenzione dei filosofi, ma si rivela un tema dipendente da tesi metafisiche (età antica) o da tesi sulla conoscenza (età moderna). Solo nel periodo contemporaneo avviene una riflessione sul linguaggio radicalmente distinta da ogni possibile fondamento sia nella realtà, sia nel pensiero. Nell‘età antica, Parmenide e Gorgia contemplano il linguaggio in stretta dipendenza dall‘essere e dal conoscere. Platone, nel Cratilo, si domanda – senza esiti definitivi – se il significato delle parole dipenda dalla natura o dalle convenzioni in uso. Aristotele, all‘inizio del De interpretatione, formula per la prima volta una descrizione quasi analitica del linguaggio, individuando i fattori fondamentali e i loro rapporti. Gli autori moderni sono soliti considerare il linguaggio come insieme di parole o di proposizioni che vengono valutate per la loro capacità di comunicare con precisione un fatto o un pensiero. Locke, col suo Essay Concerning Human Understanding, presenta la prima teoria moderna sistematica sul linguaggio, in dipendenza dalla sua gnoseologia empiristica e rappresentazionistica. L‘alternativa a Locke è costituita da Leibniz; questi cerca di superare l‘ambiguità del linguaggio comune applicando il simbolismo matematico. Il tramonto della modernità implica che il linguaggio non venga più studiato alla luce di fatti o pensieri esterni, bensì a partire dal suo significato intrinseco e dalle diverse funzioni che esso compie. A questo riguardo si possono distinguere tre grandi linee nel XX secolo: A) la prima fase della filosofia «analitica» (Frege, Moore, Russell, «primo Wittgenstein», Carnap) dove il linguaggio è un segno acustico o scritto che fa riferimento a un significato mentale, il quale a sua volta punta verso un referente extramentale; questa linea è interessata alla comprensione del linguaggio scientifico. B) quella «esistenziale-ermeneutica» (Heidegger, Gadamer, Ricoeur) dove il segno esterno fa riferimento a un significato mentale che è esso stesso il referente; questa privilegia lo studio del linguaggio ordinario e ne sottolinea la storicità e la convenzionalità. Il fatto che Wittgenstein abbia mutato radicalmente le sue posizioni iniziali spiega che nel periodo postbellico la corrente analitica presenti importanti convergenze con la corrente semantica. C) una seconda fase della filosofia analitica («secondo Wittgenstein», Quine, Austin, anticipati in qualche modo da De Saussure), nella quale il significato deriva dall‘uso entro un contesto; questa linea mette in luce la polisemia del linguaggio all‘interno di giochi linguistici cangianti. Da più parti viene segnalato il pericolo di autoreferenzialità e di relativismo che minaccia queste tendenze recenti. Quadro storico 1. Parmenide e Gorgia: quali sono le implicite tesi metafisiche e noetiche che condizionano il linguaggio? Qual è, allora, lo statuto e il senso del linguaggio? Sia in Parmenide, sia in Gorgia, lo statuto del linguaggio diventa più parradossale che analitico e significativo. C’è un accento sulla poetica come l’unica maniera di espressione linguistica adecuata alla concezione metafisica di questi due autori. La questione di fondo dei due è assai diversa. L’univocità dell’essere di Parmenide fa si che la divergenza fra essere-pensiero-parola non esiste più. Ma, essendo un pensatore presocratico, siamo ancora davanti ad una filosofia impegolata nel mito e la religione. La espressione del suo pensiero è fortemente poetico; un fatto che certamente mostra su approccio piuttosto “mistico” all’essere e ancora non speculativo. Il relativismo estremo di Gorgia divide assolutamente l’essere con il pensiero e il pensiero con la parola. Se c’è ambiguetà nell’essere, non si può affermare l’essere come qualcose fisso e per questo stabile. Da questo Gorgia fa emergere la negazione della conoscenza e dunque anche della parola o espresione linguistica. 