3 – Fenomenologia e semiotica nelle Ricerche logiche

Indice
Introduzione ........................................................................................................... 2
§ 1 - I testi pre-fenomenologici............................................................................ 12
§ 1.1 – Considerazioni preliminari ........................................................................ 12
§ 1.2 – Il contesto d’origine della questione semiotica ......................................... 13
§ 1.3 – Il segno all’origine..................................................................................... 20
§ 1.4 – Il segno in “Semiotica” ............................................................................. 32
§ 1.5 – La classificazione di “Semiotica” ............................................................. 35
§ 1.6 – Segni naturali e artificiali .......................................................................... 43
§ 1.7 - Le rappresentazioni improprie ................................................................... 45
§ 1.8 – Semiosi naturale e artificiale ..................................................................... 59
§ 1.9 – Logica dei segni e psico-logica ................................................................. 73
§ 2 – La fase intermedia ...................................................................................... 90
§ 2.1 – Calcolo e linguaggio .................................................................................. 90
§ 2.2 – Il carattere semiotico dell’intenzionalità alle origini .............................. 107
§ 2.3 – Intenzionalità, contenuto e oggetto .......................................................... 122
§ 3 – Fenomenologia e semiotica nelle Ricerche logiche ................................. 135
§ 3.1 – Kunstlehre e Wissenschaftslehre nell’ottica fenomenologica ................. 135
§ 3.2 – La questione del significato nelle “Ricerche logiche” ............................ 150
§ 3.2.1 – L’idealità dei significati ........................................................................ 150
§ 3.2.2 – L’idealità come specie .......................................................................... 155
§ 3.2.3 – La problematicità del significato come specie ..................................... 166
§ 3.2.4 – La Grammatica puramente logica e lo “uneigentliches Denken” ....... 176
§ 3.3 – Per una fenomenologia del segno ............................................................ 188
§ 3.3.1 – La natura della distinzione tra indice ed espressione .......................... 188
§ 3.3.2 – Comunicazione ed espressione ............................................................. 205
§ 3.3.3 – Fenomenologia del segno linguistico ................................................... 215
§ 3.4 – I segni e la fenomenologia: le lenti dello sguardo fenomenologico ........ 222
Bibliografia ............................................................................................................................. 241
1
Introduzione
In queste battute iniziali vogliamo anzitutto dar conto del titolo prima
ancora dei contenuti che costituiscono questo nostro scritto, al fine di calibrare le
aspettative che possono sorgere dalla sua semplice lettura. O meglio ancora
ridimensionarle, in quanto circoscritto alla prima fase della riflessione husserliana
è il nostro campo d’indagine, i cui confini sono perciò rappresentati dalla
Filosofia dell’aritmetica e dalle Ricerche logiche. Una scelta che non si motiva
soltanto dall’ovvio intento di voler affrontare una questione alle sue origini, che
varrebbe soltanto a segnare il terminus a quo del suo sviluppo, ma a partire da una
ragione maggiormente intrinseca al tema e all’autore trattato, vale a dire la
notevole rilevanza che la problematica semiotica assume in questo preciso arco
temporale. Al punto da poterla considerare non soltanto l’oggetto di un’indagine
tematica ma anche una prospettiva proficua da cui riguardare la riflessione
husserliana sino agli esordi della fenomenologia, poiché nella peculiarità di una
certa semiosi così come nel privilegio accordato a una determinata tipologia
semiotica è possibile leggere in controluce i cambiamenti che intervengono nel
Denkweg husserliano per il tratto qui considerato, il segno in altri termini si lascia
apprezzare come tale in questo senso, in qualità di un sismografo che registra in
superficie movimenti avvenuti a maggiore profondità. Questioni centrali nei testi
pre-fenomenologici, quali lo psicologismo, la logica come metodologia della
conoscenza umana, l’idea di numero nella sua genesi e validazione compaiono in
questo scritto in quanto guardate nel cono di luce proiettato dall’interesse per il
segno, non soltanto perché ne costituiscono lo sfondo ma in ragione del suo
rivelarsi come luogo privilegiato – benché senz’altro non esclusivo – dal quale
osservarle per coglierne l’esatta determinazione. E lo stesso vale naturalmente nel
contesto delle Ricerche logiche, dove il privilegio accordato alle espressioni, ai
segni linguistici, rivela per l’appunto l’adesione all’idea di logica pura così pure
l’approdo alla fenomenologia come metodo indirizzato alle cose stesse – per non
parlare poi dei testi che segnando un primo distacco dall’impronta psicologista
annunciano la nuova e rivoluzionaria prospettiva fenomenologica, se addirittura
semiotica si rivela alle origini la natura del concetto che maggiormente la
caratterizza, quello di intenzionalità. Su questa sorta di gioco di specchi è
strutturato il nostro saggio e sono costruite le nostre analisi, che rivelando i
contorni dello sfondo sul quale le questioni semiotiche volta a volta si disegnano
2
definendosi fanno al tempo stesso del segno il luogo privilegiato da cui osservare
le tematiche costituenti quello sfondo medesimo, poiché è sovente di qui che
possono essere correttamente affisate.
A partire da questa ragionata limitazione del campo d’indagine si spiega
inoltre il mancato utilizzo del termine fenomenologia nel titolo, non
sovrapponibile in toto alla filosofia husserliana per via delle indagini che abbiamo
rivolto ai testi pre-fenomenologici, ai quali Husserl riconosce invece un’istanza
filosofica. Dall’altro lato questo non comporta un’assoluta esclusione delle opere
successive alle Ricerche logiche, quanto piuttosto determina la maniera del loro
utilizzo. Una siffatta limitazione impone infatti di riferirvisi allo scopo di chiarire
le tematiche qui più da presso trattate, vale a dire per la luce retrospettiva che
proiettano sugli argomenti delle Ricerche, dove - seppur in senso tutt’altro che
tematico ma nei termini di significative incursioni - è alla Bedeutungslehre e al
primo volume di Idee che si è rivolta la nostra attenzione, pur senza dimenticare le
acquisizioni contenute in testi più tardi quali Logica formale e trascendentale,
Esperienza e giudizio e l’Appendice III a La crisi delle scienze europee, ormai
nota come Introduzione alla geometria – per citare soltanto le opere di maggior
rilievo.
Del peculiare atteggiamento da noi adottato nei riguardi dei testi posteriori
alle Ricerche vogliamo dare già qui una prova, servendoci di un’osservazione
contenuta nel § 124 di Idee per avviare l’illustrazione degli assi portanti su cui
poggia la struttura di questo scritto:
poiché ogni scienza, per il suo contenuto teoretico, per tutto ciò che in essa è
«dottrina» (teorema, dimostrazione, teoria), si oggettiva nel medium specificamente
«logico», nel «medium» dell’espressione, i problemi dell’espressione e del significato
sono di conseguenza i primi in cui si imbattono i filosofi e gli psicologi guidati da
interessi generalmente logici1
Quanto si lascia apprezzare in questa citazione è il nesso che lega la logica
con le questioni concernenti il linguaggio, l’espressione. Un nesso che si esplicita
nell’aspetto che più di ogni altro, se non in via esclusiva, riceve le attenzioni di chi
è mosso da interessi generalmente logici, vale a dire il rapporto tra segno e
1
E. Husserl Ideen zur reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie Erstes Buch,
Nijhoff, Den Haag 1976, trad. it. Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia
fenomenologica, vol. I, Einaudi, Torino 2002, p.309
3
significato. Alla luce di questa declinazione la logica, o ancor meglio l’idea di
logica appare come lo sfondo su cui emergono le problematiche semiotiche, non
soltanto per quanto concerne le Ricerche – alle quali la citazione di Idee si rivolge
– ma anche a riguardo dei testi che le precedono, in forza della costante
predominanza dell’interesse logico.
Sarebbe però riduttivo fare dell’idea di logica il mero orizzonte su cui si
disegna, una tra le altre, la questione semiotica. Non si tratta infatti soltanto di una
semplice benché inevitabile contestualizzazione, che risponda all’esigenza
dell’inquadramento per una determinata tematica. È la logica invero a spingere
all’analisi dei segni, a improntarne le movenze, a deciderne la declinazione, come
s’è visto a proposito del rapporto segno-significato, leitmotiv di queste e
ovviamente delle nostre analisi. I mutamenti che interverranno in essa, nella loro
radicalità, determineranno il dominio semiotico in profondità, nei termini del
privilegio da accordare a questa o quella tipologia semiotica così come in rapporto
alla funzione che è chiamata a esercitare e nei modi in cui dovrà essere assolta. Ed
è certo a partire da essa che si motiva la rilevanza dei segni dapprincipio
menzionata, soprattutto in merito al valore fondativo in seno alla scienze – e
correlativamente alla conoscenza – che Husserl le riconosce: le s’intenda in senso
metodologico o teorico è infatti pur sempre in segni e attraverso i segni che esse si
costituiscono, per cui un interesse in tal senso logicamente orientato non potrà fare
a meno di spingere a occuparsene. In ultimo, esulando solo in parte
dall’indirizzamento semiotico delle nostre considerazioni, è in rispondenza alla
idea di logica che vanno letti lo psicologismo degli esordi così come l’esordiente
fenomenologia delle Ricerche, solo in riferimento a essa è possibile cogliere le
loro peculiarità in quanto è essa a determinarne la fisionomia.
Per quanto concerne lo sviluppo del nostro lavoro, le coordinate in tal senso
sono costituite per l’appunto dalle due diverse idee di logica che compaiono in
questo tratto del percorso husserliano, vale a dire la tecnologia della scienza come
metodologia della conoscenza umana (Kunstlehre) e la logica pura come dottrina
della scienza (Wissenschaftslehre). Il ruolo, la fisionomia così come la funzione
dei segni sono stati riguardati a partire dalla loro appartenenza agli ambiti che esse
circoscrivono, di qui si sono motivate le scelte e le riflessioni compiute da Husserl
e al tempo medesimo si è cercato per converso di far apparire nelle peculiarità
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volta in volta rilevate nei segni e nella loro semiosi le questioni che agendo a uno
strato più profondo si riverberano sulla loro superficie.
A voler poi orientare il discorso sugli elementi di continuità - in un percorso
segnato da un radicale rivolgimento - c’è da soffermarsi sulla torsione che il
rapporto segno-significato nella sua centralità impone alla considerazione sul
segno sic et simpliciter, alla maniera in cui viene effettivamente inteso. In
Semiotica, unico luogo in cui si tenta di approcciarne una definizione, se ne parla
come un concetto di relazione, caratterizzato dal rinvio al designato, che nella
variabilità delle sue possibili concrezioni dà origine a diverse tipologie qui
opportunamente classificate. E tra di esse Husserl accorda la sua preferenza ai
segni esteriori, vale a dire al mero segno, che diverrà la maniera in cui il segno
viene in prevalenza considerato in tutto l’arco temporale qui analizzato. Nei testi
pre-fenomenologici l’attenzione si rivolge invero soprattutto alle rappresentazioni
improprie, ai segni come surrogati, ma ai fini dell’economizzazione dei processi
psichici a cui rispondono essi si presentano come meri segni, entità che nulla
hanno a che fare con il designato. Lo stesso vale per le Ricerche, in una maniera
prima facie piuttosto sorprendente, se è in qualità di espressione che il segno
assume una qualche valenza logica, manifestando a rigore una natura saussuriana,
inteso cioè come complesso unitario di significante e significato. L’attenzione va
qui però ai costituenti dell’espressione e non al suo rapporto con il designato, per
cui è soprattutto nei termini del significante, della mera espressione e quindi del
mero segno che viene ancora una volta inteso. Le questioni logiche si rivelano
perciò decisive orientando l’attenzione sul rapporto segno-significato, pur
nell’opposta prevalenza dei suoi due poli che caratterizza il percorso husserliano
sino alle Ricerche logiche.
V’è poi un ulteriore punto che vogliamo sottolineare perché inevitabile
laddove si affrontino questioni semiotiche, ancor più all’interno di un orizzonte
logico e per le ripercussioni che la logica vi esercita, vale a dire il tema del
linguaggio e della sua considerazione. Anche in questo caso è la continuità a
emergere, non soltanto ai sensi della sua dimensione originaria, riscontrata nella
comunicazione, ma anche a riguardo della maniera in cui Husserl la considera,
vale a dire lateralizzandola. Si tratti di sminuire l’espressività linguistica
nell’ottica metodologica della Kunstlehre o di farla risaltare nella sua purezza
laddove, con l’approdo alla Wissenschaftslehre, è il significato a venire in primo
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piano – sarà sempre al prezzo della marginalizzazione della dimensione
comunicativa, e quindi del suo snaturamento che il linguaggio potrà reclamare un
ruolo a partire dalla logica, comunque essa venga intesa.
Ci rimane ora, dopo aver individuato nell’idea di logica e nelle questioni che
la riguardano l’orizzonte delle considerazioni semiotiche husserliane e per ciò
stesso delle nostre analisi, di indicare seppur schematicamente gli snodi
fondamentali nella linea argomentativa del testo, nelle tre sezioni in cui s’è scelto
di racchiudere i momenti maggiormente significativi degli sviluppi husserliani.
Il primo capitolo si rivolge ai testi pre-fenomenologici, o ancor meglio agli
esordi della filosofia husserliana, vale a dire Filosofia dell’aritmetica e Semiotica.
In essi si è rintracciato il contesto d’origine della questione semiotica, soprattutto
in merito alla natura metodologica attribuita da Husserl all’aritmetica, sì che
tematiche centrali quali l’idea di numero e molteplicità, oltre s’intende al tema dei
momenti figurali, non solo sono state lette da un punto di vista semiotico ma vi
hanno invero necessariamente condotto. In ciò un ruolo centrale è svolto dal
concetto di rappresentazione impropria, emerso nella Filosofia dell’aritmetica e
precisato con maggiore pregnanza in Semiotica, in virtù dell’impronta psicologista
delle analisi husserliane che di qui si lascia apprezzare e affisare nella sua
autentica fisionomia. Oltre che per una più adeguata messa a fuoco della sua
natura di segno la rappresentazione impropria acquista in questo testo la sua
assoluta rilevanza e consente di intendere rettamente la maniera in cui si esplicita
la centralità dei segni in questa fase, ai sensi della funzione surrogante che la
definisce, tanto che la classificazione semiotica qui presente si mostra indirizzata
a esse come suo punto focale. Lo si nota soprattutto analizzando l’opposizione
semiotica fondamentale, quella tra segni naturali e artificiali, entrambi considerati
casi di rappresentazione impropria proprio in forza della declinazione in
prevalenza surrogante che definisce il loro rapporto al designato. Con questo si
giunge alla snodo decisivo dell’intera sezione: il segno si scopre di qui inscritto
nella costituzione psichica per via del suo tratto maggiormente caratterizzante,
quello cioè economico, che pur risuonando delle acquisizioni di Mach e
Avenarius svela un tratto invero squisitamente semiotico, esplicitandosi cioè nel
naturale ricorso a entità surroganti dei nostri meccanismi psichici, in specie a
carattere deduttivo. Si è parlato in tal senso di un semiosi naturale, che in virtù
della sua inconsapevolezza come del suo cieco e tendenziale orientamento al vero
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necessita di un altro genere di semiosi, vale a dire artificiale, di procedimenti
simbolici consapevolmente elaborati che procedendo in parallelo con quelli
naturali ne svelino la legalità e consentano perciò tanto la conoscenza come
ragionata acquisizione della verità quanto la sua estensione. Procedimenti che
Husserl definisce logici, in rispondenza all’idea di logica che egli abbraccia in
questa fase, vale a dire la Kunstlehre, una tecnologia, una disciplina pratica volta
ad analizzare le modalità tramite cui il pensiero si appropria della verità e legata
perciò a interessi pratico-conoscitivi, dove si rivela un’impronta marcatamente
psicologista, se psicologica è la legalità qui ritrovata. E in questo un ruolo centrale
va assegnato a una Logik der Zeichen, che in forza del tratto largamente
improprio, della semiosi surrogante che caratterizza il pensiero in larghi tratti del
suo decorrere si scopre essere il fulcro della tecnologia della conoscenza, sì che
motivata in senso logico, psico-logico si scopre essere la centralità che i segni
reclamano in questa fase.
Nel secondo capitolo ci siamo occupati di un gruppo di testi
cronologicamente compresi fra la Filosofia dell’aritmetica e le Ricerche logiche,
letti come scritti di transizione non soltanto per la loro collocazione temporale ma
soprattutto in forza dei loro stessi contenuti, dove si registra la comparsa di
acquisizioni che indirizzano verso la prospettiva fenomenologica, pur in un
contesto che risentendo ancora dell’impostazione psicologista non consente una
loro adeguata calibratura. Nella fattispecie, si sono presi in considerazione la
recensione all’opera di Schröder del 1891 e testi risalenti agli anni 1893-94, vale a
dire il Manoscritto K I 55, gli Studi psicologici per la logica elementare e la
recensione all’opera di Twardowski Sulla dottrina del contenuto e dell’oggetto
delle rappresentazioni: una ricerca psicologica. A esser fatta oggetto d’attenzione
è stata in primo luogo la distinzione tra linguaggio e calcolo che emerge nella
recensione a Schröder. Un’acquisizione fondamentale, poiché la prevalenza della
funzione surrogante nel dominio semiotico induceva ad assimilare il linguaggio a
un calcolo, considerando che quest’ultimo, similmente a quanto avveniva in
Boole, era stato sganciato dal concetto di quantità già nella Filosofia
dell’aritmetica. Più ancora che alla sottolineatura degli assunti logici che
muovono le critiche husserliane, come la decisiva differenziazione tra calcolo
logico e logica del calcolo, la nostra attenzione si è perciò rivolta al rilievo della
dimensione autonoma del linguaggio, alla sua natura espressiva che consente,
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come qui si afferma, l’approdo alle cose stesse, poiché i segni linguistici, lungi dal
rimpiazzare concetti e giudizi sono invero ciò in cui essi si compiono, sì che
scoperta è la dimensione in cui le categorie logiche, i significati si individuano, o
ancor meglio la semiosi congrua a una Logik der Bedeutungen quale la
Wissenschaftslehre. Il progressivo emergere della centralità della dimensione
semantica registra dei significativi passi avanti nelle altre opere qui prese in
considerazione, a partire dal Manoscritto e dagli Studi. Nel primo Husserl
introduce il concetto di rappresentanza, che offrendo una chiarificazione genetica
delle rappresentazioni improprie conduce a un’importante ricalibratura del
discorso che le concerne. La loro origine è infatti riscontrata in una precisa
situazione psicologica, nel sentimento d’impedimento che sopraggiunge laddove
un decorso abituale di contenuti sia interrotto; i contenuti presenti divengono
allora surrogati di quelli mancanti. In ciò però emerge un punto decisivo, ovvero il
tendere del segno surrogante verso la sua mancanza, vale a dire all’intuitività, una
volta che l’originario sentimento di impedimento sia ridestato in seno a esso. In tal
maniera il segno acquisisce una valenza conoscitiva non più come surrogato,
bensì in quanto instrada verso l’intuizione, alle cose stesse, vale a dire verso il suo
risolvimento. Le rappresentanze infatti mostrano una natura intenzionale – come
emerge chiaramente dagli Studi – un’intenzionalità però di natura semiotica,
poiché è il segno, potremmo dire, a intendere e non il significato, in forza di un
immanentismo psichico che non consente la differenziazione fra significato e
oggetto, rendendo così perlomeno sfumati i confini fra comprensione e
conoscenza. Decisiva in tal senso si rivela allora la recensione all’opera di
Twardowski. Dal confronto critico con il pensatore polacco Husserl elabora il suo
concetto di intenzionalità, dove l’intendere è costituito dal significato che
consente il riferimento all’oggetto e perciò se ne distingue, sì che è nel tessuto
degli atti intenzionali, nella fenomenologia e non nella metafisica che va ricercata
la soluzione al problema delle rappresentazioni senza oggetto. Altrettanto
importante è poi un’ulteriore distinzione che qui emerge, quella cioè fra contenuto
e significato, con quest’ultimo che lungi dall’essere qualcosa di realmente
immanente agli atti si rivela invero ciò che permane a fronte della variabilità
empirica dei contenuti, sì che aperta è la via al segno espressivo e alla sua
peculiare costituzione. La centralità che la dimensione semantica acquisisce con il
concetto fenomenologico di intenzionalità conduce al decadimento delle funzione
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surrogante dei segni a vantaggio di quella espressiva, tant’è che l’improprietà non
riguarda più la sostituzione del significato bensì la possibile latenza dell’oggetto,
dove chiaramente segnato è il confine tra comprensione e conoscenza. E in ultimo
l’indirizzamento teleologico all’oggetto che l’intenzionalità manifesta dà conto di
un’idea di conoscenza calibrata maggiormente sull’aspetto obiettivo, a differenza
della dimensione pratica, metodologica, soggettiva emersa nei testi precedenti.
Problematiche, queste, che danno avvio alle riflessioni del terzo e ultimo
capitolo. La sua prima sezione è infatti dedicata alla messa a fuoco dell’idea di
logica pura non soltanto a partire dai Prolegomeni in cui di fatto compare, ma in
riferimento alle scaturigini problematiche dalle quali è sorta, in primis il rischio
della psicologizzazione delle entità logico-matematiche che inficiava le analisi
della Filosofia dell’aritmetica, da Husserl stesso riconosciuto in alcuni testi che
presentando le Ricerche logiche ne ricostruiscono in certo senso la genesi.
Intendendola come l’autentica Wissenschaftslehre Husserl ne fa il fondamento
non soltanto di ogni scienza, ma della stessa Kunstlehre, poiché il nucleo più
significativo delle sue regole rimonta in ultima istanza a una dimensione teorica, a
una legalità fondata puramente sui concetti e in tal senso ideale, per cui accanto
all’unità antropologica, psicologica della conoscenza si pone quella del contenuto
della conoscenza, in posizione nient’affatto simmetrica. La natura concettuale,
ideale di una siffatta logica, che ne fa invero una Logik der Bedeutungen non
conduce però a una messa da parte dei segni. Tema centrale delle analisi
husserliane è infatti una logica come disciplina filosofica, nella quale non ci si
rivolga soltanto ai contenuti ideali bensì anche alla maniera in cui vengono
conosciuti, descrivendo cioè la correlazione fra essere coscienza, tra oggetti ideali
e vissuti psichici corrispondenti. Una logica, in altri termini, fondata
fenomenologicamente, dove l’indirizzamento alle cose stesse si traduce
nell’individuazione delle “fonti da cui scaturiscono i concetti fondamentali e le
leggi della logica pura”, vale a dire agli atti costituenti il linguaggio, se è in esso
che le entità logiche in prima istanza si presentano - il che è quanto dire alla
relazione, in questo caso fenomenologica, tra segno e significato. In virtù della
indiscutibile primarietà che quest’ultimo viene ad assumere si è deciso di far
precedere la trattazione che lo riguarda a quella dedicata al segno, a riprova di
come siano le convinzioni in merito al significato a improntare le scelte e le
analisi semiotiche. Tematica centrale è naturalmente l’idealità dei significati,
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contestualizzata nella sua ascendenza lotzeana e osservata nella sua natura di
specie degli atti significanti. Un punto, quest’ultimo, di eccezionale rilevanza, in
quanto consente di spiegare in che maniera i significati, pur presentandosi negli
atti siano però irriducibili a loro componenti psichici; e al tempo medesimo svela
lo stretto nesso che lega intenzionalità e significato, la natura cioè semantica della
prima e intenzionale del secondo, in quanto è nell’essenza intenzionale, ancor
meglio significazionale degli atti che esso si individua, come modalità di
riferimento all’oggetto. In tal maniera si svela la lettura fenomenologica del
rapporto fra significato e oggetto, ai sensi della distinzione tra uneigentliches e
eigentliches Denken dove l’improprietà non sta più dal lato del segno bensì del
significato; e al tempo medesimo, il loro legame, non soltanto perché Husserl nel
parlare di validità dei significati - distinta in ciò dal loro poter essere in quanto tali
- intende a rigore la loro possibilità oggettiva, ma soprattutto a motivo della
definizione stessa di significato come “modalità di riferimento all’oggetto”, da cui
discende che il dominio della sensatezza è circoscritto dall’orientamento
teleologico verso l’oggetto, nel render possibile l’apertura verso di esso. Punto che
conferma la piega obiettivistica delle analisi husserliane e mostra la loro impronta
gnoseologica, ai sensi di una conoscenza come adaequatio. Altra questione
centrale che abbiamo sottolineato in merito all’idealità del significato come specie
è la sua problematicità, dovuta soprattutto al carattere delle sue individuazioni,
una concezione che proprio perché legata alla natura esclusivamente noetica delle
analisi husserliana, verrà abbandonata con la scoperta della dimensione
noematica. Le analisi dedicate alla Wissenschaftslehre e alla natura ideale dei
significati improntano le considerazioni più strettamente semiotiche, parte finale
di questo scritto. Le questioni semioticamente centrali sono infatti state lette alla
luce delle acquisizioni in precedenza maturate, a partire dalla distinzione fra
indice ed espressione, volta soprattutto a far risaltare la fisionomia di quest’ultima
come luogo del significato, che ne determina il rimando a qualcosa senza perciò
esserne il termine. La centralità del significato nella sua natura ideale, prelinguistica esautora infatti il linguaggio da qualsiasi funzione costituiva, sì che i
suoi segni vengono considerati come meri sostegni per la manifestazione di
significati precostituiti. Una situazione che si chiarisce se ricondotta alla sua
dimensione fenomenologica, agli atti in cui il significato si individua, in
particolare le intenzioni significanti, dove si svela la necessità del segno in quanto
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componente essenziale per quegli atti e al tempo medesimo la sua
extraessenzialità per il significato qua talis, donde la radice “semiotica”
dell’equivocazione. In ciò la natura di sostegno del mero segno, della marca
linguistica, che deve lasciar semplicemente essere il significato, superficie
traslucida in cui esso si riflette, necessaria (fenomenologicamente) alla sua
manifestazione quanto irrilevante (logicamente) per la sua costituzione - da dove
si comprende il privilegio accordato al monologo interiore sulla dimensione
comunicativa, dove i segni linguistici agiscono più da indici che da supporti.
Emerge allora che pur al cospetto di un’idea di logica che ha al centro il
significato il segno non viene affatto messo da parte, poiché riveste un ruolo
fondamentale per la sua manifestazione, sì che la dimensione semiotica, per
quanto estranea a una logica pura come mera mathesis universalis non lo è per la
logica come disciplina filosofica, fenomenologicamente fondata, dove a tema è
l’accesso alle entità logiche medesime. E al contempo, il mutamento in seno
all’idea di conoscenza rende i segni tutt’altro che inessenziali, se la sua natura di
adaequatio consiste fenomenologicamente nel riempimento di intenzioni
significanti. Quanto si rivela, in altri termini, è la rilevanza del segno per la
fenomenologia, perlomeno nei suoi esordi, dove un peso decisivo ha il suo
indirizzamento esclusivo alla dimensione logica.
Nelle ultime battute si è cercato infine di aprire uno squarcio su una
possibile
prospettiva
d’indagine,
rivolta
agli
sviluppi
successivi
della
fenomenologia a partire dai suoi rapporti con il segno, dove inversamente a
quanto accaduto in tutto il nostro scritto le acquisizioni delle Ricerche sono state
indicate come possibile chiave di lettura dei testi posteriori. Una linea d’indagine
che si è soltanto potuto indicare, con l’intento di chiudere un testo aprendolo a
nuovi, possibili sviluppi.
11
§ 1 - I testi pre-fenomenologici
§ 1.1 – Considerazioni preliminari
I testi che qui considereremo hanno conosciuto un lungo oblio nella
letteratura critica husserliana, concentrata in via esclusiva sulle novità
dell’atteggiamento fenomenologico e sulle – numerose – opere in cui andava
maturando, approfondendosi e consolidandosi, sì da provare un sostanziale
disinteresse per quegli scritti che pur non precedevano soltanto temporalmente
l’acquisizione della nuova prospettiva, quasi si trattasse di mere vicende
concernenti la biografia del filosofo e non quella della sua filosofia. Un
disinteresse del resto che poteva motivarsi a partire dalle argomentazioni di
Husserl medesimo, nei cui Prolegomeni a una logica pura la serrata critica allo
psicologismo valeva a sconfessare quanto sin lì egli aveva prodotto, quasi vi fosse
stata una rottura radicale o un rivolgimento di ampia gradazione. In verità le cose
stanno ben diversamente, nei cosiddetti testi pre-fenomenologici sono facilmente
rintracciabili, pur con le dovute cautele, i segni che indicano verso la nuova
prospettiva e la critica stessa del resto ha rimosso un siffatto immeritato oblio,
occupandosene2 e provvedendo alla pubblicazione di scritti inediti precedenti le
Ricerche logiche. Quanto qui detto a proposito di oblio e riscoperta vale anche per
la questione che più di vicino ci riguarda, ovvero la semiotica. Basti pensare
infatti che il testo senz’altro più importante e di gran lunga più penetrante dedicato
all’analisi del segno, ovvero La voce e il fenomeno di Derrida3, fa esclusivo
affidamento sulle analisi husserliane della Prima Ricerca, evitando qualsiasi
riferimento alle opere precedenti4, dove pure la questione era certo trattata se lo
stesso Husserl aveva redatto un testo intitolato per l’appunto Semiotik. Testo,
2
Al di là delle opere tematiche su Husserl, dedicate a ricostruire il suo Denkweg, si possono qui
ricordare i seguenti scritti: D. Willard Logic and Objectivity of Knowledge. A Study in Husserl’s
Early Philosophy, Athens (Ohio) 1984, D. Münch Intention und Zeichen. Untersuchungen zu
Franz Brentano und zu Edmund Hussserls Frühwerk, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1993, e, per
quanto concerne la letteraratura critica italiana, G. Leghissa Alle origini del “vedere
fenomenologico” in E. Husserl Filosofia dell’aritmetica, Bompiani, Milano 2001 (ed. or.
Philosophie der Aritmetik in Husserliana XII, Den Haag, Nijoff 1970), nonché l’introduzione di
Stefano Besoli ai testi husserliani tra la Filosofia dell’aritmetica e le Ricerche logiche raccolti in
E. Husserl Logica psicologia e fenomenologia, Il Melangolo, Genova 1999 (prima parte).
3
J. Derrida La voix et le phénomène, Presses Universitairer de France, Paris 1967 (ed. it. La voce e
il fenomeno, Jaca Book SpA, Milano 1968)
4
Qualche anno prima lo stesso Derrida aveva curato l’edizione francese dell’Appendice III a La
crisi della scienze europeee, scrivendone un’introduzione intitolata Introduction a l’Origine de la
Géomètrie de Husserl, P.U.F., Paris 1962; testo questo reso celebre soprattutto dall’introduzione
del filosofo francese e nel quale sono contenute le ultime analisi sul segno di Edmund Husserl.
Derrida quindi, pur interessandosi agli sviluppi semiotici successivi alle Ricerche logiche, non
pare attribuire alcuna importanza al cosiddetto periodo pre-fenomenologico.
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questo, assieme ad altri del medesimo periodo, che ha conosciuto significative
riscoperte nella letteratura secondaria, interessata ad analizzare gli sviluppi della
questione dalla sua origine e a valutare e motivare i mutamenti, le permanenze,
quando non a individuare un Leitfaden fra le prospettive dalle quali il segno viene
trattato, in rispondenza al novero complessivo della filosofia husserliana5. Motivi
pressoché simili ci hanno spinto a occuparcene. Se si vuole valutare l’incidenza
della problematica del segno nella filosofia husserliana, non è affatto possibile
trascurare alcunché in merito, tantomeno quei testi che solo un interesse fin troppo
esclusivo alle tematiche più strettamente fenomenologiche ha consentito di
sorvolare. Ma non si tratta soltanto di questo, della completezza cui una
ricostruzione è chiamata ad aspirare. Occuparsi della questione del segno vale
anche e soprattutto a mettere in luce la peculiarità della riflessione husserliana nel
periodo cosiddetto pre-fenomenologico, gli interessi da cui è mossa e a motivarne
le conclusioni, consentendo inoltre di fare chiarezza sulla natura dello
psicologismo tipico di questa fase; infine, il diverso trattamento e per così dire
“posizionamento” che la questione semiotica andrà esperendo nello sviluppo della
riflessione husserliana, dalle origini sino alle Ricerche logiche, è un proficuo
punto d’osservazione per valutare la portata della rivoluzione fenomenologica. Ma
al fine di dar conto in concreto di quanto s’è finora soltanto detto è necessario dar
corso alle nostre analisi.
§ 1.2 – Il contesto d’origine della questione semiotica
Uno dei punti maggiormente caratterizzanti le riflessioni husserliane degli
esordi è il ruolo di primo piano, decisivo, rivestito del segno, come già mostrato in maniera soltanto in apparenza corsiva - dalla presenza, nei testi di questa fase,
di un’opera autonoma dedicata alle questioni semiotiche, intitolata per l’appunto
Semiotik, laddove nella produzione successiva non vi sarà traccia alcuna di
trattazioni tematiche di questo genere, perlomeno nel senso di scritti dedicati
squisitamente ai segni. Ma è soprattutto, com’è ovvio, a partire dalla peculiarità
delle analisi di Husserl, dagli interessi che muovevano la sua riflessione e
Oltre ai testi di Münch e Willard già ricordati, e all’introduzione di Besoli all’importante volume
sui testi husserliani compresi fra la pubblicazione della Filosofia dell’aritmetica e le Ricerche
logiche, segnaliamo la pregevole, ancorché discutibile nei suoi assunti interpretativi, introduzione
di Carmine Di Martino alla traduzione italiana di Semiotik (C. De Martino Introduzione in E.
Husserl Semiotica, Spirali, Milano 1984, pp.11-48; ed. or. E. Husserl Semiotik, Husserliana XII,
Nijhoff, Den Haag 1970) e soprattutto R. Zeichen und Bedeutung. Eine Untersuchung zu Edmund
Husserls Theorie des Sprachzeichens, Lenzerheide, Schweiz 1985
5
13
dall’impostazione che la improntava che una tale preminenza puo’ motivarsi e
mettere in luce i suoi tratti.
Com’è oramai noto, sono le problematiche sollevate dalle questioni
aritmetiche del numero e del calcolo a occupare il centro dell’indagine husserliana
ed è perciò da qui che bisogna partire per affrontare la questione semiotica,
segnatamente dalla Filosofia dell’aritmetica. Va detto che nel corso del testo
questa compare piuttosto tardi, per la precisione all’inizio della seconda parte, ma
ciò non toglie nulla alla sua centralità, in quanto la scansione progressiva degli
argomenti motiva e lascia leggere in controluce la genesi della problematica
segnica, o meglio ancora della tipologia semiotica che Husserl mostra qui di
prediligere. Ma andiamo con ordine. Volta com’è al campo aritmetico, l’indagine
husserliana si propone di enuclearne i fondamenti e soprattutto di illustrare la
maniera tramite cui è possibile appropriarsene. Sulla scorta di queste
considerazioni si motiva l’approccio psicologista alle questioni matematiche: i
concetti numerici vengono da Husserl considerati ultimi, elementari e per ciò
stesso indefinibili; la trattazione di questi concetti, non potendo aspirare a darne
definizione, deve allora risolversi nel tratteggiare il procedimento che dà loro
origine, il modo in cui si giunge a essi, che tradotto nei termini husserliani del
tempo equivale a fornirne l’origine psicologica6. Cogliere il numero non consiste
nell’affidarsi a una definizione ancorché tradizionale, quale quella di “molteplicità
di unità”7, se come accade qui i termini definienti stanno per concetti elementari,
semplici e perciò indefinibili, cosa che rende la succitata definizione un flatus
vocis. Non resta altro allora, ai fini della comprensione, che rifarsi ai fenomeni
concreti da cui quei concetti vengono ricavati, osservare la maniera tramite cui è
possibile per noi affisarli e appropriarcene, descrivere perciò il modo in cui vi si
giunge8, il che significa dar conto delle esperienze e degli atti psichici coinvolti9.
6
E. Husserl Philosophie der Aritmetik, Husserliana XII cit., p.119 (trad. it. E. Husserl Filosofia
dell’aritmetica, Bompiani, Milano 2001, pp.162-163; d’ora in avanti citeremo dalla traduzione
italiana, per questo come per gli altri testi)
7
Ivi, p.57
8
Ivi, p.163
9
« L’astrazione che va compiuta puo’ esser descritta nel modo seguente: determinati contenuti
singolari sono dati in qualche modo in un collegamento collettivo; quando noi astraendo passiamo
al concetto generale, non prestiamo loro attenzione in quanto contenuti determinati in questo o
quel modo; l’interesse principale si concentra piuttosto sul collegamento collettivo, mentre essi
stessi vengono presi in considerazione e osservati solo come contenuti qualsiasi, ciascuno come un
qualcosa qualsiasi (irgend etwas), una cosa qualsiasi (irgend eins) »; in tal maniera «…il concetto
di molteplicità porta con sé quella vaga indeterminazione che abbiamo sopra segnalato. Ciò che gli
manca è quel carattere che completa e distingue i numeri: il quanto nettamente determinato »; ivi,
p.121 e p.125
14
Benché la summenzionata definizione risulti per i motivi ormai noti
inservibile, rappresenta comunque un’utile guida al fine di determinare il concetto
di numero, concepito da Husserl come risposta alla domanda “quanto?”: in tal
senso è dal concetto di molteplicità che si deve giocoforza partire, in quanto è
dalla determinatezza della sua costitutiva indeterminazione che sorgerà il concetto
di numero cardinale10. E non si deve andare molto oltre per comprendere cosa
s’intenda con molteplicità, il suo significato è qui quello consueto, un aggregato di
oggetti diversi che non hanno in comune null’altro che il loro stare insieme. Che
cos’è allora che rende possibile questa unione, immotivata in re? Nient’altro che
l’atto di collegamento tramite cui i diversi oggetti vengono rappresentati insieme,
è quindi questo a costituire una molteplicità ed è a esso che bisogna rivolgersi per
concepirla e ricavarne il concetto. La conclusione che si trae da queste
considerazioni è particolarmente interessante: l’atto indirizzato a cogliere la
molteplicità è a ben vedere un atto di second’ordine, o per dirla con una
terminologia più tarda “fondato”, in quanto suo contenuto non è un oggetto, bensì
un altro atto psichico, segnatamente quello responsabile del collegamento tra le
entità dell’aggregato, che Husserl chiama kollektive Verbindung. Parlare qui di
origine psicologica assume un significato molto più forte di quanto si potesse a
tutta prima pensare: non soltanto infatti ci si riferisce alla modalità di accesso ai
concetti, ma addirittura al concetto stesso, poiché la molteplicità deve il suo
sorgere a un atto psichico qual è quello del collegamento collettivo11. L’insistenza
sui processi psichici per il coglimento delle entità concettuali conduce così a
ridurre il momento del significato di un concetto all’attività psichica che ne
costituisce la genesi, o detto altrimenti, il significato di un concetto viene qui a
coincidere con l’atto astrattivo necessario a coglierlo, cosa che distanzia
notevolmente l’opera qui in esame dalla Ricerche logiche, dove l’insistenza non
sarà sugli atti in quanto oggetti, bensì sugli oggetti degli atti. Va detto però che
l’attenzione su una riflessione indirizzata agli atti al fine del coglimento dei
concetti indirizza già verso la prospettiva fenomenologica, così come il loro
necessario fondamento in un’intuizione concreta12, che nelle Ricerche diverrà
10
Ivi, p.58
In questo modo la natura del concetto di molteplicità si svela essere psicologica, che è cosa ben
più forte dal dire che tale è la maniera in cui è possibile per noi coglierlo. Punto questo
particolarmente delicato per via delle sue ripercussioni sul concetto di numero, che rischia di veder
viziata psicologicamente la propria natura, come vedremo meglio a breve.
12
E. Husserl Filosofia dell’aritmetica, cit., p.121
11
15
categoriale. Bastino però qui questi semplici accenni, è al numero infatti che la
nostra analisi è rivolta e deve condurre. Individuato l’origine del concetto di
molteplicità ed essendo così giunti alla sua appropriazione, resta da definire in
cosa consista il numero. A tal fine è necessario secondo Husserl analizzare con
maggiore dettagliatezza gli atti in cui la molteplicità si costituisce: oltre al
collegamento collettivo è infatti necessaria una considerazione delle entità
collegate che astragga dalle loro caratteristiche distinguenti riducendole a meri
contenuti d’atto, indicati con il termine generico “qualcosa”13. Questa
stratificazione di atti conduce così alla molteplicità come collegamento collettivo
di contenuti qualsiasi, di meri “qualcosa”, laddove è ancora un atto di
second’ordine quello che consente al “qualcosa” di emergere, quello cioè di
riflessione sull’atto del rappresentare14; da quanto detto emerge inoltre
l’indeterminatezza del concetto di molteplicità, in senso soprattutto quantitativo,
non essendovi una limitazione a proposito dei contenuti figuranti. E una tale
limitazione e determinazione è proprio il concetto di numero cardinale, che si
rivela perciò come quantum di una molteplicità determinata:
Ma se vogliamo rimediare a una tale indeterminazione allora si danno parecchie
possibilità ed è chiaro che in corrispondenza con queste ultima il concetto di molteplicità
si divide in una varietà di concetti determinati, delimitati gli uni rispetto agli altri nel
modo più preciso possibile – e questi concetti sono appunto i numeri15
È opportuno precisare che al fine di ottenere un concetto numerico
qualsiasi non è affatto necessario ricorrere al concetto generale di molteplicità con
la sua costitutiva indeterminatezza: vi si puo’ arrivare infatti direttamente a partire
da una molteplicità concreta, in quanto ciascuna di esse cade sotto un concetto di
numero16. Al punto in cui siamo però possiamo dire di aver ottenuto soltanto
diversi concetti numerici, non il concetto generale di numero cardinale; e lo stesso
vale per la molteplicità: quanto si è sin qui fatto è stato mostrare perché un certo
aggregato di elementi sia una molteplicità, ma con questo non si è ancora chiarito
come si giunge al concetto generale di molteplicità. Non v’è qui un’intuizione che
13
Ibid.
Ivi, p.122
15
Ivi, p.123
16
Ivi, p.124. Questo naturalmente nulla toglie all’importanza decisiva della molteplicità per il
concetto di numero. Entrambi presentano i medesimi contenuti, a esser diverso è il punto di
interesse dai quali li osserva, tant’è che il numero puo’ definirsi una molteplicità determinata.
14
16
consenta di affisare l’entità generale a partire dal fenomeno concreto
corrispondente, come accadrà successivamente, è la forte impronta psicologista
delle analisi husserliane a impedirlo17. Il numero cardinale sorge infatti dalla
comparazione fra diverse forme di molteplicità determinate, ovvero fra i diversi
numeri, per via della somiglianza fra questi, che riguarda tanto i contenuti parziali
che compongono ciascun numero (i “qualcosa”) quanto gli atti psichici che li
collegano (collegamento collettivo)18. Un discorso simile vale per il concetto di
molteplicità, che sorge appunto per via della comparazione fra aggregati concreti
in base al criterio del collegamento collettivo: ogni aggregato è infatti riconosciuto
come un intero costituito da meri qualcosa collegati collettivamente e la
comparazione fra di essi come entità simili fa sorgere il concetto generale di
molteplicità (indeterminata). Com’è facile rilevare, l’attenzione è qui rivolta
soprattutto agli atti e non ai loro oggetti, ovvero ai processi psichici in cui
s’originano i concetti piuttosto che a questi medesimi, perché i contenuti non sono
soltanto dati, ma generati dagli atti. In proposito è illuminante quanto Husserl dice
a proposito dei concetti formali (numero, molteplicità, uno…) e della loro
vuotezza e generalità:
il loro carattere onnicomprensivo trova una semplice spiegazione nel fatto che
essi sono concetti di attributi, i quali sorgono nella riflessione su atti psichici che possono
senza eccezione essere esercitati su tutti i contenuti19
La natura di questi concetti, il loro esser formali e onnicomprensivi, viene
spiegata e ricondotta ai caratteri d’atto in cui essi sorgono, alla generalità degli atti
di rappresentazione e collegamento collettivo che possono esercitarsi su
qualsivoglia contenuto; sulla scorta di questo e di quanto emerso a proposito del
concetto di molteplicità è difficile sottrarsi alla conclusione che gli atti, lungi dal
limitarsi a render presenti i concetti, concorrano decisamente alla loro genesi, alla
loro costruzione. È stato da più parti sottolineato come in questa fase della sua
17
Diversa è la posizione in merito di Dieter Münch, il quale vede già tracciata nelle teorie
husserliane dell’astrazione e delle relazioni psichiche la via che condurrà all’intuizione categoriale,
proprio perché al fine di cogliere il concetto formale di molteplicità non è affatto necessaria la
comparazione fra casi simili, bastando al riguardo l’intuizione di un unico concretum cfr. D.
