I contributi di Wittgenstein all’analisi comportamentale Stefano Stefanini Psicologo-psicoterapeuta Vita, contesto culturale in cui opera, scritti Wittgenstein (1889-1951) nasce a Vienna da una famiglia alto borghese, si trova immerso fin dall’infanzia in un clima intellettuale vivace e inquieto. All’inizio del ‘900 la “grande Vienna” è uno degli epicentri della cultura europea: vi operano studiosi, filosofi, artisti del calibro di Mach, Freud, Musil, Shiele, Mahler, tutti accomunati dal profondo interesse per la problematica del linguaggio e dalla ricerca di nuove forme espressive nella scienza, nella filosofia non meno che nell’arte. Domina infatti il clima culturale di questi anni il fallimento del paradigma positivista: la pretesa di una conoscenza universale e rigorosa, capace di estendersi a tutti i campi del sapere, è definitivamente messa in crisi dalle teorie geometriche non euclidee, dalla teoria della relatività, dalle scoperte in campo genetico, dalle ricerche psicoanalitiche le quali tutte dimostrano con crescente evidenza la natura non univoca delle verità scientifiche. La Scienza del XX secolo si trova a ridefinire il proprio statuto, le proprie finalità, i propri metodi di indagine, abbandonando il suo astratto specialismo per confrontarsi con gli altri campi del sapere (quali la storia, la filosofia, la sociologia): la ricerca non perviene a leggi di natura definitive ma a verdetti impugnabili; la storia della scienza non segue un cammino lineare ma procede per rivoluzioni, distruggendo teorie e costruendone altre ex novo in un processo senza fine; la conoscenza umana non può condurre a verità assolute, sia per il carattere infinito dell’esperienza, sia per l’infinità dei modi in cui l’uomo osserva e ordina i dati dell’esperienza. Caratteristica degli scienziati dell’età contemporanea è l’attenzione ai diversi campi della cultura. Fanno parte del Circolo di Vienna esperti di logica e matematica, di scienze naturale, di filosofia, di discipline sociali e giuridiche. Lo stesso Wittgenstein, dapprima studente in ingegneria a Berlino e Manchester, si interessa poi sotto la giuda del filosofo Russell, presso l’Università di Cambridge, allo studio delle scienze formali, come la matematica e la logica; da questa esperienza scaturisce l’unica opera voluta dare alle stampe, il Tractatus logico-philosophicus (1922). Abbandonata Cambridge per arruolarsi come volontario nella I guerra mondiale, W. si allontana dalla filosofia insegnando per vari anni come maestro elementare nelle campagne austriache. Tornerà ad occuparsene solo nel 1929 approfondendo vari temi, dal linguaggio, all’etica, alla religione, alla pedagogia, alla psicologia. I numerosi appunti che lascia manoscritti vengono pubblicati dai suoi discepoli postumi: Osservazioni filosofiche, Grammatica filosofica, Ricerche filosofiche, Osservazioni sui fondamenti della matematica, Osservazioni sulla filosofia della psicologia… Il Tractatus logico-philosophicus Con la pubblicazione del Tractatus Wittgenstein si propone di attuare una rigorosa rifondazione logica del sapere, partendo dall’analisi del rapporto tra linguaggio e mondo. Il Tractatus non è un’opera discorsiva, ma si presenta come un insieme di enunciati numerati: da sette proposizioni centrali si dirama tutta una serie di ulteriori proposizioni, ciascuna numerata in modo da risalire all’enunciato base. Il Tractaus si apre con l’enunciato: “Il mondo è tutto ciò che accade”. Cioè il mondo è costituito dalla totalità dei fatti. Le nostre proposizioni, cioè il nostro linguaggio, sono l’immagine logica dei fatti. W. sostiene che tra linguaggio e mondo esiste una corrispondenza formale biunivoca: i fatti linguistici raffigurano i fatti del mondo (come un proiettore che riproduce secondo una prospettiva bidimensionale una realtà tridimensionale) la totalità di ciò che accade è esprimibile in forme logico-linguistiche NB. Posizione anti-mentalista di W. che privilegia idealmente il fatto e subordina ad esso il pensiero-linguaggio. Che cosa sarebbe di un mondo senza un linguaggio che lo esprime? Solo attraverso il linguaggio le cose assumono volto e sostanza. Grazie all’identificazione delle proposizioni fattuali (vere se è vero il fatto rappresentato, cioè se effettivamente sussiste) e delle proposizioni logiche (sempre vere anche se non descrivono fatti, ma le proprietà formali che le altre proposizioni devono avere per rappresentare i fatti) Wittgenstein ritiene di essere riuscito a demarcare l’ambito di ciò che può essere detto chiaramente, escludendo tutte quelle proposizioni, come quelle metafisiche, delle quali non è possibile stabilire le condizioni di verità. In questo testo W. circoscrive con rigore il dicibile, l’esprimibile indicando le condizioni