2. Platone: quali sono le tesi che egli contrappone nel Cratilo? Qual è l‘esito del dialogo? Platone, primo che affronta il problema del linguaggio direttamente nel Cratilo, presenta due tesi: Cratillo che difende l’origine naturale, Ermogene che difende un’origine convenzionale. L’origine naturale si difende con la nozione di participazione: l’idea (l’essere) che è puro e pieno si partecipa attraverso di una linea de impoverazione nel pensiero e ulteriormente nella parola. È un rapporto di somiglianza formale (intenzionalità). Interesse di Cratilo sarà la questione di affermare o no una lingua originaria, e di cercare delle somiglianze acustiche dei nomi con i suo referenti correspondenti. Ermogene, in Platone non presentato con molto rigore, difende la convenzionalità del linguaggio: è in parte asignato convenzionalmente, in parte frutto di abitundine. Benche Platone non espressa una opinione conclusiva, nella logica platonica è più coerente la concezione del origine naturale del linguaggio. 3. Aristotele: quali sono gli elementi che intervengono nel linguaggio, e quali i loro rapporti? Qual è l‘orizzonte noetico e metafisico che inquadra questa teorizzazione del linguaggio? C’è la grande parte delle opere di Aristotele, l’organon, come parte teorica che studia la logica completa. É il contributo più importante alla logica nella storia della filosofia. Si può strarre questo schema della sua concezione della triade semiotica: Simbolo/convenzionale “Passioni dell’anima” “suoni” Relazione semiotica Somiglianza naturale Rlz. non semiotica “pragmata” Parlando propriamente del linguaggio, Aristotele lo definisce come prodotto simbolico di una communità. Parla si “suoni di voce” come simboli dei affezioni dell’anima. Ma la svolta forte che troviamo in Aristotele, prima in questo ambito, sarà il suo studio indipendente della retorica e della poesia. Comincia a trattare il linguaggio nel suo aspetto autonomo. Non lo fonda sulla participazione “indebolata”, ma lo constituisce si come segni delle concetti, quindi su una relazione di esemplarietà. I gradi di “distanza” fra linguaggio e gnoseologia/ontologia sono primo la matematica come lo più legato alla logica interna, doppo il linguaggio comune, con più autonomia, e alla fine la poesia che gode di una forte originalità propria a volte molte staccato dalla realtà. I componenti del linguaggio sono: 1. Mythos/ lo racconto 2. Carattere 3. Pensiero 4. Lexis/ espressione articstica 5. Musica/ espressione musicale 6. spectaculo Contenuto/significato ESSERE intenzionalità/significante PENSIERO Aspetto esterno PAROLA La parola è il linguaggio dunque, benche legato strettamente al concetto e conseguentemente alla realtà, non è fisso. C’è una aggiunta, un plus, che da spazzio alla creatività ed originalità delle espressione linguistiche per esempio della poesia, ed anche alla varietà di interpretazioni di una construzione linguistica. 4. Locke: come articola il linguaggio con il pensiero? Quali sono le conseguenze per il rapporto del linguaggio con la realtà empirica? Con Locke arriviamo ad una centralità assai forte della dimensione linguistica. C’è una triplice risoluzione in Locke: qualità primarie (quantità) che sono causa efficiente (!) della idea semplice, qualità secondarie (qualità) che non hanno carrattere necesario ed como terzo il complesso delle prime due legato attraverso i modi (qualità complesse non sussistenti). Nel terzo livello di risoluzione, nel quale da vero si denomina ciò che è, il nome stesso acquista la funzione di constituire la sostanza. É quindi il nome, quindi il linguaggio, che unisce in se le diverse idee semplici contingenti ricevuti dalla sensazione, è gli da il nesso necessario per poter dire per esempio: “questo è oro”. 