Münch Intention und Zeichen cit., p. 97
18
E. Husserl Filosofia dell’aritmetica cit., pp.124-25.
19
Ivi, p.127
17
riflessione Husserl non distingua fra rappresentazione e concetto20, che è poi
quanto Frege rimproverava al suo esimio collega nella sua celebre recensione. Si
tratta di una confusione senz’altro presente nelle analisi husserliane, in specie in
quelle della prima parte della Filosofia dell’aritmetica, dove per l’appunto è
difficile distinguere tra la rappresentazione ad esempio della molteplicità e il suo
concetto, vista la natura spiccatamente psicologica del procedimento che conduce
a entrambi. Anche nella seconda non mancano esempi in tal senso, forse
addirittura maggiormente caratteristici. È il caso della distinzione, su cui dovremo
abbondantemente tornare, tra rappresentazioni proprie e simboliche, che si
incrocia con quella tra concetti propri e simbolici: ha senz’altro senso parlare di
rappresentazioni che presentano l’oggetto in carne e ossa (proprie) o per la via
indiretta dei simboli (simboliche); difficile però è comprendere cosa possa mai
essere un concetto simbolico, laddove non s’intenda, come di fatto avviene in
Husserl dando prova della segnalata confusione, la rappresentazione simbolica del
concetto medesimo. L’assenza di questa importantissima distinzione deriva
dall’impostazione psicologista delle analisi husserliane e vizia lo stesso concetto
di numero, così come esso emerge dalla trattazione dell’epoca: se infatti è la
molteplicità il concetto da cui esso scaturisce e poiché questa è tale in virtù di una
relazione squisitamente psichica quale il collegamento collettivo, ne deriva che lo
stesso concetto di numero cardinale è viziato nella sua stessa costituzione da
componenti psicologiche. Husserl stesso si rese conto di questa difficoltà, come
confessò anni dopo ripercorrendo le fasi iniziali della sua riflessione:
Ma il concetto di numero cardinale non è qualcosa di essenzialmente diverso dal
concetto di collegare, che appunto solo la riflessione sull’atto puo’ fornire? Questi dubbi
mi inquietavano, anzi mi tormentavano già ai primissimi inizi e si estesero poi a tutti i
concetti categoriali, come li chiamai più tardi21
I dubbi e i tormenti di cui egli parla segnalano da un lato quanto poco
fosse incline a considerare in termini psicologici i concetti categoriali, come gli
Cfr. G. Leghissa Alle origini del “vedere fenomenologico” in E. Husserl Filosofia
dell’aritmetica cit., p. 24 e D. Willard Logic and the objectivity of knowledge cit., p. 26. Willard in
verità sostiene una posizione più forte rispetto a quella di Leghissa, ritenendo che per lo Husserl di
questa fase i concetti esistano soltanto all’interno di strati di entità concrete, marcandone così la
natura psicologica (ivi, p.25)
21
E. Husserl Abbozzo di una prefazione alle Ricerche logiche in Logica, psicologia e
fenomenologia cit., p.201
20
18
risultasse difficile, se non inaccettabile, l’assimilazione delle entità concettuali a
realtà psicologiche - dall’altro come la permanenza dell’impostazione psicologista
al fondo delle sue analisi gli impedisse di trovare una soluzione al dilemma, quella
soluzione che nelle Ricerche logiche consisterà nel non guardare più agli atti in
quanto oggetti ma agli oggetti di questi atti22. Il motivo per cui Husserl non poteva
affatto consentire alla suddetta assimilazione sta nella sua inossidabile
convinzione che i concetti definiti poi categoriali non possono affatto venir
considerati come delle realtà empiriche, perché la loro validità esula da qualunque
matter of fact; per rifarci alla citazione riportata poc’anzi, il numero è cosa ben
diversa da una realtà empirica, segnatamente psicologica, quale l’atto collegante,
tant’è che nella seconda parte della
Filosofia dell’aritmetica
parlerà
esplicitamente di “numeri in sé”, a dimostrazione di come questi nulla devono per
la loro validità e sussistenza alle operazioni psichiche. Questo assunto rischiava
però di venir indebolito dall’analisi psicologico-genetica tipica di quest’opera e
ben si comprende allora il tormento husserliano.
Va detto però, ed è un punto essenziale, che le analisi di Husserl nel
periodo qui in esame hanno come tema prevalente la modalità tramite cui si ha
accesso ai concetti, ai contenuti della scienza o per meglio dire della matematica,
dando per presupposta la validità di quei contenuti. Un indirizzo che diviene
chiaro man mano che ci si addentra nella Filosofia dell’aritmetica e si viene così a
conoscere l’esatto statuto di questa disciplina, dopo averne accuratamente
enucleato i fondamenti; si scopre così che per aritmetica bisogna intendere
una somma di strumenti artificiali volti a superare le insufficienze essenziali del
nostro intelletto23
Come si vede, è una dimensione prettamente operativa quella che Husserl
predilige a proposito della matematica e più in generale della scienza, dove ancora
una volta è l’approccio psicologista a essere determinante. La scienza viene infatti
riguardata dal lato prettamente soggettivo, come strumento della conoscenza
umana, a partire quindi dalla sua genesi in rispondenza alle esigenze cognitive del
soggetto, dal suo ruolo e dalla capacità delle sue prestazioni in ambito
22
E. Husserl Logische Untersuchungen (trad. it. Ricerche logiche, a cura di G. Piana, NET,
Milano 2005, vol. II, pp.443-44)
23
E. Husserl Filosofia dell’aritmetica cit.,p.234
19
conoscitivo. Come è stato giustamente osservato, una teoria dell’aritmetica non
puo’ dirsi affatto esaurita da una teoria del numero, in quanto l’aritmetica è un
segmento della conoscenza umana mentre il numero è semplicemente il suo
argomento; per cui
A theory of number attempts to tell us, above all, what number is, while a theory
of arithmetic must explain how we know what we can know about numbers and wherein
that knowledge consists24
L’analisi delle prestazioni conoscitive dell’aritmetica, della maniera in cui
ci consente di acquisire ed estendere la conoscenza dei suoi contenuti, è perciò il
leitmotiv delle analisi husserliane ed è qui per giunta che si innesta la questione
semiotica, perché gli strumenti artificiali in cui consiste una tale scienza non sono
altro che i segni.
§ 1.3 – Il segno all’origine
Con le considerazioni or ora fatte a proposito di cosa si debba intendere
per una teoria dell’aritmetica abbiamo già imboccato la via che conduce a
motivare la centralità del segno a partire dalla peculiarità dell’impostazione
filosofica husserliana. Se infatti è l’aspetto per così dire tecnico a tratteggiare la
fisionomia dell’aritmetica, il suo essere cioè una somma di strumenti volti a
render più ampie ed efficaci le prestazioni conoscitive del soggetto, la dimensione
psichica sarà allora il contesto in cui si radicheranno le riflessioni su questa
disciplina (punto questo che ben si concilia - ribadendola - con la complessiva
impostazione psicologista delle analisi husserliane). E anche la questione
semiotica troverà qui il proprio terreno di coltura, perché i segni sono per
l’appunto gli strumenti di cui non soltanto l’aritmetica si serve, ma che addirittura
la costituiscono.
Ma la rilevanza dei segni non riguarda soltanto l’ambito circoscritto da un
settore della conoscenza, in quanto è la stessa costituzione psichica umana a esser
in larga parte caratterizzata dalla dimensione semiotica, o per meglio dire
impropria. Al fine di comprendere questo è innanzitutto necessario introdurre la
distinzione
24
fra
rappresentazioni
proprie
e
improprie,
che
Husserl
fa
D. Willard Logic and the Objectivity of Knowledge cit., p.87
20
immediatamente e opportunamente seguire alla sua definizione dell’aritmetica. A
far la differenza è qui la modalità d’accesso all’oggetto rappresentato: nel primo
caso, è diretta, in quanto ci si trova di fronte all’oggetto per così dire “in carne e
ossa”, come avviene ad esempio con la percezione empirica; nel secondo invece si
è di fronte a una caratterizzazione indiretta che rende la rappresentazione
“simbolica”, in quanto appunto ricorre a segni per riferirsi a e aver presente
l’oggetto25.
Dovremo tornare in seguito, con maggiore approfondimento, su questa
distinzione ma per ora è sufficiente averne fatto cenno, così da aver chiaro cosa
intende Husserl quando parla di contenuti dati in maniera impropria. È necessario
infatti soffermarci in primo luogo sull’esatta caratura della dimensione impropria
e in particolare sull’importantissimo ruolo che essa svolge per (e nel)la coscienza,
anche perché è da qui che emerge la funzione semiotica che Husserl ritiene in
questi scritti fondamentale. Si tratta soprattutto di risalire ai motivi che ne
richiedono l’introduzione, rintracciati nei limiti delle capacità psichiche umane: è
infatti al fine di sopperirvi che subentra il rappresentare improprio. Il campo
d’analisi è ancor sempre costituito dagli interessi matematici, relativo agli insiemi,
già analizzati nell’ottica “propria” quando si è trattato di chiarire il concetto di
molteplicità26; mentre però in precedenza ci si era occupati dell’origine del
concetto di numero, non prestando attenzione all’estensione degli insiemi
d’oggetti da cui scaturisce, ora il problema sta proprio nella vastità di quest’ultimi:
se infatti al fine di rappresentarsi una molteplicità è necessario apprendere
singolarmente ciascuno dei suoi membri, collegando poi collettivamente tutte
queste diverse intuizioni parziali, allora solo di molteplicità poco numerose è
possibile una rappresentazione, perché le nostre capacità psichiche ci consentono
25
Ivi, p. 235
La vigilanza terminologica non è certo tra i punti di forza della Filosofia dell’aritmetica. Lo si è
già visto a proposito della (confusa) distinzione tra rappresentazione e concetto e lo si riscontra
ancor qui, dove non è chiaro se i termini “aggregato”, “molteplicità”, “insieme”, siano sinonimi o
meno, e qualora sia quest’ultima l’ipotesi valida, in cosa consistano le differenze di significato. A
fare un po’ di chiarezza ha provato Leghissa, nella sua Nota alla traduzione del testo. Egli propone
di intendere Inbegriff (aggregato) come una collezione di oggetti qualunque, laddove Vielheit
(molteplicità) intendere mettere in evidenza la numerabilità degli elementi meramente collegati.
Menge (insieme) infine non ha affatto il significato tecnico tipico della matematica, bensì quello
più semplicemente comune, della vita quotidiana, e sta a indicare un misto di determinatezza
(quanto allo stile della figura che gli elementi tratteggiano) e indeterminatezza (riguardo al
numero) (ivi, pp.41-43). Va comunque precisato che i tre termini sono interconnessi e le differenze
qui segnalate sono semplici sfumature, dovute alla differente angolatura dello sguardo husserliano
in rapporto a elementi tenuti assieme dal collegamento collettivo
26
21
di tener fermi insieme e in maniera distinta al massimo una dozzina di elementi27.
Ora, a prescindere dal numero che segna il nostro limite massimo, va detto che
Husserl sottolinea un punto inequivocabile, ovvero l’impossibilità di riconoscere
un insieme come tale per via della somma e ricognizione delle apprensioni
singolari, limite che rende inevitabile il ricorso a procedimenti impropri, o per
meglio dire simbolici. In un tale caso l’apprensione e la riunione di qualche
elemento serviranno da segno per la collezione totale, vi sarà insomma una
rappresentazione in sé propria che fungerà impropriamente come segno
dell’oggetto inteso ma non disponibile a un’intuizione diretta. E non si tratta, a
ben vedere, di uno stratagemma adottato consapevolmente e introdotto
dall’esterno, quanto piuttosto della descrizione di come effettivamente avviene
l’apprensione di insiemi particolarmente numerosi, descrizione nella quale però
finora è stato omesso l’elemento fondamentale, ovvero il momento figurale: ciò
che infatti consente di riconoscere nei pochi elementi appresi un insieme e,
correlativamente, di considerare il processo parziale segno di quello totale, è
proprio l’occorrenza di siffatti momenti, consistente nell’organizzazione o
disposizione immediata degli elementi costituenti l’insieme, che formano
delle unità stabili, capaci di conferire all’intera apparizione dell’insieme un
carattere peculiare immediatamente percepibile, per così dire una qualità sensibile di
secondo ordine28
Proprio la percezione di siffatte configurazioni, ovvero dei momenti
figurali - registrati nel linguaggio con termini quali “fila”, mucchio”, “stormo”
ecc.29 - consente di riconoscere il carattere di insieme nei (pochi) elementi
raccolti, la loro presenza è talmente efficace e influente che addirittura essi
possono fungere da segni - e non quindi da mediazioni o punti d’appoggio tra
segno (parti effettivamente raccolte) e designato (insieme) -, come avviene ad
esempio quando con un solo colpo d’occhio riconosciamo un reggimento di
soldati, senza cioè che vi sia il processo rudimentale consistente nella ricognizione
di qualche elemento30. Quanto emerge da qui - oltre ad avere un’importanza
essenziale per l’aritmetica, essendo gli insiemi a fondamento dei numeri - illumina
27
Ivi, p.238
Ivi, p. 243
29
Ivi, p. 246
30
Ivi, p. 255. Su questo punto cfr. anche R. Parpan Zeichen und Bedeutung cit., pp.18-19.
28
22
sul carattere decisamente improprio dei nostri processi psichici, quindi sul ruolo
decisivo che la componente simbolica riveste in seno al pensiero. Questa infatti
non si esaurisce in un insieme di artifici metodici, utilizzati consapevolmente al
fine del progresso scientifico31, poiché il pensiero stesso, ovvero i nostri processi
psichici sono in larga parte impropri, simbolici, senza peraltro che ve ne sia
consapevolezza, come s’è appena visto a proposito dei momenti figurali, dove un
processo di pensiero (proprio) fungeva automaticamente da segno - e quindi
impropriamente - per un altro, indisponibile perché inattuabile, e laddove la
rapidità del pensiero impedisce il suddetto processo è il semplice momento
figurale a fungere da segno, in maniera anche qui inavvertita, per via di semplici
associazioni psicologiche quale quella tra la percepita configurazione degli
elementi e il concetto d’insieme. La semiosi si scopre allora essere un tratto
costitutivo dei nostri processi psichici, è inscritta nella naturalità della nostra
psiche, cosa che rende l’analisi psicologico-genetica ancor più pertinente che nel
caso di numeri: se infatti là si doveva dar conto di come si giunge a entità
comunque in sé sussistenti, qui invece si tratta di un qualcosa che ha direttamente
a che fare con la nostra vita psichica, di un suo importantissimo aspetto. La
centralità del segno non è dovuta soltanto alla sua importanza per le discipline
scientifiche e, correlativamente, per la nostra conoscenza; anzi questa importanza
si motiva a partire da qualcos’altro, ovvero dalla dimensione impropria di (gran)
parte dei nostri processi psichici, è solo perché il nostro pensiero è in larga parte
del suo decorso costitutivamente simbolico che i segni possono operare con
l’efficacia che viene loro giustamente riconosciuta e al tempo medesimo venir
legittimati nel loro utilizzo. Lo si è appena visto con l’esempio dei momenti
figurali: l’apprensione di un insieme piuttosto vasto avviene per via simbolica e in
maniera per così dire automatica, senza che vi sia una consapevole riflessione, la
psiche si affida “naturalmente” a dei surrogati che le consentono di apprendere simbolicamente appunto - un insieme, è un tratto precipuo del suo funzionamento
il ricorrere a procedimenti e rappresentazioni improprie laddove i suoi limiti le
impediscano di percorrere la via intuitiva. L’analisi dei momenti figurali consente
perciò a Husserl di mettere in evidenza la naturalità della semiosi, di mostrare
come la funzione simbolica sia un tratto specifico della psiche umana, sì che il
ricorso a simboli che caratterizza discipline fondamentali come l’aritmetica e la
Per quanto, come vedremo, sarà proprio questo l’ambito cui Husserl attribuirà la maggiore
importanza
31
23
logica risulti nient’affatto estrinseco, trovando fondamento nella natura del
pensiero medesimo; e la prospettiva psicologista, focalizzata sull’analisi dei
processi psichici, si rivela qui particolarmente efficace, consentendo di inscrivere
l’origine dell’attività simbolica nel funzionamento della psiche umana, cosa che
svela la semiosi consustanziale ai processi intellettivi degli individui, come tratto
caratteristico del nostro spirito. Punto questo decisivo, ancor prima e ancor più di
una qualunque definizione del segno, in quanto consente di affisare l’esatta natura
dei simboli mercé la loro origine, cosicché non li si potrà soltanto considerare
come meri strumenti escogitati per soddisfare determinate esigenze, perché a esser
simbolico è il nostro stesso pensiero nel suo naturale decorso, prima ancora che
intervenga qualsiasi attività consapevole.
Con questo però non si vuole affatto negare l’importanza decisiva che i
segni qua strumenti artificiali rivestono in seno al pensiero husserliano, anche
perché, come s’è già visto, l’aritmetica è proprio a questi che fa ricorso, tanto che
son essi a definirne l’essenza. Ci si potrebbe allora aspettare che le
rappresentazioni
simboliche
degli
insiemi
siano
il
fondamento
delle
rappresentazioni simboliche dei numeri - come del resto lo stesso Husserl
dichiara32 - e che quindi queste ultime debbano esser direttamente ricavate dalle
apprensioni degli insiemi per via di momenti figurali. In verità le cose non stanno
esattamente in questi termini. Va infatti tenuto a mente che il concetto di insieme
consiste di quantità indeterminate, i contenuti non vengono affatto enumerati,
tant’è che il concetto stesso deve la sua determinatezza non al rilevamento del
numero di questi, quanto alle figure che essi tratteggiano nel loro stare assieme,
ovvero ai momenti figurali; per l’apprensione dell’insieme non è affatto richiesta
la denumerazione dei suoi membri, anzi i momenti figurali vengono introdotti
proprio al fine di renderla dispensabile, perciò non è da qui che le simbolizzazioni
riguardanti i numeri possono venir ricavate. Come si spiega allora l’affermazione
husserliana sulla fondazione delle simbolizzazioni per i numeri su quelle per gli
insiemi? Innanzitutto l’attenzione dedicata a queste ultime vale a mostrare come
l’attività simbolica non sia affatto un che di estrinseco, in quanto radicata nella
nostra psiche come uno dei suoi tratti maggiormente caratterizzanti; l’apprensione
simbolica degli insiemi per via dei momenti figurali è una significativa
manifestazione dell’affidamento che la psiche nel suo naturale decorso fa al
32
Ivi, p.265
24
rappresentare improprio, per cui il ricorso ai segni dell’aritmetica trova proprio
nei meccanismi psichici la sua legittimazione33. Un tipo di legittimazione davvero
fondamentale, nel momento in cui l’aritmetica viene riguardata dal lato soggettivo
delle sue prestazioni conoscitive. Oltre a questo, è sempre per sopperire ai limiti
delle nostre capacità psichiche che i segni fanno la loro comparsa, tanto nel caso
delle apprensioni di insiemi, per giunta neanche troppo vasti, quanto a riguardo
dell’accesso alla serie dei numeri naturali; limiti peraltro della stessa natura,
poiché in entrambi i casi è l’impossibilità di rappresentare propriamente tutti i
membri di un insieme a render necessaria la presenza dei simboli. Infine non va
dimenticato che i numeri sono le specie del concetto generale di molteplicità, per
cui qualora di questa fossero possibili solo rappresentazioni proprie potremmo
ammettere solo una ristretta parte di numeri, quelli cioè corrispondenti alle
molteplicità “propriamente” rappresentabili; le rappresentazioni simboliche ci
garantiscono invece che a ciascun insieme deve corrispondere un numero
determinato e ci permettono di giungere all’idea di un ampliamento illimitato
dell’insieme medesimo34. In altri termini ci garantiscono sulla liceità delle
rappresentazioni simboliche dei numeri pur non essendo in grado di fornircene di
adeguate.
Al fine di ottenere un effettivo accesso alla serie dei numeri naturali è
necessario invece escogitare un metodo, fondato su “un principio sistematico
rigoroso per la formazione delle forme numeriche simboliche”, che sia in grado di
estendere la nostra conoscenza oltre le (poche) entità numeriche rappresentabili in
maniera propria e impedisca una moltiplicazione incontrollata dei simboli, che
causerebbe serissime difficoltà alle nostre capacità mnemoniche35. Un siffatto
principio si sostanzia nella scelta di un numero base attorno a cui costruire un
sistema di operazioni ricorsive, come accade col nostro sistema decimale: qui il
numero dieci consente di rappresentare qualsivoglia numero della serie facendo
33
Punto questo, come vedremo, tematizzato in maniera netta in Semiotik, laddove si affermerà più
volte la dipendenza dei processi semiotici artificiali da quelli naturali
34
Ivi, pp.265-66. A dire il vero Husserl sostiene anche che i momenti figurali possono condurre ad
affisare entità numeriche determinate, come accade ad esempio nel domino o nel gioco dei dadi:
« Ciascuna delle superfici del dado possiede una configurazione di punti caratteristica, prefissata,
che entra in associazione con il nome esprimente il numero » (ivi, p.298). Va però detto che con
l’aumento degli oggetti di un insieme diviene sempre più difficile operare associazioni così
precise, anche perché in tal maniera aumenterebbero in maniera incontrollata i tipi figurali
differenziabili (ivi, p.299); proprio per questo i momenti figurali non sono affatto sufficienti a
garantire un efficace e completo accesso alla serie dei numeri naturali, cosa che induce Husserl a
rifarsi a un procedimento di tipo completamente diverso, come si vedrà a breve nel testo.
35
Ivi, p.269
25
ricorso per l’appunto a non più di dieci simboli, com’è evidente nell’ordinamento
in unità, decine, centinaia, migliaia e via dicendo. Metodo, o per meglio dire
sistema che è al tempo stesso concettuale e simbolico: concettuale, in quanto
basandosi sui concetti propri dei primissimi numeri naturali riesce ad accedere,
per via di operazioni ricorsive, a tutti gli altri elementi concettuali della medesima
serie; simbolico, in quanto le entità concettuali così ottenute non vengono ricavate
propriamente – ricorrendo cioè alle molteplicità e agli atti di astrazione e
raccoglimento – bensì per via segnica, poiché il metodo per costruire concetti è al
tempo medesimo un metodo per designarli, fondandosi esso stesso su segni
(designati sono anche i concetti propri) e operazioni simboliche36.
Sulla doppia natura di tale sistema è però necessario insistere. Innanzitutto,
va sottolineato come i concetti numerici elementari, fondamentali perché è da essi
che si originano tutti gli altri, sono i numeri rappresentabili propriamente37. In
precedenza Husserl aveva affermato che nessun concetto puo’ esser pensato senza
fondamento in un’intuizione concreta38 e in ciò non fanno eccezione i concetti
simbolici:
questi
infatti
derivano dai
concetti
elementari
rappresentati
propriamente, ovvero da concetti ricavati per astrazione da un’intuizione concreta.
Il metodo summenzionato poi, come dicevamo, è un metodo per la costruzione di
concetti numerici in grado di garantire l’accesso alla serie dei numeri naturali, per
via del parallelismo che vige tra questa serie e il sistema numerico escogitato; ma
cosa legittima a sua volta un siffatto parallelismo? Il fatto che il sistema di
costruzione concettuale, affidandosi in prima istanza a concetti numerici propri
presi come fondamento, riesca a ordinare in maniera sistematica e distinta i
membri da esso generati per via di semplici e ricorsive operazioni aritmetiche, per
cui a ogni numero simbolicamente rappresentato spetterà un preciso posto nella
serie sistematica così come accade a ciascun numero della serie naturale. Non
bisogna infatti dimenticare che quanto qui interessa a Husserl è garantirsi
l’accesso a una siffatta serie; vista l’impossibilità di affisarla nella maniera più
immediata, ovvero per aggiunte successive di un’unità, si deve ricorrere a un
sistema di costruzione concettuale che renda possibile una più facile padronanza
mentale e linguistica dell’ambito numerico39. Ed è qui che emerge ancora una
Cfr. E. Husserl Filosofia dell’aritmetica cit., pp. 272-77; in proposito rimandiamo anche alla
trattazione di Parpan nel suo già più volte citato Zeichen und Bedeutung cit., pp. 23-29
37
Ivi, p.273
38
Ivi, p.121
39
Ivi, p.273
36
26
volta l’importanza decisiva dei simboli. L’accesso alla serie numerica naturale è
vincolato all’utilizzo di segni, tanto che si parla di concetti simbolici che stanno
per i numeri in sé, ovvero per i numeri effettivi a noi generalmente inaccessibili40;
cosa questa che ridimensiona la portata dello psicologismo husserliano, in quanto
i numeri sono entità in sé sussistenti, indipendenti dalla psiche, la cui validità
nulla ha a che fare con i nostri processi psichici e le loro leggi. L’inaccessibilità di
fatto del regno dei numeri in sé fa però sì che i simboli acquistino una rilevanza
notevole, in quanto non si limitano a designare dei contenuti, ma sono parte attiva
nella costituzione di quei concetti che soli rendono per noi sensato parlare di
numeri in sé41:
i segni sensibili qui non si limitano, alla maniera dei segni linguistici, ad
accompagnare semplicemente i concetti. Essi in realtà prendono parte alla costruzione
delle nostre formazioni simboliche in un modo sostanziale42
Qualora non vi fossero i simboli infatti non sarebbe possibile disporre di
concetti per l’appunto simbolici e mancando questi non solo non avremmo
accesso alla serie dei numeri naturali, ma nemmeno avrebbe senso un discorso
sulla loro esistenza in sé: di cosa infatti andremmo a parlare? Non è qui infatti
all’opera un semplice metodo per la designazione che renda più facilmente
affisabili entità in sé, bensì un sistema per la costruzione dei concetti numerici, di
quei concetti cioè che definiscono l’aritmetica e che sono simbolici, in quanto è
solo per via dei segni che è possibile disporre della serie numerica, o meglio di un
valido surrogato di essa. I concetti numerici così costruiti non sono infatti i
numeri, bensì surrogati dei numeri in sé, ma è anche vero che siffatta surrogazione
è permanente e quindi necessaria, tanto che la serie numerica dei numeri cardinali
è per noi pensabile solo come correlato del sistema numerico surrogante, soltanto
così ne abbiamo traccia. Si verifica perciò la singolare situazione per cui non si
parte dall’entità da sostituire al fine di escogitare il sostituto, bensì è a partire da
questo che la prima ha la possibilità di manifestarsi e soltanto come suo correlato.
Potrebbe destar meraviglia il fatto che la matematica non abbia a che fare con
numeri, ma con meri surrogati di essi; lo stupore però scompare nel momento in
40
Ivi, p.305
Cfr. R. Parpan Zeichen und Bedeutung cit., p.25
42
E. Husserl Filosofia dell’aritmetica cit., p. 285
41
27
cui si prende in considerazione la prospettiva da cui essa è riguardata: come è
stato giustamente osservato infatti l’aritmetica non è numeri e verità sui numeri,
bensì corpo di conoscenze sui numeri e sulle verità che li riguardano, ha a che fare
insomma con la maniera tramite cui conosciamo le cose che dobbiamo conoscere
in quanto matematici43. La definizione stessa dell’aritmetica è più che una
conferma di quanto andiamo dicendo: considerarla come una somma di strumenti
artificiali volti a superare i limiti del nostro intelletto vale a mettere in evidenza la
preminenza esclusiva del suo aspetto tecnico, laddove la validità dei contenuti,
degli oggetti da essa conosciuti viene data per presupposta, tanto che ci si occupa
esclusivamente della maniera in cui è possibile appropriarsene. Definire “concetti
simbolici” gli strumenti di cui l’aritmetica si serve manifesta certamente la
confusione tra rappresentazioni e concetti tipica di questa fase, su cui peraltro ci
siamo già soffermati; ma serve a Husserl per denotare come la matematica non
abbia a che fare con mere designazioni, non cada nel nominalismo, in quanto le
sue entità hanno un preciso significato, sono per l’appunto concetti che formano
un ordine seriale preciso e non casuale, perché fondato sulla natura di quei
concetti medesimi44:
l’essenza della formazione numerica sistematica consiste nel fatto di poter
costruire, per mezzo di pochi concetti e poche proposizioni elementari (formule
numeriche e regole operative), tutti gli altri concetti numerici45
L’aritmetica si muove perciò in una dimensione simbolico-concettuale, in
quanto è per via di concetti simbolici che possiamo appropriarci delle entità
matematiche, o perlomeno di una loro larga parte. I limiti delle nostre facoltà
intellettive ci impediscono, come s’è visto, di accedere direttamente all’intera
serie numerica e a ciascuno dei suoi membri; al fine di guadagnarne l’accesso non
resta che percorrere la via simbolica, sì che
Se da una parte tutte le formazioni numeriche risultano ora essere conseguenze
sistematicamente rigorose dei concetti elementari, al pari delle loro forme di
collegamento e di conversione, anche dall’altra parte le formazioni segniche parallele
43
D. Willard Logic and the Objectivity of Knowledge cit., p.122
E. Husserl Filosofia dell’aritmetica cit., p.219
45
Ivi, p.282
44
28
devono essere conseguenze sistematicamente rigorose dei segni elementari, al pari delle
loro forma di collegamento e conversione46
Come si vede è all’opera un doppio parallelismo. Il primo è quello tra la
serie sistematica dei concetti simbolici e la serie dei numeri naturali; dove però i
due membri non si presentano come binari che scorrono l’uno accanto all’altro, in
quanto è solo per via di uno di essi che l’altro puo’ esser scorto come procedente
in parallelo, poiché solo e soltanto come correlato dei concetti simbolici è
possibile parlare di “numeri in sé” e dunque istituire il parallelismo. Il secondo
riguarda invece i concetti costruiti sistematicamente e i segni con cui si
manifestano. Naturalmente si tratta di parallelismi che possono e devono esser
riuniti in uno, poiché
a ogni numero naturale corrisponde un numero del sistema interamente
determinato (a esso uguale) e a questo, dal canto suo, corrisponde una designazione
interamente determinata, che rispecchia la sua modalità di formazione47
Soffermandoci sulla seconda parte di un siffatto parallelismo, va notato
come sarebbe inopportuno limitarsi a parlare di un semplice designazione. I
simboli sono in verità essenziali, decisivi, poiché è solo per loro mezzo che
avviene la costruzione concettuale, non si tratta qui di meri mezzi di designazione,
ma semmai di materiali da costruzione, se le entità costruite sono per l’appunto
“concetti simbolici”. Con questo non si vuol negare al segno la sua funzione
caratterizzante, quella cioè designante, bensì porla nella sua giusta luce: qui infatti
il segno designa ciò che contribuisce a costituire, ovvero il concetto, che a sua
volta sta per un’entità indisponibile, secondo una dinamica che in Semiotik
definirà una particolare tipologia semiotica, il segno indiretto, come avremo modo
di vedere.
Giunti a questo punto è utile spendere qualche parola sulla peculiarità
dell’impostazione husserliana in questa fase, partendo proprio dalla problematica
espressione “concetto simbolico”. A tutta prima, sembrerebbe trattarsi di un modo
di esprimersi inappropriato, laddove sarebbe stato più opportuno parlare di
rappresentazione impropria di un concetto, come peraltro lo stesso Husserl aveva
46
47
Ivi, p.283
Ivi, p.277
29
fatto introducendo il rappresentare simbolico48. Ma la situazione è del tutto
diversa, in quanto il concetto non viene qui rappresentato per mezzo di simboli,
come avviene ad esempio nel caso del “rosso” con la sua definizione49, ma
costruito per loro mezzo. Noi disponiamo infatti, in senso “proprio”, soltanto di
pochi concetti numerici elementari così come delle relazioni e operazioni che li
riguardano, e questo ci basta soltanto per capire la loro disposizione in serie, ma
non per coglierla nella sua totalità, vista l’indisponibilità della maggior parte dei
suoi membri; non rimane allora che servirsi di un procedimento “improprio”,
indiretto, simbolico, che costruisca entità in grado di supplire alla mancanza dei
numeri in sé, dei concetti numerici propri. Siffatte entità non potranno che essere
concetti simbolici, perché è da concetti e operazioni su di essi che vengono
derivati, e si presenteranno come surrogati, o per meglio dire succedanei di quanto
rifugge a una manifestazione propria. Sono questi allora gli strumenti artificiali di
cui l’aritmetica si serve per ovviare ai limiti del nostro intelletto e per estendere la
nostra conoscenza, soltanto infatti per via di concetti simbolici è possibile per noi
avere un’adeguata conoscenza della serie numerica naturale, dell’ordine dei suoi
membri e delle loro vicendevoli relazioni, anche perché è solo come correlati di
siffatti concetti, o per meglio dire segni concettuali, che è possibile per noi parlare
sensatamente di numeri in sé. L’interesse pressoché esclusivo di Husserl per
l’aspetto tecnico della scienza, rivolto alla qualità delle sue prestazioni
conoscitive, alla sua capacità di estendere la conoscenza, lo induce a porre in
secondo piano quanto concerne l’oggetto conosciuto, per cui ciò che importa ad
esempio nella matematica è comprendere come sia possibile per noi sapere quel
che sappiamo a proposito dei numeri, della loro serie e delle loro relazioni. Il
regno dei numeri in sé non è fatto oggetto di una tematizzazione che ne giustifichi
e spieghi la natura, il che avrebbe condotto a rilevare la presenza di una
dimensione centrale nella riflessione successiva, quella cioè ideale; a tal fine
sarebbe bastato riflettere un po’ di più sulla circostanza per cui diversi sistemi
numerici a carattere simbolico posso condurre tutti alla serie numerica naturale, a
seconda di quale sia il numero di base scelto (dieci, ma anche cinque, o venti
ecc.). Non che queste riflessioni siano assenti nell’opera husserliana50, ma ancora
non se ne traggono le debite conclusioni, nella fattispecie non si vede la natura
48
Ivi, p.235-36
Ivi, p.236
50
Ad esempio l’intero § 6 del capitolo 12° della Filosofia dell’aritmetica (ivi, pp.279-81)
49
30
dell’ideale come il permanente identico, ovvero come ciò che rimane identico pur
nella molteplicità delle sue manifestazioni fattuali. La mancata messa a fuoco
della dimensione ideale rimonta all’impostazione psicologista di questa fase, con
la sua attenzione indirizzata agli atti e non ai loro oggetti e l’interesse
esclusivamente rivolto alle nostre capacità conoscitive piuttosto che alla natura
oggetti conosciuti. Nel momento in cui il discorso si sposterà su questi e la
dimensione ideale farà la sua comparsa anche il versante soggettivo della
conoscenza subirà un notevole mutamento: prima ancora di qualsiasi teoria della
conoscenza infatti si dovrà accertare la maniera in cui siffatte entità ideali si
offrono, sono date nell’evidenza, in modo del tutto chiaro e distinto, ovvero come
sostrati di predicazioni valide, perché il darsi di siffatte entità precede ogni teoria
gnoseologica51. Solo da qui si potrà poi porre la questione degli atti effettivamente
coinvolti, solo perché la dimensione ideale si manifesta in maniera evidente è
possibile spostare il discorso sui vissuti in cui tale fenomenizzazione avviene e
giungere così al rivoluzionario concetto di “intuizione categoriale”. Non si parlerà
allora più di “concetti simbolici”, ma di “rappresentazioni simboliche di concetti”
o meglio ancora di “intenzioni signitive”: non si tratterà più di sostituire per
mezzo di segni entità indisponibili, bensì di intenderle per loro tramite, per poi,
sulla base di questo intendimento, giungere alla loro intuizione e quindi alla loro
conoscenza. Tutto questo è reso possibile dal rilevamento dell’idealità come
qualcosa di effettivamente dato, per l’appunto come sostrato di predicazioni
valide, che induce a considerare l’intuizione non soltanto sensibile, bensì anche
categoriale: se infatti la datità di enti empirici si spiega a partire dal primo tipo di
intuizione, l’altrettanto manifesta datità delle entità categoriali rimanda per
l’appunto al secondo, nella maniera che vedremo descritta nella Sesta ricerca. In
tal maniera i cosiddetti “concetti simbolici” della Filosofia dell’aritmetica
andrebbero derubricati a segni significativi che intendono certe specie ideali,
intenzioni che possono venir riempite dalla corrispondente intuizione categoriale.
Nel momento in cui la dimensione ideale e, corrispondentemente, la prospettiva
fenomenologica faranno la loro comparsa il segno subirà un ridimensionamento in
quanto al suo ruolo, manifestato dal diverso tipo di funzione che andrà in
prevalenza a svolgere. La sua centralità verrà infatti meno quando cesserà di venir
considerato in prevalenza come surrogato di concetti indisponibili, divenendo così
51
E. Husserl Abbozzo di una prefazione alle “Ricerche logiche” cit., p. 204
31
strumento necessario per ampliare la nostra conoscenza: a quel punto non
parteciperà attivamente alla costruzione di concetti, ma si limiterà a intenderli per
via del suo significato, non sarà più strumento conoscitivo, in quanto solo il
possesso dell’oggetto garantisce la conoscenza e non qualcosa che sta per esso,
che si limita a intenderlo. Laddove in altri termini la conoscenza si rivelerà
esclusivamente di natura intuitiva, il segno non sarà più al centro dell’attenzione,
pur rivelandosi comunque essenziale, come vedremo occupandoci delle Ricerche
logiche.
Le riflessioni si qui condotte non possono però affatto esser considerate
sufficienti. Finora infatti il segno è stato riguardato soltanto a partire dal suo ruolo
in una determinata disciplina, l’aritmetica, dove è emersa sì la sua centralità, ma
in maniera per l’appunto soltanto circoscritta. Una limitazione che inoltre ha
impedito di occuparsi di tematiche fondamentali in ambito semiotico, come ad
esempio la stessa definizione di segno e il suo rapporto con il significato. È
necessario perciò integrare quanto sinora detto e ampliare la nostra prospettiva in
senso più generalmente semiotico, affrontando la questione del segno
direttamente, cosa che ci permetterà di comprendere appieno questioni già emerse,
come l’importanza della surrogazione e la natura simbolica dei nostri processi
psichici, la naturalità della simbolizzazione. Problematiche queste che ci
conducono a spostare il centro del nostro interesse dalla Filosofia dell’aritmetica a
Semiotica
§ 1.4 – Il segno in “Semiotica”
Nella Filosofia dell’aritmetica, come abbiamo appena terminato di vedere,
viene dato un enorme peso ai segni, alle rappresentazioni improprie, tanto che un
autentico discorso sulla matematica comincia soltanto laddove interviene e perché
interviene la componente simbolica52. Reca allora stupore che non vi sia una
esplicita definizione di cosa sia da intendersi per segno. È forse anche questo, si
potrebbe pensare, uno di quei concetti primitivi alla cui comprensione giova
soltanto l’analisi psicologico-genetica della loro origine per la coscienza? Niente
52
A proposito delle questioni summenzionate, Giovanni Piana indica come livello propriamente
aritmetico il piano delle rappresentazioni indirette del numero, il metodo segnico notazionale per
la designazione dei concetti numerici, laddove le trattazioni della prima parte dell’opera, dedicate
alla genesi del numero in senso proprio dal concetto di molteplicità, vanno piuttosto ascritte a un
livello pre-aritmetico. Cfr. G. Piana Elementi di una dottrina dell’esperienza, Il Saggiatore, Milano
1979, pp. 192-93
32
di tutto questo. Anche perché, pur in mancanza di un’autentica espressione
definitoria, è comunque possibile ricavare dei tratti caratterizzanti a proposito dei
simboli. Si parla infatti di rappresentazioni improprie, tali in quanto presentano
contenuti in maniera indiretta sostituendo, temporaneamente o permanentemente,
le corrispettive rappresentazioni effettive53. Si potrebbe perciò concludere che
simbolo sia tutto ciò che è atto sostituire un contenuto non presente o non
presentabile in senso proprio, facendo di qualsiasi segno un surrogato e
identificandolo così con la rappresentazione impropria. Prospettiva questa che è
senz’altro prevalente, se non addirittura esclusiva nella Filosofia dell’aritmetica,
ma che non vale affatto a definire il segno. Benché infatti una rappresentazione
impropria sia tale in quanto indiretta, presentante cioè un contenuto per via di
segni, benché quindi si tratti qui di un rappresentare simbolico, non si possono
però
ricondurre
i
segni
all’ambito
circoscritto
da
questo
genere
di
rappresentazioni, o identificarveli tout court, valendo piuttosto l’alternativa
rimanente, per cui sono piuttosto le rappresentazioni improprie a dover esser
ricondotte al dominio del segno. Acquisizione essenziale, poiché nel ricavare la
fisionomia del simbolo aritmetico all’interno dell’ambito semiotico non identifica
questo con quello, sì che la funzione caratteristica della rappresentazione
impropria non esaurirà il concetto, comunque funzionale, di segno; acquisizione
però non esplicitata nella Filosofia dell’aritmetica, poiché già guadagnata in
Semiotik54, testo che si presenta come un’appendice di quest’opera.
Proprio qui è dato vedere come sia azzardato e approssimativo far
discendere il segno dalla rappresentazione impropria o anche solo identificarli, in
quanto quest’ultima è solo uno dei tipi semiotici ivi descritti; qualora si obliterasse
siffatta distinzione, verrebbe inoltre adulterata la caratterizzazione del segno che si
dà in quest’opera, caratterizzazione che varrà, proprio per la sua genericità, per
tutte le trattazioni successive, sì da svelare uno dei principali momenti di
continuità nella semiotica husserliana. Già agli esordi infatti il segno è
caratterizzato come un concetto di relazione, in virtù cioè del rimando che esso fa
al designato, rinvio che vien inteso - come il segno medesimo che ne dipende nella massima generalità, sì da raccogliere nel suo novero indeterminato le più
E. Husserl Filosofia dell’aritmetica cit., p.235
« Ogni rappresentazione impropria è certamente un segno, ma, viceversa, non ogni segno è una
rappresentazione impropria » E. Husserl Semiotica, Spirali, Milano 1984, p. 71
53
54
33
svariate tipologie semiotiche55. Ciò che conta è che il segno consenta di
riconoscere il designato a partire da sé, che si giunga cioè a questo proprio perché
è stato il segno a mediarne il riconoscimento, e quindi non in virtù di una cieca
associazione56; solo così infatti, soltanto qualora si avverta che proprio quel
contenuto ci ha condotto all’altro, quest’ultimo puo’ dirsi de-signato, puo’ esservi
perciò una relazione segnica. Ma a ben vedere v’è un altro punto che rende
perlomeno problematico identificare segni e rappresentazioni improprie ed è la
maniera in cui si parla di queste ultime nella Filosofia dell’aritmetica: non si dice
infatti che le rappresentazioni improprie sono segni, bensì che fanno uso di
questi57. Questo però per quanto attiene all’opera d’esordio, perché in Semiotica si
afferma quanto segue:
ogni segno (semplice o composto, esteriore o concettuale, ecc.), che funge da
sostituto della cosa designata, è una rappresentazione impropria58
Non v’è allora una contraddizione, o perlomeno una discrasia in questi due
differenti eppur coevi luoghi della riflessioni husserliana? In primo luogo va
ribadita la non sempre attenta vigilanza terminologica che caratterizza le opere di
questa fase, punto che ci aiuta a dirimere la questione. A tal fine va detto che nelle
battute iniziali di Semiotica viene ripresa l’opposizione tra rappresentazioni
proprie e improprie, in maniera molto simile a quanto avveniva nella Filosofia
dell’aritmetica,
con
un’aggiunta
però
particolarmente
significativa:
la
rappresentazione simbolica è tale in quanto ci serve come simbolo per un’altra
rappresentazione59. A nostro avviso proprio questa aggiunta aiuta a risolvere il
dilemma. Quando Husserl parla di una rappresentazione che ci fornisce un
contenuto per via di simboli pone l’accento sull’atto rappresentativo, che si serve
per l’appunto di ciò che rappresenta come simbolo; questo contenuto dell’atto
rappresentativo, ovvero la rappresentazione, è perciò segno e proprio in
rispondenza alla genericità con cui in quest’opera esso è inteso: le
rappresentazioni improprie sono quindi da considerarsi segni in quanto costituite
55
« Il concetto di segno è precisamente un concetto di relazione e rinvia a un designato »; Ivi, p.