logiche che permettono di costruire un linguaggio logicamente corretto (a modello di quello delle scienze naturali). La tesi che sorregge l’opera è che il metodo e il contenuto di una riflessione teorica corretta coincidono con il metodo e il contenuto del sapere scientifico, cioè del sapere che descrive i fatti secondo le regole della logica. Scrive W.: “tutto ciò che può essere pensato può essere pensato chiaramente, tutto ciò che può essere detto può essere detto chiaramente”, “quanto a ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”. Il Tractatus è da sempre considerato un’opera enigmatica e controversa: da un lato si presenta come un discorso di pura scienza logico-linguistica, volto alla ricerca delle condizioni di possibilità e dicibilità delle cose, impegnato a sottolineare i limiti del dicibile da un altro lato è un’opera che mette in rilievo proprio ciò che sta oltre tali limiti, quelle cose che hanno la caratteristica di esistere e di non essere dicibili secondo i rigorosi criteri della logica. Così lo stesso W. intoduceva il Tractatus: “La mia opera consta di due parti: di ciò che è qui scritto e di tutto ciò che io non ho scritto. E proprio questa seconda parte è quella più importante”. W. non intende negare la centralità delle questioni metafisiche (domande che riguardano il valore, il fine, il senso del mondo, il dovere di cui si occupano l’etica, l’estetica, la religione, la morale e anche la psicologia) né invitare allo scetticismo. “Noi sentiamo che, persino nell’ipotesi che tutte le possibili domande scientifiche abbiano avuto una risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppure sfiorati”. Con queste parole sottolinea il distacco tra il ristretto ambito di ciò che è esprimibile da un linguaggio rigoroso e sensato e la vastità e profondità di quanto esula dalle possibilità logico-linguistiche. Il paradosso presente nel Tractatus consiste nel prescrivere dei limiti severi all’esercizio dell’analisi teorica e subito dopo nel violarli, trattando di questioni propriamente indicibili, quali la struttura del mondo, la natura del linguaggio, la relazione linguaggio-mondo. “Le mie proposizioni illuminano così: Colui che mi comprende alla fine le riconosce insensate, se è salito per esse – su esse – oltre esse. Egli deve, per così dire, gettar via la scala dopo esser salito su di essa”. Ricerche filosofiche Dopo una pausa di nove anni W. torna ad occuparsi a tempo pieno di filosofia, rinnegando alcune tesi sostenute nel Tractatus. Il “nuovo” Wittgenstein sostiene che il linguaggio ideale, quello formalmente perfetto, è soltanto una delle forme che il linguaggio può assumere. È necessario che la filosofia torni ad occuparsi del nostro linguaggio quotidiano. Il nucleo delle RF è costituito dalla teoria del significato come uso: quasi mai il significato delle parole è nel nome (cioè nell’etichetta che incolliamo alle cose) ma il significato di una parola è nel suo uso nel linguaggio. Ne deriva che non esiste un significato univoco-universale, ma il significato di una parola muta in base all’uso che ne facciamo, alla funzione pratica che è chiamata a svolgere nel nostro linguaggio. “Con le nostre proposizioni noi facciamo le cose più diverse” afferma Wittgenstein. Prendiamo ad esempio le espressioni Acqua! Via! Ahi! Queste esclamazioni nulla hanno a che fare con la funzione denominativa (quella che dalla parola conduce alle cose): la prima esprime una invocazione, la seconda un ordine, la terza un lamento. Per definire il linguaggio W. utilizza ora l’immagine del gioco: il linguaggio si presenta come un insieme di giochi linguistici ciascuno dei quali (linguaggio delle scienze, dell’etica, della filosofia) ha le proprie regole e si prefigge determinati fini. Data la pluralità dei giochi linguistici, la logica non può più pretendere di presentarsi come l’unica garante del significato delle proposizioni, essa perde il proprio carattere assoluto e fondazionale. Scrive W.: “sembra che alla logica competa una particolare profondità, un significato universale, perché la ricerca logica indaga l’essenza di tutte le cose, vuol vedere le cose nella loro ragion d’essere e non è tenuta ad affliggersi con i particolari di ciò che effettivamente accade”. Lontano dall’esprimere o riflettere verità universali-assolute, i costrutti logici hanno un contenuto essenzialmente pratico, normativo, descrivono le norme e le convenzioni riguardanti l’uso delle parole. Anche concetti apparentemente puri e universali come “principio”, “legge”, “verità” non sono in alcun modo “super-concetti”, essi sono semplicemente strumenti espressivi, il loro uso deve esser terra terra, come quello delle parole “tavolo”, “lampada”, “porta”. La filosofia sbaglia quando pretende di spiegare