5. Frege: che valore ha la sua distinzione tra senso (Sinn) e denotazione (Bedeutung)? Quale tipo di analisi linguistica viene da lui introdotta? La grande distinzione fatta da Frege è fra senso (Sinn) e denotazione/significato (Bedeutung). Parlando di senso, Frege evidenza che è il aspetto sotto il quale il oggetto viene dato, mentre la Bedeutung è la denotazione o il significato/riferimento. Da questa distinzione si deriva il “principio di Frege” che dice che in una frase, se si intercambia due espressioni che hanno la stessa denotazione, la denotazione generale della frase non cambia. Così dire “Niels Armstrong era americano” e “il primo uomo sulla luna era americano” hanno la stessa denotazione (Bedeutung), ma diverso senso. Nella denotazione si trova il “Wahrheitswert”, il valore di verità. Parlando di una frase indiretta però cambia lo schema. Dire “Pedro pensa che N.A era americano” e “Pedro pensa che il primo uomo sulla luna era americano” non ci conduce necessariamente allo stesso valore verità, specialmente si Pedro non sa che Niel Armstrong era il primo uomo sulla luna. 6. De Saussure: quale importanza ha in lui il sistema? Che senso ha la sua distinzione tra Langue e Parole? Come distingue il significante dal significato? C’è una triplice distinzione in De Saussure: Langage: il linguaggio in se, la potenza umana di parlare, la facoltà. É un il linguaggio come “fenomeno preteoretico”, quindi al livello della facoltà ancora non specificata. Langue: un lingua concreta come il tedesco o francese... ma come sistema astratto di norme; allo stesso tempo anche parla di langue in riferimento al linguaggio dei “segni”. Il langue si spiega come ordenamento gnoseológico, teorético del langage. Parole: è il parlare stesso, atto concreto di uso della lingua. C’è una dupplice dimensione nel langue. La dimensione sociale è un sistema convenzionale, intersoggettivo, una costumbre rittenuta nei menti. La dimensione individuale espressa più un “depot” di una lingua soggettiva interiorizzata. Lo stesso si applica alla parole: individualmente è il atto concreto di parlare, socialmente è il luogo di genesi e cambiamento del langue. Parole quindi nutrino il langue, mentre il langue forma la base per le parole. Parlando della “Bedeutung” (significato) per de Saussure si tratta di un prodotto dell’intercambio sociale. La relazione tuttavia di “Bedeutung” e “Zeichen” (significante, segno) non è intrinseca; non c’è nessuna qualità nella segno che giustifica il suo significato. Questo è il principio di arbitrarietà di de Saussaure. Non tanto la arbitrarietà di assignare un segno ad un significato, ma piuttosto la libertà stessa del segno che non si trova legato per qualità propria ad un significato specifico. La diversità delle lingue ed anche il cambio constante delle stesse è esempio della arbitrarietà dei segni. È la diversità ed opposizione dei segni dentro del sistema di segni ciò che determina il significato. La frase più famosa che riassume il pensiero di de Saussure è: “Sprache ist eine Form, keine Substanz” 7. Wittgenstein: che cosa significa l‘«atomismo logico» presente nel Tractatus logico-philosophicus? Quali sono, invece, le tesi presenti nelle Ricerche filosofiche? Tractatus logicus Articulo 1-3 Ontologia di fondo Bestehen von Sachverhalten Tatsache Verbindung von Gegenständen Sachverhalt Dinge, Sachen Gegenstand Form Logik Einfach, atomar (nicht zusammengesetzt, keine Sachverhalte) Möglichkeit der Struktur Struktur eine Tatsache Il processo deduttivo del Tractatus logicus è: 1. l’oggetto (Gegenstand) è semplice e “atomico” (non composto, non è un Sachverhalt) 2. la conessione (Verbindung) di oggetti è il Sachverhalt. 3. La sussistenza di Sachverhalte (stato di cose) è la Tatsache (fatto). Chiamato anche “bestehende Verbindung” (concessione sussistente). 4. La totalità di Tatsachen è il mondo 5. La realtà totale è il mondo (“Die gesamte Wirklichkeit ist die Welt”) Quindi la realtà è la totalità del nessi, ma al secondo grado, e sussistenti. 1. l’oggetto (Gegenstand) è semplice e “atomico” (non composto, non è un Sachverhalt) 2. la conessione (Verbindung) di oggetti è il Sachverhalt. 