62
56
Ibid.
57
E. Husserl Filosofia dell’aritmetica cit., p.235
58
E. Husserl Semiotica cit., p.72
59
Ivi, p.61
34
da una peculiare relazione a un oggetto designato, la relazione surrogante 60. Sotto
questo profilo il segno è perciò una rappresentazione propria che rinvia a un’altra
rappresentazione, qualunque sia poi la maniera in cui un tale rinvio concretamente
si manifesti; come è stato giustamente osservato, il segno non è affatto un
predicato reale, in quanto qualsiasi contenuto di coscienza puo’ divenire segno in
virtù di una prestazione psichica, quella che istituisce la relazione61. Di qui allora
va ricavato il concetto di segno, ovvero ciò che costituisce il tratto distintivo a cui
un’entità deve conformarsi al fine di poter divenire un simbolo, un tratto che
consiste per l’appunto nel rinvio al designato e che fa sì che il concetto di segno
sia un concetto di relazione. Com’è ovvio, siffatta caratterizzazione definisce
genericamente qualsiasi tipologia segnica, ivi comprese le rappresentazioni
improprie, in quanto ciò che conta è l’attuarsi di un rinvio a partire dal segno
verso il designato, la relazione fra questo e quello, in qualunque modo rinvio e
relazione si concretizzino.
Da quanto sin qui visto, la concrezione fondamentale appare essere quella
surrogante e questo non soltanto per quel che concerne l’aritmetica; ma come
accennavamo già in precedenza non si tratta della maniera esclusiva in cui rinvio e
relazione possono manifestarsi, ve ne sono in verità delle altre, esplicitate da
Husserl in una delle rare classificazioni semiotiche presenti nei suoi scritti, quella
appunto di Semiotica. È necessario allora occuparsene, non soltanto ai fini della
completezza che il nostro tema giustamente richiede, ma anche perché soltanto
dalla sua analisi è possibile comprendere l’esatta fisionomia delle rappresentazioni
improprie, mercé i requisiti necessari alla loro costituzione; del resto, come
vedremo, una siffatta classificazione appare indirizzata proprio alla messa in luce
di questa fondamentale tipologia semiotica.
§ 1.5 – La classificazione di “Semiotica”
La classificazione semiotica qui in esame distingue diverse tipologie
raccogliendole in coppie di opposizioni, rilevate a partire dalle modalità in cui si
articola il rapporto con il designato. La prima fra queste è quella tra segni esteriori
60
Anche Parpan avverte la difficoltà che abbiamo segnalato, pur limitandosi a dirimere la
questione parlando di un senso traslato del termine “segno” riguardo alle rappresentazioni
improprie; cfr. R. Parpan Zeichen und Bedeutung, cit., p.438 (nota 3)
61
D. Münch Intention und Zeichen cit., p.116
35
e concettuali62, dove i primi designano l’oggetto estrinsecamente, senza cioè aver
nulla a che fare con il suo concetto, mentre i secondi, in quanto elementi distintivi,
o per meglio dire contrassegni, rimandano all’oggetto in quanto sue
caratterizzazioni
–
nell’esempio
husserliano,
le
qualità
caratteristiche
dell’alluminio possono servire come suoi contrassegni, consentendo di
riconoscere in un corpo sconosciuto un corpo per l’appunto di alluminio63. Questa
prima suddivisione consente innanzitutto di comprendere meglio quella sorta di
generica definizione del segno approntata poco righe prima nel testo, per cui
segno di una cosa (di un contenuto in generale) puo’ dunque essere tutto ciò che
la caratterizza, che è adatto a distinguerla dalle altre e in base alla quale, in seguito, ci è
possibile riconoscerla64
Quanto qui detto sembrerebbe infatti restringere il concetto di segno ai
Merkmale, in virtù soprattutto dell’accento posto sulla funzione caratterizzante,
necessaria all’istituirsi del segno, sì che il passaggio al designato si motiverebbe
cum fundamento in re. L’introduzione però dei segni esteriori, per l’appunto non
caratterizzanti, ridimensiona una siffatta restrizione e consente di intendere più
adeguatamente le righe or ora citate: a caratterizzare un contenuto puo’ esser
infatti non soltanto un suo tratto distintivo, bensì anche qualcosa di estrinseco, che
nulla abbia a che fare con le caratteristiche di quel contenuto, a patto che sia in
grado, per via di un uso costante e univoco, di rinviare sempre e soltanto a quel
contenuto, proprio come accade con i segni esteriori65. Le funzioni menzionate
nella citazione su riportata valgono allora a indicare i requisiti necessari affinché
un’entità possa svolgere adeguatamente una funzione segnica, laddove invece
questa si definisce a partire dal concetto di relazione, in cui il discrimine va
riscontrato appunto nella genericità del rapporto rinviante al designato66.
62
E. Husserl Semiotica cit., pp. 62-63
Ivi, p. 62
64
Ibid.
65
In tal senso possiamo convenire con quanto in proposito afferma Dieter Münch, nel suo già
citato testo. Egli ritiene infatti che il Merkmal (elemento distintivo) sia il segno prototipico per la
riflessione husserliana qui in esame, tanto da affermare l’equivalenza tra esso e il concetto
generale di Zeichen, affrettandosi a precisare come però con “Merkmal” non sia affatto da
intendersi “Beschaffenheit überhaupt”, cosa che escluderebbe dal novero semiotico i segni
esteriori (D. Münch Intention und Zeichen cit. p. 116).
66
Sotto questo aspetto la nostra posizione si distanzia invece da quella di Münch, che vede le
funzioni fondamentali del segno proprio nel “distinguere” e nel “(far)riconoscere”. Del resto, gli
stessi Merkmale sono tali e quindi segni proprio in virtù di siffatto rapporto e della peculiare
63
36
L’insistenza su quelle funzioni si motiva allora a partire dalla prospettiva
husserliana in questa fase, dove l’accento è posto sulla psiche, sulla sua natura e i
suoi limiti, in cui peraltro le questioni semiotiche trovano la loro scaturigine:
queste perciò non sono esaurite da analisi concernenti il concetto di segno e
quanto vi ruota attorno; altrettanto peso viene dato infatti agli aspetti empirici,
pragmatici della questione, alla maniera in cui per l’appunto è possibile per la
nostra psiche far uso dei simboli, aspetti che fanno ancor più risaltare il ruolo di
primo piano assegnato in questa fase ai segni e che ritroveremo presenti in altri
luoghi delle nostre analisi. Altro punto di un certo interesse risiede nella
caratterizzazione dei segni esteriori come segni in senso stretto. Con questa
dicitura Husserl, oltre a richiamare indirettamente l’ampiezza con cui è qui inteso
il termine segno, sembra concedere una maggiore pregnanza a quei segni che
nulla hanno in comune con quanto designano, tanto che proprio questi sono i
protagonisti nell’ambito aritmetico così come in quello logico, se non addirittura
dell’intero campo semiotico, come vedremo nel prosieguo delle nostre analisi.
Scorrendo il testo si incontrano le opposizioni fra segni univoci e plurivoci
e tra segni semplici e composti. Emerge qui il tema dell’univocità del segno, la cui
importanza sarà costante in tutta la semiotica husserliana e che in questa fase vale
soprattutto a caratterizzare le rappresentazioni improprie, come si vedrà di seguito
nel testo e come peraltro era già emerso nella Filosofia dell’aritmetica, dove
appunto si manifestava come condizione di possibilità delle rappresentazioni
simboliche67.
Maggiore interesse rivestono invece due altre opposizioni, quella fra segni
diretti e indiretti e tra segni identici ed equivalenti. La prima distingue fra segni
che designano direttamente il loro oggetto – come i nomi propri – e gli altri invece
che ricorrono a mediazioni per giungervi. Mediazioni che consistono in ulteriori
segni appartenenti ovviamente alle altre tipologie, siano essi esteriori, come
maniera in cui lo rendono possibile, come evidenziato nelle righe immediatamente precedenti da
Husserl medesimo « Perché il concetto di segno sia possibile…si deve osservare in modo
particolare il rapporto tra segno e designato: e in effetti abbiamo sperimentato infinite volte che gli
elementi distintivi sensibili-esterni e concettuali sono adatti a volgere i nostri pensieri ai contenuti
che li possiedono » (E. Husserl Semiotica cit., p. 62) La posizione husserliana è perciò
specificamente semiotica, vista la primarietà assegnata alla funzione rinviante nella costituzione
del segno, diversamente da Silvestri che esprime invece dubbi in proposito (F. Silvestri Segni
significati intuizioni cit., pp.41-42).
67
« Se un contenuto non ci viene dato direttamente per quello che è, ma solo in maniera indiretta
attraverso dei segni che lo caratterizzano in modo univoco, allora di esso, anziché avere una
rappresentazione propria, si ha una rappresentazione simbolica »; E. Husserl Filosofia
del’aritmetica cit., p.235
37
accade ad esempio per la matematica con lo sviluppo in cifre delle sue operazioni
algoritmiche, o concettuali, come nel caso dei nomi comuni, in cui il segno
designa per l’appunto un contrassegno, un elemento distintivo dell’oggetto, che
funge quindi da mediatore con il designato68. Nella trattazione dei segni indiretti
emerge poi una distinzione di notevole importanza per gli sviluppi successivi,
quella cioè fra ciò che il segno significa e quanto invece esso designa, dove il
significato risiede per l’appunto nelle mediazioni con cui ci si riferisce al
designato69. Compare, per la prima volta, il concetto di significato di un segno,
che tanta parte avrà nelle Ricerche logiche, ma che qui occupa una posizione
marginale. Al fine di comprendere questo, è necessario introdurre la successiva
opposizione, quella fra segni identici ed equivalenti. Il discrimine che la
costituisce risiede nel modo in cui ci si riferisce a qualcosa, che sarà identico nel
caso dei primi e diverso per i secondi. La differenza, si potrebbe concludere sulla
scorta di quanto osservato nella precedente opposizione, è allora tra segni che
hanno e non hanno il medesimo significato, come è avvenuto nella letteratura
critica dedicata al tema70. Tuttavia bisogna fare attenzione a non cadere in una
facile equivocazione, sovrapponendo gli esiti delle Ricerche logiche alle
conclusioni qui raggiunte in merito ai segni e all’identità o meno del loro
significato. Husserl infatti ammette tra i segni identici le mere ripetizioni ad es. di
un morfema, ma non le parole con cui ciascuna lingua si riferisce al medesimo
oggetto. Lemmi come “re” e rex”, identici qualora si ponesse rilievo solo sul
significato, sono invece equivalenti, in quanto la distinzione non verte soltanto su
di esso, ma anche sull’aspetto esteriore del designante, ovvero sui mezzi tramite
cui avviene la designazione; questo perché, come precisa Husserl, la differenza
nel modo del riferimento è sancita non soltanto dai mezzi concettuali, ma anche
da quelli esteriori, per cui segni esteriori diversi con lo stesso significato sono da
considerarsi equivalenti, valendo nella loro diversità esteriore, sensibile, per lo
stesso oggetto71. Emerge da qui, a nostro avviso, la lateralità della questione del
significato, soprattutto a fronte delle opere successive, in cui la modalità del
68
E. Husserl Semiotica, pp. 64-65. Si veda anche la seguente descrizione del funzionamento dei
nomi comuni: « Ogni nome comune è un segno per una rappresentazione generale, e questa è a sua
volta un segno per ciascuno degli oggetti che rientrano nel concetto astratto corrispondente », ivi,
p.61
69
Ivi, p. 64. Mediazioni che del resto qui rientrano nel novero degli elementi distintivi concettuali,
a loro volta segni, in senso lato come s’è visto, che designano direttamente l’oggetto.
70
Cfr. D. Münch Intention und Zeichen, cit. p. 120 e la Nota di Carmine Di Martino all’edizione
italiana di Semiotik in E. Husserl Semiotica cit., p. 57
71
E. Husserl Semiotica cit. p. 65
38
riferimento verrà trattata per l’appunto in termini esclusivamente semantici, dando
scarso peso alle differenze fisiche tra entità segniche ai fini della designazione; in
questi testi invece, dove l’accento è posto più sulla mera designazione che sulla
semantica, meglio ancora più sul segno che sul significato, l’aspetto esteriore del
segno ha la sua rilevanza, in quanto anche designare l’oggetto con questa o
quell’entità segnica comporta una differenza nel riferimento, per il banalissimo
motivo che l’una è fisicamente diversa dall’altra72. Ne deriva allora che la
funzione caratterizzante in via esclusiva il segno è qui il designare, non il
significare; e anche laddove si distingue fra di esse nel novero di una medesima
tipologia, come s’è visto sopra con i segni indiretti, il significare vien comunque
ricondotto alla designazione, allo “stare per”, in quanto gli elementi distintivi che
lo costituiscono sono anch’essi segni73, che non solo designano direttamente ma
sono direttamente designati, tant’è che il significato di un segno (indiretto) sta
proprio in un altro segno, esteriore o concettuale, cui si riferisce come mezzo per
giungere all’oggetto designato74. Laddove invece non vi siano mediazioni,
significare e designazione coincidono, come avviene nei nomi propri, per i quali il
primo sta appunto nel denominare un oggetto determinato75. Il significare di un
segno allora consiste sempre nel designare, o meglio nello stare - direttamente -
72
Le differenze terminologiche fra opere diverse sono in questo caso particolarmente illuminanti.
Nelle Ricerche logiche, quando si parla dei segni qui in oggetto, esemplificati anche qui con le
parole reciprocamente corrispondenti in lingue diverse (es. “due”, “deux”), si usa l’aggettivo
“tautologico”, a sottolineare il fatto che si tratta di segni che dicono appunto la stessa cosa, che
hanno cioè il medesimo significato (E. Husserl Logische Untersuchungen, Halle, 1900-1901, trad.
it. Ricerche logiche, NET, Milano 1968, Vol. I, p. 313); in Semiotica invece, come s’è visto, si
parla di “equivalenza”, a riprova di come non sia il significato a ricoprire il ruolo centrale, bensì il
designato. A ciò si aggiunga che nelle Ricerche, come s’è già accennato, la designazione è vista da
un profilo squisitamente semantico, per cui a distinguere tra modalità diverse di riferimento sarà
soltanto il significato e non più anche, per dirla con Saussure, il significante. La preminenza del
segno si mostra qui in maniera particolarmente evidente: difatti anche il suo aspetto sensibile
diviene essenziale per la trattazione. Un punto, questo, che emergerà con maggiore chiarezza e
pregnanza nel corso di questo capitolo, quando parleremo dei segni surroganti.
73
« Segni e cosa possono essere cioè collegati direttamente o indirettamente con la mediazione di
altri segni » E. Husserl Semiotica cit., p. 64
74
Che gli elementi distintivi possano costituire, pur anche come segni, il significato, è cosa
facilmente accettabile, in quanto appunto si tratta di segni concettuali, nei quali si manifesta una
determinazione concettuale dell’oggetto; l’ambito linguistico è in tal caso esemplare, basti pensare
al nome comune: questo infatti designa un qualsiasi oggetto per mezzo di certi suoi elementi
distintivi concettuali (ivi, p. 65; cfr. anche p.61). Diverso è il caso dei segni esteriori, poiché qui è
difficile poter pensare che entità che nulla hanno a che fare col designato possano fungere da
significato; ma se si pensa alle catene segniche meramente formali - che tanto spazio hanno in
questo periodo, basti pensare alle procedure algoritmiche della matematica - l’impasse non appare
insuperabile: « Il segno Z ha il significato di designare direttamente Z1, questo designa
direttamente Z2 ecc. e finalmente Zn designa direttamente
G »(ivi pp. 64-65).
75
Ivi, p. 64
39
per qualcosa76, sia il segno diretto o indiretto: nel primo caso infatti il segno sta
per un oggetto che è al tempo medesimo significato e designato; nel secondo
invece esso sta direttamente per qualcosa che ne costituisce appunto il significato,
qui però distinto dal designato in quanto mediazione deputata a condurvi e in tal
senso segno (concettuale). A ulteriore riprova v’è quanto Husserl afferma a
proposito delle definizioni, qui circoscritte all’ambito logico-formale e ricondotte
a casi particolari di equivalenze segniche, in cui il significato di un segno esteriore
è espresso da un segno per l’appunto equivalente: nelle definizioni infatti il lato
sinistro dell’eguaglianza è per l’appunto definito da uno o più segni del lato
destro, che si riferiscono al medesimo oggetto in maniera diversa77. Perciò si tratta
di segni equivalenti, in quanto designano la medesima entità, ovvero qui il
medesimo concetto, in maniera diversa78; il fatto poi che le definizioni di una
logica formale vengano ricondotte a equivalenze segniche lascia già intravedere il
ruolo decisivo dei simboli in rapporto a essa. La preminenza assegnata alla
76
Ci sembra infatti che qui la designazione coincida con lo stare per, in quanto non si designa
qualcosa intendendolo in una certa maniera, come avverrà nelle opere successive. Utili riscontri in
proposito, ben più espliciti che in Semiotica, si trovano in un testo coevo, appartenente cioè
anch’esso alla fase cosiddetta pre-fenomenologica: si tratta del manoscritto K 1 55, tradotto in
italiano nella raccolta Logica, psicologia e fenomenologia, Il Melangolo, Genova 1999, pp. 41-57.
Qui il segno viene definito « un contenuto che esercita la funzione particolare di volgere
primariamente il nostro rappresentare verso qualcosa d’altro » (ivi, p. 41); dove però il designato
non sia presente « il segno esercita per lo più l’importante funzione di procurarlo psichicamente, o
almeno di procurare un sostituto che soddisfi il più possibile il nostro interesse del momento »(ivi.
p.42). La designazione si mostra qui come lo stare del segno per qualcos’altro, in specie laddove il
designato non sia disponibile, sì che Husserl puo’ affermare che non si possono contrapporre le
rappresentazioni per mezzo dei segni con le intuizioni, in quanto « non è usuale chiamare il
designato un qualcosa rappresentato mediante segni » (Ibid.), appunto perché qui con il segno non
s’intende qualcosa, bensì esso sta per il designato.
77
A completamento di quanto detto è necessario richiamare un passo della Filosofia
dell’aritmetica, dove Husserl afferma che solo di ciò che è logicamente composto puo’ darsi
definizione, sì che l’attività definitoria ha fine laddove ci si trova di fronte a un concetto ultimo,
elementare (E. Husserl Filosofia dell’aritmetica cit., pp. 162-63). Si comprende perciò
maggiormente ciò che egli stesso dice in Semiotica, parlando di segni definibili e indefinibili (E.
Husserl Semiotica cit., p. 65): valendo qui l’identificazione del significato con il concetto si potrà
dare definizione di un segno soltanto laddove il suo significato consista in un concetto non
elementare, come è il caso di una specie, a differenza del concetto rappresentato dal segno “1”.
78
Come afferma Husserl si tratta di un caso particolare di equivalenza, poiché qui il designato non
è un oggetto, come nei casi per così dire ordinari, ma un concetto. Nelle definizioni dei segni, o
meglio dei concetti per cui essi stanno, si prescinde dalla funzione mediatrice che il concetto
stesso, ovvero il significato, compie, ovvero quella funzione che ad esempio nel nome generale
consente al segno indiretto, tramite la rappresentazione generale, di riferirsi a tutte le entità che
costituiscono l’estensione di questa. Qui infatti l’interesse non è rivolto agli oggetti designati
tramite il significato (concetto generale), bensì su questo medesimo, per cui il nome generale
diviene qui un segno diretto, perché designa direttamente il proprio oggetto, che è qui il suo
significato, il concetto.
40
designazione, a cui vien ricondotta la significazione79, si spiega a partire dallo
scarso peso che nella semiotica husserliana qui in esame vien dato ai segni
linguistici, a tutto vantaggio dei simbolismi logico e aritmetico, che non
esprimono un significato o, in termini qui più consoni, un concetto80, in quanto
deputati piuttosto a sostituirlo, come avremo largamente modo di vedere con le
rappresentazioni improprie.
Sulla scorta di queste riflessioni è inoltre possibile gettar luce sui segni
numerici, ovvero sui concetti simbolici che in precedenza definimmo,
anticipando, segni indiretti. La loro dinamica costituiva rimanda infatti a questa
tipologia: un segno esteriore, ovvero la cifra, designa qui un concetto che a sua
volta rimanda a un contenuto indisponibile. Quel concetto in verità è un segno
concettuale, in quanto per l’appunto si riferisce al contenuto designato perché suo
elemento distintivo, per via cioè della posizione occupata nella serie sistematica
parallela a quella naturale81. Del resto è lo stesso Husserl a sottolineare il ruolo
Il significato è ciò per cui il segno direttamente sta, il che non va contro l’idea che si tratti di un
concetto, in quanto nel caso dei segni indiretti coincide appunto con l’elemento concettuale cui il
segno direttamente si riferisce.
80
Che il significato di un segno aritmetico sia un concetto è ripetutamente asserito da Husserl nella
sua Filosofia dell’aritmetica, ad esempio nell’Appendice alla prima parte dell’opera, dedicata a un
confronto critico con il nominalismo (E. Husserl Filosofia dell’aritmetica cit., pp. 213-220). Per
una maggiore chiarificazione su cosa poi qui s’intenda per concetto, rimandiamo alla p. 171 di
quest’opera. Nel suo notevolissimo scritto sulla semiotica husserliana Parpan afferma che il segno
non puo’ prescindere dal significato per esser tale, ovvero per esplicitare la sua costitutiva
funzione designante, poiché è soltanto per via di una tale mediazione che un segno puo’ riferirsi, a
prescindere dalle diverse circostanze del suo impiego, al designato. Anche qualora il segno stia
non per un oggetto, ma per un concetto – come nel caso dei simboli numerici – v’è comunque una
necessaria funzione semantica: qui però, naturalmente, il significato del segno non sarà più il
concetto, bensì consisterà nella posizione che il segno occupa nel sistema semiotico di riferimento
(Stellungsbedeutung), rigidamente determinata dalle regole costitutive di questo (cfr. R. Parpan
Zeichen und Bedeutung cit., pp. 39-43). Precisazione, questa, che l’autore riscontra in uno scritto
successivo, ovvero negli Entwürfe alla recensione dell’opera di Schröder Vorlesung über die
Algebra der Logik pubblicata in Husserliana XXII, ritenendola soltanto implicita nella Filosofia
dell’aritmetica, dove prevale l’idea del significato come concetto; a dire il vero però un accenno
esplicito in tal senso è contenuto nella già citata Appendice alla parte prima (E. Husserl Filosofia
dell’aritmetica cit., p.217)). A queste riflessioni e complessivamente alla posizione che
costituiscono si puo’ rimproverare soltanto un punto, però fondamentale: esse sono valide per i
simboli aritmetici, ma non per tutto il dominio semiotico. Non tutti i segni infatti necessitano di un
significato per esser tali - per esplicitare cioè la funzione designante - sia esso un concetto o la
posizione occupata in un sistema di derivazione; basti pensare ai segni esteriori, o a quelli diretti,
simili a etichette apposte sull’oggetto designato, in cui per l’appunto significato e oggetto
designato coincidono, sì che il primo non è affatto la mediazione necessaria per approdare al
secondo, qualunque dei due sensi di significato si voglia qui intendere. Sulle riflessioni di Parpan
dovremo comunque tornare in seguito, quando tratteremo delle rappresentazioni improprie.
81
Diversa è la posizione di Münch in proposito, per cui i segni per i numeri sarebbero invece
concettuali (D. Münch Intention und Zeichen cit., pp.117-18). A nostro avviso, lo studioso tedesco
considera soltanto un aspetto della questione, ovvero il fatto che i segni qui adoperati sono concetti
simbolici; va però aggiunto che non sono soltanto gli elementi distintivi a essere all’opera, in
quanto vi è anche un’ulteriore designazione simbolica rappresentata dalla cifra, che certo nulla ha
79
41
importantissimo giocato da segni indiretti, univoci ed esteriori per la matematica82
- e aggiungiamo, limitandoci a un semplice accenno: per la logica -, dove va
soprattutto sottolineato il carattere dell’esteriorità, in quanto sono proprio simboli
che nulla hanno a che fare con il designato a essere protagonisti, come vedremo
fra breve occupandoci delle rappresentazioni improprie in Semiotica.
La successiva coppia di opposizioni semiotiche riguarda elementi
propriamente linguistici, dove però, a ulteriore conferma di quanto precede, la
questione del significato è lasciata da parte, a tutto vantaggio della funzione,
centrale e costituente, dello “stare per”. Si tratta infatti della distinzione fra parole
e proposizioni, considerati appunto non in quanto espressivi e significativi come
sarà nelle opere successive – Ricerche logiche in primis – bensì come segni che
stanno rispettivamente per contenuti di rappresentazione e atti psichici, dando
esclusivo risalto nel novero di questi ultimi ai giudizi, siano essi apofantici o
matematici83. Al proposito, Husserl distingue tra le proposizioni come segni per i
primi ed equazioni, diseguaglianze e quant’altro manifesta i giudizi aritmetici per
i secondi. Distinzione che vale specularmente per l’altra categoria semiotica – si
pensi ai nomi da una parte e ai simboli numerici dall’altra – nella quale però
compare un’ulteriore e importante suddivisione, quella cioè tra segni per contenuti
assoluti e per relazioni84, suddivisione che tornerà nelle Ricerche logiche, dove
però la mutazione di interesse e prospettiva farà in modo che l’accento sia posto
sul problema dei significati e sulla loro dipendenza o indipendenza, oltre a
segnalarsi nell’assenza di qualsiasi cenno alla simbologia matematica con la sua
distinzione fra segni per numeri e per operazioni.
A completare il quadro giunge l’opposizione tra segni formali e materiali.
Quest’ultima si presenta come un approfondimento della distinzione precedente,
quella cioè fra segni per atti e per contenuti, al fine di chiarificare la differenza tra
materia e forma - importantissima in ambito logico-formale - e dove quindi
l’interesse non è rivolto tanto ai segni, quanto ai contenuti da essi rappresentati85.
a che fare con il numero in sé e che designa per l’appunto il concetto che a sua volta sta per il suo
corrispettivo in sé: dinamica questa, come s’è appena visto, tipica dei segni indiretti.
82
E. Husserl Semiotica cit., p.65
83
Ivi, pp. 65-66. Sarà questa, come vedremo, l’ottica da cui verrà qui riguardato il linguaggio
84
Ivi, p. 66
85
Tema precipuo di questo approfondimento sono i segni per contenuti, o meglio proprio siffatti
contenuti, in quanto « nei segni, atto di giudizio e contenuto giudicato non si distinguono » (ivi,
p.70). Con questo non si vuole naturalmente invalidare la distinzione precedente tra segni per atti
psichici e segni per contenuti; soltanto si vuole rilevare come nei segni che rappresentano
contenuti la distinzione non è tra ciò che sta per un atto e ciò che sta per un contenuto, bensì tra
42
In proposito Husserl rileva che siffatta distinzione riguarda diverse tipologie di
contenuto nel novero di un giudizio - ovvero relazioni (forma) e fondamenti di
relazione (materia) - e non va quindi ricondotta alla distinzione tra atti e contenuti,
assegnando ai primi tutto ciò che concerne la forma e ai secondi alla materia,
tant’è che i segni utilizzati, ovvero rispettivamente sincategoremi e nomi,
appartengono alla medesima categoria, quella cioè dei segni per contenuti86.
Inoltre si tratta di una distinzione relativa, in quanto anche una relazione, se
rappresentata, puo’ fungere da materia, ovvero da fondamento di un’ulteriore
relazione in un diverso giudizio87; in questo è possibile leggere più che
un’anticipazione di alcuni esiti delle Ricerche logiche, come la distinzione tra
contenuti dipendenti e indipendenti o ancora la differenza tra nomi e giudizi e
l’importanza, in tale contesto, della funzione nominalizzante.
§ 1.6 – Segni naturali e artificiali
La distinzione che intendiamo trattare in questo paragrafo fa parte a dire il
vero della classificazione di cui finora ci siamo occupati seguendo la linea
argomentativa del testo husserliano. Si è però deciso di dedicarle uno spazio a sé
stante in virtù della sua particolarità, evidente già solo a scorrere superficialmente
le righe di Semiotik, nelle quali figura trattata per ben due volte e in luoghi di
ampiezza assai diversa. Entrando più nei dettagli ci si accorge di trovarsi di fronte
alle questioni capitali della semiotica husserliana, a quella logica dei segni cui
essa mira88 e alla quale è essenziale la distinzione tra segni naturali e artificiali. La
prima delle trattazioni in merito è per la verità abbastanza breve, così come
accadeva per le altre opposizioni; inoltre non è particolarmente perspicua, in
specie riguardo ai segni naturali89: in proposito infatti non si dà alcuna
caratterizzazione esplicita, il che conduce a ravvisarne ex negativo i caratteri a
partire dalle considerazioni rivolte ai segni artificiali. Da queste emerge una
caratteristica non particolarmente sorprendente, il fatto cioè che si tratta di segni
inventati; meno ovvie sono invece le premesse psicologiche, o per meglio dire gli
segni per relazioni e per fondamenti di relazioni, cioè tra segni che stanno per contenuti
appartenenti a categorie logiche differenti
86
Ivi, p. 67
87
Per un diverso approccio a questa opposizione cfr. D. Münch Intention und Zeichen cit., p. 120 e
F. Silvestri Segni, significati, intuizioni, Mimesis, Milano 2010, pp. 46-47
88
Il titolo completo dell’opera del 1890 è infatti Zur Logik der Zeichen (Semiotik)
89
Una siffatta mancanza di perspicuità è rivelata anche da Filippo Silvestri in Id. Segni, significati,
intuizioni cit., p.57 (nota 98)
43
scopi, che guidano e rendono – come vedremo – necessaria questa invenzione,
ovvero la rispondenza a intenti conoscitivi, che ne fa degli strumenti al servizio
dei processi cognitivi e dei giudizi in cui si manifestano90. Sulla scorta di tali
considerazioni, è allora possibile ricavare i tratti specifici dei segni naturali: si
tratterà allora e innanzitutto di entità che non necessitano affatto di essere
inventate, già presenti per così dire “in natura”, che fungono da segni senza che vi
sia alcun intento conoscitivo a motivarne l’impiego, così come,
una esteriorizzazione sensibile, per esempio quella che si presenta per il singolo
individuo come segno naturale, puo’ divenire contemporaneamente per un altro individuo
mediatrice della comprensione91
Al fine di comprendere meglio cosa davvero Husserl intenda per segni
naturali è però opportuno tornare alla Filosofia dell’aritmetica, in particolare al
§ 11 del capitolo 12°, dove si tratta dell’origine naturale del sistema numerico.
Viene qui illustrata una sorta di filogenesi dei concetti numerici, a partire dai
primordi dello sviluppo culturale umano per giungere sino al sistema numerico
decimale; in questa ricostruzione un momento centrale è quello in cui gli
individui, al fine di comunicare le molteplicità intuite, si son serviti delle mani,
per via innanzitutto della loro visibilità immediata e poi perché la posizione delle
dita era in grado di fornire immagini sensibili degli insiemi intuitivamente
appresi: ebbero così origine le prime forme di rappresentazione dei numeri,
ovvero i “numeri digitali” (Fingerzahlen)92. Queste simbolizzazioni sono un
esempio di segno naturale, in quanto non introdotte a fini conoscitivi né prodotte
artificialmente, ma per l’appunto fondate su entità presenti in natura. Che sia
dunque il richiamo alla natura nel suo senso più immediato a qualificare un segno
come naturale è confermato ulteriormente dalla constatazione che Husserl fa in
Semiotica riprendendo alla lettera quanto detto nella Filosofia dell’aritmetica
nella maggior parte delle lingue la parola “cinque” ha lo stesso significato di “una
mano”93
« Con i segni artificiali subentrano, come nuovo momento, l’influsso della volontà guidata da
motivi di conoscenza e la capacità di regolare grazie ad esso il corso dell’attività di giudizio
conformemente a questi interessi »; E. Husserl Semiotica cit., p. 66
91
Ibid.
92
E. Husserl Filosofia dell’aritmetica cit., p.291
93
E. Husserl Semiotica cit., p.66
90
44
Oltre a evidenziare, seppur in maniera piuttosto stringata, in che senso si
parli di segni naturali, questa affermazione mette in luce un aspetto fondamentale
dell’opposizione semiotica che stiamo trattando, ovvero la dipendenza dei segni
artificiali da quelli naturali, nel senso dell’origine che i primi hanno dai secondi.
Un punto che si rivela decisivo nell’economia della semiotica husserliana,
soprattutto a riguardo della tipologia su cui convergono la maggior parte delle
attenzioni husserliane, le rappresentazioni improprie, protagoniste della seconda
trattazione sui segni naturali e artificiali
§ 1.7 - Le rappresentazioni improprie
Nelle pagine che seguono ci occuperemo con una certa dettagliatezza di
questa particolare tipologia semiotica, vista la sua importanza per le riflessioni
husserliane del periodo qui in esame. Si tratterà allora e in primo luogo di dar
conto di una siffatta importanza, di motivarla a partire dallo sfondo costituito dagli
interessi husserliani e di chiarire come s’inserisce nel lungo discorso
sull’opposizione fra segni naturali e artificiali; dovremo inoltre mostrare come la
classificazione di Semiotica sia funzionale se non proprio subordinata
all’introduzione delle rappresentazioni improprie, e quindi cosa a rigore s’intenda
con esse, quale sia il loro statuto e i problemi che solleva la loro semiosi.
Finora, nel parlare di segni naturali e artificiali, ci siamo astenuti dal
prendere in considerazione la relazione semiotica che li riguarda e soprattutto li
costituisce. Questo perché, come già dicevamo seppur a partire da un punto di
vista tutto sommato estrinseco, si tratta di un’opposizione sui generis. A
differenza infatti di quanto accadeva nei casi precedenti, non è qui la peculiarità
della relazione segnica a definire lo statuto degli uni e degli altri, tanto che essa
puo’ determinarsi in maniera diversa senza che la fisionomia complessiva
dell’opposizione ne risenta; inoltre, qualunque sia la natura del rapporto al
designato, questo non vale comunque nemmeno a distinguere fra i membri della
polarizzazione, poiché tanto i segni naturali quanto gli artificiali si differenziano
pur nella medesimezza di un siffatto rapporto. La differenza riguarda piuttosto i
caratteri del loro impiego e intervento nei processi psichici, non quindi la modalità
della designazione. Ciononostante, v’è una modalità che Husserl mostra di
prediligere, quella cioè che definisce le rappresentazioni improprie a cui del resto
45
l’intero discorso di Semiotik è orientato, ovvero la funzione surrogante. La
relazione all’oggetto, necessaria all’istituirsi della relazione segnica, si rivela
come sostituzione, temporanea o permanente, di questo, possibile però soltanto
nel rispetto di precise condizioni: innanzitutto, l’entità segnica surrogante
dev’essere univoca, in senso rigoroso soprattutto quando si tratta di segni
finalizzati all’uso scientifico; inoltre dev’essere in grado di connotare la cosa,
esteriormente o concettualmente94. Già da qui si puo’ comprendere perché
poc’anzi dicevamo che tutta la classificazione semiotica era in fondo orientata
verso questo tipo di rappresentazioni: per introdurle infatti era necessario
evidenziare tutte le tipologie per poi mostrare quali potessero essere capaci di
fungere appunto come rappresentazioni improprie95. Va poi aggiunto che questa
tipologia non rientra nella classificazione di cui abbiamo dato conto, tant’è che
non è presentata come membro di un’opposizione, né potrebbe esserlo: il polo
opposto infatti non puo’ che essere la rappresentazione propria, quindi non solo
qualcosa che non è segno, ma addirittura quanto per essenza gli si oppone.
Sembrerebbe allora di poter concludere che la rappresentazione impropria
coincida con il concetto di segno in generale, ma Husserl è addirittura esplicito nel
rifiutare questa identificazione:
Ogni rappresentazione impropria è certamente un segno, ma, viceversa, non ogni
segno è una rappresentazione impropria96
Il motivo è da ricercarsi in quanto esposto poc’anzi, ovvero nei caratteri
che definiscono la rappresentazione impropria. Non tutti i segni infatti, come s’è
visto dalla classificazione di Semiotik, svolgono una funzione surrogante, o
meglio ancora, non tutti sono in grado di svolgerla: in proposito si richiede
Tratto questo in verità meno caratterizzante dell’univocità, in quanto condizione della relazione
segnica in generale e non soltanto quindi delle rappresentazioni improprie. Anche Parpan, nel suo
pluricitato testo, riconosce nell’univocità il tratto decisivo ai fini della surrogazione,
sottolineandone però gli aspetti eminentemente logici, ovvero relativi agli usi conoscitivi. Il che di
per sé è del tutto giusto, a patto però di non limitare l’univocità al senso meramente logico, come
egli invece fa. Presa esclusivamente in tal senso infatti, come si vedrà nelle righe successive del
nostro testo, essa caratterizza a rigore soltanto i segni artificiali, quando invece le rappresentazioni
improprie sono e possono essere anche segni naturali, verificandosi anche qui il rapporto
sostitutivo e alle condizioni precedentemente esposte, dove però l’univocità è da intendersi in
senso psicologico e non logico (cfr. E. Husserl Semiotica cit., p.72)
95
« Non ogni segno però ha questa funzione di sostituzione e non ogni segno ne ha la capacità,
poiché solo quando il segno è univoco e per se stesso sufficiente a connotare la cosa, sia
esteriormente sia anche concettualmente, la cosa è data indirettamente mediante il segno; solo
allora il segno puo’ servire a sostituire la cosa » Ibid.
96
Ivi, p.71
94
46
soprattutto univocità in senso logico. Viceversa, la rappresentazione impropria è
un segno per il suo rapporto con il designato, ovvero per via della funzione di
rinvio che la costituisce. Al fine di un più adeguato chiarimento è opportuno
richiamare qui quanto detto a proposito delle rappresentazioni improprie così
come vengono definite nella Filosofia dell’aritmetica. In quelle pagine si parlava
di rappresentazioni che ricorrono a segni allo scopo di presentare un contenuto,
sostituendosi così alle corrispettive proprie; in Semiotica si specifica allora quali
devono essere i caratteri di questi segni affinché possano assolvere al loro
compito. Ma v’è un altro aspetto, ancora più importante, che emerge da queste
considerazioni ed è la non coincidenza fra dimensione impropria e simbolica (in
senso lato). Non tutti i segni sono infatti rappresentativi, deputati cioè a presentare
dei contenuti in via indiretta: il segno è infatti un concetto di relazione, è tale in
virtù del suo rapporto con il designato e un tale rapporto non si esplica soltanto in
termini rappresentativi, tant’è che i segni possono servire a rendere più facilmente
riconoscibili determinate entità97, oppure come contrassegni della memoria, o
anche per consentire lo scambio reciproco98. Non deve ingannare il fatto che
Husserl parli di “rappresentazioni simboliche o improprie”, perché queste non
esauriscono il dominio dei simboli, non v’è insomma coincidenza tra simbolo e
rappresentazione simbolica; ciò che definisce questa è la funzione sostitutiva,
quindi un peculiare rapporto al designato che vale sì a farne un simbolo, ma non a
consentire una perfetta sovrapposizione con il concetto di segno. A ben vedere
inoltre la funzione sostitutiva non è affatto originaria, bensì successiva, derivata,
discende dalle altre testé richiamate come uno sviluppo dovuto a una progressiva
familiarità con la dimensione simbolica99, punto su cui dovremo ritornare più
avanti.
Quanto qui invece ci interessa è rilevare la natura sui generis della
rappresentazione impropria in ambito semiotico. Come s’è già visto e chiarito, si
tratta di una rappresentazione che presenta un contenuto in maniera indiretta, il
che equivale a dire per mezzo di segni; il punto però è che il contenuto effettivo di
una siffatta rappresentazione non è altro che un segno o un complesso di segni, in
Ivi, p.61 Si pensi ad esempio a quanto raccontato nell’Esodo, dove il sangue d’agnello steso
sugli stipiti e l’architrave delle porte degli israeliti vale a distinguere le loro case da quelle degli
egiziani, sì che il Signore, riconoscendole, passi oltre e non uccida i primogeniti del popolo eletto.
98
Ivi, p.87
99
Ibid.; cfr. anche E. Husserl Filosofia dell’aritmetica cit., pp.291-94, dove si chiarisce come i
numeri digitali, segni naturali adottati ai fini della comunicazione, siano all’origine della serie
sistematica numerica con i suoi concetti simbolici, caratterizzati dalla funzione surrogante
97
47
quanto rimanda a un altro contenuto rappresentativo di cui fa le veci: il suo
contenuto è perciò un surrogato100. Poiché i suoi contenuti sono per l’appunto
simboli, stanno per qualcosa d’altro - sì che la genericità della relazione segnica si
esplica come surrogazione -, la rappresentazione è un segno, intendendo per
rappresentazione non l’atto, bensì il suo contenuto; non si tratta poi tanto di
un’altra e nuova tipologia semiotica, in quanto è piuttosto un certo
comportamento dei simboli a essere qui in causa, tant’è che a figurare come
sostituti sono segni appartenenti ad alcuni dei tipi già esposti, a patto che siano in
grado di assolvere a una siffatta funzione. Si comprende così la già citata
definizione di rappresentazione impropria:
ogni segno (semplice o composto, esteriore o concettuale, ecc.), che funge da
sostituto della cosa designata, è una rappresentazione impropria101
Emerge così il decisivo contributo che i segni portano all’attività
rappresentativa, tramite cui si ha accesso ai contenuti: laddove questi risultino
indisponibili “in carne e ossa” nulla è perduto per la conoscenza, in quanto è
possibile un accesso indiretto, per via cioè di simboli che presentandosi come
validi surrogati sono in grado di renderne noti i caratteri. E si comprende perché
Husserl parli, sulla scorta di Brentano, di un “rappresentare improprio” 102. Con
l’atto rappresentativo qualcosa è fatto presente come contenuto della
rappresentazione; con il rappresentare improprio ciò non avviene, in quanto il
contenuto della rappresentazione è un succedaneo di quanto si intendeva
rappresentare. Perciò questo è rappresentato in maniera impropria, in quanto non
compare come contenuto della rappresentazione, bensì come correlato
dell’effettivo contenuto di questa, che funge così da surrogato.
