Il rifiuto della cura
di C. M. G.
classe III sez. A
È veramente possibile inquadrare in un sistema logico, intersoggettivo e coerente, tutti i dati che
l’esperienza ci offre? Riusciremmo a dare senso alla nostra esistenza, vincendo dunque la paura causata
dall’incertezza del divenire di questa, dopo aver compreso che la realtà è il linguaggio? Quale sarebbe
allora il suo fondamento? Quali le cose lasciate inespresse? Perché infine curarsi dalla sua malattia, cioè la
metafisica?
L’epistemologia nasce agli inizi del Novecento per semplificare il collegamento fra osservazione,
esperimento e teoria scientifica e dà una risposta positiva ai quesiti sopra posti. Il suo obiettivo è la
demarcazione netta fra ciò che è scientifico e ciò che non lo è, alla luce di nuove e sconvolgenti
acquisizioni, che avevano messo in crisi la scienza classica, sulla quale il Positivismo ottocentesco aveva
fondato la sola razionalità possibile per la moderna e neonata società dei consumi. L’osservazione empirica
e l’applicazione del metodo ipotetico-deduttivo avevano reso possibile la formulazione di quelle leggi
scientifiche, che il Positivismo si proponeva di applicare in ogni campo del sapere umano, compreso quello
della “fisica sociale” in modo tale da prevedere il funzionamento della natura e della società.
L’accelerazione definitiva, che la Scuola di Francoforte imputa al Positivismo, impressa al progetto di
dominio dell’uomo sulla natura che si è invece tragicamente tradotto nel dominio dell’uomo sull’uomo,
nella cancellazione della libertà, nei totalitarismi (Dialettica dell’Illuminismo). Il Circolo di Vienna fondato
nel 1922 su iniziativa di Schlick nel manifesto programmatico scritto a più mani (Neurath, Carnap, Hahn)
si prefiggeva l’elaborazione di una nuova concezione unificata della scienza, basata sulla sintesi degli esiti
dell’empirismo settecentesco di Hume, dunque la sua critica all’induzione, per esempio, e la moderna
logica simbolica teorizzata dagli esponenti della filosofia analitica. Il nucleo concettuale era ripreso dal
“Tractatus logico-Philosophicus” di Wittgenstein e consisteva nel “principio di verificazione”. Esso
permetteva di stabilire la veridicità di una proposizione sintetica a priori, invece che a posteriori, sulla base
dell’intersoggettività che risiedeva nel linguaggio. La filosofia come analisi logica dei concetti avrebbe
smascherato una larga parte dei quesiti relativi all’Etica, all’Estetica e al Trascendente come privi di senso
e ne avrebbe trasformato altri in problemi empirici risolvibili. Tuttavia, durante il suo sviluppo questa
impostazione mostrò il suo lato metafisico, paradossalmente, dopo aver con ogni forza tentato di demolire
l’edificio della metafisica. Si approdò alla consapevolezza di non poter attribuire verità assoluta a tutte le
proposizioni sintetiche perché chiunque, forte della propria esperienza, avrebbe negato quella altrui,
qualora si fosse dichiarata diversa. Molteplici furono le opinioni in merito alla cosiddetta “polemica dei
protocolli”: Wittgenstein stesso rivisitò la sua precedente posizione del “Tractatus” non sottomettendo più
la logica dei linguaggi degli uomini alla logica perfetta, ma elaborando invece la “teoria dei giochi
linguistici” che attribuiva secondo l’uso il significato ai termini. La posizione di Popper andava nella stessa
direzione del Circolo per quanto concerne lo stabilire cosa fosse scientifico o meno, ma decretava che il
compito dell’esperienza fosse quello di “corroborare” un enunciato scientifico. Numerosi fallimenti delle
tesi contrarie avrebbero determinato un alto grado di verità. L’epistemologia e Wittgenstein inquadrano
dunque in un sistema unitario, logico e intersoggettivo i dati dell’esperienza, rispondendo in maniera
affermativa ai quesiti iniziali. Wittgenstein arriva all’esito più importante, affermare cioè che la realtà sia il
linguaggio, scardinando l’edificio, metafisico, costruito per più di due millenni dalle riflessioni che si sono
susseguite e scandiscono lo sviluppo della nostra civiltà occidentale.
Ma è veramente possibile rinunciare all’interrogativo che ha segnato l’atto di nascita della società in cui
viviamo? Il fondamento è la ricerca socratica del “che cosa è vero” ed è in questa direzione che la
riflessione filosofica ha compiuto i suoi primi passi ed è arrivata fino a noi. Il realismo della filosofia antica
cercava di far coincidere il piano ontologico della verità con quello logico della certezza, l’opposizione fra
gli stessi due piani è stata sviscerata dal dibattito della filosofia moderna e l’idealismo ha riunito i piani,
facendoli coincidere dopo essersi arricchito della problematizzazione. Ma ogni filosofia che ha l’ardire di
presentarsi come positiva, non potrà mai arrivare a cogliere la verità della realtà circostante, poiché essa
consiste nello scontro che noi uomini abbiamo con lei. È la dialettica negativa, teorizzata dai francofortesi,
la teoria critica, l’unica possibilità di verità che ci rimane. Lo scontro con il linguaggio allora è l’unica
possibilità di capirne il lato autentico. È l’interrogarsi senza sosta che ci salverà, consapevoli di essere
malati.