3. La sussistenza di Sachverhalte (stato di cose) è la Tatsache (fatto) 4. La totalità di Tatsachen è il mondo 5. La realtà totale è il mondo (“Die gesamte Wirklichkeit ist die Welt”) Namen (nome) Elementarsätze (frasi elementari) Sätze Gnoseologia Pensare è presentarsi immagini (Bilder vorstellen), il Bild è un composto o una struttura di Fattiimmagini-pensieri-frasi. Si deduce il schema di di corrispondenza di sopra. Il nome sempre è Bedeutung (significante, denominazione) che trova il suo senso/significato (Sinn) nel Elementarsatz. Lo vero sempre si constituisce nella sussitenza (Bestehen) dentro di una frase. Verità quindi è la identità di due schemi: il schema della Tatsache (bestehende Sachverhalt) e la frase espressa. Doppeldeutigkeit der Gegenstände Oggetti si determinano in due direzzioni: nome e materia non dividibile (Substanz der Welt). Articolo 4 Tesi principale di Wittgenstein: “Mi pensiere fondamentale è che la “constante logica” non sustituiscono. Che la logica dei fatti non si sustituiscono.” Quindi i nessi logici “e”, “o”, “non”, “si...dunque” non sono nomi che sustituiscono cose. Il Sachverhalt, constituito dei frasi elemantari “a” e “b”, non sussiste per il nesso, ma per il sussistere delle singole frasi elementari. “Wovon man nicht sprechen kann, darüber muss man schweigen“. (Ciò su cui non si può parlare, si deve tacere) Per dire che ciò che possibilità il dire e pensare, non può essere il oggetto. Ricerche filosofiche In questi lavori (Ricerche filosofiche), Wittgenstein compie il passaggio, in sostanza un reale cambiamento dal Tractatus. Mentre il Tractatus riteneva che la descrizione della realtà dovesse essere fatta nell'unica maniera rigorosa possibile e cioè dalla logica, disciplina che lui stesso aveva contribuito a chiarire con l'invenzione perspicua delle tavole di verità, in queste opere matura la critica alle posizioni che giustificano la matematica con la logica (Logicismo) ma anche alle considerazioni che determinavano l'esistenza di un unico specchio della realtà: il linguaggio logico definito ormai dai colleghi e amici come un aspetto della matematica. Wittgenstein ha privilegiato sempre la logica, ritenendo che la matematica sia un metodo della logica. In sintesi, per Wittgenstein la matematica è un sottoinsieme della logica, mentre per Russell, Ramsey e Frege la logica è un sottoinsieme della matematica. Che il linguaggio sia di per sé logico, e che bisogna ascoltare con attenzione gli insegnamenti che vi sono nascosti, e che quindi non vi sia bisogno di un linguaggio astratto ideale come molti avevano inteso attraverso il Tractatus: sono queste le nuove convinzioni che si presentano nelle Osservazioni filosofiche, assieme ai tentativi di mescolare la struttura logica con le sue caratteristiche costanti (e: ^, implica: =>, o: v, non: −, per tutti: ∀ , esiste: ∃ ) a quella del linguaggio comune. (Wikipedia) Giochi linguistici La teoria dei giochi linguistici è stata elaborata da Ludwig Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche (1953), capovolgendo completamente la visione del linguaggio espressa nel Tractatus logico-philosophicus (1922). Ad una visione del linguaggio, "specchio del mondo", "immagine della realtà" (teoria dell'immagine) se ne sostituisce una in cui il carattere denotativo del linguaggio è solo una delle tante sue funzioni, dei suoi impieghi, è soltanto uno degli infiniti giochi linguistici. Creare nuovi linguaggi equivale a creare nuove "forme di vita". Ciò che conta infatti è l'uso che del linguaggio si fa, è questo il suo significato, non ha quindi senso studiare i fenomeni linguistici in modo generale e generalizzante prescindendo dagli infiniti usi possibili delle parole e considerando solo i nomi. Sia nel linguaggio scientifico sia (e in misura ancora maggiore) in quello ordinario, le parole si configurano piuttosto come mobili costrutti, come fluidi strumenti il cui significatomuta in rapporto alle funzioni specifiche cui sono destinati. Ed è proprio la funzione pratica del linguaggio, che deve essere concepita in maniera totalmente innovativa: una maniera non più univoca, ma pluralistica. In effetti, come