Una volta chiarito come si caratterizza la relazione surrogante, si tratta di
illustrare dove e come si attui. Cominciamo intanto col rilevare che diverse sono
100
Quanto qui manca è una chiara distinzione fra contenuto e oggetto della rappresentazione. In
seguito Husserl ammetterà di essersi imbattuto in questa distinzione, senza però sapere cosa
farsene (E. Husserl Abbozzo di una prefazione alle Ricerche logiche cit., p.201). Un’inutilità
dovuta all’impostazione husserliana, prettamente psicologista, dove l’orizzonte è esclusivamente
coscienziale, per cui l’interesse va alla maniera in cui per la psiche è possibile accedere a dei
contenuti, diretta o indiretta che sia, alla maniera cioè in cui qualcosa puo’ darsi in essa e per essa.
101
E. Husserl Semiotica cit., p.72
102
Sul rapporto tra Husserl e Brentano in merito alle rappresentazioni improprie cfr. C. Majolino
Appunti su Husserl, Brentano e la questione delle rappresentazioni improprie in Filosofia &
Linguaggio in Italia 2002 – sez.4, pp.82-92
48
le modalità in cui si manifesta, riassumibili in due distinte tipologie, ovvero
surrogazione temporanea e permanente103. Nel primo caso il rapporto di
sostituzione è piuttosto labile poiché l’interesse non va al segno sostituente, non è
su di esso che ci si sofferma, fungendo soltanto da tramite per la produzione della
rispettiva rappresentazione propria; non a caso Husserl dedica pochissime righe a
questa relazione, in quanto appunto non è il segno a occupare una posizione
primaria, servendo piuttosto soltanto da mezzo per la produzione - di natura
psicologico-associativa - di ciò per cui sta104.
Ben diverso è il discorso e l’attenzione dedicata alla sostituzione
permanente, con cui entriamo nel cuore della semiotica husserliana di questo
periodo. Qui infatti l’interesse va al segno, al surrogato e non tanto all’oggetto
sostituito, proprio perché il primo mira a rendere dispensabile la presenza del
secondo, punto questo fondamentale come preciseremo meglio in seguito. Il segno
ha qui la funzione di “stare per” l’oggetto in via definitiva, di evitare il riferimento
a esso, venendo progressivamente ad assumere una posizione di predominanza per
la sua presenza più che per la relazione che istituisce, che va progressivamente
eclissandosi nella nostra coscienza. Husserl tiene inoltre a distinguere due diversi
modi in cui puo’ attuarsi una surrogazione permanente, a seconda cioè della
possibilità o meno che si dia una rappresentazione propria corrispondente.
Nel caso in cui l’oggetto possa esser reso presente, la sostituzione
adempie al compito di facilitare i processi psichici, di semplificarne l’attività,
risponde in altri termini a quel tratto economico del nostro spirito che Husserl
continuamente richiama105. Affiora qui uno degli aspetti maggiormente
caratterizzanti la semiotica husserliana di questo periodo, peraltro già menzionato
poco sopra, ovvero l’importanza del segno per i processi psichici, il loro essere
largamente impropri e per ciò stesso ricorrenti a simboli; la novità sta qui
nell’ampiezza del discorso husserliano, non più limitato all’aritmetica ma
ampliato siano a riguardare lo svolgersi del pensiero, dell’attività pensante
103
E. Husserl Semiotica cit., p.72
Significativo è il fatto che Husserl, oltre a trattare brevemente la surrogazione temporanea, non
parli mai di sostituzione nelle righe che la riguardano, a differenza di quelle successive dedicate
alla surrogazione permanente, dove si dice appunto che « le rappresentazioni improprie possono
però anche sostituire, come rappresentazioni surroganti, quelle proprie » (Ibid.). Si comprende già
da qui che la sostituzione vera e propria è quella permanente, che non mira tanto all’oggetto
sostituito quanto a renderne dispensabile la presenza. Il tono poi avversativo della proposizione
citata sembra inoltre istituire una sorta di contrasto tra le due tipologie di rappresentazioni
improprie, inducendo a pensare che nel primo caso sia, sit venia verbo, “improprio” parlare di
un’effettiva sostituzione.
105
Ivi, p. 76
104
49
psichicamente intesa. In tal maniera viene per così dire offerta una sorta di genesi
psicologica della semiosi, nella quale è lo stesso pensiero a scoprirsi simbolico in
larghi tratti del suo procedere, la sua natura in altri termini è in gran parte
simbolica perché i processi psichici si svolgono prevalentemente in una
dimensione impropria, dove i concetti veri e propri non sono quasi mai presenti,
trattandosi piuttosto di rappresentazioni approssimative quando non di meri
surrogati106. La semiosi ha insomma origine nella naturalità dei processi psichici,
cosa che spiega con maggiore accuratezza in che senso si parli di segni naturali.
Quanto qui emerso contribuisce a porre ancor più in luce la particolarità
delle rappresentazioni improprie, del loro statuto, già rilevata a proposito della
diversa caratterizzazione che se ne dà in Semiotik e ne La filosofia dell’aritmetica.
Esse infatti non definiscono tanto una categoria semiotica, perché piuttosto sono
le varie tipologie a poterne assumere i tratti: segni univoci in primis, ma poi segni
concettuali, indiretti, esteriori, manifestantisi in funzione surrogante. Questo
perché la rappresentazione impropria è definita soltanto dalla più generica
modalità di designazione, quella cioè dello “stare per”, che si specifichi in
maniera esteriore o concettuale, diretta o indiretta, semplice o composta. Va poi
aggiunto che in un contesto psicologista, dominato dall’associazionismo, i segni
concettuali e indiretti mostrano una certa preminenza nella dimensione impropria
della coscienza, manifestandosi come un antecedente in senso tanto temporale
quanto condizionale. Ciò è provato dall’insistenza sull’importanza degli elementi
distintivi al fine di una retta surrogazione: un surrogato infatti puo’ adempiere alla
sua funzione solo è in grado di condurre, per via associativa, agli elementi
distintivi dell’oggetto sostituito, presenti anch’essi in funzione surrogante e quindi
come segni concettuali e indiretti. Con questo naturalmente non si vogliono
escludere i segni esteriori dal novero della dimensione impropria, della quale
rappresentano piuttosto la parte più considerevole; soltanto, deve esservi stata
prima (in senso temporale e condizionale) una rappresentazione concomitante
d’un elemento distintivo:
Se si tratta per esempio del concetto di una sfera, insieme alla parola affiora
con la velocità del lampo la rappresentazione di una palla in cui è alla mera forma che si
fa particolarmente attenzione. Questa rappresentazione concomitante, il cui elemento
106
Ivi, pp. 73-74
50
distintivo rappresenta una grossolana approssimazione al concetto intenzionato e lo
simboleggia in questo modo, puo’ in seguito scomparire lasciando rimanere la semplice
parola; ma il suo affiorare è stato tuttavia sufficiente ad assicurarsi la familiarità con la
cosa. Spesso anche la parola da sola con il giudizio di riconoscimento fulmineamente
riprodotto, puo’ bastare107
Oltre alla rilevanza degli elementi distintivi - nel senso di segni
concettuali - per il naturale decorso dei nostri processi psichici, un punto
particolarmente importante si lascia qui apprezzare, ovvero la marginalità dei
segni linguistici, soprattutto ma non soltanto quando si parla di una semiosi
naturale. Una marginalità dovuta innanzitutto e ovviamente al fatto che si tratta di
segni artificiali; è però anche vero che laddove essi intervengono non assumono
tanto la fisionomia che più li caratterizza, quella cioè di segni espressivi, quanto
piuttosto quella di surrogati, tant’è che la parola più che esprimere un significato
appare qui invece sostituirlo, far le veci del concetto, al fine di economizzare i
processi psichici. Il linguaggio perciò non è affatto al centro della semiotica
husserliana di questo periodo e nel momento in cui se ne parla la prospettiva
adottata mina la sua specificità, assimilandolo a un sistema simbolico
fondamentalmente diverso qual è quello aritmetico, come vedremo meglio a
breve.
V’è però, come accennavamo poc’anzi, un ulteriore tipo di surrogazione
permanente, nella quale la rispettiva rappresentazione propria è impossibile, si
tratti di un’impossibilità soggettiva – i limiti naturali delle nostre capacità
intellettive e rappresentative (si pensi alla rappresentazione propria di un
continente) – oppure oggettiva – contenuti irrappresentabili perché impossibili,
come ad es. il quadrato rotondo. Se si bada allo sfondo di considerazioni e
interessi su cui si staglia la semiotica husserliana, si puo’ dire che essa vi ha la
maggiore rispondenza: l’accesso ai numeri naturali, che costituisce uno dei punti
nodali della riflessione husserliana in questo periodo, è infatti reso possibile
proprio in virtù di siffatti surrogati permanenti. Come s’è visto in precedenza, si
ha qui a che fare con segni indiretti, in quanto l’entità fisica (la mera cifra) sta per
il concetto costruito il quale a sua volta sta per il concetto numerico proprio de
facto sempre indisponibile. Ma sarebbe riduttivo fermarsi a questo punto.
L’oggetto designato dalla simbolizzazione impropria infatti, proprio in quanto mai
107
Ibid.
51
direttamente presentabile, è per noi accessibile e figurabile solo per via di questa
medesima, ovvero ne abbiamo traccia soltanto tramite la costruzione di concetti
simbolici, puo’ cioè esser reso presente solo indirettamente, impropriamente. In
quel caso però si trattava di un procedimento consapevolmente elaborato e
adottato, a fronte dei limiti del nostro intelletto e dell’impossibilità di proseguire
con metodi più semplici. Nelle pagine di Semiotik il discorso invece è più ampio,
in primis perché non è circoscritto alle problematiche aritmetiche e soprattutto
perché analizza la surrogazione come procedimento naturale della nostra psiche,
all’opera nei suoi processi di comprensione e conoscenza, quindi come elemento
del suo naturale decorso in certe attività. Si pensi ad esempio alla comprensione di
un diario di viaggio: qui ovviamente non abbiamo intuitivamente di fronte i
paesaggi descritti, eppure comprendiamo ciò che vi è scritto, servendoci appunto
di rappresentazioni improprie basate sugli elementi distintivi che possiamo trarre
dal resoconto. In questo caso però la rappresentazione propria corrispondente è in
linea di principio possibile, basta semplicemente recarsi nel luogo descritto. Cosa
accade invece laddove questa è impossibile, in termini soggettivi o oggettivi? Vari
sono gli esempi del primo caso, dal concetto di “Africa” a quello di “uomo” in
senso fisiologico e psicologico: in questi casi, come accadeva per la serie dei
numeri naturali, è impossibile una rappresentazione propria, per via della
complessità dei contenuti. Come afferma Husserl
Un complesso estremamente grande di rappresentazioni improprie, coordinato
da giudizi di vario tipo, con la possibilità di un ampliamento illimitato, ma circoscritto da
elementi distintivi caratteristici, costituisce la somma di ciò che il miglior conoscitore di
un tale concetto puo’ tener presente o designare indirettamente come appartenente a
esso108.
Anche qui è all’opera la prospettiva già osservata nelle riflessioni
sull’aritmetica, per la quale la conoscenza è riguardata dal lato prettamente
soggettivo, riguardo cioè alla maniera in cui per un soggetto psichico è possibile
arrivare a conoscere determinati entità e in quale modalità, tenuto conto dei suoi
limiti. Non stupisce allora che ci si trovi di fronte, nei casi or ora menzionati, a
una conoscenza per così dire simbolica, perché fondata in larghissima parte su
rappresentazioni improprie: senza di esse, ben poco potremmo sapere di quei
108
Ivi, p.76
52
concetti; contando invece su surrogati concettuali, fondati sui loro elementi
distintivi, possiamo arrivare a conoscerne i caratteri, senza dover ricorrere a ogni
passo all’intuizione e alla capacità della nostra memoria di tener fermi i contenuti
via via intuiti. E si badi, non è che questa sia una sorta di succedaneo della
conoscenza vera e propria, in quanto è piuttosto l’unico tipo di conoscenza
possibile, l’unica maniera in cui possiamo arrivare a sapere quel che sappiamo di
quei concetti, perché a esser contenuto della nostra psiche non potranno mai
essere che loro succedanei.
Anche laddove l’impossibilità è di natura oggettiva si evidenzia una
situazione simile, si tratti di concetti di entità irrappresentabili (es. Dio) o
contraddittorie (es. quadrato rotondo). Husserl tiene però a sottolineare che queste
rappresentazioni si collocano alla distanza massima rispetto a quelle effettive109;
come intendere ciò? In casi come questi i contenuti surroganti non presentano
affatto una somiglianza con quanto rappresentano, poiché è impossibile una sua
resa parzialmente intuitiva, anche solo immaginativa, proprio perché appunto si
tratta di entità che come tali si sottraggono a ogni intuizione, che mai potranno
essere suoi contenuti. Del resto, come Husserl medesimo sottolinea, un
ampliamento quantitativo delle capacità intellettuali potrebbe condurre a una
rappresentazione effettiva soltanto delle entità impossibili in senso soggettivo, che
non si sottraggono affatto all’intuizione tout court, ma solo a quella limitata della
nostra psiche; perciò qui i contenuti surroganti possono essere intuizioni
approssimative dei loro correlati - ad esempio immagini -, dotati di un certo grado
di rassomiglianza e quindi più vicini a essi. Nell’altro caso invece, dove le entità
si sottraggono per essenza a una rappresentazione propria, non puo’ esservi alcuna
relazione cum fundamento in re fra sostituto e sostituito ed è per questo che la
distanza fra essi è massima; emerge allora con più decisione una tipologia finora
soltanto sfiorata, quella cioè dei segni linguistici, assimilati agli altri segni
surroganti a detrimento della dimensione notoriamente centrale in proposito,
quella cioè espressiva. Ciò è indice della particolare angolatura dalla quale vien
vista la semiotica in questi testi: l’espressione linguistica dei significati riveste un
ruolo estremamente marginale, in quanto la funzione decisiva non è l’esprimere,
quanto lo “stare per”, che si traduce nella sostituzione, in grado di agevolare i
processi psichici ed estenderne il dominio. Perciò anche laddove le
109
Ivi, p.77
53
rappresentazioni improprie surroganti si presentano come parole, espressioni,
segni linguistici, hanno importanza per Husserl soltanto in funzione surrogante e
vengono come sempre analizzate a partire dal loro operare nei processi psichici.
Un esempio in tal senso illuminante è quello dei concetti contraddittori, come
“quadrato rotondo”. Qui Husserl non parla, come farà in seguito, di espressioni
prive di senso, perché l’accento non è posto sulla maniera in cui è possibile
esprimere ciò, bensì di rappresentazioni improprie surroganti entità impossibili,
riconosciute tali per via dell’impossibile compatibilità dei contenuti di
accompagnamento, per cui l’impossibilità non è appurata in termini logicogrammaticali110, bensì psicologicamente, a partire dai meccanismi psichici
coinvolti nella strutturazione di un’espressione, in un contesto nel quale la
dimensione più prettamente linguistica, quella cioè dell’espressione dei significati,
tende a eclissarsi. Le parole sono perciò importanti non perché espressive, ma in
quanto essenziali al fine di dare rappresentanza ai concetti, in specie a quelli
impossibili: solo esse infatti sono in grado di presentarsi in unità, non certo i
contenuti “rappresentati”. La possibilità di figurarsi concetti contraddittori,
formati da entità incompatibili, risiede perciò nelle parole (segni esteriori) non
negli elementi distintivi d’accompagnamento (segni concettuali), è perciò la
autoimponentesi connessione della parole, cui s’affianca la nostra familiarità con
esse, a consentire una rappresentazione impropria di contenuti impossibili111.
Si comprende allora perché Husserl leghi la progressiva estensione e
importanza delle rappresentazioni improprie con lo sviluppo del linguaggio112.
Benché infatti esso non venga considerato complessivamente un sistema di
rappresentazioni improprie, sorgendo al fine di consentire lo scambio reciproco sì che i segni linguistici assumono piuttosto l’aspetto di mezzi di comunicazione -,
la funzione surrogante diviene comunque prevalente in virtù della familiarità che
via via si acquisisce con esso113, tanto che le formazioni concettuali più elevate
divengono possibili proprio grazie al linguaggio medesimo, che più di ogni altro
sistema segnico consente lo sviluppo di rappresentazioni surroganti permanenti,
110
Come avverrà nella Quarta Ricerca, con la distinzione tra espressioni unsinnig e sinnlos.
Questa spiegazione, implicita in Semiotica, verrà esplicitata in un manoscritto leggermente più
tardo, del 1893-94 (cfr. in proposito E. Husserl Logica. Psicologia. Fenomenologia, cit. pp. 47-48;
in proposito cfr. anche D. Münch Intention und Zeichen cit., pp. 161-62). Si nota anche da qui la
preminenza assegnata da Husserl ai segni esteriori, sensibili, a dispetto di quelli concettuali, tant’è
che la rappresentanza concettuale sembra non poter fare a meno, in virtù della sua astrattezza, del
ricorso a entità sensibili quali le parole.
112
E. Husserl Semiotica cit., p.77
113
Ivi p.87; cfr. F. Silvestri Segni Significati Intuizioni cit., pp. 57-58
111
54
come s’è visto a proposito dei contenuti contraddittori manifestantisi per
l’appunto in parole114. Dove però, ed è bene ribadirlo, esse non esprimono affatto i
concetti, quanto piuttosto li sostituiscono e la familiarità or ora richiamata si
risolve, come per i simboli numerici, in un mero avere a che fare con i surrogati,
ovvero in questo caso con mere parole che stanno per i concetti. Ciò che
garantisce e consente eventualmente di validare e verificare un siffatto procedere
sono meccanismi di natura associativa, riproduttiva, in grado di richiamare il
concetto, anzi a ciò sono sufficienti persino ulteriori surrogati, magari di natura
concettuale più che esteriore, che s’approssimino al concetto, per giunta senza la
necessità di una quanto più stringente approssimazione:
Noi pensiamo di operare con i concetti effettivi. Ma anche se, costretti dalla
riflessione, ci accorgiamo del vero stato delle cose, come quando, divenuti
improvvisamente incerti ripensiamo al significato di una parola, ci accontentiamo, di
regola, di semplici sostituti. Ci bastano dei resti qualsiasi riprodotti e un vivo giudizio di
riconoscimento a essi collegato115
Oltre ai concetti contraddittori, le parole danno rappresentanza, come s’è visto, anche a entità al
di fuori dello spettro rappresentativo, inteso in senso proprio. Tra i vari esempi che Husserl cita, ve
n’è uno particolarmente interessante, perché dà traccia dell’influenza brentaniana non soltanto in
merito al rappresentare improprio, ma anche per quanto concerne il tema del contenuto di una
rappresentazione: stiamo parlando del concetto di “cosa esterna”. Un tale concetto, come egli
stesso afferma, è “pensato espressamente come extrapsichico, perciò non rappresentabile”(Ibid.),
cosa che rende necessaria la surrogazione permanente. Sembra allora di poter concludere che in
questa fase per contenuto di una rappresentazione intuitiva sia da intendersi l’oggetto immanente
all’atto, così come avveniva in Brentano, o perlomeno secondo la lettura che Husserl (e non solo
lui) ne dà. Alla luce di questo immanentismo psichico si fa ancor più chiara la rilevanza della
surrogazione come relazione semiotica: escluso l’accesso diretto a quanto trascende la psiche, sarà
soltanto per via di succedanei che se ne potrà aver traccia, cosa che lascia comprendere perché si
parli di conoscenza simbolica. Solo successivamente - e partendo proprio da siffatte
rappresentazioni che, seppur solo indirettamente, oltrepassano “la soglia della reale immanenza”
(in proposito cfr. S. Besoli Introduzione in E. Husserl Logica, psicologia e fenomenologia cit.,
pp.17-18) - Husserl non darà più risalto alla surrogazione in campo semiotico, perché i segni
diverranno costituenti di intenzioni vuote tendenti al riempimento intuitivo: e questo in virtù
dell’emergere del concetto di intenzionalità. Bastino però qui questi semplici accenni, che
troveranno ampio sviluppato nei capitoli seguenti.
115
Ivi, p. 75. Le riflessioni qui riportate si riferiscono in verità al primo genere di rappresentazioni
surroganti, quelle cioè sostituenti rappresentazioni proprie possibili, per cui a esser qui riprodotta
sarà la rispettiva rappresentazione propria o un qualcosa che le si approssimi. Ma nel caso in cui
questo fosse impedito, come avviene per l’altro genere di rappresentazioni surroganti, in quanto
riferite a rappresentazioni proprie impossibili, non sarà per l’appunto impossibile richiamare i
contenuti? Non si avrà giocoforza a che fare sempre e solo con meri segni? Non esattamente.
Benché sia vero che qui il contenuto è necessariamente impresentabile, per cui si ha a che fare con
meri surrogati, è però altrettanto vero che non si tratta soltanto di meri segni esteriori, in quanto a
essi sono collegati gli elementi distintivi del contenuto surrogato, che consentono
un’approssimazione a esso - come nel caso di contenuti impossibili a parte subiecti (si pensi alla
rappresentazione di un continente) - o permettono di rilevarne la contraddittorietà – come nel caso
delle impossibilità a parte obiecti: qui infatti si sperimenta l’impossibile coesistenza degli elementi
114
55
La menzione del significato non deve qui fuorviare, in quanto non ci si
richiama affatto a esso come ciò che è stato inteso con la parola, quasi come se
questa - per esprimersi in termini husserlianamente più tardi - fosse abitata da un
significato che si tratti di riattivare, in quanto per l’appunto non lo esprime, ma è
piuttosto quel che per esso (in quanto concetto) sta, è in altri termini una relazione
di natura sostitutiva a caratterizzare le parole, non l’esprimere, sì che esse per
l’appunto non figurano tanto come espressioni, bensì come rappresentazioni
improprie.
Le considerazioni or ora svolte ci consentono di richiamare e mettere così
meglio a fuoco un altro tratto peculiare della semiosi delle rappresentazioni
improprie, emerso a proposito della sostituzione di rappresentazioni proprie
possibili: ovvero, la tendenza della nostra psiche a economizzare i processi
psichici servendosi di meri segni invece che dei concetti corrispondenti. Anche
laddove
la
sostituzione
riguardi
entità
intuitivamente
inaccessibili
il
comportamento della psiche è il medesimo, ovvero essa si affida ai meri segni
senza riferirsi al contenuto, o meglio al concetto per cui stanno: in altri termini, i
surrogati verranno utilizzati senza badare al loro contenuto, come mere cifre, vi è
insomma lo slittamento da una semiosi indiretta e concettuale - per la quale la
cifra sta per il concetto simbolico che a sua volta si riferisce al contenuto
(indisponibile) - a una meramente esteriore e diretta, in quanto la cifra, il segno
numerico, starà per il concetto simbolico stesso, rappresentato perciò non più
propriamente bensì impropriamente (in quanto cioè sostituito). Va da sé che
questo slittamento e la progressiva prevalenza di un operare meramente simbolico
caratterizza in primis il calcolo aritmetico, dove per l’appunto le operazioni si
svolgono sulle mere cifre; ciò che garantisce a un tale procedimento meccanico
esiti positivi è il parallelismo con cui fin dapprincipio procedono costruzione
simbolica e concettuale, che è poi il tratto caratterizzante del sistema simbolicoconcettuale dei numeri naturali:
Un parallelismo rigoroso vige qui tra il metodo che permette la prosecuzione
della serie dei concetti numerici e il metodo che permette lo prosecuzione dei segni
numerici116
distintivi associati alle parole (ivi, p. 77; cfr. anche E. Husserl Logica. Psicologia. Fenomenologia,
cit., p. 47).
116
E. Husserl, Filosofia dell’aritmetica cit., p. 282
56
In questa citazione, oltre a ribadirsi la doppia natura del sistema che
garantisce l’accesso ai numeri naturali, si comprende appunto come non vi sia
affatto un plesso unitario rigido e indivisibile tra segno e concetto, cosa che rende
possibile la facilitazione dei processi psichici, in specie matematici, nella maniera
qui di seguito descritta:
Ogni soluzione si risolve chiaramente in una parte concernente il calcolo e in
due parti concettuali: conversione dei pensieri di partenza in segni – calcolo –
conversione dei segni risultanti in pensieri. Nell’ambito dei numeri cardinali, dove la
concezione e la separazione dei concetti (prescindendo naturalmente dai pochi concetti
“propri”) si basa sulla designazione parallela, che è il suo supporto indispensabile, quel
primo passo consiste semplicemente nel fatto che nei complessi dati di volta in volta
composti da concetti e nomi si astrae dai primi e si tengono fermi solo i secondi117
La separazione fra segno e concetto risulta dunque non soltanto possibile
ma si manifesta come ciò in cui consiste il calcolo118, o meglio l’intera aritmetica,
poiché tanto questo quanto l’ottenimento dell’intera serie numerica naturale
procedono in prevalenza con meri segni119, sono entrambe attività con segni e non
con concetti120, perlomeno in larga parte del loro decorso e in specie laddove esso
va complicandosi. Il ricorso a meri surrogati inoltre non avviene in virtù di
un’intenzione consapevolmente mirata, ma nello svolgersi naturale dei processi
psichici, meccanicamente, in virtù di quel “tratto economico del nostro spirito” di
cui dovremo occuparci più approfonditamente nel paragrafo seguente. Qui intanto
possiamo già notare come il ricorso progressivo a segni sempre più poveri di
contenuto, che assegna un ruolo di primo piano ai segni esteriori, non riguardi
soltanto il calcolo e più latamente l’ambito aritmetico, in quanto interessa l’intero
pensiero nel suo svolgimento, appunto perché frutto di un suo tratto
117
Ivi, pp. 303-304
Ivi, pp. 302-303
119
« Tanto nei problemi pratici della denumerazione di insiemi dati, quanto in quelli concernenti la
derivazione mediante calcolo di un numero da un altro numero, si puo’ ottenere una soluzione
puramente meccanica sostituendo i nomi ai concetti e derivando poi i nomi da nomi, con una
procedura del tutto esteriore basata sulla sistematica dei nomi stessi, facendo sì che alla fine
scaturiscano dei nomi la cui interpretazione concettuale produce necessariamente il risultato
cercato » Ivi, p. 283
120
Ivi, p. 284
118
57
caratterizzante qual è quello economico. Basti pensare a quanto si dice delle
rappresentazioni improprie in genere:
se ci siamo sufficientemente familiarizzati con rappresentazioni simboliche
ricche di contenuto….segue immediatamente la loro sostituzione con rappresentazioni più
comode, più povere di contenuto o affatto esterne….corrispondentemente al tratto
economico del nostro spirito121
La prevalenza dei segni esteriori, non a caso definiti “segni in senso
stretto”, si motiva a partire dall’analisi della psiche umana, dallo svolgimento dei
suoi processi, non è perciò frutto di una scelta deliberata, fosse anche sostenuta da
interessi conoscitivi, in quanto attesta un tratto tipico del nostro sviluppo psichico.
E a ben vedere quanto qui detto a proposito dei segni esteriori lascia intravedere
quale sia la prospettiva da cui è riguardata la semiotica in questa fase e che è
all’origine del ruolo di primo piano assegnato ai segni. In un‘indagine indirizzata
in via esclusiva a chiarire la maniera in cui determinati oggetti vengono
conosciuti, la cui impronta si svela essere fortemente psicologista in quanto è
guardando ai processi psichici che si guadagna una tale chiarificazione, ci si
imbatte nella dimensione simbolica non come un’appendice estrinseca, bensì
come un tratto caratterizzante la psiche medesima nei suoi processi più elevati; la
semiosi si mostra così consustanziale al pensiero umano, per cui le analisi a essa
rivolte saranno in larga parte di natura psicologica, perché è nella psiche che essa
ha la sua origine, nel suo decorso naturale, cosa che spiega l’importanza attribuita
da Husserl alla distinzione tra segni naturali e artificiali. A motivare il ruolo di
preminenza attribuito ai segni non basta allora la loro centralità nell’aritmetica;
una siffatta centralità difatti rimonta ai tratti generali della nostra psiche, alla sua
costituzione naturale che è il tema precipuo d’indagine, per cui è alla luce
dell’impronta fortemente psicologista delle riflessioni husserliane che si spiega
quella preminenza. S’è visto del resto a quali importantissime funzioni assolvano i
segni se riguardati da questa prospettiva: oltre infatti ad assolvere al compito di
economizzare i processi psichici, i segni concorrono in maniera decisiva ad
estendere l’ambito della conoscenza, in quanto consentono l’accesso a entità
concettuali altrimenti inconcepibili. Si tratta però ora di mostrare come queste
funzioni - soprattutto la seconda - non limitino il loro esercizio alla sfera
121
E. Husserl Semiotica cit., p.76
58
matematica, ma riguardino i processi di pensiero più elevati nella loro generalità;
al fine di far questo è necessario innanzitutto mettere meglio in luce la già
ravvisata dimensione impropria della coscienza, approfondendo la distinzione tra
segni naturali e artificiali.
§ 1.8 – Semiosi naturale e artificiale
In precedenza, trattando dei segni naturali, avevamo registrato come
carattere precipuo la naturalità dell’entità segnica, cioè il suo non essere
artificialmente prodotta. Ma si tratta a dire il vero di una connotazione piuttosto
estrinseca, incapace di gettar luce sull’autentica fisionomia e il particolare valore
di una tale tipologia. Il suo tratto decisivo sta invece in una naturalità da intendersi
in maniera ben più profonda e incisiva, ovvero nella consustanzialità di siffatti
segni ai processi psichici nel loro comune decorso. Sarebbe però inopportuno, o
peggio ancora fuorviante, pensare ai segni naturali come una tipologia tra le altre,
definita a partire dalla relazione all’oggetto o dai caratteri fisici che la
contraddistinguono, poiché più che di entità semiotiche specifiche si tratta qui
della psiche e dei suoi processi, di come essi de facto avvengono e del ruolo che i
segni, e non una determinata tipologia, rivestono. Questo perché la semiotica non
concerne tanto, e soltanto, un’area scientifica quanto si vuole importante, ma
addirittura lo stesso pensiero nel suo svolgimento e sviluppo, in quanto esso si
scopre per larga parte simbolico, per cui uno studio della dimensione simbolica
coincide in larga misura con un’analisi dei processi psichici e viceversa. In virtù
di queste considerazioni abbiamo deciso di ricorrere al termine “semiosi”
nell’intitolare questo paragrafo dedicato ai segni naturali e artificiali, nonostante la
parola non ricorra affatto nei testi di Husserl, proprio per evidenziare il carattere
sui generis di questa opposizione; un termine a nostro avviso particolarmente
perspicuo poiché non identifica una tipologia ma rimanda alla maniera nella quale
determinate entità assumono la funzione semiotica dello “stare per”, soprattutto
nella concrezione surrogante, maniera che in Husserl non risponde soltanto a
un’intenzione consapevolmente elaborata e mirata, in quanto sono gli stessi
processi psichici a ricorrere naturalmente a surrogati, in specie nell’attività pratica
di giudizio, che ha a suo fondamento le rappresentazioni improprie122. È il
Ivi, p. 78. L’andamento espositivo di Semiotik procede perciò dal semplice al complesso: solo
dopo aver analizzato le rappresentazioni improprie, i segni surroganti uti singuli, si procede alla
122
59
pensiero stesso infatti ad affidarsi a contenuti sostitutivi - più o meno ricchi (come
gli elementi distintivi) o addirittura (e in prevalenza) meramente esteriori -, è nella
sua natura ricorrere a essi piuttosto che ai concetti rappresentati e in maniera del
tutto inconsapevole, per via cioè di un cieco meccanismo naturale che dissimula la
natura simbolica del suo procedere:
Giudicando seguiamo il corso dell’associazione di idee che, in base
all’andamento del nostro interesse, riproduce ora questo ora quel gruppo derivato dal
complesso associativo appartenente al concetto; e i nostri giudizi e ragionamenti, pur
connettendosi a questi rudimenti ora più ricchi ora più poveri, e talvolta, come vedremo, a
segni123, in modo continuo ed esclusivo, si comportano tuttavia come se si fondassero
sempre e ovunque sullo stesso concetto, sul vero e proprio concetto della cosa, e questo
semplicemente perché non ci rendiamo conto che operiamo con surrogati invece che con
il concetto pieno124
Parlare di segni naturali equivale allora a rilevare la natura impropria dei
nostri processi psichici, il loro automatico, meccanico, naturale ricorso e
affidamento a entità surroganti facenti le veci dei concetti sostituiti, fino al punto
di venir assimilate a essi nella pratica del giudizio, che infatti vi opera come se
fossero i concetti medesimi. La semiosi è perciò un tratto consistente del nostro
spirito più che un atteggiamento consapevolmente elaborato, i segni naturali sono
tali in virtù del meccanicismo dei nostri processi psichici, risultando ben diversi
dalle tipologie più sopra esaminate: a definirli non è infatti la peculiarità in cui si
concreta la designazione, tant’è che la funzione surrogante è prevalente ma non
esclusiva e soprattutto non vale a distinguerli dall’altro polo dell’opposizione,
poiché lo stesso vale per i segni artificiali (come vedremo a breve); inoltre, il loro
statuto è tale da rimandare al concetto di segno in generale piuttosto che a una
trattazione dei complessi simbolici in cui figurano e che costituiscono, ovvero non soltanto il
linguaggio e l’aritmetica, ma anche gli stessi giudizi. In questo sta la differenza centrale fra le due
trattazioni dedicate all’opposizione fra segni naturali e artificiali: nella prima si parla di segni
semplici, nella seconda di sistemi simbolici
123
I “rudimenti” di cui parla Husserl sono ascrivibili alla categoria dei segni concettuali, in quanto
elementi distintivi dell’oggetto per cui stanno. La distinzione che qui inavvertitamente(?) si
introduce tra rudimenti e segni, più che rilevare una certa oscillazione terminologica, illumina a
nostro avviso su un tratto della semiotica husserliana, ovvero la preferenza accordata ai segni
esteriori, tanto che è a essi che ci si riferisce quando si parla in via generica di segno, ovvero a
entità che nulla hanno a che fare con il concetto del designato. Prevalenza attestata non solo dal
“sistema di segni più importante”, ovvero il linguaggio (ivi, p. 92), ma anche dall’aritmetica, dove
i numeri naturali sono rappresentati e disponibili in cifre.
124
Ivi, pp. 78-79
60
specifica tipologia, sì che diversi membri delle opposizioni classificate compaiono
come segni naturali (esteriori, concettuali, univoci...)125. Siamo allora in presenza
del punto nevralgico della semiotica husserliana, perché è qui che si scopre la
naturalità della semiosi, la sua genesi nei processi psichici in quanto largamente
impropria è la natura di questi, è il loro naturale decorso a manifestarsi in gran
parte simbolico, soprattutto nella modalità sostitutiva, in virtù di quel tratto
economico del nostro spirito già più volte richiamato e che rappresenta uno dei
matter of fact più caratteristici della nostra psiche. E su questo è opportuno
spendere ora qualche parola.
Le analisi condotte sulle questioni aritmetiche hanno avuto come centro
la psiche umana, tanto per quanto concerne l’origine gnoseologica dei concetti
elementari quanto a riguardo dell’essenza medesima dell’aritmetica: questa infatti
si presenta come somma degli strumenti artificiali volti a superare i limiti del
nostro intelletto, perciò è a partire dalla nostra costituzione psichica e dalle sue
limitazioni che si legittima e si origina. Da queste considerazioni emerge una
visione della matematica, e della scienza in genere, focalizzata soprattutto sul suo
lato operativo, metodologico, relativo cioè alla maniera in cui è possibile
appropriarsi dei suoi contenuti, una visione perciò che considera le discipline
scientifiche come attività specificamente umane e la conoscenza dal lato
prettamente soggettivo degli atti cognitivi, motivo per cui la dimensione psichica
è il terreno su cui si radicano le analisi husserliane, comprese quelle riguardanti i
segni. Che sia un siffatto sfondo quello su cui si delinea la questione semiotica, è
confermato dalla lettera del testo di Semiotica:
i simboli sono la grande risorsa, mediante la quale i limiti originariamente così
angusti della nostra vita psichica vengono superati. Con i simboli queste imperfezioni
essenziali del nostro intelletto vengono neutralizzate, almeno fino a un certo punto. Per
particolari vie indirette che fanno fare economia a un pensare elevato, essi rendono lo
spirito umano capace di risultati che, direttamente, con un lavoro proprio di conoscenza,
non potrebbe raggiungere. I simboli servono all’economia del lavoro spirituale, come gli
strumenti e le macchine all’economia del lavoro meccanico126
125
Come si vede, i segni naturali e artificiali presentano le caratteristiche delle rappresentazioni
improprie; non a caso, infatti, queste compaiono all’interno della loro trattazione
126
Ivi, pp.70-71
61
L’aspetto più interessante sta nel fatto che una tale risorsa non è tanto e
soltanto uno stratagemma artatamente introdotto a un certo grado dello sviluppo
umano, al fine del suo progresso, poiché i simboli, o per meglio dire l’attività
simbolica è riscontrata come carattere della nostra costituzione psichica,
perlomeno in larga parte dei suoi processi. Proprio qui si innesta il discorso sul
tratto
economico
del
nostro
spirito:
la
psiche
ricorre
naturalmente,
meccanicamente, senza che vi sia una consapevole intenzione, a segni via via
sempre più poveri di contenuto e ciò al fine di economizzare i processi più elevati,
di alleggerirli e migliorare così le prestazioni conoscitive. Uno degli esempi più
evidenti è il calcolo numerico, in cui la derivazione di un numero ignoto da uno
noto viene progressivamente perdendo la sua iniziale natura di procedimento
concettuale fino a divenire operazione meramente sensibile, ridotta a una semplice
derivazione di segni da segni sulla base di regole fisse127, e ciò in virtù del
parallelismo tra serie numerica in sé, sistema dei surrogati simbolici e metodo di
designazione di questi. Un tale sviluppo verso una semiosi esteriore è inoltre
naturale,
attiene
al
comportamento
della
nostra
psiche,
che
tende
costituzionalmente all’alleggerimento dei processi psichici al fine di migliorare le
sue prestazioni conoscitive e a fronte dei limiti imposti alle sue capacità: tale è il
tratto economico del nostro spirito.
Considerazioni di questo genere richiamano molto da vicino le posizioni
di autori quali Mach e Avenarius, che prima di Husserl avevano riscontrato un
siffatto principio all’opera nel pensiero umano, in specie sul versante
scientifico128.
Mach,
segnatamente,
riconosce
alla
scienza
uno
scopo
essenzialmente economizzante129, per la sua capacità di condensare ad esempio in
formule le regole per la riproduzione di un numero elevatissimo di fatti130,
alleggerendo così i processi psichici per via della sostituzione di un procedere,
husserlianamente, “proprio” - e perciò stesso molto più dispendioso - con uno ben
E. Husserl Filosofia dell’aritmetica cit., p.302. Torneremo su questo punto più avanti,
occupandoci del concetto husserliano di logica
128
Solo nei Prolegomeni a una logica pura però una tale convergenza verrà esplicitamente
riconosciuta. Un intero capitolo - il IX - è infatti qui dedicato al tema in questione, per quanto
ricalibrato in senso parzialmente critico alla luce della prospettiva della “logica pura”; cfr. E.
Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., pp.201-19; in particolare la nota 11 chiarisce come ai tempi
della Filosofia dell’aritmetica il principio economico, di cui trattano Mach e Avenarius, fosse stato
adeguatamente riconosciuto
129
E. Mach Die Mechanik in ihrer Entwicklung historisch-kritisch dargestellt, Brockhaus, Leipzig
1883 (trad. it. E. Mach La meccanica nel suo sviluppo storico-critico, Bollati Boringhieri, Torino
1977, p.470)
130
Ivi, p.473
127
62
più semplice ed efficace. Gli accorgimenti economici, peraltro suggeriti dalla
stessa esperienza, si rivelano inoltre utili al fine di completarla ed estendere la
nostra conoscenza; ne sono un esempio le integrazioni che compiamo
inavvertitamente nel comprendere le azioni dei nostri simili131, e ancor più il
principio di causa, che assume i tratti humeani di un artificio mentale
inconsapevolmente formato nei rapporti con l’empiria e svolgente una funzione
economica nella comprensione dei fenomeni132. Avenarius si attesta su posizioni
simili, mettendo però ancor più al centro la natura psichica, o per meglio dire
biologica della funzione economizzante, come mostrato nel suo scritto del 1876
dedicato alla filosofia133. In queste riflessioni si parla del “principio della minima
energia” (kleinsten Kraftmaβes), che rende possibile l’adattamento degli individui
all’ambiente circostante regolando l’energia necessaria allo svolgimento dei
processi di pensiero nel senso della massima efficacia, ovvero scegliendo la
soluzione che garantisce il miglior risultato a fronte di un dispendio quanto
possibile minimo della suddetta energia134. Un siffatto principio pretende di essere
il fondamento del pensiero teoretico, soprattutto della sua funzione centrale,
l’appercepire: nella determinazione di rappresentazioni ignote si procede infatti in
senso economico, come mostrato dall’inclinazione a elaborare sistemi in grado di
ordinare molteplici rappresentazioni sulla base di pochi elementi distintivi o dalla
tendenza a ricorrere nei nostri giudizi sulle cose a rappresentazioni derivanti
dall’abitudine135. Culmine dell’indagine di Avenarius sono poi i concetti generali,
anch’essi maturati a partire dal “principio della minima energia”: la sussunzione
di rappresentazioni sotto di essi non soltanto alleggerisce le prestazioni psichiche,
ma consente anche un accrescimento del contenuto, grazie alla determinazione del
particolare attraverso il generale. La comprensione stessa perciò, proprio in
quanto riconduzione del particolare al generale, si motiva a partire dalle esigenze
di adattamento dell’individuo, in quanto è il principio della minima energia a
essere all’origine di una siffatta sussunzione; si comprende allora perché
131
« Quando alle azioni degli altri uomini da noi percepite aggiungiamo nel nostro pensiero
sensazioni e idee non percepibili, ma simili alle nostre, la rappresentazione che ne risulta ha un
valore economico, perché rende l’esperienza intellegibile, cioè la completa e la risparmia »; ivi,
p.478
132
Ivi, pp.472-73
133
R. Avenarius Philosophie als Denken der Welt gemäβ dem Prinzip des kleinsten Kraftmaβes.
Prolegomena zu einer Kritik der reinen Erfahrung, Zweite unveränderte Auflage, Berlin 1903
134
Ivi, p.3 e pp.11-12
135
Ivi, pp.15-18
63
Avenarius consideri la filosofia come pensiero, comprensione del mondo in
conformità al principio della minima energia.