il linguaggio quotidiano attraverso i costrutti della logica formale. La filosofia deve avere il coraggio di occuparsi di grammatica, cioè di analizzare il fatto linguistico così com’è, nella complessità e varietà delle forme con cui si dà. La filosofia deve sostituire il metodo della spiegazione con quello della descrizione: al perché va sostituito il come, al che cosa va sostituito il come si usa. Infatti la ricerca della causa è destinata a procedere all’infinito e non spiega perché si interrompe; la ricerca dell’essenza non giunge a spiegare come le cose accadono. Contributi delle RF al fondamento dell’analisi Nelle RF W. afferma che bisogna accettare i fatti linguistici, nella consapevolezza che non vi è nulla di più reale del fatto e non vi è alcuna realtà posta oltre i fatti, sia essa l’inconscio, la psiche, la mente o lo spirito. Questo atteggiamento anti-mentalistico è ciò che maggiormente accomuna W. al comportamentismo di Skinner Per W. attribuire al pensiero e al linguaggio un’autonomia nei confronti della realtà e dei dati di fatto equivale ad affermare che si può pensare ciò che nella realtà non esiste, reificare il vuoto. Per i comportamentisti significa rifiutare di spiegare i comportamenti umani, tra i quali rientra il pensare o il parlare, facendo inutilmente ricorso a processi mentali nascosti non osservabili dall’esterno Molti problemi filosofici hanno origine per W. da fraintendimenti nell’uso del nostro linguaggio Per W “una delle fonti della nostra incomprensione è il fatto che non vediamo chiaramente l’uso delle parole”, cioè il loro significato Per Anchisi (1980) l’origine di molti problemi comportamentali risiede nel linguaggio. Prendiamo l’esempio di una persona ossessionata dal problema dell’igiene e della pulizia: si può definire il comportamento ossessivo come il frutto di un errore linguistico (di un uso sbagliato della parola), che porta a ritenere esistente il Pulito in Sé. La soluzione al problema è nascosta dalla sua semplicità e consiste nel rovesciamento della prospettiva del paziente, cioè nel mostrargli che tutto in realtà è contaminato, a ben guardare anche l’acqua che beviamo se vista al microscopio. E ancora: Per W. “l’uso non capito delle parole – come pensare, comprendere e ricordare – viene interpretato come espressione di uno strano processo”. Di fronte a parole come pensare, comprendere, ricordare l’errore è quello di spiegarle con l’introduzione di inutili duplicati, rimandando a stati e processi mentali collocati dietro il linguaggio. Ad esempio il termine pensare, analizzato nel suo concreto uso, esprime una vasta gamma di atteggiamenti che vengono considerati da Wittgenstein come possibilità linguistiche, e non come esperienze astratte e ideali del pensiero in sé. Per i comportamentisti noi pensiamo, comprendiamo e ricordiamo così come camminiamo, andiamo in bicicletta o corriamo: tutto è comportamento. Che cosa accade se immaginiamo l’esistenza di un linguaggio privato? Per W. l’impossibilità di un linguaggio puramente privato risiede nella natura di per sé sociale del linguaggio. Egli porta l’esempio di un bambino geniale che non abbia mai visto manifestazioni esterne del mal di denti: “Ebbene ammettiamo che egli inventi da sé un nome per tale sensazione. Che significa che ha dato un nome al suo dolore?”. Perché ciò abbia senso, il nome di quel dolore doveva essere già inserito nella rete del linguaggio, e quindi essere legato a manifestazioni pubbliche, sociali. Ancora W. ha combattuto accanitamente l’idea che attraverso un linguaggio privato, cioè riferito ad eventi privati, quali sono i nostri processi cognitivi, sentimenti e sensazioni sia possibile descrivere cose di cui solo noi possiamo sapere cosa siano e perfino se siano qualcosa. Con riferimento all’espressione ‘sento dolore’, W. scrive che è come se ciascuno avesse un coleottero in una scatola, nessuno può vedere nelle scatole altrui, però tutti ne parlano. Solo che nessuno si chiede che significato, che funzione abbia il coleottero. Wittgenstein spiega che esso coincide unicamente con l’uso della parola, perché quanto al coleottero in sé, potrebbe anche essere diverso nelle varie scatole, o mutare continuamente in ciascuna o non esserci affatto. Egli cerca unicamente di dimostrare che il nostro stesso concetto di “dolore” è l’uso che noi facciamo della parola dolore: non importa nulla se ci sia o no dentro la persona che lo dichiara. Che cosa accade se immaginiamo l’esistenza di un linguaggio privato? Per i comportamentisti il linguaggio è sociale proprio perché non viene appreso “puramente”, ma in un contesto che è sociale; ogni parola è sociale; ne deriva che anche il linguaggio è un comportamento osservabile e come tale va studiato. Nel dire “sento