sottolinea con particolare energia Wittgenstein (in un'evidente prospettiva autocritica rispetto a certe tesi del Tractatus), lo scopo degli enunciati linguistici non è solo quello di raffigurare il mondo o di descriverlo. Wittgenstein propone di considerare tra i compiti primari dell'analisi filosofico-linguistica quello di individuare le varie funzioni svolte dall'attività del linguaggio. Mentre la teoria tratteggiata nel Tractatus assolutizzava in qualche maniera la funzione raffigurativo-denominativa, ora il "nuovo" Wittgenstein sostiene invece che «con le nostre proposizioni noi facciamo le cose più diverse». Un celebre esempio addotto nelle Ricerche filosofiche riguarda il linguaggio esclamativo. Alla diversità nell’uso liguistico (come la attività esclamativa) Wittgenstein ha dato il nome di giochi linguistici, espressione con la quale egli intendeva sottolineare, da un lato, il carattere sociale e artificiale (nel senso di elaborato culturalmente dall'uomo) dell'agire linguistico, e dall'altro lato il fatto che questo agire, nonostante la sua apparente gratuità e la sua relativa imprevedibilità, ha determinati fini ad esso immanenti, e soprattutto rispetta (come tutti i giochi) determinate regole. Ed è proprio laddove impiega la nuova definizione del fatto linguistico come gioco che Wittgenstein torna a sottolineare in modo molto efficace il fondamentale principio della pluralità delle funzioni linguistiche e degli asserti proposizionali: «Ma quanti tipi di proposizioni ci sono? Per esempio: asserzione, domanda, ordine? Di tali tipi ne esistono innumerevoli: innumerevoli tipi differenti d'impiego di tutto ciò che chiamiamo segni, parole, proposizioni. E questa molteplicità non è qualcosa di fisso, di dato una volta per tutte; ma nuovi tipi di linguaggio, nuovi giochi linguistici, come potremmo dire, sorgono e altri invecchiano e vengono dimenticati.» (L. Wittgenstein, cit., par. 23.) 8. Heidegger e Gadamer: quale importanza ha il linguaggio come struttura che apre l‘esserci (Dasein) all‘essere e agli essenti? Quale, invece, l‘importanza del binomio comprendere-interpretare per il linguaggio? In Verità e Metodo di Gadamer, che ruolo svolge il linguaggio nel contesto del rapporto tra l‘uomo e la tradizione? Che significa il «circolo ermeneutico» e la «fusione di orizzonti»? Heidegger: Si ha visto che nella filosofia finora il linguaggio sempre aveva piuttosto un’uso funzionale. Benche Aristotele ha trovato un equilibrio nella valutazione poetica e così anche autonoma del linguaggio, nell’idealismo per la centralità sul mondo mentale, il linguaggio diventa puro strumento inerte del pensiero. Heidegger da di maniera molto diversa come Wittgenstein una forte autonomia al linguaggio. Come disprezza fortemente il pensiero “determinato e definito” come accesso unico e chario alla realtà, da piu accento sul linguaggio nella quale la verità avviene. Arte, scienza e tecnica si svillupono sempre dentro di un schema linguistico. Ma Heidegger ancora va al di là. Non è piu l’uomo che parla, ma “il linguaggio (Sprache) che parla”: il uomo corrisponde alla linguaggio (tipico gioco di parola di Heidegger: entspricht der Sprache), perche non lo fa ma sempre si trova inmerso in un linguaggio. E come l’interese principale di Heidegger è l’esser, il linguaggio diventa alla fin fine “casa del linguaggio”, quindi luogo si relazione fra l’Dasein e il Sein. Relazione che per la forte Nähe (vicinanza) dell’essere stesso a noi, non percipiamo con il nostro pensiero calculante. Gadamer: Verità e Metodo p. 199 La domanda fondamentale di Gadamer è: Si può uscire dei pre-opinioni, pre-forme e pre-espetazioni? É possibile un Daseinsbewusstsein (coscienza del esserci)? Le tre tappe: 1. Dialogo con se stesso: Pensare per Gadamer è un continuo dialogo con se stesso, un sorpassarsi. 2. Mondo e altri: il mondo e l’altro si include nel proprio ambito di esperienza e di dialogo. 