Le considerazioni husserliane attorno alla genesi e all’importanza della
funzione economizzante convergono con quelle svolte dai due pensatori. S’è visto
infatti come un siffatto tratto del nostro spirito emerga a fronte della finitezza
delle capacità umane, si tratti della limitata energia intellettiva disponibile per i
processi di pensiero136 o più in generale dei limiti del nostro intelletto. La sua
importanza è poi riconosciuta soprattutto in relazione ai processi intellettivi
superiori, al pensiero scientifico, a cui consente una maggiore efficacia nelle
prestazioni. Mentre però in Mach e soprattutto in Avenarius un siffatto principio è
considerato alla luce dell’evoluzione umana e della sua costituzione finalistica,
ovvero del suo adattamento all’ambiente, in Husserl, benché si segnali la presenza
di considerazioni del genere137, non è questa la prospettiva che prevale: l’ambito
in tal senso privilegiato è quello psichico, non quello biologico, e psicologiche
sono le analisi a esso dedicate. Un tale taglio gli consente di indirizzare le sue
analisi alla manifestazione più importante della funzione economizzante, quella
che più da presso riguarda i processi intellettivi e in generale lo sviluppo
intellettivo umano, ovvero la semiosi, il naturale ricorso a segni. Benché anche in
Mach non sia assente la messa in rilievo dei simboli come artifici economici - dal
linguaggio considerato soprattutto in funzione sostitutiva delle esperienze fino alla
riconosciuta importanza del simbolismo matematico e algebrico138 - è in Husserl
che emerge il loro ruolo centrale per l’economia del pensiero, proprio perché è
esclusivamente come semiosi, specie in chiave surrogante, che questo tratto si
manifesta nella psiche. È dunque alla luce dell’approccio psicologista che si
comprende la posizione privilegiata della semiotica in questa fase: le analisi
rivolte alla psiche rivelano infatti il suo naturale ricorso a segni in funzione
economizzante, per cui se da un lato la semiosi si rivela naturale in quanto fondata
nella nostra costituzione psichica, dall’altro è proprio la semiosi il luogo in cui si
« Se l’energia che è a disposizione dell’anima per lo sviluppo delle rappresentazioni fosse
infinita, allora le potrebbe risultare davvero del tutto indifferente quanta di questa inesauribile
quantità essa abbia sprecato – tutt’al più verrebbe in questione soltanto il dispendio di tempo a ciò
necessario. Poiché però questa energia è in quantità finita, dobbiamo dunque attenderci che
l’anima si sforzerà di compiere il processo appercettivo in maniera quanto più possibile finalistica,
cioè con il dispendio di energia relativamente minore e corrispettivamente con il risultato
relativamente maggiore »; ivi, p. 13 (trad. nostra). Cfr. anche E. Mach La meccanica nel suo
sviluppo storico-critico cit., p.475
137
Ad esempio, l’intero § 11 del capitolo 12^ della Filosofia dell’aritmetica
138
E. Mach La meccanica nel suo sviluppo storico-critico cit., pp.470, 474-76
136
64
mostra un carattere fondamentale della psiche medesima quale appunto il suo
tratto economico. Husserl perciò circoscrive la funzione economica al solo lato
semiotico perché solo questo è dato trovare nelle analisi dedicate alla psiche, il
principio economico non si dimostra affatto origine delle categorie dell’intelletto
(Mach) né fondamento dell’appercezione (Avenarius), rivelandosi comunque
essenziale al pensiero, soprattutto nei suoi gradi più elevati, proprio in virtù
dell’aspetto semiotico in cui si manifesta.
Al dato di fatto rappresentato dalla funzione economizzante e dal suo
operare semiotico se ne aggiunge infatti un altro ancor più decisivo e importante,
ovvero gli esiti prevalentemente positivi a cui approdano i processi simbolici, il
loro condurre in media e in prevalenza alla verità, a risultati giusti, pur
avvalendosi di meri surrogati139. A Husserl però non interessa spiegarne il perché,
risalire cioè dal dato di fatto alla sua spiegazione metafisica, rimontando a principi
che ne motivino la genesi (come ad esempio la saggezza della natura); quanto egli
vuol fare è invece operare analisi descrittive che illustrino come, in che modo
siffatti processi conducano alla verità, in un contesto dominato naturalmente da
leggi psicologiche. Sono infatti meccanismi di tipo associativo-riproduttivo a
essere qui dominanti:
Ora, se effettivamente abbiamo compiuto spesso dei ragionamenti in una forma
determinata, e il loro tipo sistematico è facilmente afferrabile, questo tipo si imprimerà
nella memoria e, di conseguenza, in seguito, anche soltanto un sistema di premesse ad
esso conforme potrà essere sufficiente per riprodurre la proposizione conclusiva140
La semiosi è dunque fondata su e garantita da meccanismi psichici di tipo
associativo, è l’associazionismo a validarla e a renderla possibile, oltretutto per
via meccanica, senza che ve ne sia consapevolezza alcuna, in virtù del semplice
procedere dei meccanismi psichici che la qualifica come “naturale”. Anche qui è
all’opera il principio di economia, il tratto economico del nostro spirito nel suo
aspetto squisitamente semiotico: la raggiunta familiarità con una certa tipologia di
ragionamento fa sì che la psiche agisca con meri simboli alleggerendo così la sua
attività. Una tale illustrazione non è però ancora sufficiente a far capire perché i
processi simbolici conducano in prevalenza a risultati giusti, in quanto si limita a
139
140
Ivi, pp. 80-81
Ivi, pp. 83-84
65
mostrare in che modo e su quali basi la semiosi si genera e agisce141 senza però
chiarire quali criteri sovrintendano alla bontà dei suoi esiti.
Ed è a questo punto che interviene la semiosi artificiale. Motivare la
validità del procedimento naturale simbolico equivale infatti a elaborarne uno
parallelo a ciò consapevolmente mirato, che getti luce sulle esigenze
implicitamente soddisfatte dal meccanismo naturale; un siffatto procedimento
consiste in un sistema di segni, dove però questi ultimi vengono consapevolmente
escogitati e introdotti, per di più a fini conoscitivi, caratterizzandosi perciò come
artificiali142. I segni, o meglio i sistemi simbolici artificiali, sono tali non soltanto
in virtù del carattere immediatamente più evidente - ovvero il loro essere
inventati, escogitati -, ma soprattutto perché questo aspetto consente loro di
adempiere a un compito fondamentale, quello cioè di illustrare, validare e in tal
modo garantire il retto funzionamento dei processi psichici - meccanismi
simbolici naturali - nella bontà dei loro esiti: è infatti solo un processo simbolico
artificiale a poter far questo, in quanto per l’appunto costruito al fine di render
possibile non soltanto la verità – cui era già sufficiente il meccanismo naturale –
ma la sua conoscenza, facendo comprendere perché un certo meccanismo conduca
a risultati giusti, a quali condizioni. Nel dettaglio, è l’univocità a rivelarsi qui
decisiva, in primis dei segni e poi nella determinatezza del ragionamento mediante
le premesse143 e questo suo ruolo condizionante lo si registra soltanto a partire dal
procedimento simbolico artificiale, nella costruzione e funzionamento del quale
l’univocità è indispensabile:
è allora solo
a prezzo di un’univocità
tendenzialmente presente che i processi simbolici naturali conducono alla verità,
ovvero soltanto in virtù del provvido matter of fact per cui i meccanismi
L’approccio psicologico alle questioni semiotiche (e non solo), tipico di questa fase prefenomenologica, si traduce in una considerazione genetica delle medesime, che riconduce cioè alla
loro origine nella psiche. I modi di procedere simbolici, impropri, vengono infatti considerati a
partire dalla loro genesi da quelli propri, precisamente “nella forma di semplificazioni più
comode” (ivi, p. 83). La naturalità della semiosi è perciò riscontrata e analizzata sulla scorta di
considerazioni genetiche, e ciò non vale soltanto per i suoi sviluppi più articolati, ma anche per gli
elementi più semplici, come le rappresentazioni improprie: la priorità infatti spetta sempre al
rappresentare proprio, tanto nel caso più ovvio delle rappresentazioni surroganti le corrispettive
proprie, quanto in quello delle surrogazioni permanenti, che pur non rimandando a una priore
rappresentazione propria, possono sorgere però soltanto a un certo ed elevato grado di sviluppo
dello spirito umano, quando cioè si è raggiunta una profonda familiarità con l’equivalenza pratica
tra elementi sostituenti e sostituiti (ivi, p. 77)
142
Ivi, p. 66: « Con i segni artificiali subentrano, come nuovo momento, l’influsso della volontà
guidata da motivi di conoscenza e la capacità di regolare grazie a esso il corso dell’attività di
giudizio conformemente a questi interessi »; definizione questa che ricorre pressoché identica nella
seconda trattazione dedicata all’opposizione tra segni naturali e artificiali (ivi, p. 87)
143
Ivi, p. 85
141
66
riproduttivi poc’anzi segnalati operano in media in senso univoco144.
L’opposizione tra segni naturali e artificiali mostra anche da qui il suo statuto sui
generis, poiché i suoi due poli non solo presentano un legame più stretto che in
tutte le altre coppie semiotiche, ma l’uno si rivela necessario all’altro: è infatti a
partire dalla semiosi naturale che sorge quella artificiale, come s’è visto in questo
paragrafo e come vedremo più accuratamente nel prossimo; ma al tempo
medesimo è solo in virtù dei sistemi simbolici artificiali che puo’ esser mostrato il
retto funzionamento di quello naturale, sì che inoltre questo possa esser assicurato
da eventuali e sempre possibili errori e, dove risulti necessario, venire corretto145.
Ma a ben vedere i segni artificiali sono comunque subalterni a quelli
naturali, tant’è che questi ne sono la condizione: e ciò non soltanto perché
l’introduzione dei primi è in parte finalizzata a render comprensibile e assicurare
il funzionamento dei secondi, ma soprattutto in quanto, come Husserl stesso
afferma, è nei procedimenti naturali che risiede l’origine di quelli artificiali.
Questi ultimi infatti non ricalcano soltanto, per quanto con maggiore perspicuità,
le orme dei procedimenti naturali, al fine di comprenderli e valutarli, non si
limitano perciò a render sicura la conoscenza, poiché riescono inoltre a estenderla,
consentendo l’acquisizione di verità, di risultati inaccessibili per la semiosi
naturale oltre che indisponibili a un rappresentare proprio. Qui come altrove
Husserl ha presente il campo aritmetico con le sue problematiche, più in
particolare i procedimenti algoritmici, costituiti da segni artificiali in grado di
estendere il campo delle nostre conoscenze, come s’è visto a proposito del sistema
dei numeri naturali con i suoi concetti simbolici. Tutta la riflessione semiotica
husserliana del resto ha come sfondo ed è orientata dalle questioni del numero e
del calcolo, ed è con i segni artificiali che si giunge al punto decisivo, come
mostrato dalla già menzionata definizione dell’aritmetica:
144
« Quel che facciamo in questo modo per motivi di conoscenza lo fa il meccanismo di
riproduzione per cieca causalità…L’univocità dell’espressione linguistica e la determinatezza
univoca del ragionamento mediante le premesse, sia dal lato psichico, sia da quello simbolico,
sono le condizioni necessarie e sufficienti tanto per il procedimento meccanico cieco che per il
procedimento meccanico logico » (Ibid.). Il fatto che qui il procedimento parallelo a quello
naturale venga definito meccanico non toglie nulla al suo essere artificiale, in quanto per l’appunto
escogitato in base a interessi cognitivi, quale quello di far comprendere come e perché si arriva alla
verità. Semmai la meccanicità che esso progressivamente manifesta testimonia nuovamente il
tratto economico del nostro spirito nel suo carattere squisitamente semiotico, ovvero nel trapasso
da una semiosi con segni concettuali a una con segni esteriori.
145
Ivi, p. 87
67
L’aritmetica…non è in effetti che una somma di strumenti artificiali volti a
superare le insufficienze essenziali del nostro intelletto146
Ora siamo in grado di comprendere meglio cosa s’intenda qui per
strumenti artificiali, trattandosi per l’appunto dei segni artificiali con la loro
peculiare semiosi, nella quale a esser decisiva non è soltanto la natura di prodotti
dei suoi simboli, ma soprattutto l’uso che di essi vien fatto, improntato da interessi
conoscitivi, consapevolmente indirizzato all’acquisizione di determinati concetti,
al conseguimento di nuove verità. Con questo però non è che la semiosi naturale
venga tagliata fuori, anche perché, per ammissione dello stesso Husserl, le
medesime leggi naturali sono alla base dei segni naturali e artificiali147, cosa di per
sé abbastanza ovvia, in quanto entrambi sono all’opera nei processi di pensiero e
quindi rispondono alla sua legalità psichica. Il punto però è che una siffatta
legalità determina l’aritmetica stessa, che non si configura affatto come un sistema
ordinato di segni artificiali frutto esclusivo di una semiosi altrettanto artificiale,
come “il risultato di un’intenzione che preveda la meta”148: l’artificialità attiene
qui infatti, così come per il linguaggio, al carattere di invenzioni dei singoli segni,
non ai sistemi cui danno origine. In altri termini, si è di fronte a segni artificiali
che una volta introdotti rimangono coinvolti in una semiosi di tipo naturale, in
quanto la formazione dell’aritmetica e del linguaggio, con le complesse e
articolate strutture a cui conduce, è frutto di “cieche interazioni di leggi di natura”
quali sono quelle della nostra psiche149, non di un preciso piano preordinato e
ispirato da interessi conoscitivi. La dipendenza dei segni artificiali dalla semiosi
naturale è allora ancor più fortemente ribadita, poiché non soltanto essi
rispondono nel loro operare alle leggi psichiche naturali, ma sono queste stesse nel
loro meccanico e automatico decorso a dar vita a complessi sistemi di segni
artificiali quali appunto quelli aritmetico e linguistico. Dove l’artificialità però non
sta affatto nei caratteri emersi a proposito della sua definizione – ovvero l’operare
consapevole conforme a fini conoscitivi – bensì nella natura delle entità
semiotiche, nel loro essere invenzioni, prodotti; in entrambi i casi si è perciò di
fronte a un misto tra artificio e natura.
E. Husserl Filosofia dell’aritmetica cit., p. 234
E. Husserl Semiotica cit., p. 66
148
Ivi, p. 89
149
Ibid.
146
147
68
Tutto questo consente di gettar definitivamente luce su come vada inteso
il tema dell’artificialità nelle riflessioni semiotiche husserliane: ovvero, sempre in
rapporto oppositivo a ciò che è naturale, che si tratti della genesi (prodotto e non
entità naturale) o dell’impiego dell’entità segnica (consapevole laddove l’altro è
cieco)150, sì che anche da questo lato si riscontra la dipendenza più volte
richiamata. Un segno artificiale è perciò tale innanzitutto perché inventato, in
quanto prodotto consapevolmente per certi scopi, che siano comunicativi o
scientifici; ed è proprio il suo ovvio carattere di invenzione a esser determinante,
in quanto, come s’è visto, la consapevolezza nel suo uso puo’ venire a mancare
nel momento in cui diviene possesso dei processi psichici, dove le interazioni in
cui è coinvolto sono per l’appunto cieche151. Emblematico in tal senso è quanto si
dice a proposito del linguaggio e dei suoi sviluppi. Benché i segni che lo
costituiscono siano stati inventati - allo scopo di manifestare eventi interiori e
permettere così la comunicazione - e siano perciò da considerarsi artificiali, la sua
struttura grammaticale è frutto di cieche leggi di natura con essi operanti, è il
risultato di un meccanismo psichico naturale152, da cui consegue che la validità
della grammatica discende dalla legalità dei processi psichici, sì che le condizioni
della sensatezza delle nostre espressioni linguistiche rimontano a matters of fact di
natura psichica153.
Ma il punto centrale delle riflessioni husserliane attorno alla naturalità
della semiosi non sta però nell’espressività linguistica, quanto piuttosto nei
processi deduttivi, analizzando i quali si scopre come la funzione surrogante non
sia affatto un artificio consapevolmente escogitato al fine di introdurre un certo
tipo di segni, ma un tratto essenziale della psiche umana. Quando Husserl parla di
processi simbolici naturali è ai procedimenti deduttivi che intende riferirsi, ai
In questo caso l’artificialità sta in un atteggiamento che non è quello naturale in cui procedono i
processi psichici, in quanto questi sono oggetto d’osservazione a fini conoscitivi, cosa che
richiama, mutatis mutandis, la dichiarata innaturalezza dell’atteggiamento fenomenologico.
151
In tal senso ci è sembrato opportuno distinguere fra segno e semiosi artificiale, al fine di
evidenziare nel primo caso l’aspetto genetico, mentre nel secondo il carattere operativo del segno:
in tal maniera si è potuto poc’anzi parlare di una semiosi naturale con segni artificiali per
descrivere i sistemi aritmetico e linguistico nel loro carattere misto, cosa che sarebbe risultata
contraddittoria attenendosi alla mera definizione di segni artificiali presentata da Husserl,
incentrata com’è sull’uso consapevole dei segni a carattere conoscitivo
152
Ibid. Va detto però che Husserl non fornisce spiegazioni sull’effettivo operare di questo
meccanismo, sulla maniera in cui si origina effettivamente il linguaggio con la sua articolata
struttura.
153
Ben diversamente da quanto accadrà nella Quarta e Sesta Ricerca con la grammatica
puramente logica, dove la scoperta della dimensione ideale impedisce di ricondurre la validità
delle forme espressive a meri matters of fact
150
69
processi di giudizio, è in questi che emerge con maggiore evidenza il “tratto
economico del nostro spirito”, consistente per l’appunto nel ricorso meccanico,
automatico, involontario e perciò stesso naturale a meri surrogati, siano essi
naturali o artificiali.
In tal maniera sembrerebbe istituirsi, all’interno della semiosi naturale e
nel complesso in tutta la semiotica husserliana, una sorta di opposizione superiore
inglobante le diverse tipologie segniche - ivi comprese naturale e artificiale -,
ovvero quella fra segni intesi come contrassegni - come appoggi o sostegni per le
nostre attività psichiche (ad esempio quelli espressivi) - e segni fungenti da
surrogati154. Benché sia una distinzione effettivamente desumibile dalle analisi
che abbiamo affrontato, è però vero che sarebbe inopportuno intenderla nei
termini testé esposti, poiché i suoi elementi vengono riguardati come due momenti
distinti e successivi di un medesimo sviluppo e non come tipologie somme atte a
dividere l’intero dominio semiotico. Si tratta, in altri termini, di un’opposizione
dinamica e non statica, se vista dall’angolatura che qui Husserl predilige, a partire
cioè dal ruolo dei segni nel normale decorso dei processi psichici, perché
scandisce lo sviluppo per così dire naturale della semiosi. Tutto ciò a nostro
avviso emerge chiaramente osservando insieme le due diverse trattazioni dedicate
all’opposizione centrale nella classificazione husserliana, quella cioè fra segni
naturali e artificiali. Nella prima questa viene presentata a partire dal concetto
generico di segno, rilevando come sia da una naturale tendenza a servirsi di segni
che ne vengono poi escogitati e introdotti altri per ciò stesso artificiali 155. Con la
seconda trattazione il discorso viene al tempo medesimo estendendosi (in
ampiezza) e specificandosi (nei contenuti), in quanto l’opposizione viene
riguardata considerando una peculiare relazione semiotica, quella cioè surrogante
- solo accennata in precedenza - che definisce una determinata tipologia segnica,
le rappresentazioni improprie. Ciò che motiva una siffatta particolarizzazione è il
ruolo centrale che una tale tipologia riveste per la scienza, o meglio ancora per il
pensiero scientifico: nelle deduzioni, nei processi di giudizio, è infatti
progressivamente predominante la componente simbolica, in forza di fattori
154
A una siffatta conclusione giunge Parpan, parlando di un distinzione tra stellvertrenden e nichtstellvertrenden Zeichen, dove quest’ultimi si configurano per l’appunto come Stützzeichen, tra i
quali l’esempio maggiormente prominente è proprio quello degli Ausdruckszeichen; cfr. R. Parpan
Zeichen und Bedeutung cit., p. 33.
155
Osserva infatti Husserl che in molte culture la parola “cinque” ha lo stesso significato di “una
mano” (E. Husserl Semiotica cit., p.66)
70
psicologici caratterizzanti la nostra psiche - quali l’associazionismo e
l’abitudine -, in virtù dei quali avviene un naturale e progressivo trapasso dalla
dimensione propria a quella impropria dei ragionamenti. Ciò che accade è un
progressivo affidamento dei nostri processi psichici, del nostro pensiero, a meri
segni surroganti, in prima istanza concettuali ma poi prevalentemente esteriori,
quali appunto lettere, parole, proposizioni; segni come si vede artificiali, perché
appunto escogitati, anche se non ai fini destinati a divenire dominanti, poiché la
loro introduzione risponde all’intento di servirsene come sostegni per la memoria,
o come mezzi comunicativi. Risulta allora che l’opposizione fra contrassegni e
surrogati va vista all’interno di un’evoluzione regolata dai nostri naturali
meccanismi psichici, dove il tratto economico del nostro spirito agisce in maniera
tale da servirsi di segni introdotti originariamente in qualità sostegni - e quindi
accompagnati dal designato - via via come meri surrogati156 e per di più in
direzione di una sempre maggiore semplicità, come mostrato dalla progressiva
prevalenza dei segni esteriori rispetto a quelli concettuali. Un procedere cieco, del
tutto naturale, automatico e inconsapevole al punto da non lasciar riconoscere la
sua natura simbolica, corroborato in ciò dal carattere provvido della sua
meccanicità, prevalentemente orientata al vero. Parlare di segni naturali e
artificiali equivale allora a sottolineare da un lato la loro origine, dall’altro la
natura dei processi in cui agiscono e operano157, aspetto questo per il quale ci
siamo serviti del termine “semiosi”, al fine di evidenziare la dimensione operativa.
Riguardo alla semiosi, in specie naturale, v’è però da sottolineare ancora
un aspetto, che si rivelerà fondamentale per le nostre analisi. S’è appena visto il
suo carattere improprio, il suo ricorso a simboli – naturali ma soprattutto artificiali
– surroganti, a rappresentazioni improprie per l’appunto, decisamente povere in
quanto prevalentemente ascrivibili alla categoria dei segni esteriori; ebbene, un
tale tratto avvicina notevolmente il pensiero con i suoi processi psichici a un
calcolo. L’affidamento progressivamente esclusivo a meri surrogati fa sì infatti
156
Un discorso simile riguarda a nostro avviso il linguaggio. I segni vengono qui prodotti e
introdotti come mezzi comunicativi, per divenir poi, progressivamente per via dei meccanismi
psichici, surrogati, sì che si è di fronte a un misto di artificio e natura, dove il primo aspetto
riguarda il segno e il secondo la sua semiosi( ivi, p. 87). Husserl ritiene perciò che la stessa
grammatica sia una struttura naturalmente prodottasi, frutto di cieche leggi di natura (ivi, p. 89), da
cui consegue che anche il linguaggio, fin nelle sua struttura, sia definito in prevalenza dalla
funzione surrogante.
157
In virtù di questi caratteri ci sembra che sia semmai la distinzione tra segni naturali e artificiali
a inglobare le altre, poiché tutte le tipologie semiotiche fin qui trattate possono intervenire nei
processi psichici.
71
che i ragionamenti, i processi di giudizio a carattere deduttivo, si assimilino a
operazioni con segni, a derivazioni segniche158, il che richiama da vicino la
definizione husserliana di calcolo
come quella specie di derivazione di segni da segni all’interno di un qualsiasi
sistema segnico algoritmico secondo le “leggi”, o meglio convenzioni, della
congiunzione, della separazione e della conversione, che sono proprie di questo
sistema159
Va da sé che il calcolo è un procedimento artificiale in entrambi i sensi
finora visti, ovvero riguardo alla natura dei suoi simboli così come per quanto
concerne l’operare con essi, consapevole e conoscitivamente finalizzato. Ma come
Husserl di continuo afferma è nei procedimenti naturali che va ricercata la genesi
di quelli artificiali, anche perché entrambi obbediscono alla medesime leggi,
quelle naturali per l’appunto. E lo stesso vale per il calcolo, la cui somiglianza con
la semiosi naturale è evidente, ricorrendo entrambi a meri simboli e su di essi
esercitandosi. Un’ulteriore conferma di questa discendenza la si puo’ trovare a
proposito di quanto Husserl afferma a proposito dei surrogati artificiali. A suo
dire, infatti, quelli che usiamo nella nostra comune attività di giudizio non sono
affatto “puri”, in quanto non v’è la comprensione di come stanno effettivamente le
cose, ovvero agiscono in virtù di ciechi meccanismi naturali e dunque senza che vi
sia consapevolezza alcuna, tanto che è un processo naturale quello che trasforma i
segni artificiali in surrogati. L’introduzione di surrogati artificiali puri, ovvero
accompagnati dalla consapevolezza sulla loro funzione, avviene soltanto a un
grado di sviluppo molto alto della cultura spirituale, a ulteriore dimostrazione
della loro dipendenza dalla dimensione naturale, qui nel senso di un’evoluzione
della nostra psiche; e si tratta di quei simboli che costituiscono l’aritmetica così
come la logica formale160, di quei simboli cioè che oltre a facilitare i nostri
processi psichici, assolvono ai fondamentali compiti di assicurare e ampliare le
nostre conoscenze. La concezione husserliana della matematica, più volte
richiamata, si riferisce propriamente ai surrogati artificiali “puri”, benché il suo
«…ma poiché i risultati del giudizio vengono espressi contemporaneamente in segni esteriori,
ad esempio in proposizioni, questi segni entrano nel corso ulteriore del processo surrogando i
giudizi reali, e la deduzione ha luogo, ora come prima, in forma simbolica »; ivi, p. 82.
159
E. Husserl Filosofia dell’aritmetica cit., p. 303
160
E. Husserl Semiotica cit., p. 88
158
72
sviluppo e la sua struttura obbediscano a una semiosi naturale con segni artificiali.
Husserl tiene infatti a precisare che un’aritmetica “rigorosa, ben intesa e
logicizzata”161 deve operare con simboli di questo genere, in quanto solo in virtù
di una chiara consapevolezza di come si giunga alla verità è possibile la
conoscenza - e correlativamente, solo come operare simbolico consapevole la
scienza è possibile, ivi compresa la matematica. Affinché questo accada è
necessario che il procedimento naturale lasci il passo a quello logico ed è perciò
dell’idea husserliana di logica tipica di questa fase che dobbiamo ora occuparci.
§ 1.9 – Logica dei segni e psico-logica
Nelle indagini sinora portate avanti abbiamo volutamente lasciato da
parte un tratto essenziale della semiosi artificiale, il suo carattere logico. Abbiamo
agito così perché è solo dopo una accurata disamina dei procedimenti simbolici
naturali, dei meccanismi psichici, che il senso di una siffatta logica puo’ essere
adeguatamente fissato. Come afferma infatti Husserl
un procedimento logico non è qualcosa di toto genere diverso dal procedimento
naturale corrispondente. Entrambi fanno uso delle leggi psicologiche della nostra natura
e, in buona parte, delle stessi leggi162
Era dunque necessario dar prima conto della fisonomia e del
funzionamento dei meccanismi naturali, delle leggi psichiche, dai quali il
procedimento logico dipende, se non altro perché leggi naturali valgono per
entrambi i procedimenti. V‘è però, come sottolinea qui Husserl medesimo, una
differenza, che non travalica l’orizzonte psichico, in quanto rimanda a diversi
atteggiamenti da noi peraltro già individuati:
interviene, come fattore nuovo, l’influsso della volontà guidata da motivi di
conoscenza, e la capacità di regolare per suo mezzo il corso della nostra attività di
giudizio in maniera conforme proprio a questi interessi logici163
161
Ibid.
Ivi, p.86
163
Ivi, p.87
162
73
Come si vede, quanto si dice del procedimento logico ricalca la
definizione del segno - o meglio della semiosi - artificiale, il cui scopo viene
perciò a essere quello di rendere possibile la logica e con essa la conoscenza; e si
tratta di una delle acquisizioni più elevate dello spirito umano, possibili soltanto a
un certo grado della sua evoluzione, quello nel quale i surrogati artificiali sono
escogitati e introdotti con la piena consapevolezza della loro funzione - che ora
sappiamo essere logica - e non più quindi risultati di un’evoluzione retta da motori
psicologici164 che trasformi contrassegni artificiali in segni sostituenti.
Rimane però da chiarire in cosa consista la funzione logica dei segni
artificiali e di qui che cosa effettivamente sia la logica, visto lo strettissimo nesso
che la lega alla dimensione artificiale della semiosi. Va detto innanzitutto che lo
scopo ultimo della semiotica husserliana è proprio quello di fornire una logica dei
segni, come indicato peraltro dal titolo completo dell’opera che la riguarda, per
l’appunto Zur Logik der Zeichen (Semiotik). Quanto essa si propone è indagare,
verificare, render consapevoli del funzionamento dei procedimenti simbolici che
tanta parte hanno nella vita psichica e nei suoi processi intellettivi, e questo non
soltanto al fine di garantirne la positività degli esiti e farne comprendere le
ragioni, ma anche per estendere il dominio conoscitivo, per via appunto di
procedimenti simbolici artificiali appositamente elaborati. Tutto questo allo scopo
di render possibile la conoscenza come retta e consapevole acquisizione della
verità:
solo quando il procedimento stesso è un procedimento logico, quando abbiamo
la comprensione logica che esso, così com’è e perché è così, deve condurre alla verità, il
suo risultato non si limiterà a essere de facto una verità, ma sarà una conoscenza della
verità165
Emerge da qui lo stretto nesso che lega la conoscenza alla logica, tanto
che questa viene definita poco dopo Kunst der Erkenntnis, della quale la semiotica
nel senso di Logik der Zeichen costituisce una delle parti fondamentali166. Il
termine Kunst richiama innanzitutto la semiosi artificiale (kunstliche), quindi quei
procedimenti simbolici elaborati in parallelo ai meccanismi naturali al fine di
164
Ivi, p.88
Ivi, p. 90
166
Ivi, p. 93
165
74
mostrarne il funzionamento e accertarne la validità; ma soprattutto indica
inequivocabilmente quale sia la fisionomia della logica husserliana in questa fase
del suo pensiero, quella cioè di una Kunstlehre167, di una tecnologia, di una
disciplina pratica, volta ad analizzare le modalità tramite cui il pensiero si
appropria della verità e legata perciò a interessi pratico-conoscitivi. La
terminologia or ora adottata non appartiene, alla lettera, ai testi che abbiamo
finora analizzati, tant’è che il termine qui centrale di Kunstlehre compare nei
Prolegomeni a una logica pura ed è lì che viene diffusamente affrontata la
questione della logica come tecnologia; e si tratta di un approccio critico, che mira
a evidenziare la parzialità di una siffatta idea della logica. Ci siamo però serviti di
questa terminologia “tarda” in quanto a nostro avviso è proprio in questi termini
che si presenta la logica husserliana nella fase qui in diretto esame, sì che la
definizione di tecnologia fornita nei Prolegomeni puo’ valere, mutatis mutandis,
anche per essa:
se la dottrina della scienza si propone il compito più ampio di indagare sulle
condizioni in nostro potere, dalle quali dipende la realizzazione dei metodi validi, e di
fornire regole per determinare in che modo possiamo, mediante artifici metodici,
impadronirci della verità, delimitare e costruire scienze in maniera valida, e in particolare
trovare e applicare i molteplici metodi che promuovono il loro sviluppo, preservandoci
dagli errori sotto tutti questi riguardi -, allora essa si trasforma in tecnologia della
scienza168
Kunstlehre e Kunst der Erkenntnis sono espressioni perlomeno affini,
poiché entrambe fanno leva sul carattere pratico, metodologico, operativo della
logica, in quanto finalizzata a garantire l’obiettività della conoscenza e a
estenderne il dominio. Compiti, questi, a cui assolve illustrando i metodi, naturali
o artificiali, in grado di condurre alla verità, servendosi dei secondi non soltanto
per verificare i primi, ma anche per raggiungere risultati al di là delle prestazioni
naturali della psiche169. In tal senso si puo’ dire di essere di fronte a una
Su questo punto è decisamente forte l’influenza brentaniana. Cfr. fra gli altri R.Bernet, I Kern,
E. Marbach Edmund Husserl. Darstellung seines Denkens Hamburg, Felix Meiner Verlag GmbH,
1989 (trad. it. Edmund Husserl, Il Mulino, Bologna 1992, p.35) e soprattutto R. D. Rollinger
Husserl’s position in the School of Brentano, Kluwer Academic Publishers,
Dordrecht/Boston/London 1999, p.23
168
E. Husserl Ricerche logiche vol. I cit., pp. 45-46
169
Sul carattere estensivo dei metodi artificiali logicamente intesi ci siamo più volte soffermati
trattando il testo di Semiotica (ad esempio, pp. 71, 87, 94). Ma argomentazioni pressoché identiche
167
75
tecnologia, ovvero a una disciplina pratica, a una metodologia della conoscenza,
in quanto dominata da un interesse pratico quale il raggiungimento di un
determinato scopo, in questo caso la consapevole acquisizione della verità. E si
comprende allora piuttosto facilmente in che senso la logica dei segni abbia
un’importanza rilevante per l’idea di logica in generale. Questa deve infatti per
Husserl
impadronirsi dei procedimenti naturali dello spirito che giudica, esaminarli,
farne comprendere i valori di conoscenza, per poterne infine determinare esattamente i
limiti e la portata, e stabilire in rapporto a questo le regole generali170
Un compito a cui di fatto è la logica dei segni ad assolvere, in quanto è in
virtù dell’elaborazione di un procedimento simbolico parallelo, con la sua semiosi
artificiale, che i procedimenti naturali possono venir compresi nei loro valori di
conoscenza, rilevando le implicite condizioni cui sottosta il loro svolgimento
tendenzialmente orientato verso la verità e stabilendo così le regole generali di un
retto procedere, come ad esempio quelle che consentono a un procedimento
improprio di sostituirsi proficuamente al corrispettivo proprio171. La logica così
intesa, la logica in quanto Kunstlehre, richiama allora una psico-logica, una logica
dei processi psichici, poiché non soltanto i processi di giudizio sono
tendenzialmente - e ciecamente - orientati verso la verità, ma anche i metodi
escogitati per giungervi fanno uso delle medesime leggi psicologiche. In tal
maniera non è tanto a una conoscenza intesa in senso teorico che una tale logica si
indirizza, quanto piuttosto alla prassi conoscitiva, giustificando e assicurando i
procedimenti naturali o artificiali in grado di condurre al vero, che consentono
cioè “di impadronirsi della verità”.
Logica dei segni e psico-logica formano così un plesso unitario in
ragione della loro mutua solidarietà, in quanto è solo in virtù della prima che puo’
maturare una consapevolezza dei nostri processi psichici, ed è soltanto perché
ricorrono anche nella Filosofia dell’aritmetica: « Tutta l’arte logica mira a superare i limiti
originari delle nostre attitudini mentali naturali e per favorire meglio queste ultime scegliamo,
ordiniamo, colleghiamo e ripetiamo tutta una serie di attività che, prese isolatamente, ci
metterebbero in grado di svolgere funzioni assai povere», p. 278. Anche qui il riferimento alla
logica come arte, ovvero come Kunst, rimanda al suo carattere pratico, o meglio lo sottolinea e
anticipa in certo modo il proseguimento del discorso che introduce, dove centrale è il suo carattere
operativo nella prassi conoscitiva.
170
E. Husserl Semiotica cit., pp. 93-94
171
Ivi, pp. 85-86
76
l’interesse va alla prassi conoscitiva e quindi alle modalità, in larga parte
improprie, in cui la psiche opera nei suoi ragionamenti, che una logica dei segni
assume un ruolo centrale. La Kunstlehre rimanda allora, come sua principale
condizione, a una Logik der Zeichen, in quanto simbolici sono i metodi finalizzati al conseguimento della verità - che essa si propone di indagare e
realizzare; spetta dunque a una logica dei segni, o meglio dei procedimenti
simbolici darne conto, illuminarne i presupposti di validità garantendone così il
corretto svolgimento, analizzando la semiosi naturale dei processi psichici dalla
quale hanno origine. Del resto, come si ricava facilmente dalla summenzionata
citazione dei Prolegomeni e come lo stesso Husserl afferma, è proprio la
costituzione psichica a rivestire un ruolo centrale per una Kunstlehre172, in quanto
è a partire dalla sua fisionomia e dal suo funzionamento che è possibile escogitare
procedimenti finalizzati all’acquisizione della verità; e visto il decorso largamente
improprio dei nostri processi di giudizio è inevitabile che in una siffatta tecnologia
la logica dei segni assuma un ruolo preminente. Intesa in questo senso, la logica si
rivela come una metodologia della conoscenza scientifica173, finalizzata a
garantire la correttezza dei procedimenti deduttivi e fondativi che caratterizzano la
scienza174, dove però l’accento non è posto affatto su quest’ultima, bensì sui
processi psichici, sul conoscere come attività specificamente umana. I principi, o
meglio ancora le norme in tal senso vincolanti, sono perciò “regole tecniche di
172
E. Husserl Prolegomeni a una logica pura in Ricerche logiche Vol. I cit., p. 174
E. Husserl Sulla fondazione psicologica della logica in Id. Logica psicologia e fenomenologia
cit., p. 169
174
I processi psichici naturali che Husserl intende verificare e validare in Semiotik sono infatti
quelli deduttivi, caratterizzanti per l’appunto le scienze, aritmetica compresa (E. Husserl Semiotica
cit., pp. 82-86). La logica come Kunst der Erkenntnis mira perciò ad assicurare e in tal maniera
render possibile la conoscenza scientifica, non tanto quella empirica; obiettivo questo che permane
pur nel radicale cambiamento di prospettiva a proposito della logica e di impostazione
nell’affrontarne le problematiche che si manifesterà con la stesura dei Prolegomeni, nei quali per
l’appunto un siffatto compito è addirittura più esplicito: « Di fatto l’evidenza che segna come
sussistente lo stato di cose rappresentato, o l’assurdità che lo segna come non sussistente…si
presenta in modo immediato solo in un gruppo relativamente molto ristretto di stati di cose
primitivi; noi apprendiamo come verità numerose proposizioni vere solo se esse vengono
metodicamente “fondate”….Ed il fatto che noi abbiamo bisogno di fondazioni perché la
conoscenza, il sapere oltrepassi ciò che è immediatamente evidente – e quindi anche ovvio – non
rende possibili e necessarie soltanto le scienze, ma con esse anche una dottrina della scienza, una
logica» (E. Husserl Prolegomeni a una logica pura in Id. Ricerche logiche vol. I cit., p. 35). Un
punto questo che Münch non considera nella sua critica alla conoscenza simbolica nei testi prefenomenologici, vista per l’appunto come un “ferro ligneo” in quanto priva della necessaria
dimensione intuitiva (D. Münch Intention und Zeichen cit., pp. 126-27); la conoscenza di cui qui
egli parla è infatti quella immediatamente evidente, non quella procedente per stadi successivi.
Münch ha però ragione nel rilevare l’improprietà dell’idea conoscenza tipica di questa fase, nella
quale ben poco spazio è riservato al conosciuto come entità trascendente la coscienza.
173
77
un’arte specificamente umana”175, è a questi che mira e si richiama la Kunst der
Erkenntnis, al fine di assicurarsi il retto svolgimento dei processi psichici e poter
di lì costruire metodi artificiali conoscitivamente estensivi. Un esempio in tal
senso è rappresentato dai risultati a cui giunge il procedimento logico artificiale
incaricato di legittimare i processi deduttivi naturali. Le condizioni qui ritrovate,
ovvero l’univocità delle espressioni linguistiche e la determinatezza univoca del
ragionamento mediante le premesse, sono le regole che consentono a un
procedimento improprio di sostituirsi salva veritate a uno proprio176, regole quindi
che insegnano come operare efficacemente con le deduzioni simboliche, come
sostituire concetti con surrogati, che illustrano le ragioni per cui il tratto
economico del nostro spirito non pregiudica anzi favorisce l’acquisizione della
verità. In questo senso abbiamo introdotto l’espressione psico-logica, per indicare
cioè la peculiarità di una logica come disciplina pratica, come metodologia della
conoscenza tipicamente umana, le cui regole sono logiche proprio perché
tecnologiche, attinenti alla peculiare costituzione psichica umana177, ai
procedimenti tramite cui s’impadronisce della verità.
L’attenzione esclusiva rivolta alla conoscenza come prassi conoscitiva
specificamente umana ha un’influenza determinante sull’ambito che più ci
interessa, quello semiotico, in quanto è a partire da qui che si motiva la particolare
considerazione di cui è fatto oggetto il segno e - oltre al tenore complessivo - il
contenuto delle trattazioni che gli sono rivolte, nonché le lacune che da queste
emergono, non ascrivibili affatto a miopia o superficialità. Nei testi finora più da
presso affrontati Husserl è piuttosto esplicito nel riconoscere un ruolo e
un’importanza fondamentali ai segni, proprio alla luce dell’approccio tecnologico
alle questioni conoscitive:
Senza la possibilità di contrassegni esteriori e durevoli come appoggi per la
nostra memoria, senza la possibilità di rappresentazioni simboliche sostitutive di
rappresentazioni proprie più astratte, difficili da distinguere e da utilizzare oppure di
rappresentazioni che in quanto proprie ci sono del tutto negate, non ci sarebbe una vita
spirituale elevata e ancor meno una scienza. I simboli sono la grande risorsa naturale,
175
E. Husserl Prolegomeni cit., p. 169
E. Husserl Semiotica cit., pp. 85-86
177
E. Husserl Sulla fondazione psicologica della logica cit., p. 170
176
78
mediante la quale i limiti originariamente così angusti della nostra vita psichica vengono
superati178
In questo passo sono citate le due tipologie segniche a cui Husserl dedica
maggiore attenzione, ovvero contrassegni e rappresentazioni improprie, entrambe
essenziali allo sviluppo psichico umano, com’è evidente a partire dalle sue
realizzazioni più elevate, le scienze. Segni importanti, decisivi, in quanto è per
loro mezzo che le scienze possono costituirsi e consentire così il superamento dei
limiti congeniti all’intelletto umano, compito questo che sembra determinarne la
fisionomia in un ordine di considerazioni di schietto carattere psicologico,
antropologico, pratico, per cui ogni scienza viene riguardata in senso
metodologico, come insieme dei metodi che consentono l’approdo a verità e
contenuti altrimenti indisponibili alle limitate capacità umane, come s’è visto a
proposito della matematica e della logica al centro di queste riflessioni.
L’approccio alle questioni scientifiche, segnatamente logiche e aritmetiche, si
caratterizza perciò in senso psicologista, poiché l’interesse non va tanto ai
contenuti quanto piuttosto alla maniera in cui vi si giunge, e quindi alla
conoscenza come attività specificamente umana con i suoi peculiari processi
psichici. Correlativa è allora la considerazione della scienza in senso tecnologico,
metodologico, e a ben vedere già qui si puo’ riconoscere alla logica un valore
fondativo, per quanto in senso del tutto diverso rispetto a quel che avverrà nelle
opere immediatamente successive: se infatti suo compito è quello di impadronirsi
dei procedimenti naturali di giudizio a fini pratico-conoscitivi, verificandoli ed
estendendone le capacità, ogni scienza metodologicamente intesa troverà in essa
le sue condizioni, nel senso delle regole che presiedono alla costruzione e
all’efficace funzionamento di qualsiasi procedimento scientifico. Da qui emerge la
centralità della semiotica, non soltanto per il carattere simbolico dei metodi
scientifici, ma soprattutto perché la semiosi medesima investe gran parte dei
processi psichici, il cui decorso è largamente improprio, per cui spetterà a una
logica intesa come logica dei segni la parte più significativa e consistente
dell’indagine volta a esplicitare quelle condizioni che consentono prestazioni
efficaci sotto il profilo conoscitivo179.
178
E. Husserl Semiotica cit., p. 70
La maniera in cui tutto ciò avviene lascia emergere il più volte rilevato carattere tecnologico
non soltanto a parte obiecti come finora s’è visto, ma anche a parte subiecti, in quanto è per via di
179
79
È dunque a partire dall’approccio psicologista alle tematiche logiche e
scientifiche che si motiva la centralità del segno nel periodo in esame, nella sua
necessità per il costituirsi della scienze come prodotto tipicamente umano, e ciò
non soltanto perché i segni consentono risultati ben al di là delle capacità umane,
ma soprattutto in quanto la semiosi è inscritta nel nostro spirito come uno dei suoi
tratti maggiormente caratterizzanti, tant’è che quei risultati sono possibili soltanto
per via di procedimenti simbolici artificiali fondati su quelli naturali: è solo infatti
in virtù della acquisita familiarità con i segni maturata a partire dalla conoscenza
dei nostri processi psichici che è possibile dar vita a sistemi simbolici artificiali.
La logica dei segni si rivela perciò come la parte decisiva della Kunst der
Erkenntnis, innanzitutto per via della semiosi naturale che caratterizza la nostra
psiche nei suoi processi deduttivi, e conseguentemente perché è l’unica in grado,
con i suoi procedimenti, di assicurare la verità essiccando le fonti dell’errore e di
estendere il dominio conoscitivo umano per via della costruzione di metodi
simbolici, nel rispetto di quelle regole che essa stessa ha permesso di ricavare dai
processi naturali.