dolore” è già presente il riferimento all’esperienza “dolore” intesa come esperienza resa possibile da un processo di apprendimento sociale, che si serve della parola con funzione di stimolo discriminativo nei confronti di altre possibili esperienze. Ancora Con riferimento all’espressione “sento dolore” un comportamentista prima maniera sosterrebbe che si tratta di un enunciato che non rimanda in alcun modo a qualcosa che avviene nell’interiorità di chi lo afferma, ma al modo in cui si comporta: il fatto di gridare, o fare delle smorfie o contorcersi ecc... A riprova del fatto che valgono come il linguaggio delle parole, anche queste manifestazioni possono essere simulate. Osservazioni sulla filosofia della psicologia Il titolo dell’opera non è dell’autore bensì dei curatori, essa contiene osservazioni quasi esclusivamente dedicate alla natura dei concetti psicologici. Wittgenstein in primo luogo chiarisce la natura dei concetti psicologici: il “pensare” e tutti i termini e concetti della psicologia “sono concetti della vita quotidiana”, “sono concetti della vita umana”, essi si differenziano grandemente dai concetti creati ex novo dalla scienza per i propri scopi, come i concetti della fisica o della chimica. È appunto per questo che i concetti psicologici non sono rigorosi, ma confusi, ingarbugliati: sono i concetti con cui gli uomini parlano di sé, si raccontano, si esprimono gli uni con gli altri… Ed è sempre per questo che non hanno un impiego unitario, e sono fonte di confusione e fraintendimenti. Ironizza W.: “i concetti psicologici hanno con quelli delle scienze rigorose la stessa relazione che hanno i concetti della medicina scientifica con quelli delle vecchie donne che si dedicano alla cura dei malati”. Secondo W. la confusione che si ha nella psicologia (e che ci fa apparire il pensiero un processo enigmatico) è innanzitutto una “confusione concettuale”, che va chiarita attraverso una ricerca concettuale, non empirica. La ricerca concettuale non deve scoprire come si formi o su cosa si fondi un concetto, magari cercando la sua origine nei fatti di natura, perché anche se fra un concetto e un fatto naturale vi è una corrispondenza, ciò non significa che tale concetto debba necessariamente essere così. Una ricerca concettuale, a differenza di quella empirica, non cerca spiegazioni ma si limita a descrivere, padroneggia le affinità e le differenze fra i concetti. La ricerca empirica è una ricerca che riguarda i fatti, mette alla prova ipotesi, ricerca spiegazioni causali, elabora teorie, fa predizioni. La critica di W. non si rivolge alla psicologia che pretende di fondarsi come scienza, ma allo psicologo che pretende di trovare negli esperimenti e nel metodo sperimentale la risposta ad un problema che è di natura concettuale, magari facendo ricorso a delle spiegazioni fisiologiche. Un esempio di problema concettuale discusso a lungo nelle Osservazioni riguarda la tristezza e la ricerca di una sua spiegazione fisiologica. Per W. è del tutto legittimo condurre una ricerca sperimentale sulla tristezza, potremmo, per esempio scoprire che vi sono delle ghiandole che producono una secrezione che è causa della tristezza. Gli effetti di questa scoperta potrebbero essere di grande importanza ad esempio in campo medico, per bloccare per via farmacologica la secrezione che è causa della tristezza. Ma questa scoperta non servirebbe affatto per rispondere al problema di natura concettuale “che cos’è la tristezza?”. La filosofia può indurre lo psicologo a domandarsi se alcuni di quelli che gli si presentano come problemi da risolvere sperimentalmente non siano piuttosto delle confusioni concettuali, il suo compito è quello di aiutare la psicologia a chiarire i malintesi e fraintendimenti che l’impiego dei concetti psicologici e dei relativi termini produce. Nella seconda parte delle Osservazioni Wittgenstein abbozza un piano della trattazione dei concetti psicologici, il quale non aspira all’esattezza ma alla perspicuità. Infatti, nel tracciare la mappa dei nostri concetti, W. ci esorta ad essere consapevoli che l’ordine che abbiamo tracciato è solo un ordine possibile ma non è né quello giusto né necessario, e che il confine tra i concetti può essere diversamente ridisegnato. Contributi delle OFP al comportamentismo La domanda che cos’è la tristezza in sè è destinata a rimanere senza risposta. Ma questa domanda quanto può interessare un comportamentista oggi? Se Wittgenstein avesse conosciuto Skinner o Hayes avrebbe continuato a considerare la psicologia una scienza “inesatta”? L’insegnamento di W. è che non esistono teorie, ordini concettuali validi in assoluto. Basta vedere quanti orientamenti hanno diritto di cittadinanza entro quella scienza che noi chiamiamo psicologia.