3. Il mondo conventionalmente pre-formato: tutto pensare e parlare è orientato attraverso di questa pre-formazione, “Sozialisation” Per Gadamer il capire (verstehen) si definisce come “orientato alla cosa” (Sach-Orientierung), ma sempre è pre-formata dal parlare (reden). Lo che determina il capire è dunque il vorgeformtes Redensschemata (il schema di parlare pre-formato). Ma il parlare lo definisce come “inserirsi in una direzzione del pensare che viene da molto lontano e che si estende molto al di là di noi”. C’è quindi questa triade: noi che nel comprendere siamo influsso delle precomprensioni (1) provenienti dalla cultura, ma alla stessa volta il comprendere (2) nostro è precompresione (3) per ultieriori comprensioni. 9. Quine: in quale modo egli critica la scienza neopositivistica e la distinzione tra sintetico e analitico? Quine critica principalmente il positivismo logico, specialmente il principio di verificazione, nel quale ogni enunciato deve essere verificato da fatti di esperienza. 1. 2. 3. 4. Osservazione fatta di un nativo Si interpreta soltanto conoscendo bene il linguaggio del nativo Il linguaggio si conosce basato su frammenti semplici collegate a osservazioni Ma come visto, questi osservazioni consentono sempre interpretazioni molteplici Quindi basato su questo margine di interpretazione, Quine deduce due principi: 1. Olismo della conferma: La premessa dell'olismo della conferma è che tutte le teorie di quello che esiste (e le affermazioni derivate nel loro ambito) non sono sufficientemente determinate dai dati empirici (dati, dati sensoriali, evidenza); ogni teoria con la sua interpretazione dell'evidenza è ugualmente giustificabile. Così laWeltanschauung degli dèi omerici secondo gli antichi greci è credibile quanto le onde elettromagnetiche del mondo dei fisici. 2. Relativismo ontoligico: Il relativismo ontologico di Quine lo conduce a concordare con Pierre Duhem quando ritiene che per ogni collezione di evidenza empirica ci sarebbero sempre molte teorie in grado di renderne conto, di inquadrarla. Quindi non è possibile verificare o falsificare una teoria semplicemente confrontandola con l'evidenza empirica; la teoria può sempre essere salvata con qualche modifica. Per Quine il pensiero scientifico ha formato una rete coerente nella quale ogni parte potrebbe essere alterata alla luce dell'evidenza empirica e nella quale nessuna evidenza empirica potrebbe costringere alla revisione di una parte. Cristica alla distinzione tra enunciati analitici ed sintetici- intento monistico Enunciato analitico- veri o falsi semplicemente in relazione ai significati dei termini che li compongono come Tutti gli scapoli non sono ammogliati; centrato nella coerenza logica-linguistica; ambito del significato. Enunciati sintetici- veri o falsi in relazione ai fatti del mondo come "C'è un gatto sullo zerbino."; centrato nei fatti di sperienza; ambito della denotazione. Per Quine non c’è distinzione fra questi dui livelli. Ogni enunciato, o meglio ogni significato (“scapolo”) sempre è riducibile ad un fatto. É quindi la filosofia che sta inchiusa nella scienza; la scienza non ha bisogno di nessun “sovratribunale” o “giustificazione al di là della osservazione e del metodo ipotetico-deduttivo”. 10. Austin: che cosa significa l‘aspetto performativo che egli propone? Che valore ha l‘analisi degli «atti linguistici» che distinguono il locutorio, l‘illocutorio e il perlocutorio? Enunciati constativi e performativi Un enunciato come "Vietato fumare" ha un aspetto descrittivo, tuttavia non si può dire se sia vero o falso: a massimo si può discutere sulla validità o appropriatezza dell'avviso che lo trasmette a chi legge, ma non sul fatto che sia vero o falso. Chiama questi tipi di enunciato performativi (dall'Inglese to perform, eseguire, agire), perché attraverso di essi si compie un'azione, e li contrappone a quelli meramente descrittivi, che chiama constativi. Atti linguistici Attraverso una riflessione ulteriore sui tipi di enunciati, Austin supera e abbandona la sua stessa concezione sulle enunciati performativi e constativi. Analizzando i constativi rileva la loro non totale estraneità ad un aspetto performativo, cioè scopre che anche attraverso semplici affermazioni (enunciati descrittivi, quale ad esempio "ho sete") si eseguono azioni (come ad esempio ottenere dell'acqua). Giunge, allora, a classificare gli atti linguistici secondo una teoria generale che invece di individuare diversi tipi di enunciati "scompone" il singolo enunciato nei tre livelli in cui può essere analizzato. 