Il privilegio accordato, in ambito più strettamente semiotico, alle
rappresentazioni improprie si spiega anch’esso a partire dall’approccio
psicologista alle tematiche logico-scientifiche e non tanto in considerazione della
loro indubbia efficacia in ambito scientifico, che è pur essa da motivare nella
medesima maniera: è infatti la costituzione psichica umana ad avvalersi in
maniera meccanica, naturaliter, di segni surroganti, a far uso di simboli senza più
il riferimento al designato e per giunta come se avesse a che fare con questo, in
virtù del tratto economico del nostro spirito più volte richiamato. L’efficacia dei
surrogati in ambito scientifico, lungi dallo spiegare il privilegio loro accordato,
deve piuttosto venir motivata essa stessa e ciò a partire dalla costituzione psichica
umana, dai peculiari processi psichici a fondamento della semiosi artificiale che
caratterizza i metodi e i procedimenti scientifici. La stessa decisiva importanza
attribuita all’aritmetica nel suo senso come s’è visto algoritmico180, come quel
sistema simbolico a cui sono dovuti gran parte degli sviluppi del pensiero
procedimenti, di metodi simbolici che una siffatta logica puo’ portare avanti la sua indagine, da cui
deriva che essa non soltanto si rivolge ai metodi e ai processi deduttivi, ma è essa stessa metodo e
procedimento, perlomeno nella sua parte più consistente rappresentata dalla logica dei segni.
180
Cfr. S. Centrone Logic and Philosophy of Mathematics in the Early Husserl, Springer,
Dordrecht/Heidelberg 2010, p.29
80
umano181, va valutata alla luce dell’approccio psicologista. Al di là degli interessi
derivanti dalla sua formazione, Husserl vi attribuisce un siffatto valore in
considerazione della peculiarità della nostra psiche, le cui attività in larga parte
simboliche rassomigliano, e di molto, a procedimenti algoritmici, a un calcolo, da
intendersi però non soltanto in senso schiettamente matematico, come operazioni
eseguite su dei numeri, ma nella maniera più ampia indicata nella Filosofia
dell’aritmetica, per la quale
Si puo’ concepirlo… come quella specie di derivazione di segni da segni
all’interno di un qualsiasi sistema segnico algoritmico secondo le “leggi”, o meglio le
convenzioni….che sono proprie di questo sistema
In larga parte dei suoi processi deduttivi, in virtù del loro carattere
simbolico, il pensiero opera in maniera simile, consistendo in derivazioni di segni
da segni secondo regole, quelle cioè psicologiche, affidandosi alla medesima
tipologia semiotica costituente il calcolo, le rappresentazioni improprie:
Spesso, già in singoli passaggi, non ci atteniamo né ai contenuti propri e pieni,
né ai contenuti parziali surroganti, ma semplicemente ai nomi e ai segni
scritti….procediamo meccanicamente lungo la serie, connettiamo ed eliminiamo le
componenti, come richiede lo schema ed otteniamo così un giudizio simbolico (una
proposizione) che vale per noi come segno di una verità. Più spesso tuttavia i singoli
passaggi vengono compiuti all’interno di un giudizio effettivo; ma poiché i risultati del
giudizio vengono espressi contemporaneamente in segni esteriori, ad esempio in
proposizioni, questi segni entrano nel corso ulteriore del processo surrogando i giudizi
reali, e la deduzione ha luogo, ora come prima, in forma simbolica182
181
E. Husserl Semiotica cit., p. 71
Ivi, p. 82. Su questo punto cfr. anche S. Centrone Logic and Philosophy of Matematics in the
early Husserl cit., p.129. Lo sganciamento dei procedimenti matematici dal concetto di quantità è
all’origine della matematizzazione della logica che conduce all’algebra booleana e al suo celebre
calcolo logico (in proposito cfr. G. Boole The Mathematical Analysis of Logic, Macmillan,
Barclay&Macmillan, Cambridge 1847 (trad. it. L’analisi matematica della logica, Bollati
Boringhieri, Torino 1993, pp.3 e 5-6)); per una ricostruzione complessiva delle tappe che
condussero alla sintesi booleana - ovvero delle riflessioni sulla logica maturate in Inghilterra a
partire dagli anni ’20 dell’800 – cfr. Francesco Barone Logica formale e logica trascendentale,
vol. II, L’algebra della logica, Unicopli, Mlano 2000 (I edizione 1965) e M. Trinchero
Introduzione in G. Boole Indagine sule leggi del pensiero su cui sono fondate le teorie
matematiche della logica e della probabilità, Einaudi, Torino 1976, pp. VII-CXXXV). Una siffatta
idea di calcolo è molto vicina a quella che Husserl espone nella Filosofia dell’aritmetica (punto
questo rilevato da Centrone nel già citato testo, p.75) e simile è anche l’impostazione psicologista
dei due pensatori. Sui rapporti fra Husserl e Boole e soprattutto sulle critiche husserliane al calcolo
booleano ci diffonderemo però nel prossimo capitolo.
182
81
La naturalità del progressivo e prevalente ricorso a meri surrogati
avvicina così i processi psichici deduttivi al calcolo ed è proprio per questo
carattere distintivo della nostra psiche che l’aritmetica, intesa in senso
algoritmico, ha potuto condurre lo spirito umano a sviluppi notevolissimi, dove si
dimostra nuovamente e sotto un altro aspetto come i procedimenti simbolici
artificiali si fondino su quelli naturali. La forte impronta psicologista delle
riflessioni qui illustrate, in virtù della quale l’orizzonte d’indagine è rappresentato
dalla psiche e dai suoi processi, fa sì che il problema della scienza venga
affrontato in termini marcatamente antropologici, da cui discende l’attenzione
esclusiva al suo aspetto metodologico, tecnologico, tarato sulla costituzione e sui
limiti della nostra psiche, dove il segno, in specie come surrogato, ha una funzione
decisiva, vista la sua somiglianza con il calcolo.
A ulteriore riprova dei caratteri qui richiamati, in particolare la
rassomiglianza fra pensiero e calcolo, v’è la peculiare angolatura dalla quale
Husserl osserva il problema della conoscenza. In un passo già in precedenza citato
si distingue tra verità e conoscenza della medesima sottolineando come in
quest’ultimo caso subentri la consapevolezza a proposito del procedimento che vi
conduce - a dispetto del decorso naturale dei nostri processi psichici,
tendenzialmente orientati verso la verità ma in maniera del tutto cieca,
inconsapevole, per una sorta di provvida naturalità -, nei termini della
comprensione logica del come e del perché si è giunti a quel risultato183. Ora, la
declinazione eminentemente metodologica, pratica, che il termine “logica”
assume è qui ribadita, poiché validare la conoscenza equivarrà non tanto a
legittimare i contenuti nella loro veridicità, quanto piuttosto a render consapevoli
dei metodi che vi conducono, nei termini di un processo di chiarimento che illustri
le modalità di funzionamento dei procedimenti simbolici ciecamente orientati
verso la verità evidenziandone le condizioni di validità184. Condizioni che sono
183
Ivi, p. 90
Cfr. in proposito R. Parpan Zeichen und Bedeutung cit., pp.59-60. In queste pagine l’autore
distingue tre diversi significati del termine “logico”, in relazione ai procedimenti che possono
fregiarsene: essi sono perciò logici se concettuali, se condotti con la chiara consapevolezza del loro
funzionamento, se capaci di estendere la nostra conoscenza. Queste tre diverse declinazioni, a
nostro avviso, sono però soltanto aspetti diversi dell’unico utilizzo del termine che Husserl
predilige in questa fase, per il quale “logico” è quanto è in grado di render possibile la conoscenza,
in senso esclusivamente pratico, metodologico, operativo: tutti e i tre i significati infatti
convergono verso quest’unico punto, compreso perciò il primo, in quanto un procedimento
concettuale e non più soltanto meccanico motiva da sé i passi che conducono verso l’obiettivo
preso di mira. Anche Willard ricava tre diversi significati, o meglio ambiti di applicazione
dell’aggettivo “logico”, in parte diversi da quelli di Parpan: il rapporto genere/specie; il significato
184
82
naturalmente quelle tacitamente rispettate dai processi psichici - a carattere
deduttivo - nel loro naturale orientamento verso il vero e che si tratta di mettere in
luce, a detta di Husserl, elaborando un procedimento simbolico artificiale
parallelo; costruendolo infatti si dovrà giocoforza prestare attenzione ai criteri da
seguire al fine di un suo retto ed efficace svolgimento, rendendosi così conto delle
condizioni che sovrintendono all’efficacia della deduzione dal lato soggettivo,
psichico e quindi pratico, metodologico, operativo:
l’univocità dell’espressione linguistica e la determinatezza univoca del
ragionamento mediante le premesse, sia dal lato psichico, sia da quello simbolico, sono le
condizioni necessarie e sufficienti tanto per il procedimento meccanico cieco che per il
procedimento meccanico logico185
Come si vede, si tratta di condizioni di natura psicologica, che indicano
quale sia la strada da seguire affinché un metodo abbia successo e sia quindi
efficace nel raggiungere la verità, condizioni che riguardano entrambe le tipologie
di procedimento, perché è sulla nostra costituzione psichica che vanno tarati i
metodi conoscitivi, sulle peculiarità del suo svolgimento, nella fattispecie tenendo
conto del decorso largamente improprio dei suoi processi più elevati, così che si
possa fondatamente “sostituire il ragionamento proprio mediante un operare
esterno con segni linguistici”186.
di una parola o di un’esperienza; gli strumenti in grado di estendere la conoscenza (D.Willard
Logic and the Objectivity of Knowledge cit., p.127 (nota 1)) Si tratta a ben vedere di una disamina
più accurata rispetto a quella di Parpan, le cui tre distinzioni possono esser fatte rientrare
complessivamente nella terza caratterizzazione dello studioso statunitense; va però precisato che
questi ritiene prevalente, nelle opere husserliane, l’utilizzo del termine visto per ultimo, per cui
anch’egli mostra di condividere la maniera in cui abbiamo inteso la logica nella nostra trattazione.
185
E. Husserl Semiotica cit., p.85. Münch ritiene problematica la natura del procedimento
artificiale, perché ancipite. Da un lato infatti un siffatto procedimento è logico perché condotto
sulla scorta di una chiara comprensione del suo funzionamento (ivi, p.90); dall’altro perché
escogitato in base a considerazioni logiche, ovvero conoscitive (ivi, p.85). Due determinazioni,
queste, che entrano in conflitto, considerando che esso tende a divenire meccanico, per cui
risulterebbe “logico” solo in base alla seconda delle summenzionate caratterizzazioni (cfr. D.
Münch Intention und Zeichen cit., pp.125-26). A nostro avviso la questione si dirime affisando
adeguatamente la prospettiva husserliana. Il procedimento artificiale è infatti logico perché
risponde a intenti conoscitivi, consentendo di validare ed estendere la conoscenza e questo perché
elaborato con la chiara comprensione delle condizioni che sovrintendono al suo funzionamento. La
sua progressiva meccanicità non intacca in nulla la sua logicità in quanto quella comprensione è
ciò che lo costituisce, ne è l’origine, a differenza del procedimento naturale, in cui non v’è mai
traccia di comprensione alcuna, in cui cioè la meccanicità non è frutto di una comprensione oramai
assimilata.
186
E. Husserl Semiotica cit., p.86
83
A partire da qui è possibile gettar luce sulla peculiare natura dello
psicologismo husserliano. L’affermazione secondo cui i processi naturali, ovvero
psichici, sono il fondamento di quelli artificiali, o logici, cui consegue che anche i
procedimenti logici fanno uso di leggi psicologiche187, non deve infatti far pensare
che un siffatto psicologismo sia quello bersagliato dalle critiche dei Prolegomeni,
secondo cui le leggi logiche sono meri matters of fact di natura psichica. Husserl,
anche in questa primissima fase, non si spinge mai fino a tal punto, anzi il suo
parlare ad esempio di “numeri in sé” lascia pensare che non dubitasse della
validità oggettiva ed extrapsichica di concetti e principi alla base di scienze quali
aritmetica e logica, pur non avendo ancora ben chiaro a quale orizzonte essa
andasse ascritta. Lo psicologismo ha piuttosto a che fare con la sua concezione
della logica come Kunstlehre, motivo per cui le sue riflessioni in merito si
concentrano sulla psiche: solo affisandone i caratteri, le modalità di
funzionamento è infatti possibile elaborare quei metodi che consentono di validare
la conoscenza ed estenderne il dominio. E in questo i segni occupano un ruolo
centrale, tant’è che la parte decisiva di una siffatta tecnologia è proprio la Logik
der Zeichen, in virtù della natura in larga parte simbolica dei processi psichici a
carattere deduttivo, dove per l’appunto le leggi psicologiche sono essenziali, in
quanto è a partire dai meccanismi associativi e riproduttivi della nostra psiche188
che è possibile giustificare e validare i metodi simbolici naturali così come
soltanto tenendone conto si escogiteranno efficaci metodi artificiali, logici. Si
comprende allora perché all’inizio di questo paragrafo affermavamo che le analisi
sul segno avrebbero permesso di collocare nella sua giusta luce lo psicologismo
husserliano: l’idea che alle leggi psicologiche obbediscano i procedimenti logici si
spiega infatti alla luce di una logica intesa come Kunstlehre, i cui metodi sono in
larghissima parte simbolici e resi possibili come tali dalla nostra costituzione
psichica, dal cui funzionamento discende la semiosi artificiale tipica di una logica
così intesa; siffatta affermazione, in altri termini, non implica la riduzione dei
principi della logica formale a leggi di causa-effetto, bensì sottolinea la necessaria
dipendenza dei metodi simbolici dalla nostra costituzione psichica, in primis dalla
natura impropria di molti dei suoi processi. Se però da un lato lo studio del segno
187
Ivi, pp.86-87
Parpan rinviene nel meccanismo associativo la legge fondamentale per il funzionamento dei
metodi simbolici tanto naturali quanto artificiali (cfr. R. Parpan Zeichen und Bedeutung cit., p.446
(nota 29)). L’associazionismo è infatti all’origine dei processi psichici impropri, ai quali si
richiamano come al loro fondamento i metodi artificiali
188
84
ci consente di comprendere adeguatamente l’ottica psicologista tipica di queste
analisi, dall’altro è nel novero di una tale impostazione che la preminenza dei
segni si motiva e puo’ esser rettamente intesa. L’idea di logica come metodologia
della conoscenza tipicamente umana, dove l’interesse va alla maniera in cui è
possibile conoscere, alle condizioni della sua efficacia piuttosto che ai contenuti
conosciuti - idea questa che si estende, mutatis mutandis, a tutte le altre scienze,
aritmetica in primis -, fa sì che la semiotica emerga in primo piano e con tale forza
da lasciar da parte la dimensione semantica. Basti pensare alla tipologia
prevalente, ovvero i segni esteriori in funzione surrogante, prevalenza dovuta,
come s’è visto, alla loro capacità di facilitare i processi psichici più elevati, in
rispondenza al tratto economico del nostro spirito: in questo caso infatti si opera
senza ricorso ai concetti fondanti, il che equivale a dire che qui i segni non
esprimono, bensì sostituiscono il significato, tanto che il procedere con essi
diviene ben presto meccanico, un operare meramente segnico. In un tale contesto
non meraviglia allora l’attenzione rivolta agli aspetti schiettamente sensibili del
segno, alla loro costituzione materiale, in quanto anche questa si rivela decisiva a
fini conoscitivi:
anche differenze apparentemente futili, come quella tra lo scrivere con la penna
a inchiostro sulla carta e lo scrivere con il gessetto su una tavoletta coperta di polvere,
possono influenzare l’andamento dei metodi matematici. E tutte queste non dovrebbero
essere differenze anche di carattere logico? E una differenza, che influisce sulla
padronanza tecnica di un ambito conoscitivo, puo’ esser fatta rientrare tra le differenze
logiche189
La preminenza del segno è perciò da prendere alla lettera e nel senso più
stretto, come preminenza della mera “marca”, il cui aspetto sensibile è decisivo
per una logica intesa come Kunstlehre, come metodologia della conoscenza
tipicamente umana, in quanto anche da esso dipende l’efficacia dei metodi
conoscitivi, vista la sua influenza sulla “padronanza tecnica di un ambito
conoscitivo”. Le differenze fra gli strumenti di cui si servono i metodi sono perciò
essenziali, perché alcuni meglio di altri si rivelano adeguati per lo scopo
perseguito, utilità misurata sulle caratteristiche della nostra psiche se un tale scopo
è la conoscenza metodologicamente intesa, per cui anche differenze
189
E. Husserl Filosofia dell’aritmetica cit., p.288
85
apparentemente estrinseche come quella fra segni scritti e orali hanno una decisiva
rilevanza logica, se i primi si rivelano incomparabilmente più efficaci per lo
sviluppo delle scienze190.
La preminenza della dimensione simbolica, già rilevata a riguardo delle
questioni aritmetiche, si motiva perciò soprattutto alla luce del concetto di logica
tipico di questa fase, quello cioè di una metodologia delle conoscenza, in tal senso
fondativa di tutte le altre scienze perché anch’esse metodologicamente intese,
aritmetica compresa191. Il segno perciò assume un ruolo di primo piano in quanto
strumento principe della psiche nei suoi atti cognitivi, cosicché la parte decisiva di
una logica come Kunstlehre non potrà che essere, come s’è visto, una Logik der
Zeichen, che mostri per l’appunto a quali condizioni psicologiche la validità e
l’efficacia dei metodi simbolici risponda, illustrandone il modo di funzionamento.
In questo però la dimensione semantica si rivela del tutto inessenziale: quei
procedimenti infatti si svolgono meccanicamente, il loro tratto precipuo e di
maggior interesse sotto un profilo metodologico è il loro render dispensabile il
ricorso al significato, tanto che i segni che li costituiscono si rivelano essere
surrogati. Giustificare quei metodi equivarrà perciò a rendere comprensibile in
quale maniera sia possibile sostituire un procedere “proprio”, indicare le
condizioni psicologiche che rendono possibile una siffatta sostituzione,
consentendo alla nostra psiche di alleggerire i suoi processi ed estendere così il
campo delle sue conoscenze.
Naturalmente non si vuol qui sostenere che la questione del significato
sia del tutto assente dalle considerazioni semiotiche husserliane, quasi che i segni
fossero mere pedine utilizzate ad arbitrio; piuttosto, è il rapporto con il concetto
rappresentato a istituire il segno192 e il rimando a esso è parte della giustificazione
logica del metodo simbolico193, laddove i segni, per parafrasare Wittgenstein,
“girino a vuoto”194. V’è però da dire che il significato fa la sua comparsa soltanto
190
Ivi, p.287
Lo stesso Husserl riconoscerà successivamente che il fuoco delle sue considerazioni era andato
progressivamente spostandosi dall’aritmetica alla logica, in quanto era a questa che doveva
richiedersi la soluzione delle difficoltà presentate dalla prima in quanto scienza deduttiva. Cfr. E.
Husserl Prefazione alla prima edizione delle “Ricerche logiche” in id. Ricerche logiche cit., pp.35
192
Cfr. soprattutto la critica di Husserl al nominalismo in E. Husserl Filosofia dell’aritmetica cit.,
pp.213-20 (in particolare p.219); ma anche ivi, p.170.
193
Cfr. in proposito R. Parpan Zeichen und Bedeutung cit., p.52
194
E. Husserl Semiotica cit., p.75 (dove peraltro si afferma che a fungere da significato puo’ esser
sufficiente addirittura un surrogato di esso, una sorta di lacerto, purchè sia accompagnato da un
191
86
laddove si tratti di validare o introdurre i metodi simbolici, a esso non è perciò
dedicata alcuna trattazione autonoma, che ne enuclei ad esempio le leggi o le
categorie, poiché è sempre in subordine a questioni semiotiche che se ne trova
traccia; il rapporto segno-significato si declina qui in maniera prettamente
psicologica, sono i meccanismi associativi e riproduttivi a renderne conto, in
quanto è per via di questi che i surrogati possono sorgere e venir, laddove occorre,
verificati, cosa che mostra da un altro versante come la questione del significato
sia subordinata a quella più strettamente semiotica. Un’ulteriore e indiretta riprova
è data poi dall’importanza attribuita agli aspetti sensibili delle entità segniche, che
abbiamo visto confluire nell’ambito di una logica metodologicamente intesa;
importanza questa inconcepibile laddove il segno si riveli subordinato al
significato, motivata invece nel momento in cui sia il primo, nella misura più
strettamente semiotica, a occupare il centro della scena.
La conseguenza più importante ed evidente della lateralità della
questione semantica sta nello scarso peso dato al linguaggio. Pur definendolo “il
sistema di segni più importante che possediamo”195 Husserl non ne fa mai il
centro della sua trattazione; ma soprattutto questa sua importanza non si motiva
affatto a partire dalla dimensione che più lo caratterizza, quella cioè espressiva,
perché i suoi segni - parole e proposizioni - vengono considerati in via esclusiva
come entità surroganti attive nei processi di giudizio196, in una maniera che come
abbiamo visto lo avvicina al calcolo. Soltanto con il progressivo spostamento
dell’interesse dal segno al significato il linguaggio guadagnerà in attenzione e la
dimensione espressiva diverrà prevalente, come avremo modo di vedere, sin da
subito, nel prossimo capitolo.
Prima però di chiudere con questa trattazione è opportuno tirare le fila su
quanto sin qui detto, così da indicare la direzione dei successi sviluppi. La
preminenza della dimensione simbolica fa tutt’uno con una concezione
metodologica della scienza, sì che anche la logica si configura come una
Kunstlehre o, per stare ai termini utilizzati in Semiotica, Kunst der Erkenntnis,
trovando in questo la sua funzione fondativa rispetto alle altre scienze. Una
giudizio di riconoscimento, a riprova di come la questione semantica sia affrontata da un versante
prettamente psicologistico, regolato da meccanismi riproduttivi)
195
Ivi, p.92
196
Parpan osserva giustamente che in questi testi husserliani il linguaggio è riguardato in via
esclusiva come mezzo di conoscenza, al servizio di esigenze conoscitive (R. Parpan Zeichen und
Bedeutung cit., p.448 nota 2)
87
siffatta prospettiva non impegna però Husserl in uno psicologismo che riconduca
le leggi logiche a meri matters of fact di natura psichica, ma attesta semplicemente
l’orientamento del suo interesse verso la dimensione esclusivamente soggettiva
della conoscenza, verso la maniera cioè in cui è possibile per un soggetto psichico
giungere a conoscere qualcosa. In questo la centralità del segno, strumento
principe dei metodi conoscitivi per via dell’origine della semiosi dai processi
naturali di pensiero che ne rende particolarmente efficace l’azione: si è visto
infatti come il tratto economico del nostro spirito stia a fondamento del ricorso a
segni in funzione surrogante, indicando così la via da seguire al fine di estendere
la conoscenza. Ora, come abbiamo notato più volte, da un tale ordine di
considerazioni il lato oggettivo della conoscenza - i contenuti conosciuti - è
pressoché assente; anche laddove si tratti di giustificare, validare, chiarire il
funzionamento dei metodi “tecnologici” è sempre alla psiche che è rivolta
l’attenzione, sono sempre condizioni psicologiche quelle che emergono. L’idea
che questo genere di analisi, benché importanti, non fossero sufficienti a fondare
una tecnologia logica non era ancora presente nei pensieri husserliani dell’epoca;
eppure, stando ai diversi luoghi in cui egli ripercorre il suo travaglio intellettuale,
già affiorava una forte insoddisfazione per una siffatta fondazione psicologica
della logica, in via esclusiva riguardo al lato oggettivo, ai contenuti di pensiero
logici, la cui
validità per l’appunto
oggettiva mal si
concilia con
quell’impostazione prettamente soggettivista197. Sarà perciò da problematiche di
questo genere che Husserl si vedrà spinto a una diversa calibratura dell’idea di
logica, o in altri termini all’elaborazione di un diverso tipo di fondazione, quale
appunto si manifesta nella “logica pura” dei Prolegomeni. Tutto questo ha
ovviamente le sue ripercussioni sulla semiotica. L’indirizzamento sempre
maggiore verso i contenuti conoscitivi fa sì che i segni perdano il ruolo di
preminenza attribuito loro, in quanto è ai significati che li esprimono che andrà
l’attenzione e non ai segni, che ne fornivano soltanto una caratterizzazione
indiretta. Da un versante più prettamente logico, quello della fondazione della
Kunstlehre, questo spostamento di tradurrà in un interesse esclusivo per il
significato e le sue categorie, in quanto essenziali alla validità di una metodologia
della conoscenza, così come alla costruzione di qualsivoglia teoria, di qualsiasi
scienza; il fatto poi che le categorie del significato assurgano allo statuto di
197
Cfr. E. Husserl Prefazione alla prima edizione delle “Ricerche logiche” cit., pp.4-5.
88
contenuti, con una loro precisa e nuova dimensione - né fisica né psichica -, farà sì
che i segni, lungi dal sostituire i significati, saranno piuttosto mezzi per
esprimerli, o anche intenderli, sì che la legalità alla base del linguaggio non sarà
più di natura psicologica198. Perciò, con il prevalere della dimensione semantica su
quella simbolica, i segni non avranno come funzione preminente quella
surrogante, in quanto loro compito precipuo sarà l’esprimere, con la conseguenza
che il linguaggio sarà salvaguardato nella sua autentica fisionomia e riportato al
centro dell’interesse.
A ben vedere inoltre la scomparsa della funzione surrogante dalle analisi
semiotiche attesta, oltre che la prevalenza delle questioni semantiche da cui del
resto è spiegata, anche il venir meno dell’impostazione psicologista in rapporto ai
contenuti. Questi infatti non saranno più da intendere come parti effettivamente
presenti alla psiche, come immanenze psichiche, cosa che rendeva impossibile il
concetto di contenuto extrapsichico; piuttosto si parlerà di entità trascendenti la
coscienza e da essa intese, e proprio per via di segni significativi. In tal maniera il
segno non avrà più il compito di sostituire entità impresentabili, permettendoci
comunque di parlarne e affisarne i caratteri, seppur per via indiretta; ma sarà
piuttosto il mezzo che indirizza verso di essi, verso la loro presentazione intuitiva,
in virtù di quell’interesse verso la dimensione contenutistica della conoscenza che
porta alla luce una nuova dimensione oggettuale, quella ideale, per l’appunto né
fisica né psichica. Già da qui si comprende allora come il segno, in sé e per sé e
come tale, come mero segno esteriore, sia incompatibile con una impostazione che
miri “alle cose stesse” quale quella fenomenologica, dove appunto è la
conoscenza intuitiva, e non quella “simbolica”, a essere non tanto centrale, bensì
esclusiva. Punto questo, così come gli altri or ora segnalati, che troverà adeguato
svolgimento nelle nostre prossime analisi.
198
Esemplare in tal senso è la Quarta ricerca
89
§ 2 – La fase intermedia
§ 2.1 – Calcolo e linguaggio
Al fine di dare inizio allo sviluppo dei temi poco più che elencati al
termine del precedente capitolo intendiamo qui riprendere e approfondire un
aspetto della semiotica husserliana colà trattata, riguardo al quale non si era andati
al di là di un qualche semplice accenno, ovvero la somiglianza fra processi
deduttivi naturali e procedimenti algoritmici, o se si preferisce tra pensiero
(psichicamente inteso) e calcolo. Il ricorso progressivo e naturale alla semiosi
surrogante, in rispondenza all’ormai noto tratto economico del nostro spirito,
avvicinava di molto l’attività giudicante della psiche a operazioni segniche di
stampo algoritmico, a patto di intendere il calcolo in senso non strettamente
matematico, con il suo vincolo alla dimensione quantitativa dei numeri, ma in
quello più ampio a cui giungono del resto le stesse riflessioni husserliane
sull’aritmetica, secondo le quali, lo si è visto
si puo’ concepirlo… come quella specie di derivazione di segni da segni
all’interno di un qualsiasi sistema segnico algoritmico secondo le “leggi”, o meglio le
convenzioni….che sono proprie di questo sistema199
Una simile idea di calcolo era in verità piuttosto comune negli ambienti
logici all’epoca in cui Husserl dava inizio al suo Denkweg. La riflessione sui
fondamenti della matematica portata avanti dalla scuola di Cambridge a partire dal
secondo decennio dell’800 aveva progressivamente condotto, per via delle
problematiche sorte in questa disciplina, a liberare il calcolo dal suo esclusivo
riferimento alla quantità in vista di una sua sempre maggiore formalizzazione, uno
sviluppo che ebbe il suo culmine nell’algebra della logica di George Boole200; in
tal maniera il calcolo si declinava nei termini di un’algebra simbolica, dove a
esser centrali sono le regole di combinazione dei simboli e non la loro
interpretazione, sì che un medesimo procedimento algebrico puo’ esser valido per
diversi ambiti scientifici. Sulla scorta di questo è possibile ravvisare una certa
E. Husserl Filosofia dell’aritmetica cit., p. 303. Le “convenzioni” naturalmente sono qui regole
di natura psicologica, trattandosi per l’appunto di processi simbolici naturali e non di procedimenti
artificiali quali appunto gli algoritmi.
200
Per una sintetica ma esaustiva ricostruzione degli sviluppi qui solamente accennati rimandiamo
al già citato testo di Francesco Barone Logica formale e logica trascendentale II. L’algebra della
logica
199
90
convergenza con le riflessioni husserliane a proposito del calcolo, soprattutto a
motivo del fatto che è proprio con Boole che lo svincolamento dalla dimensione
quantitativa
diviene
effettivo,
liberandosi
dalle
resistenze
che
ancora
interessavano quelli che possono esser considerati i suoi precursori. La novità di
Boole non stava però soltanto in questo, in una più decisa posizione a favore
dell’algebra
simbolica;
l’elemento
più
significativo
risiede
piuttosto
nell’interpretazione logica di un siffatto calcolo, segnatamente in senso
estensionale201, che lo metteva in grado di rispecchiare, o meglio di “dare la forma
dei nostri inferimenti discorsivi”202. Questo perché, secondo lo studioso
anglosassone, la logica si fonda su fatti che hanno la loro sede nella struttura della
mente umana203, da cui discende che
ciò che rende possibile la logica è l’esistenza, nella nostra mente, di nozioni
generali: la nostra capacità di concepire una classe e designare con un nome comune gli
individui che ne sono membri204
Se dunque come voleva Whately la logica è “scienza del ragionamento”,
il cui ufficio più proprio sta nell’analisi dei processi della mente nel
ragionamento205, la sua natura non potrà che essere estensionale, visto il
comportamento della nostra psiche negli atti che la costituiscono. L’inflessione
marcatamente psicologista di queste analisi è quella che consente inoltre alla
logica di presentarsi come calcolo. A detta di Boole infatti questo non è
semplicemente un suo abbellimento estrinseco, una forma tra le altre in cui possa
esprimersi, in quanto ne è piuttosto l’esclusiva manifestazione, la logica in altri
termini non puo’ che presentarsi in maniera computazionale, in quanto v’è
un’esatta concordanza fra le operazioni dell’algebra e quelle del ragionamento206,
sono le leggi del pensiero a prescrivere una siffatta manifestazione e a vietarne
altre207, tanto che le indagini sulle leggi dei segni e su quelle del pensiero
conducono a risultati equivalenti208. Si comprende allora come per Boole la
matematizzazione della logica non sia una teoria proposta fra le altre al fine di
F. Barone Logica formale e logica trascendentale II. L’algebra della logica cit., p.78
Ivi, p.81
203
G. Boole L’analisi matematica della logica cit., p.3
204
Ivi, p.6
205
F. Barone Logica formale e logica trascendentale II. L’algebra della logica cit., p.20
206
G. Boole Indagine sulle leggi del pensiero cit., p.15
207
Ivi, p.23
208
Ivi, p.42
201
202
91
assicurarle il congruo grado di scientificità, bensì l’unica via da percorrere al fine
di coglierne l’esatta natura, perché matematici sono le sue forme e i suoi
processi209, tanto che egli definisce suo scopo precipuo quello di costruire “la
matematica dell’intelletto umano”210.
Alla luce di queste considerazioni emerge una certa affinità tra le
posizioni booleane e husserliane. La preminenza attribuita al simbolismo discende
in entrambi dalla natura del pensiero, dei nostri processi psichici, per i quali il
ricorso a segni è tutt’altro che estrinseco, ma è un tratto essenziale della loro
natura, sì che il pensiero si dimostra perlomeno affine a un calcolo algebrico
meramente formale, in quanto liberato dal vincolo ai significati211, foss’anche
soltanto il concetto di quantità. Un’affinità che deve però essere ancora calibrata
nella maniera adeguata, ovvero ridimensionata alla luce delle numerose critiche
mosse da Husserl all’algebra della logica, critiche estremamente importanti nel
novero del nostro lavoro, in quanto consentono di mettere in luce alcuni degli
aspetti che indirizzano verso le nuove prospettive husserliane in campo non
soltanto semiotico. Prima però di darne opportunamente conto è necessario
premettere un’osservazione di carattere metodologico e filologico. Nelle nostra
esposizione il testo di riferimento sarà la recensione all’opera di Ernst Schröder
Vorlesungen über die Algebra der Logik e gli appunti presi per la sua stesura,
quindi non esplicitamente Boole, bensì il suo epigono più fedele e tecnicamente
capace. Il motivo di questa scelta risiede nel fatto che il suddetto testo husserliano
contiene una critica serrata e articolata dell’algebra della logica, molto più
pregnante e perspicua, a nostro avviso, degli scritti rivolti esplicitamente al
fondatore del calcolo logico212, senza considerare che le osservazioni che ne
costituiscono il testo valgono per Schröder come per Boole, proprio perché rivolte
a quell’idea di logica comune a entrambi. A ciò si aggiunga che la recensione
all’opera di Schröder risale al 1891, contemporanea perciò alla Filosofia
dell’aritmetica, sì che le novità in essa emergenti possono considerarsi davvero un
209
Ivi, p.24
G. Boole L’analisi matematica della logica cit., p.9
211
Molto opportunamente Trinchero rileva tra le influenze più incisive in Boole quella del filosofo
scozzese Dugald Stewart, nella cui opera il ragionamento è esplicitamente assimilato a un calcolo
algebrico, poiché in esso si prescinde del tutto dai significati. Cfr. M. Trinchero Introduzione in G.
Boole Indagine sulle leggi del pensiero cit., p.XXXI.
212
Si tratta in particolare di una lezione tenuta da Husserl nel 1895 sulla nuove ricerche a
proposito della logica deduttiva, una cui sezione è dedicata per l’appunto a Boole. Per una sua
analisi rimandiamo a S. Centrone Logic and Philosophy of Matematics in the Early Husserl cit.,
pp.75-80, dalla quale peraltro emerge come le critiche rivolte al calcolo logico booleano siano
sostanzialmente identiche a quelle indirizzate a Schröder.
210
92
primo inizio della via che condurrà alle rielaborazioni non soltanto semiotiche
delle Ricerche logiche. Forti di questi chiarimenti possiamo dare ora inizio
all’esposizione delle obiezioni husserliane
Le critiche all’algebra della logica si appuntano sulla sua pretesa di
fornire un’accurata ed esaustiva esposizione della logica deduttiva, di presentarsi
come una logica siffatta. In particolare, si contesta a Schröder una eccezionale
discrepanza fra gli obiettivi proposti e la loro realizzazione. Ciò è evidente già
dalle prime battute del testo, laddove la pretesa schröderiana di attribuire alla sua
logica l’analisi di ogni truismo, di ogni verità immediata ed evidente, cozza con la
ristrettezza delle sue analisi, con il loro assoluto formalismo, in virtù del quale
giudizi identici non meramente formali rimangono fuori dalla trattazione, come
accade ad esempio quelli matematici del tipo 2<3213. Pur concedendo al logico
tedesco la legittimità della sua delimitazione al campo della deduzione puramente
formale, la situazione non migliora, anzi le critiche si fanno più serrate e, per
quanto ci riguarda, si rivelano ben più rilevanti. Una logica come teoria generale
della deduzione deve riguardare tutte le attività costitutive delle scienze deduttive
che non sono affatto esaurite dal mero concludere conseguente cui si rivolge in
esclusiva la logica schröderiana214; soprattutto, Husserl tiene a sottolineare come il
calcolo stesso non sia affatto un concludere conseguente e, a rigore, una
deduzione215. Con questo tocchiamo il punto nevralgico delle critiche husserliane
all’algebra della logica. Quello proposto da Schröder (e Boole) è infatti un calcolo
che non opera deduzioni, perché è una tecnica semiotica mirante a sostituirle, è un
mero surrogato di queste, da cui discende che essa non puo’ affatto presentarsi
come una teoria della deduzione, consistendo piuttosto il suo autentico ufficio in
una surrogazione delle deduzioni per mezzo di operazioni segniche. Per dirla con
le parole di Husserl
l’intero processo [del calcolo] risparmia e sostituisce molteplici deduzioni pure,
ma esso stesso non è alcuna di queste216
E. Husserl Besprechung von E. Schröder “Vorlesungen über die Algebra der Logik”, in
Husserliana XXII, Den Haag, Nijhoff 1970, p.5. In proposito cfr. anche D. Münch Intention und
Zeichen cit., p. 134
214
E. Husserl Besprechung von E. Schröder “Vorlesungen über die Algebra der Logik” cit., p.6
215
« Ma è il calcolare un dedurre (Schlieβen)? Nient’affatto. Il calcolare è un cieco procedimento
con simboli secondo le regole meccanico-riproduttive della trasformazione e trasposizione di segni
del rispettivo algoritmo ». Ivi, p.7 (trad. nostra)
216
Ibid. (trad. nostra)
213
93
Con questo diviene allora chiara l’autentica natura del calcolo logico:
esso “è dunque un calcolo delle pure conseguenze, non però la sua logica”217, da
cui discende che lungi dal presentarsi come una teoria della deduzione necessita
piuttosto di una siffatta teoria al fine della sua giustificazione e legittimazione,
così come accade a ogni metodo conoscitivo. Per riassumere quanto qui detto, si
puo’ dire che prima, in senso condizionale, dell’algebra della logica deve esservi
una logica dell’algebra, in grado di legittimare il calcolo nelle sue pretese
conoscitive, proprio perché questo, in quanto metodo, non è né una teoria della
deduzione né esibisce la sua stessa logica218. L’errore del calcolo logico è stato
quello di aver confuso uno strumento per facilitare la deduzione con una teoria di
questa medesima, laddove è solo sulla base di una siffatta teoria che il calcolo
puo’ esser escogitato e reclamare un autentico valore conoscitivo. Una riprova
indiretta di quanto or ora detto sta nella molteplicità di metodi algoritmici fioriti
all’epoca di Husserl: qualora infatti il calcolo estensionale fosse l’autentica teoria
della deduzione non vi potrebbero essere calcoli diversi in grado di condurre alla
soluzione dei compiti deduttivi, per cui si mostra evidentemente come l’algebra
della logica proposta da Schröder non rispecchi affatto il canone delle attività
conoscitive219, non sia perciò quanto pretende di essere.
Le osservazioni qui raccolte ed esposte confermano e apportano
maggiore chiarezza alle posizioni espresse da Husserl nei testi trattati nello scorso
capitolo. Si è visto infatti come in Semiotik i procedimenti simbolici algoritmici,
ricondotti a una semiosi artificiale, non si configurassero affatto nei termini di una
logica della deduzione, valendo piuttosto come strumenti, atti a verificare i
processi naturali di pensiero e ad estenderne l’ambito conoscitivo. La somiglianza
riscontrata tra calcolo e processi psichici di giudizio, in virtù del decorso
largamente improprio di questi, non vale a fare della logica un calcolo, quanto
217
Ivi, p.8
Cfr. D. Willard Logic and the objectivity of Knowledge cit., pp.139-40
219
E. Husserl Besprechung von E. Schröder “Vorlesungen über die Algebra der Logik” cit., p.8.
Oltre a rilevare come il calcolo estensionale non sia l’unico, sì che già per questo non puo’ affatto
proporsi come l’autentica teoria della deduzione, necessitando piuttosto di una siffatta teoria,
Husserl mostra inoltre come esso in verità non sia nemmeno sullo stesso piano degli altri, ma in
posizione subordinata rispetto al calcolo intensionale, poiché “di fatto ogni giudizio estensionale è
in verità un giudizio intensionale” (ivi, p.19, trad. nostra). Un’esposizione più accurata e
dettagliata non soltanto della pari efficacia del calcolo intensionale, ma anche della sua maggiore
congruità alle leggi del pensiero, è contenuta in un altro breve scritto di Husserl, ovvero Der
Folgerungskalkül und die Inhaltslogik in Husserliana XII cit., pp.44-66 (su questo punto cfr. anche
D.Willard Logic and the objectivity of Knowledge cit., pp.141-42)
218
94
piuttosto a garantire l’efficacia dei procedimenti algoritmici in termini di
prestazioni conoscitive. Husserl sottolinea infatti l’importanza di una logica dei
segni la cui natura non è affatto quella di un calcolo, poiché si serve di strumenti
simbolici artificiali al fine di indagare e render manifesti i processi naturali di
giudizio, sì da illustrare i modi di funzionamento di questi e costruire a partire da
ciò metodi efficaci, quali ad esempio gli algoritmi. Sì comprende allora, anche alla
luce delle analisi di Semiotik, per quale motivo Husserl affermi che il calcolo
logico non sia affatto la sua stessa logica, o per meglio dire, la logica delle pure
conseguenze: il suo scopo, lo si è visto, è infatti quello di surrogare le deduzioni e
al fine di riuscirvi è necessario che siano esposte le condizioni che rendono tutto
questo possibile, è necessaria in altri termini una logica dei segni che
s’impadronisca dei procedimenti naturali dello spirito da cui i metodi simbolici
artificiali, come il calcolo, hanno origine e dipendono per la loro validità. Per la
sua scoperta natura di metodo il calcolo rimanda alla logica come Kunstlehre
tipica di questa fase e non è affatto questa stessa logica, poiché come si è visto in
precedenza sta a una logica così intesa, soprattutto in quanto Logik der Zeichen,
fornire le condizioni di validità di qualsiasi metodo conoscitivo simbolico, sta a
essa mostrare a quali condizioni la surrogazione sia possibile, indagando le
modalità in cui si svolgono i procedimenti naturali dello spirito, perché “è nei
processi naturali che si trova l’origine di quelli artificiali”220.
La critica al calcolo logico conferma e chiarisce ulteriormente gli assunti
sulla semiotica tipici degli esordi della riflessione husserliana. La preminenza
attribuita al segno rimonta alla sua natura di efficace strumento conoscitivo,
soprattutto nella funzione surrogante, in coerenza con una logica intesa come
Kunstlehre; la somiglianza tra calcolo e pensiero, per via della natura largamente
semiotica di quest’ultimo, non vale allora a fare del primo una logica della
deduzione, ma soltanto a garantirne l’efficacia come strumento conoscitivo, anche
perché la semiosi surrogante che caratterizza entrambi è volta a facilitare i
processi deduttivi, non a validarli. Husserl del resto aveva chiarito la natura del
calcolo come strumento proprio laddove lo aveva svincolato dal consueto
riferimento alla quantità, ovvero nella Filosofia dell’aritmetica, illustrando inoltre
220
E. Husserl Semiotica cit., p.87. Un siffatto richiamo è del resto esplicito anche nella recensione
a Schröder, laddove si afferma che la mancanza fondamentale del calcolo logico è quella di non
dire nulla sulle Geistesoperationen che ne stanno a fondamento; cfr. E. Husserl Besprechung von
E. Schröder “Vorlesungen über die Algebra der Logik” cit., p.8
95
a quali condizioni il suo operato possa rivelarsi efficace e valido: a esso deve
infatti precedere la conversione dei pensieri in segni e seguire la conversione dei
segni risultanti in pensieri221. Un punto questo ribadito nella recensione a
Schröder, dove si osserva come il calcolo non possa affatto presentarsi come una
teoria della deduzione proprio perché è solo una parte dell’attività deduttiva,
preceduto e seguito dai due processi or ora menzionati222. In questo stesso luogo si
registra una forte presa di posizione di Husserl contro l’eccessivo formalismo
della logica schröderiana, contro la sua pretesa di scaricare le difficoltà relative
allo studio delle cose sullo studio dei segni223, che sembrerebbe prima facie
contraddire l’importanza attribuita alla Logik de Zeichen. A ben vedere però
quanto qui si contesta è il meccanicismo della logica schröderiana, la sua
riduzione a una mera manipolazione segnica, ovvero ancora una volta la
confusione tra una tecnica della deduzione e la logica di essa224; se si riconosce al
calcolo logico la sua autentica natura di metodo simbolico, si comprende in che
senso la Logik der Zeichen si distingua dallo Studium der Zeichen cui si riferisce
Schröder. Quanto si richiede non è infatti uno studio del segno qua talis, che ne
faccia oggetto autonomo di trattazione, come se la logica - e le attività che
rientrano nel suo novero - fosse una questione prettamente semiotica, di calcolo
per l’appunto; piuttosto è necessaria una logica dei segni in quanto strumenti, una
teoria dei metodi simbolici che ne ritrovi le condizioni di validità nei processi
naturali dello spirito, che mostri come quella meccanicità sia un derivato di natura
psicologica, dovuta cioè alla natura della nostra psiche, che illustri in altri termini
il funzionamento dei nostri processi psichici - simbolici in larga parte - al fine di
escogitare metodi artificiali altamente efficaci in senso conoscitivo, come appunto
il calcolo logico. Senza una logica in grado di fornire una fondazione dei processi
computazionali nel pensiero naturale il loro condurre a risultati esatti, osserva
Husserl a proposito di Boole, si rivela come un inspiegabile miracolo225.
E. Husserl Filosofia dell’aritmetica cit., p.303
E. Husserl Besprechung von E. Schröder “Vorlesungen über die Algebra der Logik” cit., p.10
223
Ivi, p.9
224
In proposito cfr. anche E. Husserl Der Folgerungskalkül und die Inhaltslogik cit., p.53
225
Cfr. S. Centrone Logic and Philosophy of Mathematics in the Early Husserl cit., p.80. Ci
sarebbe da discutere sulla congruità di quest’affermazione husserliana, soprattutto a motivo della
fondazione psicologica della logica - in quanto Kunstlehre - che egli in questa fase reclama. Boole
infatti fonda il suo calcolo logico in senso schiettamente psicologista, giustificandone la natura
estensionale a partire dalla tipicità degli atti psichici (cfr. G. Boole L’analisi matematica della
logica cit., p.6) così come psicologista è l’impianto di fondo di tutta la sua trattazione. Basti
pensare alla celebre legge degli indici, principio distintivo del calcolo logico proprio perché legge
del pensiero (ivi, pp.20-22), a cui egli riconduce addirittura l’assioma fondamentale della
221
222
96
Il confronto con una prospettiva come quella schröderiana (e booleana),
nella quale decisiva importanza è attribuita ai segni e ai procedimenti simbolici,
aiuta a delineare meglio le posizioni husserliane sul segno di cui ci siamo finora
occupati. La somiglianza tra pensiero e calcolo emersa dalle pagine di Semiotik
non vale infatti a fare della logica un algoritmo, poiché essa è piuttosto ciò che
fonda e rende efficaci i metodi simbolici; tutto questo coerentemente con la
declinazione tecnologica che essa assume in questa fase della riflessione
husserliana, nella quale per l’appunto la logica ha il compito di indagare le
condizioni che consentono di approntare metodi finalizzati al conseguimento della
verità226, condizioni di natura squisitamente psicologica. Soprattutto, la critica al
meccanicismo del calcolo logico mostra come lo scarso interesse rivolto alla
dimensione semantica non attesti affatto una sua sottovalutazione, perché si
motiva alla luce della già ricordata natura metodologica tipica della logica. Il fatto
che la tipologia prevalente nei metodi conoscitivi, così come nella semiosi
naturale che ne è condizione, sia quella surrogante fa sì che il significato non
occupi il centro della trattazione; va detto però che una siffatta funzione si motiva
ed è possibile soltanto a partire dalla previa presenza dei significati, poiché
subentra dopo l’acquisita familiarità con essi, è solo a fronte di un significato, o
meglio di un concetto, proprio o simbolico, che la surrogazione puo’ aver senso,
così come i metodi simbolici da essa contraddistinti. Quanto Husserl osserva a
proposito del meccanicismo del calcolo logico conferma quanto qui detto: è solo
perché rispecchia le leggi del campo d’indagine a cui si applica che un simile
calcolo puo’ dirsi pertinente, giusto e giustificato.
Le riflessioni husserliane sull’algebra logica non valgono però soltanto
come contributi chiarificatori227, né ci si puo’ limitare ad ammettere che qui
metafisica, ovvero il principio di non-contraddizione (G. Boole Indagine sulle leggi del pensiero
cit., pp.76-78). Francesco Barone riscontra in questo la contestata apertura filosofica di Boole,
ovvero il non essersi limitato al piano della costruzione formale, avendo ampliato il suo campo
d’indagine al momento costruttivo del formale, all’attività umana da cui trae origine, ovvero alle
leggi del pensiero in senso psicologico (F. Barone Logica formale e logica trascendentale II.
L’algebra della logica cit., p.88). A fronte di questo si puo’ forse ritenere che Husserl reputasse
insoddisfacenti le conclusioni di Boole sui processi psichici fondanti (abbiamo visto infatti la sua
contrarietà a identificare la logica formale con quella estensionale) e che sia questo a renderlo sì un
eccellente tecnico logico, ma al contempo un assai modesto filosofo della logica (cfr. E. Husserl
Besprechung von E. Schröder “Vorlesungen über die Algebra der Logik” cit., p.9).
226
Cfr. in proposito E. Husserl Ricerche logiche vol. I cit., pp.45-46
227
Willard sostiene che sia stato proprio l’influsso dell’algebra della logica a provocare la rottura
di Husserl con la logica psicologica di stampo brentaniano, ovvero con l’idea che a fornire una
logica dell’aritmetica debba essere una teoria delle rappresentazioni simboliche (cfr. D. Willard
Logic and the Objectivity of Knowledge cit., p.115). Questo perché Husserl, al termine dei suo
97
Husserl giunga maggiormente in chiaro riguardo alle sue posizioni, soprattutto in
ambito semiotico; a ben vedere infatti si notano delle novità importanti, delle quali
una in particolare merita la nostra attenzione: la messa in rilievo della differenza
tra calcolo e linguaggio228. Finora abbiamo assistito a una sostanziale
assimilazione di quest’ultimo all’altro, non perché Husserl ne disconoscesse le
specificità, ma in virtù di un’ottica che accordando la sua preferenza ai segni
surroganti non le poneva mai al centro del suo interesse, cosicché il linguaggio
veniva sì considerato il più importante sistema segnico, ma solo per la sua
indubbia efficacia nel produrre rappresentazioni improprie, surroganti, non quindi
per la sua specifica capacità espressiva. Quanto qui accade è non soltanto uno
spostamento di attenzione verso quest’ultima, ma soprattutto una radicale messa
in discussione di quell’assimilazione, che segna a nostro avviso un primo decisivo
passo in direzione dei nuovi sviluppi husserliani.
L’approfondimento
relativo
ai
simboli
algoritmici,
maturato
e
manifestato nel confronto con il calcolo logico, conduce infatti Husserl a una
maggiore chiarezza attorno alla peculiare natura semiotica di calcolo e linguaggio.
Spunto in tal senso decisivo è la pretesa schröderiana di rifondare la logica a
partire dalla sostituzione del linguaggio naturale, di cui si serve il pensiero
giudicante, con un procedimento algoritmico privo delle sue incompletezze, cosa
che consente la trasformazione della logica in un calcolo229. Una posizione che
Husserl attacca nel suo assunto fondamentale, di base, ovvero l’evidente
identificazione tra linguaggio e calcolo, dove per l’appunto quest’ultimo è visto
lavoro sull’aritmetica, si rende conto che gran parte del lavoro matematico è di natura algoritmica,
per cui non è più una logica psicologica nel senso di una teoria della rappresentazione a poter
fondare e validare le attività aritmetiche, “perché in esse non si sta rappresentando, né inferendo.
Si sta calcolando” (ivi, p.116, trad. nostra). In tal maniera è aperta la via a una logica in grado di
giustificare, validare, fondare l’utilizzo di siffatti algoritmici, punto questo che segna la
separazione tra le posizioni husserliane e il calcolo logico booleano-schröderiano. Quella di
Willard è un’interpretazione che tra i suoi molti meriti ha quello di sottolineare la vicinanza tra le
posizioni or ora menzionate e non manca affatto di acutezza; ciononostante, non possiamo
condividerla appieno. A seguire quanto egli afferma, sembrerebbe che già con la recensione a
Schröder Husserl avesse fatto definitivamente i conti con la fondazione psicologica della logica,
perchè la fondazione del calcolo logico indirizza già verso la logica pura. S’è però visto come in
Semiotik, soprattutto a motivo di una logica come Kunstlehre, fosse proprio da leggi di natura
psicologica che la validità dei metodi algoritmici dipendeva. Dal confronto con l’algebra della
logica emergono comunque elementi che rappresentano un primo passo verso la nuova prospettiva
husserliana dei Prolegomeni, anche se non nel senso dell’interpretazione di Willard, come si puo’
vedere di seguito nel nostro scritto.
228
Su questo punto cfr. anche R. Parpan Zeichen und Bedeutung cit., p.65 e D. Münch Intention
und Zeichen cit., p.138. Questi in particolare rileva un’altra novità negli scritti dedicati a Schröder,
ovvero la critica al concetto psicologista di evidenza (ivi, pp.135-38), su cui però noi non ci
soffermeremo.
229
E. Husserl Besprechung von E. Schröder “Vorlesungen über die Algebra der Logik” cit., p.20
98
come un nuovo - più accurato e per ciò stesso maggiormente funzionale a scopi
conoscitivi - linguaggio230; a suo dire v’è invece una netta differenza, che rimonta
alla specificità espressiva di quest’ultimo, perlomeno trascurata negli scritti fin qui
trattati:
La peculiare prestazione del linguaggio consiste nell’espressione di fenomeni
psichici, di esso abbiamo bisogno in parte per la comunicazione dei medesimi, in parte
come sostegno di natura sensibile per i nostri processi di pensiero interiori…D’altro lato
l’opera del calcolo consiste in questo, nel suo essere un metodo della deduzione simbolica
per una certa sfera conoscitiva231
La nettezza con cui ora viene riconosciuta una siffatta differenza
sconfessa qualsiasi possibile accostamento tra linguaggio e calcolo, nei termini
delle differenti funzioni che siffatti sistemi simbolici sono in grado di svolgere; la
prevalenza progressiva di una semiosi surrogante nell’utilizzo del linguaggio da
parte della nostra psiche non vale a rigore ad avvicinarlo al calcolo, ma semmai a
mutare i suoi segni in simboli algoritmici, in quanto è impossibile per un segno
linguistico, proprio perché tale, venir disgiunto dal pensiero che - necessariamente
- accompagna232. Né è possibile, per converso, percorrere la direzione opposta,
facendo cioè del calcolo un linguaggio, con buona pace degli algebristi logici à la
Schröder. E questo non perché i segni algoritmici, in quanto semioticamente
marche, non possano assumere un significato linguistico, esprimere cioè un
concetto, un oggetto in quanto inteso; un simbolo, ad esempio “a”, puo’ esprimere
infatti un concetto numerico qualsiasi, così come il simbolo “+” esprime la
connessione sommatoria. Soltanto, nel calcolo in cui per l’appunto compaiono
come segni algoritmici la loro funzione non sta nell’espressione di quei concetti,
che semmai sostituiscono, proprio perché il calcolo consiste nella derivazione di
meri segni da segni, in operazioni a carattere prettamente semiotico, ché laddove
Husserl rintraccia l’origine di questo fundamentale Irrtum nella convinzione leibniziana che
l’escogitazione di un linguaggio ideale e formale quale quello della characteristica universalis
fosse di per sé condizione del calculus ratiocinator, laddove essi si fondano invece su principi
diversi (cfr. E. Husserl Aus Entwürfen Husserls zu seiner Schröder-Rezension in Husserliana XXII
cit., pp. 390-92)
231
E. Husserl Besprechung von E. Schröder “Vorlesungen über die Algebra der Logik” cit., p.21
(trad. nostra)
232
Ibid. ed E. Husserl Aus Entwürfen Husserls zu seiner Schröder-Rezension cit., p. 394. Su questo
punto cfr. anche R. Parpan Zeichen und Bedeutung cit., p.67
230
99
ciò non avvenisse e fosse la funzione espressiva a caratterizzare quei segni
semplicemente non si calcolerebbe233.
In queste considerazioni, a ben vedere, si registra una crescente
attenzione alla dimensione semantica, non soltanto in virtù di una più decisa
sottolineatura della specificità del linguaggio, che da essa non puo’ mai
prescindere, ma soprattutto a motivo di uno sguardo più ampio su cosa sia
effettivamente da intendersi per “significato”. Si è visto come nei primissimi testi
husserliani questo consistesse nell’oggetto, in senso lato, per cui il segno sta; ben
più articolata è invece la posizione che emerge negli scritti preparatori alla
recensione a Schröder, dove emergono due ulteriori sensi in cui va inteso il
significato. In primo luogo quello linguistico, consistente per l’appunto nel
concetto espresso, nell’oggetto inteso – e non meramente “sostituito”. E poi
quello che Husserl denomina “operazionale”, riguardante esclusivamente i segni
algoritmici: esclusi i due precedenti – in virtù della funzione sostitutiva che
caratterizza questo genere di segni – e risultando inammissibile un loro uso
arbitrario – che renderebbe l’algoritmo del tutto incongruo alla sua funzione
conoscitiva,
i segni algoritmici o i segni matematici come segni algoritmici hanno il loro
significato esclusivamente nelle regole della connessione, separazione, trasformazione, in
breve nelle regole delle operazioni le quali soltanto, nella loro totalità, rendono algoritmo
l’algoritmo234
La critica al nominalismo che Husserl conduce nell’appendice alla prima
parte della Filosofia dell’aritmetica si arricchisce così di un nuovo decisivo
elemento, in quanto anche laddove il meccanicismo dei procedimenti algoritmici
tende a spostare l’attenzione sul segno non v’è comunque uno schiacciamento
sulla dimensione meramente sensibile di questo, poiché i simboli, lungi
dall’essere utilizzati arbitrariamente, rispondono alle regole operative del sistema
cui appartengono, che conferiscono loro un significato perché ne disciplinano
l’uso, stabilendo il genere di connessioni, separazioni e trasformazioni possibili
per ognuno di essi. Con l’introduzione di questo genere di significato la non
coincidenza fra arte del calcolo e matematica, o se si preferisce il distacco dei
233
234
E. Husserl Aus Entwürfen Husserls zu seiner Schröder-Rezension cit., p.393
Ibid. (trad. nostra)
100
procedimenti algoritmici dal concetto di quantità, emerso in conclusione della
Filosofia dell’aritmetica, acquista una maggiore pregnanza, e non solo essa. Si è
visto come il trapasso da un operare con concetti numerici simbolici a uno
meramente simbolico fosse dovuto all’abitudine, all’acquisita familiarità con quel
sistema concettuale, in conformità al tratto economico del nostro spirito; l’operare
con segni perciò dipendeva, come dalla sua condizione, da quello concettuale,
poiché soltanto come surrogati dei concetti i segni potevano assolvere alla loro
funzione. Con il significato operazionale invece non è più necessaria la
precedenza, in senso condizionale, della dimensione concettuale, né in tal modo
l’algoritmo si riduce a un gioco simbolico arbitrario: proprio perché i segni
rispondono a regole combinatorie che ne costituiscono il significato l’operare con
essi non soltanto è sensato a prescindere dal riferimento ai concetti, ma consente a
un algoritmo l’applicazione a diversi ambiti conoscitivi, a differenti campi
concettuali, a patto che i principi di questi siano formalmente identici alle regole
che lo costituiscono. In tal maniera non è soltanto a partire dalla dimensione
concettuale che si giustifica l’utilizzo dei segni, poiché un procedimento
simbolico non solo prescinde da questa per la sua validità, ma si rivela addirittura
in grado di servire alla soluzione di problematiche afferenti a diversi campi
concettuali. Lo sganciamento del calcolo dal concetto di quantità è perciò solo un
esempio, una manifestazione dell’autonomia della dimensione simbolica da quella
concettuale, punto questo peraltro già emerso nella definizione di calcolo come
mera derivazione segnica proposta nella Filosofia dell’aritmetica ma che assume
qui una fisionomia ben più delineata. L’indipendenza della dimensione semiotica
non è più soltanto guadagnata a partire dalla funzione surrogante dei segni e
perciò relativa, necessitando come sua condizione della precedenza della
dimensione concettuale – senza considerare che è il riferimento ai concetti, per
quanto via via eclissantesi, a costituire comunque il significato dei segni; la novità
qui emersa sta infatti in un’indipendenza ben più forte, assoluta, poiché è nel
novero di un sistema meramente simbolico che i segni acquisiscono il loro
significato e i concetti compaiono per così dire ex post, per cui non v’è più
soltanto il caso in cui il procedimento algoritmico sorge per astrazione da un
campo concettuale, ma anche quello in cui è il primo a disciplinare la propria
applicazione al secondo235. L’introduzione del significato operazionale permette
235
Punto questo rilevato anche da Centrone, benché in relazione a un testo differente e di poco
101
tutto questo, consente ai segni di essere significativi a prescindere da qualsiasi
riferimento concettuale e prima di ogni sostituzione, tant’è che essa non è più
disciplinata dal concetto da sostituire, bensì dalle regole che sovrintendono a un
sistema simbolico; e in un’ottica focalizzata sui metodi conoscitivi e sui motivi
della loro validità l’importanza di una siffatta acquisizione non potrà che apparire
evidente.
Con questo però le novità emergenti dal confronto con il calcolo logico
non sembrano affatto discostarsi dalla prospettiva husserliana descritta nel
capitolo precedente. S’è rivelata, è vero, una più forte attenzione alla dimensione
semantica, ma le considerazioni che la riguardano si collocano nel solco di una
logica intesa come Kunstlehre, poiché confermano l’interesse esclusivo verso i
procedimenti conoscitivi, tant’è che il significato operazionale compare per
l’appunto laddove si tratta di essi, concernendo il loro funzionamento. È perciò a
un altro versante che bisogna rivolgersi al fine di individuare i primi segni di un
mutamento di prospettiva, tornando cioè a occuparci della differenza tra
linguaggio e calcolo, forti delle importanti acquisizioni sulla diversità della loro
semantica. Nel rilevare la specificità delle prestazioni dei due sistemi simbolici
Husserl osserva come sia il loro rapporto con il pensiero a segnare nettamente la
distanza che li separa: i segni algoritmici infatti hanno il compito di sostituire il
pensiero, in funzione economizzante, quelli linguistici invece si rivelano come
suoi sostegni sensibili, mezzi espressivi che lo accompagnano stabilmente236. In
tal maniera non è però semplicemente ribadita la differenza che avevamo esposto
in precedenza, relativa alle diverse prestazioni dei due sistemi simbolici, stando
alla quale il linguaggio si limiterebbe a esprimere fenomeni psichici, rendendo
possibile la comunicazione o facilitando i nostri processi interiori; con esso,
afferma Husserl, “l’attività rappresentante e giudicante si verifica presso le cose
stesse (an der Sache selbst)”237. Si tratta di un’osservazione fondamentale, non
fosse altro perché per la prima volta viene esplicitamente formulato il celebre
motto della fenomenologia, in un contesto comunque ancora ben lontano
dall’essere fenomenologico. Quanto da essa si puo’ infatti trarre è il segnale di
successivo a quelli da noi qui trattati; la studiosa riscontra in questa novità, « che consiste nel
partire dalla costituzione di un sistema algoritmico per poi andare alla ricerca di possibili
interpretazioni » l’essenza della “rivoluzione assiomatica” del tardo ‘800 (cfr. R. Centrone Logic
and Philosophy of Mathematics in the Early Husserl cit., p.78 (trad. nostra)).
236
E. Husserl Aus Entwürfen Husserls zu seiner Schröder-Rezension cit., p.394; cfr. anche id.
Besprechung von E. Schröder “Vorlesungen über die Algebra der Logik” cit., p.21
237
E. Husserl Aus Entwürfen Husserls zu seiner Schröder-Rezension cit., p.394
102
una diversa considerazione non soltanto del linguaggio, bensì della semiosi
impegnata nelle attività conoscitive, campo d’interesse costantemente precipuo
nel Denkweg husserliano. Nel capitolo precedente s’è visto come i contributi del
linguaggio in ambito cognitivo fossero dovuti alla sua assimilazione a un calcolo,
ovvero alla sua capacità di produrre rappresentazioni improprie; la sua specificità
espressiva risultava invece avulsa da un siffatto ordine di considerazioni,
rappresentando semplicemente il carattere originario dei segni linguistici e il cui
scopo esclusivo stava nel consentire la comunicazione fra individui. Gli scritti qui
in esame mostrano invece perlomeno un primo mutamento di prospettiva, non
soltanto in virtù della oramai nota differenziazione tra calcolo e linguaggio, ma
soprattutto perché i segni linguistici acquisiscono una loro valenza nelle attività
conoscitive proprio in quanto espressivi, per la specificità della loro natura di
sostegni sensibili del pensiero: con essi, e soltanto con essi, si giunge alle cose
stesse. Naturalmente si è qui ancora ben lontani dalle posizioni delle Ricerche
logiche, dall’impostazione fenomenologica così come dall’idea di logica pura,
considerando che Husserl continua ancora a rimandare a una logica dei segni in
quanto surrogati al fine di validare e fondare i metodi conoscitivi e a non
discostarsi perciò da una logica intesa come Kunstlehre; v’è pero da dire che una
siffatta considerazione del linguaggio lo esclude dal novero dei metodi
tecnologici, con la loro semiosi surrogante, sì che il suo valore scientifico non
consiste nell’alleggerire i processi psichici ed estenderne le prestazioni, bensì nel
condurre l’attività giudicante presso le cose stesse, ai concetti e ai giudizi. Il
riconoscimento della peculiare prestazione offerta dai segni linguistici palesa
perciò una prima importantissima acquisizione in vista degli sviluppi futuri.
Nell’Introduzione alle Ricerche logiche si afferma infatti che la logica deve partire
da un’analisi del linguaggio perché soltanto le discussioni linguistiche consentono
un chiarimento inequivocabile degli oggetti della logica; per dirla con le parole di
Husserl
…gli oggetti che la logica pura intende indagare si presentano anzitutto sotto
forma grammaticale. Più precisamente, essi sono dati per così dire nell’alveo dei vissuti
psichici concreti che nella loro funzione di intenzione significante o di riempimento di
significato (da quest’ultimo punto di vista, come intuizione illustrativa o evidente)
103
ineriscono a certe espressioni linguistiche, con le quali formano una unità
fenomenologica238
Considerazioni di questo genere presuppongono una visione del
linguaggio nettamente differente da quella emersa in Semiotik e che si vale delle
conclusioni da noi poc’anzi illustrate, dove per l’appunto è la peculiarità
espressiva a venire in primo piano e non la capacità di produrre rappresentazioni
improprie, surroganti. Sostenere che con il linguaggio l’attenzione è rivolta alle
cose stesse, ai concetti e ai giudizi, affermare in altri termini che è nel pensiero
linguistico, con la sua semiosi, che l’attività logica si compie - laddove in quello
algoritmico essa vien sostituita con un procedimento di mera derivazione
simbolica -, pur non conducendo ancora all’idea di una logica pura, rappresenta
comunque un punto di svolta decisivo, poiché consente di affisare la dimensione
in cui collocarsi al fine di individuare le categorie logiche. Ai segni linguistici è
perciò riconosciuta la proprietà fondamentale di condurre a manifestazione gli
oggetti e le leggi della logica perché è in essi che le sue attività hanno modo di
attuarsi, visto che giudizi e deduzioni non vengono qui rimpiazzati da
procedimenti simbolici, da segni surroganti, bensì si compiono nei segni che per
l’appunto ne danno espressione. Con questo la distinzione tra linguaggio e calcolo
assume un significato fondamentale in rapporto agli sviluppi successivi: la
sottolineatura della specificità espressiva dei segni linguistici fa sì che il
linguaggio non possa venir più considerato metodo, vista la sua inconciliabilità
con la semiosi surrogante, da cui consegue che non potrà più essere oggetto
d’analisi di una Kunstlehre bensì considerato alla luce di una logica di tipo
diverso, attenta e rivolta alla sua peculiare natura significante, espressiva, una
logica che proprio perché incentrata sui significati indirizzerà verso di esso il suo
campo
preliminare
d’analisi,
una
logica
in
altri
termini
qual
è
la
Wissenschaftlehre. Il riconoscimento del valore scientifico della semiosi
espressiva rappresenta perciò un primo ma comunque decisivo passo verso i nuovi
sviluppi logici (e fenomenologici), in virtù della messa in luce di un ambito
semiotico che reclama una diversa logica che lo validi e al tempo medesimo del
sistema simbolico a cui guardare nel momento in cui si scopre la necessità di
fondare i metodi conoscitivi non soltanto in senso soggettivo, pratico e quindi
238
E. Husserl Ricerche logiche cit., pp.269-70
104
psicologico, ma anche e soprattutto in termini obiettivi, a riguardo cioè dei
contenuti di pensiero e della legalità cui obbediscono: perché, come affermerà
Husserl nelle Ricerche logiche, “gli oggetti che la logica pura intende indagare si
presentano anzitutto sotto forma grammaticale”239. Se, com’è stato giustamente
osservato, in questi testi si registra una crescente attenzione di Husserl per la
questione del significato240, che indirizza di per sé verso la logica pura, è nella
riconosciuta specificità del linguaggio in ambito cognitivo che un tale interesse
trova la sua manifestazione più importante, in quanto consente di attribuire ai
segni un valore logico non soltanto ai sensi di una Kunstlehre, cioè come
strumenti in grado di migliorare le prestazioni conoscitive facilitando i processi
psichici per via della sostituzione dei concetti, ma soprattutto perché vien loro
riconosciuta, in quanto segni linguistici, la capacità di condurre presso le cose
stesse, di presentarsi come ciò in cui i concetti della logica - intesa qui non più
come tecnologia, bensì come Wissenschaftlehre -, gli oggetti logici trovano la loro
manifestazione. Con l’apposizione, accanto a quella surrogante, della semiosi
espressiva sono così palesati, dal punto di vista semiotico, gli estremi del
passaggio dalla Kunstlehre alla Wissenschaftlehre, dai metodi della scienza alla
dottrina della scienza, dove appunto il centro dell’interesse si sposterà dai segni
algoritmici a quelli espressivi, dal calcolo al pensiero linguistico.
A ben vedere però le novità qui emergenti non si apprezzano soltanto
nell’ottica retrospettiva della logica pura, ma anche in quella, altrettanto
retrospettiva, della fenomenologia, limitatamente alla maniera in cui compare al
suo esordio nelle Ricerche logiche. Husserl difatti afferma che è nel pensiero
linguistico che le attività logiche “accadono presso le cose stesse”, a differenza di
quanto avviene con quello algoritmico, dove altra è l’attività che si verifica,
ovvero “un’attività sensibile secondo regole semiotiche fisse” in funzione
surrogante241. Una siffatta dicitura apre la strada alla considerazione
fenomenologica dei vissuti, o meglio degli atti significanti, proprio perché è in
essi che si costituisce il significato e si giunge perciò alle cose stesse, perché è a
partire da essi che le fenomenologia puo’ assolvere al suo compito chiarificatore
in merito alla logica pura, occupandosi cioè degli atti conferitori di senso –
intenzioni significanti – e di quelli che validano il significato – riempimenti di
239
Ivi, p.269
R. Parpan Zeichen und Bedeutung cit., p.68
241
E. Husserl Aus Entwürfen Husserls zu seiner Schröder-Rezension cit., p.394
240
105
significato - gli atti nei quali per l’appunto sono intesi e manifesti gli oggetti
logici. Anche da questo versante è possibile perciò riscontrare, seppur in forma
embrionale, l’indirizzo che seguiranno le successive analisi husserliane, dove per
l’appunto il motto fenomenologico si concretizza in analisi descrittive di atti
significanti. A corroborare questi indizi proto-fenomenologici è del resto la
sottolineatura della specificità espressiva dei segni linguistici, per la quale il
significato non sta nell’oggetto associato, in quanto essi esprimono stati
psichici242, come ad esempio quelli che si rivolgono agli oggetti intendendoli;
senza considerare, inoltre, il rilievo fatto a proposito della grammatica, secondo
cui essa
non insegna come dobbiamo (sollen) giudicare, non fornisce neanche regole su
come noi possiamo produrre indirettamente giudizi giusti attraverso artifici simbolici,
bensì soltanto come dobbiamo esprimere correttamente giudizi in conformità al
linguaggio243
Punto questo che verrà ripreso nella Quarta Ricerca e che starà a fondamento
della distinzione fra unsinnig e sinnlos.
Dal confronto con il calcolo logico emergono perciò elementi che pur
non manifestando ancora una rottura con la prospettiva costituita dallo
psicologismo e dall’idea di logica come Kunstlehre si presentano comunque
allotropi, perché pur comparendo e discendendo da essa acquisiscono una valenza
che difficilmente vi puo’ esser ricondotta e che possono in virtù di ciò venir
considerati come primi indizi del futuro mutamento prospettico, nell’ambito
semiotico così come in quello più vasto della riflessione husserliana da cui
dipende e deriva. Altri però sono i testi ancora da analizzare al fine di cogliere con
maggiore pregnanza, ampiezza e chiarezza lo svolgersi di un siffatto mutamento,
nei quali ben più decisive acquisizioni è dato riscontrare - a partire dal celebre
concetto di intenzionalità - scritti la cui trattazione ci impegnerà sin dal prossimo
paragrafo.
242
Su questo punto cfr. anche D. Münch Intention und Zeichen cit., p.139
E. Husserl Besprechung von E. Schröder “Vorlesungen über die Algebra der Logik” cit., p.21
(trad. nostra)
243
106
§ 2.2 – Il carattere semiotico dell’intenzionalità alle origini
La constatazione fatta a principio delle nostre riflessioni sulla
manchevolezza di cui a lungo ha dato prova la critica husserliana nel trascurare i
testi pre-fenomenologici acquisisce maggior vigore a fronte dei testi che qui e nel
prossimo paragrafo affronteremo, nei quali è chiaramente osservabile la genesi e il
progressivo emergere di quel concetto d’intenzionalità la cui rilevanza per la
fenomenologia medesima è così decisiva da esser oramai proverbialmente nota.
Con questo naturalmente non si vuole affatto esprimere un giudizio negativo su
quanti hanno affrontato un tema così centrale rilevandone la provenienza dalla
formazione husserliana, in particolare da Brentano e più ancora nello specifico
dalla sua scuola; le nostre stesse riflessioni del resto non potranno che tenerne
conto e sottolinearne più volte l’indubbia incidenza e importanza. Nostro scopo è
piuttosto quello di mostrare dall’interno il percorso che conduce Husserl
all’intenzionalità delle Ricerche logiche, proiettandolo sullo sfondo dei nostri
interessi specificamente semiotici, e questo non soltanto in virtù del taglio che
abbiamo scelto per le nostre analisi, ma ben più intrinsecamente a motivo
dell’importanza che le questioni semiotiche hanno mostrato di rivestire per la sua
primissima elaborazione. Seguendo questa traccia e l’impostazione che ne deriva
ci occuperemo in questo paragrafo di una coppia di testi sostanzialmente coevi e
di argomento affine, ovvero il manoscritto K I 55 e il secondo degli Studi
psicologici per la logica elementare. Tema di queste indagini è una distinzione
che abbiamo già affrontato nelle pagine precedenti, quella tra rappresentazione
proprie e improprie, qui però trattata ai sensi di una terminologia differente che
denomina le due, rispettivamente, come intuizione e rappresentanza. Mutamento
terminologico che non risponde ovviamente a mere preferenze lessicali di stampo
stilistico, ma che si nutre di considerazioni afferenti alla semantica invalsa
riguardo al termine rappresentazione, che rischia di condurre a perniciose
equivocazioni nel momento in cui si facesse di esso il genere a cui ricondurre
come specie i due poli della suddetta distinzione. A detta di Husserl infatti ciò
condurrebbe a considerare questi ultimi come due identici modi di coscienza
distinti soltanto per il contenuto244, laddove invece la situazione è esattamente
inversa, come avremo modo di vedere nelle analisi che seguono.
244
Cfr. E Husserl Psychologische Studien zur elementaren Logik in id. Aufsätze und Rezensionen
cit. (ed. it. E. Husserl Logica, psicologia, fenomenologia cit., p.80)
107
Prima però di darvi effettivo corso è necessario un chiarimento a
proposito dei due scritti. L’affinità di argomento e l’antecedenza cronologica del
manoscritto sul testo dato alle stampe indurrebbe a pensare che il primo sia solo il
foglio di lavoro da cui è disceso il secondo; sta di fatto però che, come è stato
giustamente osservato, pochi dei passi presenti nel manoscritto sono poi stati
trasferiti nel testo degli Studi, singolarità che si motiva a partire dalla differente
impostazione adottata nei due scritti: nel primo prevalgono infatti analisi di
stampo psicologico-genetico mentre il secondo puo’ dirsi un esempio di
psicologia descrittiva245. Una differenza certo rilevante, se si considera che i due
testi distano cronologicamente meno di un anno l’uno dall’altro - l’uno infatti è
del 1893, l’altro è stato pubblicato agli inizi del ’94 - e che se da un lato puo’
leggersi come segno del progressivo indirizzamento verso una impostazione
esclusivamente descrittiva, dall’altro però non vale ancora a escludere del tutto la
prospettiva genetica, poiché nel medesimo scritto Husserl sottolinea l’importanza,
accanto a quelle descrittive, delle analisi genetiche su rappresentanze e intuizioni
per il chiarimento della logica246. Punto questo che puo’ considerarsi una spia
dell’appartenenza degli scritti in esame al medesimo orizzonte di Semiotik e della
Filosofia dell’aritmetica, non soltanto in virtù dello psicologismo che informa le
analisi husserliane, ma anche nel merito delle problematiche a cui esse sono
rivolte, considerato che è nell’ottica del chiarimento della logica che si motiva la
loro genesi. E in questo la rappresentanza occupa un ruolo di primo piano, vista
l’importanza del rappresentare improprio in un siffatto contesto, quel
rappresentare cioè che, come è ribadito nel manoscritto, consiste in un
rinviare a qualcosa che non è affatto sempre presente, intendere quest’ultimo,
determinarlo adeguatamente, stare in sostituzione di esso247
Si sarebbe indotti allora a pensare che la rappresentanza, fatte salve le
precisazioni husserliane di cui abbiamo dato conto, sia del tutto identificabile con
le
rappresentazioni
improprie
della
Filosofia
dell’aritmetica,
quelle
rappresentazioni cioè che si servono di segni per presentare un contenuto e che in
Semiotik venivano perciò ricondotte nel dominio del segno. A un’analisi attenta è
Cfr. K. Schuhmann Husserls doppelter Vorstellungsbegriffe: Die Texte von 1893, in “Brentano
Studien”, 3, 1990-91, p.121.
246
E. Husserl Logica, psicologia, fenomenologia cit., p.81
247
Ivi, p.41
245
108
però dato scorgere una significativa differenza, che per certi inverte la situazione:
non è più infatti la rappresentazione impropria a essere una specie per così dire del
segno, poiché qui è la rappresentanza a inglobarlo, distinguendosi per l’appunto in
rappresentanza nel senso del segno e nel senso del concetto248. In tal maniera il
segno subisce un ridimensionamento rispetto alla classificazione di Semiotik, in
quanto la sua funzione si esaurisce nel mero volgere l’interesse a un contenuto
altro in una modalità del tutto estrinseca in rapporto a questo, sine fondamento in
re, che rammenta avant la lettre gli Anzeichen delle Ricerche logiche249; i segni
concettuali che avevamo visto colà all’opera perdono il loro statuto strictu sensu
semiotico poiché si parla qui piuttosto di rappresentanze concettuali,
circoscrivendo il dominio del segno a quelli che in Semiotik venivano del resto già
qualificati come segni in senso stretto, quelli cioè esteriori.
I motivi di un siffatto slittamento o mutamento risiedono a nostro avviso
nell’eccessivo formalismo, nel meccanicismo e nella vuotezza connessi all’uso di
meri segni, rilevata come s’è visto nella recensione all’opera di Schröder. Husserl
afferma ora che è improprio parlare di rappresentanza nel senso del segno, che il
designato non puo’ dirsi affatto rappresentato mediante segni250, cosa che porta a
rilevare più che una preferenza verso la rappresentanza concettuale, poiché in essa
in luogo della mera vuotezza e luogotenenza del segno subentra un certo grado di
intuitività. Se infatti è sempre il rinvio a qualcosa di non presente a definire la
rappresentanza - in quanto vissuto psichico che non include il suo oggetto, bensì
rinvia a questo tramite il proprio contenuto immanente - è però vero che il
contenuto rinviante, nel caso della rappresentanza concettuale, possiede le note
caratteristiche dell’oggetto inteso, sì che Husserl puo’ concludere che qui qualcosa
di uguale serve da rappresentanza a qualcosa di uguale251.
Attribuire la funzione di rappresentanza al concetto testimonia però
l’adesione di Husserl a un orizzonte ancora nettamente psicologista. Qui infatti i
concetti non sono significati ideali mediante i quali intendere un oggetto, bensì
contenuti psichici e psichicamente immanenti, distinti dai segni in virtù della loro
maggiore rassomiglianza al contenuto inteso252; anzi, proprio perché contenuti
248
Ivi, pp.41-42
In proposito cfr. D. Münch Intention und Zeichen cit., p.158
250
E. Husserl Logica, psicologia, fenomenologia cit., p.42
251
Ivi, p.47
252
In ciò differiamo da Münch, per il quale i concetti, diversamente dai segni, non sono affatto
sensibili; cfr. D. Münch Intention und Zeichen cit., p.161
249
109
psichici possono assolvere alla funzione della rappresentanza e venir perciò
necessariamente distinti dai segni, contenuti anch’essi, se come s’è or ora visto a
definire la rappresentanza è un contenuto immanente considerato in funzione
rinviante. Non si vuole comunque con quanto detto ridurre tutto a una differenza
fra contenuti, ché si andrebbe contro le esplicite posizioni husserliane secondo cui
è la nostra modalità di coscienza a rendere un contenuto rappresentante e
nient’affatto una distinzione contenutistica253; ma al di là del fatto che siffatte
considerazioni valgono soprattutto a distinguere la rappresentanza tout court
dall’intuizione, non si puo’ fare a meno di sottolineare come, ai fini di una
rappresentanza concettuale, il contenuto debba presentare determinati requisiti,
che consentano per l’appunto di rappresentare “qualcosa di uguale tramite
qualcosa di uguale”.
Un’ulteriore riprova della natura psichica dei concetti, condizione del
loro poter essere rappresentanze, la si trova nelle analisi husserliane delle entità
impossibili, come l’ormai noto quadrato rotondo. In casi come questi, vista
l’ovvia impossibilità di una unità materiale fra le note caratteristiche da ambo i
lati, grande risalto viene dato alle parole: la loro unione nelle espressioni
linguistiche funge da rappresentante, a essere qui uniti infatti sono contenuti
segnici e non concettuali, con cui per di più si ha una certa familiarità254. Quanto
qui accade è un singolare incastro fra i le due tipologie di rappresentanza: i segni
infatti rinviano ai concetti che a loro volta fungono da rappresentanti, per quanto
sia poi l’unità “figurale” tra i segni a rendere possibile la rappresentanza
concettuale. E in questo la funzione espressiva delle parole è lungi dall’esser
riconosciuta. Benché infatti Husserl parli di un rapporto intimo tra parola e
contenuti di accompagnamento, ovvero i concetti-contenuti psichici a essa
associati, facendo addirittura riferimento al rapporto espressione-significato255,
sarebbe perlomeno azzardato vedere in questo un preludio alle posizioni della
Prima ricerca e ciò per due motivi: innanzitutto i concetti che qui dovrebbero
fungere da significati sono contenuti psichici; inoltre il rapporto tra parole e
concetti risulta mediato dall’associazionismo, poiché anche laddove Husserl lo
descrive come intimo è pur sempre in un contesto psicologista che ciò avviene,
253
Cfr. E. Husserl Logica, psicologia, fenomenologia cit., p. 46 e soprattutto pp.76 e 134.
Ivi, pp.47-48
255
Ibid.
254
110
tant’è che egli lo paragona a quello che in virtù dell’abitudine si istituisce fra una
qualità tattile e un oggetto visivo256.
Sotto questo profilo quindi non si registrano significativi passi avanti
rispetto ai testi visti in precedenza, nonostante nella recensione a Schröder fosse
emersa una diversa e più penetrante considerazione del linguaggio, non ancora
però fatta valere da Husserl nella sua effettiva pregnanza a causa del permanere di
un’impostazione marcatamente psicologista. Il rapporto intimo tra espressione e
significato, avvistato nella suddetta recensione e qui esplicitamente riconosciuto, è
infatti viziato dall’associazionismo e dalla natura psichica dei significati, per cui
l’invito “alle cose stesse” si concretizza nel rivolgimento ai contenuti psichici
intesi e alle rappresentanze concettuali in grado di rendere motivato e fondato il
ricorso a meri segni. Non bisogna infatti dimenticare che è sullo sfondo degli
interessi per la validazione dei metodi algoritmici e, più latamente, della
Kunstlehre257 che si stagliano le considerazioni husserliane sulla rappresentanza;
studiarne la genesi e il comportamento ha perciò come obiettivo quello di far
comprendere come dei procedimenti meramente simbolici possano condurre alla
verità - e le analisi sulla rappresentanza concettuale nei suoi rapporti con
l’intuizione da un lato e la rappresentanza segnica dall’altro rispondono a questi
scopi. Al fine però di delineare nella loro esatta caratura siffatti rapporti è
necessario introdurre un nuovo elemento, o per meglio dire è tempo di trattare
l’argomento che dà il titolo a questo nostro paragrafo: stiamo parlando
ovviamente dell’intenzionalità.
Uno dei primi punti da mettere in chiaro, alla luce di uno sguardo che
proprio perché carico delle acquisizioni successive non puo’ che essere
retrospettivo, è la natura genetica della trattazione sull’intenzionalità contenuta nel
manoscritto, che induce a porre una netta distanza dalle analisi descrittive delle
Ricerche logiche. E per quanto negli Studi sia manifestamente all’opera
un’impostazione squisitamente descrittiva è comunque sempre sul terreno delle
non rinnegate considerazioni genetiche che essa si impianta, tanto che entrambe le
prospettive sono da Husserl considerate necessarie ai fini dei chiarimenti richiesti
dalla logica. Che quindi ci si trovi di fronte a un concetto di intenzionalità ancora
molto distante da quello divenuto oramai proverbiale è cosa da tenere ben
256
Ivi, p.43
In proposito cfr. D. Münch Intention und Zeichen cit., p.170 e S. Besoli Introduzione in E.