1. Atto locutorio: l'atto di costruire un enunciato attraverso il lessico e le regole grammaticali di una determinata lingua per veicolare un dato significato. 2. Atto illocutorio: l'intenzione che viene perseguita "nel dire", cioè con il fatto stesso di pronunciare l'enunciato. Entra qui in gioco la nozione di forza illocutoria, che non è un'intensità di azione, bensì l'intenzione linguistica che sta nell'enunciato, la direzione verso la quale l'enunciato tende, il modo in cui l'enunciato va interpretato. La forza illocutoria ha un carattere convenzionale: i metodi attraverso la quale viene espressa saranno infatti oggetto dello studio di filosofi successivi. Un atto illocutorio può essere diretto, se formulabile attraverso un verbo performativo, come ad esempio "Battezzo questa nave Queen Elizabeth", oppure indiretto, se realizzato attraverso la "forma" di un atto locutorio che mira in realtà a realizzarne un altro. Si pensi al caso di chi dice "Freschino qui dentro!" (una constatazione) con l'intenzione di far chiudere la finestra senza chiederlo esplicitamente. 3. Atto perlocutorio: il fine che si raggiunge con il dire, l'effetto dell'atto illocutorio. Si parla di obiettivo perlocutorio quando l'effetto ottenuto dall'atto perlocutorio coincide con l'intenzione di chi ha emesso l'atto illocutorio, e di seguito perlocutorio quando l'atto illocutorio ottiene un effetto diverso da quello desiderato (la sequela perlocutoria è una sequenza di seguiti perlocutori). Un esempio può essere quello del genitore apprensivo che intima al figlio adulto in procinto di mettersi in viaggio in automobile "Mi raccomando: non correre!". L'atto illocutorio del genitore è una raccomandazione, che potrebbe rientrare fra gli atti esercitivi, volto a indurre il figlio alla prudenza: l'obiettivo potrebbe però scostarsi dall'effettivo seguito se il figlio si dovesse irritare. Quadro sistematico 1. Alla luce della complessa «storia del linguaggio», è possibile affermare che la filosofia del linguaggio dipende di volta in volta da altri presupposti? Quali sono i principali presupposti? 2.In una prospettiva di realismo tomista, che cosa è il linguaggio? Quali sono i suoi nessi strutturali con l‘essere e con il pensiero? Intenzionalità/somiglianza (Aristotele) ESSERE Referente Relazione non semanitica denotazione/referenza/riferimento CONOSCERE Significato Significazione/relazione semanitica DIRE Significante Esempio: “Maffeo è un gatto”: ‖ Maffeo è un gato ‖ - referente: oggetto concreto | Maffeo è un gato | - significato: complesso presente nella mente (oggetivizato da me) «Maffeo è un gato» - significante: espressione linguistica 3. Il linguaggio deve essere studiato a partire dalla parola? O dalla proposizione? O dal discorso – dialogo? Si può leggere la storia delle principali posizioni in questa luce? 4. Il linguaggio per sua natura è qualcosa di univoco, analogico o equivoco? Si può leggere la storia delle principali posizioni in questa luce? Si può arrivare a qualche definizione globale del linguaggio? 5. È possibile individuare le principali «funzioni» del linguaggio? Quali sono? 6. Quale è il problema del «significato»? Si può interpretare la storia delle diverse posizioni in quest‘ottica? 7. Fino a che punto la nostra conoscenza del mondo è condizionata dal linguaggio? 8. Come si rapporta il realismo tomista nei confronti delle principali linee linguistiche del XX secolo? C‘è una totale divergenza, oppure si apre una via di dialogo?