Husserl Logica, psicologia, fenomenologia cit., p.14
257
111
presente, senza per questo comunque sminuire o peggio rinnegare l’importanza di
queste primissime acquisizioni. La natura genetica di queste analisi tradisce
ovviamente un impronta marcatamente psicologista; meno ovvio è però forse il
contesto problematico dal quale sorgono, che risulta in senso lato semiotico,
relativo all’importanza che la semiosi ha nei nostri processi psichici naturali. La
naturalità della semiosi è infatti qui riguardata a partire dalla sua stessa genesi,
riscontrata da Husserl in un sentimento di impedimento che sorge laddove la
connessione abituale fra contenuti viene interrotta258; in questi casi l’interruzione
del continuum fa sì che il contenuto presente non sia più l’oggetto dell’attenzione,
di quel notare di per sé che in questa fase definisce l’intuizione259, ma una sorta di
“trampolino” che spinge verso il contenuto abitudinariamente connesso ma qui
assente. È questo sentimento, a detta di Husserl, “che imprime al fenomeno il
carattere di un’intenzione o rappresentanza”260, dove l’accostamento dei due
termini vale qui come una sorta di endiadi, poiché solo a quelle rappresentazioni
definite rappresentanze è ascrivibile il carattere dell’intenzionalità. Ed è su questo
importantissimo punto che dovremo ora soffermarci.
Le analisi genetiche condotte sulla rappresentanza si collocano nel solco
tracciato da Semiotik in merito alla trattazione della semiosi - la cui origine stava
per l’appunto nei processi naturali del nostro spirito - e ne costituiscono un
approfondimento. Si è già visto infatti come il segno sia qui una specie della
rappresentanza, senza considerare che anche laddove questa è di tipo concettuale è
pur sempre il carattere semiotico che la distingue dal mero concetto, ovvero il suo
“riferirsi a”, cosicché, seppure esplicitamente distinte dai segni, le rappresentanze
concettuali mantengono una caratura latu sensu semiotica, per via della loro
costitutiva dinamica rinviante261. Quanto qui si registra, al netto delle
diversificazioni terminologiche, è perciò un essenziale contributo chiarificatore
alle questioni centrali di Semiotica, ovvero i processi naturali della nostra psiche e
la loro validazione. Si chiarisce innanzitutto, per via dell’analisi genetica delle
258
Cfr. E. Husserl Logica, psicologia, fenomenologia cit., p.50
Ivi, p.75
260
Ivi, p.50
261
Si deve poi rammentare come la terminologia husserliana non sia particolarmente controllata in
questa fase. Basti pensare al fatto che nei testi dedicati allo spazio, sostanzialmente coevi a quelli
che qui stiamo trattando, Husserl non parla di rappresentanze concettuali laddove si tratti di
concetti che stanno appunto per oggetti non presenti o impresentabili, bensì di segni concettuali;
cfr. in proposito E. Husserl Philosophische Versuche über den Raum in Studien zur Arithmetik und
Geometrie, Husserliana XXI pp.262-310 (trad. it. Libro dello spazio, Gerini e Associati, Milano
1996, pp. 68-71).
259
112
rappresentanze, l’origine della semiosi naturale, riscontrata ora nel sentimento
d’impedimento che si prova a fronte dell’interruzione di un decorso abituale di
contenuti psichici: se infatti una melodia che andiamo ascoltando viene interrotta,
avvertiamo una mancanza e il contenuto attualmente presente spinge verso quello
mancante, lo intende nel senso del tendere-verso, funge insomma da “trampolino”
e diviene così una rappresentanza262. Proprio alla luce di questa origine naturale
della rappresentanza si spiega e si motiva il ricorso a meri surrogati che
caratterizza i nostri processi psichici:
In sé e per sé è già massimamente rimarchevole che un atto psichico possa
rinviare, al di là del suo contenuto immanente, a qualcosa che non è in alcun modo
cosciente. E tuttavia sembra che noi ne abbiamo in certo modo coscienza: infatti…mentre
ci abbandoniamo ai contenuti che hanno funzione di rappresentanza , noi crediamo di
avere a che fare con gli oggetti stessi di cui si ha rappresentanza263
La funzione surrogante, al centro della trattazione in Semiotik, si svela
qui come una modificazione, o meglio occultamento dell’intendere che
contraddistingue la rappresentanza, secondo meccanismi di natura schiettamente
psicologica: il sentimento d’impedimento all’origine dell’intenzionalità si mostra
particolarmente debole, sino a giungere alla latenza, in quei casi in cui si è di
fronte a rappresentanze piuttosto abituali e frequenti come i complessi espressivi,
dove è un altro genere di sentimento, quello di familiarità, a prendere il
sopravvento. Qui a detta di Husserl si è di fronte a una comprensione impropria,
apparente, qual è quella che regola il nostro affidamento a meri surrogati, dove
il sentimento di impedimento, originariamente forse molto visibile, viene
dunque indebolito fino all’impercettibilità, in virtù dell’abituale disattenzione e del
sentimento di familiarità che in questi contesti cresce264
La validazione dei processi psichici fondati su meri surrogati, ovvero
della semiosi naturale e dei suoi procedimenti, consisterà perciò in una sorta di
riattivazione del sentimento sedimentato, occultato, latente, in un rivolgimento più
262
E. Husserl Logica. psicologia, fenomenologia, cit., p.50; cfr. anche K. Schuhmann Husserls
doppelter Vorstellungsbegriff, cit. p.129
263
E. Husserl Logica, psicologia, fenomenologia cit., p.81
264
Ivi, p.53
113
attento a siffatte rappresentanze che svelandone la manchevolezza ridesti il
sentimento di impedimento da cui dipende la loro costitutiva e teleologica
intenzionalità.
La vera novità di questi testi sta perciò nella natura del contributo
chiarificatore che apportano alle problematiche husserliane di questa fase, sta cioè
nel concetto di intenzionalità che abbiamo sin qui descritto, perché è solo per sua
virtù che puo’ attuarsi un’autentica comprensione; e benché sia evidente la sua
distanza con il concetto perlomeno omonimo delle Ricerche logiche è comunque
identica l’istanza da cui è mosso, quell’invito alle cose stesse che abbiamo già
visto comparire nelle considerazioni su Schröder. La mutazione terminologica e
non solo che avviene con le rappresentanze sta nel fatto che la semiosi si scopre
affetta da un carattere di cui quello surrogante, sin qui prevalente, è soltanto una
modificazione, un carattere che alla staticità della mera surrogazione oppone la
sua intrinseca dinamicità, poiché l’intenzionalità si rivela essere “un processo
attivo volto all’eliminazione della mancanza”265, volto quindi verso l’intuitività,
verso le cose stesse. Ciò è evidente soprattutto negli Studi, il cui distintivo
carattere descrittivo, riconosciutogli dallo stesso autore, sta proprio nell’analisi dei
rapporti tra le due forme di rappresentazione, tra intuizioni e rappresentanze.
Al fine di darne conto è necessario però in via preliminare chiarire in
cosa consista la loro differenza. Delle rappresentanze si è già detto che il loro
carattere distintivo risiede nell’intenzionalità, ovvero nel tendere per mezzo del
contenuto immanente verso l’oggetto realmente inteso. Equivocando sulla lettera
di quanto or ora riportato si sarebbe indotti ad apprezzare qui il primo emergere
della distinzione fra contenuto e oggetto tipica della fase fenomenologica; che si
tratti per l’appunto di un’equivocazione è dimostrato dal rigido immanentismo che
impronta il testo husserliano, ravvisabile esplicitamente laddove Husserl afferma
che con le rappresentanze vi è
un tendere, per mezzo di contenuti qualsiasi dati nella coscienza, verso altri
contenuti non dati266
265
K. Schuhmann Husserls doppelter Vorstellungsbegriff, cit. p.129; cfr. anche S. Besoli
Introduzione in E. Husserl Logica, psicologia, fenomenologia, parte prima cit., pp.17-18
266
E. Husserl Logica, psicologia, fenomenologia cit., p.70. Senza considerare inoltre che laddove
Husserl utilizza il termine oggetto lo pone tra apici.
114
Ciò che viene meramente intenzionato è perciò un altro contenuto di
coscienza, il contenuto di un’altra rappresentazione, l’intuizione. Con essa la
distinzione tra contenuto immanente e intenzionato viene meno e non perché vi
sia identità fra di essi, ma perché nel suo caso non si puo’ affatto parlare di
intenzionalità. Dove infatti gli “oggetti” sono inclusi realmente, dove è il
contenuto immanente quello a cui si è rivolti, non v’è intenzionalità poiché non vi
è alcun tendere da cui sia affetto il contenuto immanente. Lo psicologismo che
caratterizza
questa
fase
è
qui
particolarmente
evidente,
nei
termini
dell’immanentismo psichico che non consente di ammettere una trascendenza in
senso rigoroso - pena la caduta in una manifesta contraddizione267. L’unico genere
di trascendenza qui ammessa è quella riguardante le rappresentanze, una
trascendenza cioè che si svolge in un campo d’immanenza, come mostrato dai casi
di quelle intuizioni i cui contenuti non coincidono di fatto con quanto si prende di
mira. Nel caso infatti di una melodia o di una cosa osservata solo da un lato il
contenuto immanente funge da rappresentanza268 in quanto non è ciò che a rigore
s’intende, o meglio si nota269, ma tende piuttosto verso l’oggetto come un tutto,
che non è però un contenuto immanente, bensì il decorso continuo dei contenuti
immanente a un atto unitario. Proprio per ovviare a queste difficoltà Husserl
propone di allargare lo spettro semantico del termine “contenuto”, stabilendo
che con ciò si debba intendere anche il decorso immanente dei contenuti o,
rispettivamente, il continuum immanente dei contenuti durante tutta la sua esistenza
continua270
La trascendenza di cui si parla a proposito dell’intuizione si muove
perciò in un campo di assoluta immanenza, poiché a rigore l’oggetto trascende
soltanto il singolo momento d’atto, tanto che il contenuto di questo assume la
funzione di rappresentanza; anzi parlare di “oggetto” - se si intende con ciò
riferirsi a un entità extrapsichica - è qui addirittura fuori luogo, poiché ciò verso
« Al concetto di un’unità obiettiva di parti e note caratteristiche di un determinato tipo, che
coesistono indipendentemente dalla nostra coscienza, non corrisponde naturalmente alcuna
intuizione; ciò sarebbe infatti una contraddizione »; ivi, p.73
268
Come è stato giustamente osservato in questi casi infatti l’intuizione (con il suo contenuto
parziale) si rivela segno per l’intuizione (dell’oggetto come un tutto); cfr. K. Schuhmann Husserls
doppelter Vorstellungsbegriff, cit. p.125.
269
Per Husserl infatti « solo ciò che è notato per sé puo’ essere designato come intuito »; E.
Husserl, Logica, psicologia, fenomenologia cit., p.75
270
Ivi, p.74
267
115
cui si tende è piuttosto un decorso di contenuti immanente a un atto psichico. Si
comprende allora perché parlavamo, con apparente paradossalità, di trascendenza
nell’immanenza: ciò infatti verso cui le rappresentanze - alle quali soltanto spetta
l’andare oltre, il trascendere, per via della differenza tra contenuto inteso e
realmente incluso - tendono è infatti il contenuto - in senso lato - di un’intuizione,
ovvero un’entità o un decorso di entità (psichicamente) immanente. E si
comprende inoltre il motivo per cui solo alle rappresentanze è attribuita
l’intenzionalità: assegnarla anche alle intuizioni implicherebbe infatti una rottura
con l’immanentismo psichico che domina in questi scritti.
L’intreccio tra rappresentanze e intuizioni che abbiamo or ora visto
illumina già di per sé sul loro rapporto. Si mostra infatti come le seconde siano il
fine ultimo delle prime e al tempo medesimo la condizione, ovvero
rispettivamente il terminus ad quem e a quo. Dalle analisi sin qui svolte
quest’ultimo aspetto emerge con chiarezza: si è visto infatti come all’origine della
rappresentanza vi sia l’interruzione di un abituale decorso intuitivo, che dà origine
a quel peculiare sentimento d’impedimento da cui discende l’intenzionalità. Va
poi considerato che anche nelle rappresentanze è presente un contenuto intuitivo,
quello che funge cioè da rappresentante, a esse è necessaria la “percezione del
substrato segnico”271, che dev’esser perciò notato per sé e distinto dallo sfondo
percettivo affinché possa avvertirsi il suo carattere insaturo. Dall’altra parte il
tendere delle rappresentanze verso l’inteso spiega perché l’intuizione sia anche il
loro terminus ad quem o, per dirla con Husserl, “il fine ultimo di ogni
rappresentanza”272. Già solo per la sua origine essa presentava infatti una struttura
teleologica, come s’è visto nelle analisi genetiche del manoscritto; ma è nella
trattazione descrittiva degli Studi che un siffatto aspetto emerge con maggiore
pregnanza, poiché è qui che il rapporto fra le due tipologie di rappresentazione si
fa evidente:
se una rappresentanza si trasforma nel fenomeno ad essa correlato, ad es. in
un’intuizione immediatamente intenzionata da essa, allora l’immediato vissuto psichico
del fatto che ciò che è intuito è anche inteso dev’esser designato come coscienza
dell’intenzione riempita. In questo caso, dell’intuizione diciamo dunque che essa è
271
Cfr. B. Rang Einleitung in E. Husserl Aufsätze und Rezensionen cit., p.LII; ma anche K.
Schuhmann Husserls doppelter Vorstellungsbegriff, cit. p.130
272
E. Husserl Logica, psicologia, fenomenologia cit., p.71
116
sorretta da una coscienza di intenzione riempita; della rappresentanza, più semplicemente,
che essa ha trovato il suo riempimento273
Osservata da una prospettiva schiettamente semiotica la situazione qui
descritta presenta spunti di notevole interesse. Le rappresentanze, a differenza
delle rappresentazioni improprie in Semiotik, non si limitano a surrogare contenuti
indisponibili e a operare nell’ottica del “come se”, poiché animate da
un’intenzione che le spinge verso quei contenuti, la loro precipua funzione non sta
più tanto nel sostituire quanto nell’intendere, esse in altri termini non suppliscono
tanto e soltanto a una mancanza perché spingono piuttosto alla sua eliminazione:
parlare di riempimento, di intenzione riempita, attesta una semiosi di genere
diverso, dove il segno – che ricordiamo è (perlomeno) una delle specie della
rappresentanza – ha il compito precipuo di condurre in presenza delle cose stesse
piuttosto che fornirne un succedaneo. Pur con i limiti già intravisti e che
riprenderemo a breve un siffatto concetto di intenzionalità ha l’indiscusso merito
di instradare la riflessione husserliana verso la dimensione della presenza e
rafforza la critica al simbolismo matematico, con il suo formalismo dal carattere
eminentemente surrogante; l’origine della rappresentanza e il suo stretto nesso con
l’intuizione, certificato dal carattere teleologico dell’intenzionalità, mostrano con
evidenza come non sia più la surrogazione a determinare la semiosi, bensì l’intendere, con la sua tensione verso l’intuizione, verso le cose stesse. Un siffatto
nesso, come è stato giustamente osservato, mostra come l’in-tendere qualcosa non
si esaurisca nel rivolgimento a un contenuto temporaneamente assente, bensì
spinga al suo stesso dissolvimento, a risolversi cioè nell’intuizione, dove per
l’appunto non v’è più traccia di intenzionalità274.
In virtù della fisionomia fin qui tratteggiata il concetto d’intenzionalità
tradisce un carattere marcatamente semiotico275. La sua genesi e la conseguente
esclusiva attribuzione alle rappresentanze mostra infatti una dinamica tipicamente
semiotica, dove il contenuto psichico diviene di fatto un segno per via dello “stare
per” rinviante276, in virtù cioè del rimando a un qualcosa di non presente che
determina il carattere della rappresentanza. L’intenzionalità funziona qui perciò
273
Ivi, pp.71-72
K. Schuhmann Husserls doppelter Vorstellungsbegriff, cit., p.129
275
Anche Münch sostiene qualcosa del genere, per quanto egli riscontri un’anticipazione di questo
concetto di intenzionalità nella Filosofia dell’aritmetica; cfr. D. Münch Intention und Zeichen cit.,
p.123
276
Rang infatti parla in proposito di una Zeichenbewuβtsein; crf. B. Rang Einleitung cit., p.LII
274
117
esclusivamente come rimando segnico, si esplicita come rinvio a un designato,
tanto che gli atti intuitivi a cui è teleologicamente orientata non presentano affatto
un carattere intenzionale, poiché in essi il contenuto è immanentemente presente.
Si è così di fronte a un’intenzionalità semiotica così come a una semiosi
intenzionale, in virtù della quale è nella teleologia del rapporto fra atti psichici
(diversamente) rappresentanti che va rintracciata la validazione dell’attività
simbolica surrogante tipica della nostra psiche277. I segni manifestano così un
carattere intenzionale assente in Semiotik che ridimensiona la centralità della
funzione surrogante, poiché la loro portata conoscitiva sta solo nella tensione
verso l’intuitività e si esaurisce laddove avviene il riempimento, nel momento in
cui si ha un’intenzione riempita, il segno in altri termini spinge non
semplicemente oltre sé ma al suo stesso superamento e risolvimento, è solo come
mezzo, ponte verso “l’oggetto”, verso le cose stesse che esercita la sua funzione
conoscitiva.
Giunti a questo punto è però necessario interrogarsi un po’ più a fondo
sulle effettive acquisizioni qui maturate, vista la ricorrenza di termini come
“riempimento”, “intenzione riempita” che letteralmente rimandano alle analisi
delle Ricerche logiche. Si è detto che in questi testi compare e si fa poi insistente
il richiamo alle cose stesse, all’intuitività; al fine però di valutarne la reale
consistenza si deve osservare cosa davvero s’intenda qui per intuitività e quale sia
la quidditas delle cose stesse. Il punto decisivo sta a nostro avviso nel fatto che
qui non v’è una distinzione fra comprensione e conoscenza, per cui il riempimento
intenzionale vale anche come condizione della prima. Particolarmente illuminante
in tal senso è quanto avviene con rappresentanze segniche quali le parole, le
277
Dieter Münch ha riscontrato in ciò la novità rilevante di questi testi. A suo dire infatti il
programma di chiarificazione della logica, interesse dominante delle analisi husserliane nella fase
qui in esame, non ha più un carattere semiotico, poiché non consiste più nell’elaborazione di un
procedimento algoritmico parallelo e consapevole in grado di validare i processi cognitivi e la loro
semiosi; ma ne rivela uno psicologico, visto l’interesse esclusivo verso la coscienza intenzionale.
A tal proposito egli parla coerentemente di un allontanamento dalla semiotica (cfr. D. Münch
Intention und Zeichen cit., pp.169-70). A nostro avviso, pur riconoscendo il mutamento avvenuto
nella riflessione husserliana in merito alle modalità di chiarificazione, è però inopportuno parlare
di una sorta di abbandono della semiotica, come se essa fosse oramai marginalizzata. Lo sta a
dimostrare il carattere semiotico dell’intenzionalità, senza considerare che questa si scopre essere
il carattere stesso della semiosi naturale. Si potrebbe allora dire che se a valle viene ridimensionato
il ruolo della semiotica – in merito cioè alle procedure validanti – non lo è però a monte, poiché è
pur sempre nel novero della semiosi naturale che si muovono le analisi sulla meinende Bewuβtsein.
Punto questo che si motiva a sua volta a partire da un’impostazione empirico-psicologista qual è
quella husserliana in questa fase.
118
espressioni verbali278: in casi come questi ciò a cui mira l’intenzionalità, una volta
ridestatasi, è il significato della parola, il suo contenuto significazionale279, il
riempimento intenzionale vale qui a rigore come comprensione e non
propriamente come conoscenza. L’intenzionalità dei segni linguistici sta perciò
nel loro rinviare al significato, per cui non è questo a rendere intenzionale il
simbolo mediando, improntando, informando il riferimento all’oggetto, non v’è
qui la situazione tipica delle Ricerche per la quale un segno “esprime” un
significato che determina la maniera in cui è inteso l’oggetto, poiché qui a essere
inteso, nel senso dell’in-tendere, del tendere verso, è proprio il significato,
secondo un processo che rimanda al modello dei segni surroganti, dove il segno
“sta per” un contenuto, dinamizzandolo piuttosto che rimuovendolo. Il carattere
semiotico di questo genere di intenzionalità si fa allora particolarmente evidente,
poiché innanzitutto è a rappresentazioni non intuitive e simboliche che essa spetta
in via esclusiva; ma soprattutto è nei termini di un rimando segnico che si esplica,
secondo la semiosi finora vista, dove non solo non v’è la mediazione del
significato, ma questo è addirittura ciò a cui si rinvia280.
A fondo di questo sta la curvatura psicologista delle riflessioni
husserliane e l’immanentismo psichico che fa tutt’uno con essa. L’intenzionalità
viene infatti scoperta analizzando i meccanismi della nostra psiche, più nel
dettaglio è nel novero della semiosi naturale che trova la sua ratio cognoscendi, in
quanto si rivela come ciò che la rende possibile; di qui il suo carattere
marcatamente semiotico, esplicitato nel rinvio a quanto i segni (naturali e non)
sostituiscono, ovvero un contenuto psichico e non un oggetto esterno, sì che
perlomeno sotto il profilo semiotico la distinzione tra dati intuitivi e contenuti
significazionali si mostra di poca rilevanza: alla diversità del contenuto non
corrisponde infatti una differenza nella semiosi. Da ciò discende lo sfumare della
distinzione fra comprendere e conoscere, poiché nel momento in cui alle parole è
negata una funzione espressiva la comprensione del loro significato consisterà nel
presentare il contenuto che sostituiscono, nel riempimento di un’intenzione
278
Cfr. E. Husserl Logica, psicologia, fenomenologia cit., pp.49, 50, 53, 77-79.
Ivi, pp.53 e 77
280
Da un’ottica retrospettiva la semiosi che qui si rivela ricorda da vicino quella tipica degli indici
nelle Ricerche logiche, proprio per l’assenza della dimensione semantica, tant’è che è
l’associazionismo a improntare e render possibile la teleologia delle rappresentanze con la loro
aspirazione al riempimento
279
119
nient’affatto significante, ma che semmai tende al significato, trattandosi per
l’appunto di un contenuto psichico a cui è associata e che a rigore non esprime.
Il limite dell’impostazione immanentista sta proprio in questo,
nell’impossibilità di mettere a fuoco la decisiva distinzione tra contenuto e
oggetto, poiché è sempre e solo con contenuti psichici che si ha a che fare; e la
conseguenza più vistosa sta nel carattere semiotico dell’intenzionalità, il cui
“riferirsi a” ha la natura di un rinvio indicale, perché non v’è nessun intendere che
lo costituisca, non v’è cioè alcuna determinazione della maniera in cui il designato
è inteso: in altri termini, non c’è alcuna intenzione significante, bensì
un’intenzionalità segnica, dove è il segno a farsi esclusivo carico dell’intendere,
ridotto a un meccanismo associativo. Sebbene qui venga sottolineata l’importanza
decisiva delle relazioni fra gli atti per la logica e la teoria del giudizio, sebbene
esse vengano descritte con espressioni tipicamente fenomenologiche quali
“riempimento intenzionale”, “coscienza dell’intenzione riempita”, si è comunque
ancora lontani dalla prospettiva delle Ricerche logiche, poiché a ben vedere non si
tratta di un riempimento del significato, bensì del mero segno, nella presentazione
di ciò per cui esso sta e non di ciò che significativamente intende: l’intenzionalità
muove infatti verso il colmamento di una mancanza, il mero segno mira
all’intuizione in virtù di meccanismi tipicamente psicologici, come l’associazione
e l’abitudine.
La trattazione husserliana sui rapporti fra intuizioni e rappresentanze va
perciò proiettata su uno sfondo semiotico e in questo va valutato il suo valore
conoscitivo Non bisogna infatti dimenticare che negli Studi psicologici sulla
logica elementare la logica è intesa ancora come Kunstlehre, il cui obiettivo sta
nella validazione dei metodi conoscitivi e nell’estensione della loro portata,
metodi in larga parte simbolici, per cui l’importanza riconosciuta ai rapporti tra
rappresentanze e intuizioni per la logica medesima va vista nel fatto che essi si
rivelano condizioni di validità di quegli stessi metodi, illustrando la maniera in cui
è possibile comprenderne e verificarne l’operare, il funzionamento. È perciò nel
novero della validazione e verifica dei metodi conoscitivi che l’intenzionalità
trova il suo valore conoscitivo, secondo un’impostazione che rimane
sostanzialmente identica a quella dei testi in precedenza affrontati. La novità
rilevante è senz’altro il ruolo decisivo assegnato all’intuizione, vista come ciò a
cui le rappresentanze – e i segni – tendono, sì che non è nella surrogazione che
120
consiste la portata conoscitiva dei segni, bensì nella tensione verso l’intuitività;
v’è però da dire che è nei termini della rimozione di una mancanza e quindi a
partire da una semiosi surrogante – e non significante – che si definisce il
riempimento intenzionale, con la conseguenza che la comprensione di una parola
non si discosta dalla percezione di un oggetto designato: in entrambi i casi infatti
si ha la presentazione di un contenuto psichico, il suo divenire immanente. In tal
maniera è ancora al segno che viene attribuito un ruolo di primo piano in ambito
logico, poiché il riempimento intenzionale vale come presentazione del contenuto
sostituito, compare nel novero della semiosi surrogante, è in un contesto semiotico
che l’intenzionalità viene scoperta così come – inevitabilmente, visto il genere di
semiosi – semiotica è la sua natura.
A ulteriore conferma di quanto detto v’è la maniera in cui Husserl
affronta la questione del pensiero concettuale. I concetti, con il pensiero che
costituiscono, sono considerati da Husserl delle costruzioni idealizzanti,
particolarmente utili in scienze quali la geometria, vista l’impossibilità di ottenere
empiricamente quanto con essi s’intende; si tratta in altri termini dei cosiddetti
contenuti significazionali. Questa loro natura fa sì che essi non costituiscano soltanto - il terminus a quo di un riempimento intenzionale, possibile o meno,
poiché è anche e soprattutto come terminus ad quem di un siffatto riempimento
che operano, nel momento in cui si ha a che fare con segni, quali le parole,
intenzionalmente rivolti verso di essi, vista inoltre la loro impossibilità di venir
sganciati dai segni. La conseguenza più rilevante di tutto questo sta nel fatto che i
concetti, i significati, non sono affatto la necessaria mediazione per giungere
all’intuizione, non sono parte sempre e comunque del riempimento, poiché
nell’intuizione un momento distintivo che s’impone all’attenzione puo’ servire,
in quanto segno, a indicare un altro elemento intuitivo, senza che vi sia alcuna
mediazione del pensiero concettuale281
E questo vale anche per quei segni che più degli altri sembrano
necessitare della mediazione concettuale, ovvero le parole, poiché le
rappresentanze linguistiche, come afferma Husserl, possono riferirsi ai dati
intuitivi anche laddove il pensiero concettuale recede282, a mo’ di un indice. A
281
282
E. Husserl Libro sullo spazio cit., p.69
E. Husserl Logica, psicologia, fenomenologia cit., p.81
121
rigore è perciò difficile riscontare qui la conoscenza descritta nelle Ricerche
logiche come adaequatio rei ac intellectus poiché la res è pur sempre un mero
contenuto psichico e dispensabile si rivela la presenza dell’intellectus, sì che a
venir riempito non è tanto il significato, quanto soprattutto il (mero) segno.
Affinché si apra la via a una siffatta idea di conoscenza è necessaria una più
attenta e diversa considerazione della dimensione semantica così come un
concetto più proprio di trascendenza: è necessaria, in altri termini, la distinzione
fra contenuto e oggetto, di cui è tempo ora - e non soltanto in merito a quanto
appena detto - di occuparsi.
§ 2.3 – Intenzionalità, contenuto e oggetto
Nell’introdurre l’importantissima distinzione cui abbiamo fatto più volte
cenno è indispensabile fare il nome di uno dei più insigni esponenti della scuola
brentaniana, cui del resto lo stesso Husserl apparteneva perlomeno quanto alla sua
primissima formazione: stiamo parlando di Kazimierz Twardowski e in
particolare del suo scritto Sulla dottrina del contenuto e dell’oggetto delle
rappresentazioni. Una ricerca psicologica (1894). A motivare la necessità di
questa nostra scelta interviene innanzitutto l’interesse che Husserl mostra di avere
per l’opera, testimoniato dai due scritti che egli vi dedica nel 1894: una recensione
e il ben più consistente – benché frammentario – manoscritto sugli oggetti
intenzionali283. Ma ben più che la semplice cronistoria delle letture husserliane è
quanto in esse emerge a produrre ragioni fondamentali, poiché, com’è stato da più
parti osservato, è dal confronto con l’opera di Twardowski che il concetto
fenomenologico di intenzionalità ha modo di delinearsi284, così come la
distinzione tra contenuto e oggetto a esso strettamente connessa. A ciò va poi
aggiunta la condivisione del medesimo orizzonte psicologista da parte dei due
allievi di Brentano, sì che “l’eresia” di Twardoswki apre la strada a quella ben più
rilevante e consistente di Husserl medesimo.
Va detto infatti che la distinzione tra contenuto e oggetto non è
letteralmente rilevabile dalle riflessioni brentaniane de La psicologia da un punto
di vista empirico: l’in-esistenza intenzionale, tratto distintivo dei fenomeni
psichici, riconduce la relazione intenzionale al riferimento dell’atto a un contenuto
283
Ivi, rispettivamente pp.125-29 e pp.87-124.
Cfr. K. Schuhmann Husserls doppelter Vorstellungsbegriff, cit., p.132 e S. Besoli Introduzione
in E. Husserl Logica, psicologia, fenomenologia parte I cit., p.27 (nota 73).
284
122
immanente, sì che questo è fondamentalmente l’oggetto285; di qui consegue non
tanto il privilegio per la percezione interna, quanto l’esclusiva attribuzione a essa
dello statuto di percezione286, cosa che rende perlomeno difficile l’attuarsi di
un’autentica trascendenza.
Ed è di qui che parte Twardowski per le sue analisi, dall’immanenza del
contenuto psichico e dalla sua conseguenza più rilevante, la confusione in merito
al termine oggetto. Questo infatti si riferisce tanto al contenuto intenzionale di un
atto quanto all’oggetto sussistente per sé, indistinzione che non soltanto si dà a
vedere nel linguaggio ma è addirittura da esso facilitata, se in esso entrambi
vengono definiti “rappresentati”287. Sciogliere una siffatta equivocazione equivale
perciò ad affisare non soltanto la distinzione tra contenuto e oggetto, ma anche a
delineare l’esatta fisionomia della rappresentazione. Già il solo parlare di
equivocità implica del resto l’ammissione di quella distinzione, che tuttavia
Twardowski non si limita a riprendere di peso da considerazioni altrui - come
quelle di Höfler - poiché ne dà prova a partire dal medesimo terreno su cui sorge
la deplorata confusione, quello cioè linguistico, in virtù di un’assunta analogia fra
pensiero e linguaggio. Se infatti il nome adempie a una triplice funzione,
provvedendo a render noto un atto rappresentativo, a destare in chi ascolta un
contenuto psichico che è il suo significato e infine a designare un oggetto, ne
risulta che quell’atto rappresentativo reso noto è costituito da due diverse
componenti, per l’appunto contenuto e oggetto288. L’ulteriore equivocità di cui
davamo conto, relativa al fatto che a entrambi è riferito il termine
“rappresentazione” - e che come egli afferma contribuisce non poco a render più
difficile un’esatta distinzione -, è nuovamente risolta su un terreno linguistico, con
l’introduzione della differenza fra aggettivi determinativi e modificanti, che
rispettivamente
ampliano
(o
completano)
e
modificano
il
significato
285
F. Brentano Psychologie vom empirischen Standpunkt, Hamburg, Meiner 1973 (ed. it. id. La
psicologia dal punto di vista empirico vol. I, Laterza, Bari 1997, p.154). Cfr. anche S. Besoli
Introduzione cit., p.29.
286
«La percezione interna non è solo l’unica immediatamente evidente, ma è di fatto la sola
percezione nel vero senso della parola…Strettamente intesa, dunque, la cosiddetta percezione
esterna non è una percezione, e quindi i fenomeni psichici possono venire definiti come quei
fenomeni in relazione ai quali soltanto è possibile una percezione nel vero senso della parola »; F.
Brentano La psicologia da un punto di vista empirico vol. I, cit., p.157
287
K. Twardowski Zur Lehre vom Inhalt und Gegenstand der Vorstellungen. Eine psycologische
Untersuchung, Alfred Hölder, Wien 1894 (ed. it. in K. Twardoswki Contenuto e oggetto, Bollati
Boringhieri, Torino 1988, p.58)
288
Ivi, pp.63-65
123
dell’espressione cui appartengono289. L’aggettivo “rappresentato” ha sempre una
funzione determinativa in rapporto al contenuto, poiché ne completa il significato
determinandolo analiticamente290; diversa invece è la situazione quando si parla di
“oggetto rappresentato”, dove oltre che in funzione determinativa – per cui si
attribuisce all’oggetto una nuova determinazione, quella di esser parte della
relazione a un soggetto – l’aggettivo puo’ essere inteso in senso modificante – e in
tal caso è improprio parlare di oggetto, poiché in verità s’intende il contenuto
della rappresentazione, così come con “paesaggio dipinto” si puo’ intendere il
quadro e non il suo soggetto291. È perciò alla luce della grammatica del termine
“rappresentazione” che si dissolve la confusione tra contenuto e oggetto derivante
dal loro essere entrambi rappresentati. Al fine rimediare agli inconvenienti di una
siffatta duplicità di significato, Twardowski suggerisce di emendare l’uso del
termine “rappresentare” nella maniera che segue:
del contenuto diremo che è pensato, rappresentato nella rappresentazione;
dell’oggetto diremo che è rappresentato per mezzo del contenuto di una rappresentazione
(o per mezzo di una rappresentazione)292
Se dunque sin qui si era soltanto mostrata la distinzione tra contenuto e
oggetto, ora è indicato di qual genere sia il loro rapporto: il primo è infatti il
mezzo tramite cui si rappresenta il secondo, è perciò sempre in maniera mediata
che ci si riferisce a esso, intendendolo in qualche modo. Il contenuto svolge così
una funzione significante, è il significato e non l’oggetto di una rappresentazione,
cosa che se da un lato distanzia Twardowski da Brentano, dall’altro non rompe
affatto con l’impostazione psicologista, che è per l’appunto comune a entrambi:
l’identificazione tra contenuto e significato rende infatti quest’ultimo una realtà
psichica, per cui non v’è spazio per una logica sganciata dalla psicologia 293, come
accadrà invece con Husserl nei Prolegomeni.
La permanenza di una siffatta impostazione non si fa però sentire soltanto
a proposito del contenuto, poiché perlomeno altrettanto rilevanti sono le
289
Ivi, p.66
Intendiamo qui dire che il predicato “rappresentato” è già contenuto nel soggetto “contenuto”
poiché questo, a detta di Twardowski, non puo’ che essere rappresentato (ivi, p.68)
291
Ivi, pp.68-69
292
Ivi, p.71
293
Cfr. S. Besoli La rappresentazione e il suo oggetto: dalla psicologia descrittiva alla metafisica
in K. Twardoswki Contenuto e oggetto cit., p.18
290
124
conseguenze dal lato dell’oggetto. Il tacito presupposto delle considerazioni di
Twardowski è infatti che a ogni rappresentazione corrisponda un oggetto, se il
contenuto che per necessità spetta a una rappresentazione si riferisce
necessariamente a un oggetto. Da ciò il problema delle rappresentazioni rivolte a
oggetti impossibili e non esistenti, nelle quali non sembra ammissibile alcuna
controparte oggettuale. La chiave per risolvere questa impasse è ancora una volta
il parallelismo con i nomi, con la loro costitutiva differenza tra significare e
designare. Nel caso di una rappresentazione quale quella del quadrato rotondo
bisogna infatti distinguere in maniera simile, tenendo conto del fatto che con il
contenuto necessariamente inerente alla rappresentazione è dato un oggetto da
esso distinto, tanto che a essere inesistente non è certo il contenuto, bensì
l’oggetto che esso intende. In tal maniera la distinzione tra contenuto e oggetto
risulta ancor più rafforzata, poiché se le determinazioni contraddittorie inerissero
al primo questi non esisterebbe, dando luogo a un ferro ligneo come la
rappresentazione priva di contenuto; l’ammissione dell’oggetto per ogni
rappresentazione si rivela perciò necessaria proprio per queste medesime, per cui
si puo’ certo parlare di rappresentazioni i cui oggetti non esistono, ma non di
rappresentazioni che sono senza oggetto294
Alla facile obiezione sulla contraddittorietà di oggetti inesistenti che
tuttavia sussistono per una rappresentazione Twardowski risponde parlando di un
significato modificato di esistenza, quella cioè fenomenica, intenzionale, sì che
all’in-esistenza intenzionale del contenuto di brentaniana provenienza si affianca
qui l’esistenza intenzionale dell’oggetto, che non è affatto da intendersi come
effettiva, poiché qui l’oggetto esiste soltanto come termine di un rapporto
intenzionale, ovvero soltanto come rappresentato295. Un concetto di esistenza sui
generis, luogo centripeto delle critiche husserliane, ma che egli doveva giocoforza
ammettere, vista la sua idea del significato come parte effettiva dell’atto, come
contenuto psichico, a cui l’attribuzione di qualità contraddittorie avrebbe impedito
l’esistenza rendendo impossibile la rappresentazione qua talis. Un concetto che
sorge perciò dall’impostazione immanentista dello studioso polacco, al cui interno
però l’ammissione della differenza tra contenuto e oggetto provoca un corto
294
295
K. Twardoswski Contenuto e oggetto cit., p.82
Ivi, p.78
125
circuito abbastanza singolare, visibile nel necessario quanto paradossale sfocio
nella metafisica da parte di chi pur non rinnega la sua provenienza dalla psicologia
empirica:
tutto ciò che è, è un oggetto di un possibile atto di rappresentazione; tutto ciò
che è, è qualcosa. E di conseguenza qui è il punto in cui la discussione psicologica
intorno alla distinzione tra oggetto e contenuto della rappresentazione sfocia nella
metafisica296
La metafisica a cui approda Twardowski - e che egli ha la pretesa di
ricondurre alla sua fisionomia più classica in quanto “scienza degli oggetti in
genere” - fa perno sul concetto generalissimo di oggettualità, coincidente con
l’essere rappresentato, sì che il suo diritto a porsi come regina delle scienze è qui
non soltanto ribadito, ma illuminato nella sua autentica valenza, in quanto “ciò di
cui si occupano le singole scienze non sono altro che gli oggetti delle nostre
rappresentazioni”297. Ed è in fondo l’unico genere di metafisica possibile per lo
psicologismo. Con Twardowski perciò l’intenzionalità opera ai sensi della
trascendenza, rimandando oltre il contenuto senza più essere il riferimento a esso,
com’era per l’in-esistenza intenzionale di Brentano; una sorta di retroreferenza
brentaniana è però da leggere nella necessità che il riferimento all’oggetto non sia
mai
a
vuoto,
nella
necessaria
presenza
del
referente
intenzionale,
nell’impossibilità cioè che vi siano atti senza oggetto298.
Le considerazioni critiche husserliane hanno come centro del loro
svolgimento proprio questo punto, poiché per Husserl è del tutto indifferente
l’esistenza dell’oggetto intenzionato per lo statuirsi della rappresentazione, per la
sua essentia. Egli riscontra infatti il vulnus apicale della posizione di Twardowski
in una confusione di piani, nell’aver cioè ascritto a una dimensione ontologica
differenze che invece rimontano al piano delle rappresentazioni e dei loro
rapporti, giungendo così al (falso) raddoppiamento tra oggetti veri e
intenzionali299, senza rendersi conto che
296
Ivi, p.90
Ivi, p.92
298
Su questo punto cfr. S. Besoli Introduzione cit., p.29 e p.32
299
E. Husserl Oggetti intenzionali in id. Logica, psicologia, fenomenologia cit., p.91
297
126
l’intera differenza tra vero e intenzionale si riduce a certe peculiarità e
differenze della funzione logica delle rappresentazioni, cioè delle forme dei possibili
nessi obiettivi in cui possono entrare le rappresentazioni, considerate esclusivamente in
base al loro contenuto obiettivo300
In virtù di questo diverso angolo prospettico risulta mutata la natura del
riferimento intenzionale, che non è più tarato sull’oggetto, bensì sulle
caratteristiche degli atti e sui loro nessi intenzionali, sì che le differenze in
questione non si misurano in termini ontologici, bensì psicologici o per meglio
dire fenomenologici: è infatti a partire dagli atti e dai loro nessi che si motiva
l’inessenzialità, la dispensabilità dell’oggetto per la rappresentazione intenzionale,
poiché è soltanto nei giudizi validi in cui si inseriscono le rappresentazioni che
puo’ esser mostrato se l’oggetto inteso esiste o meno301. Parlare di “oggetto
intenzionale”
equivale
allora
a
indicare
il
carattere
distintivo
della
rappresentazione, il suo “riferirsi a” che non necessita affatto della presenza del
referente, l’attributo “intenzionale” in altri termini
non “modifica” più l’oggetto in oggetto non-esistente, ma si intende ora un
oggetto nel senso in cui esso deve appartenere ad ogni rappresentazione, alle valide come
a quelle non valide; oppure un oggetto nel senso in cui si prescinde del tutto dalla relativa
questione di esistenza. Poiché l’estensione del concetto ”intenzionale” comprende anche
gli oggetti veri, non si puo’ parlare ora di una suddivisione302
L’oggetto perciò appartiene alla rappresentazione non come sua parte,
nei termini dell’in-esistenza intenzionale brentaniana che ancora fa capolino nelle
analisi di Twardowski303, bensì come suo terminus ad quem, la cui mancata
300
Ivi, p.93
La suddivisione degli oggetti in esistenti e non esistenti è infatti « una mera suddivisione delle
rappresentazioni in rappresentazioni A, che si inseriscono in giudizi esistenziali validi della
forma “A esiste”, e ancora in rappresentazioni B, che si inseriscono in giudizi esistenziali validi
della forma correlativa “B non esiste” ». Ivi, p.95
302
Ivi, p.96
303
Per Husserl l’esistenza intenzionale dell’oggetto di cui parla Twardowski coincide infatti con la
sua immanenza all’atto (ivi, p.92), cosa che rende alquanto difficile mantenere la distinzione tra
contenuto e oggetto, inducendo piuttosto a una loro assimilazione (su questo punto cfr. E. Husserl
Recensione a K. Twardowski, Sulla dottrina del contenuto e dell’oggetto delle rappresentazioni
intenzionali in Logica, psicologia e fenomenologia cit., p.132 così come S. Besoli Introduzione
cit., p. 32 nota 82); di conseguenza il riferimento intenzionale si rivela di natura intra-mentale,
richiamando da vicino la dottrina brentaniana dell’in-esistenza intenzionale. Una convincente
ricostruzione dell’interpretazione husserliana (che di riflesso sottolinea un effettivo punto debole
nella disamina di Twardowski) è offerta da Rang, secondo cui parlare di “oggetti rappresentati” nei
301
127
esistenza nulla toglie alla rappresentazione, poiché l’aggettivo “intenzionale” vale
a caratterizzare il riferimento dell’atto più che il suo oggetto. Laddove infatti si ha
a che fare con oggetti non esistenti Husserl utilizza sì una formula modificante,
parlando di “oggetti meramente intenzionali”, ma questo non vale ad ammetterne
ontologicamente la presenza quanto piuttosto a indicare la specificità del
riferimento a un oggetto “eventuale”304.
La via al riempimento intenzionale come atto conoscitivo è così aperta,
guadagnata attraverso il concetto di intenzionalità che Husserl elabora nel suo
confronto critico con Twardowski. Nel caso di questi essa si muove
sostanzialmente in un contesto di immanenza, rivolta a un oggetto che esiste solo
in quanto meramente rappresentato e perciò inerente all’atto, assimilandosi in tal
maniera all’in-esistenza intenzionale di Brentano, tanto che la stessa differenza fra
contenuto e oggetto non rompe del tutto con l’immanentismo psichico
brentaniano. La critica husserliana al falso raddoppiamento tra oggetto
rappresentato e oggetto vero mette capo invece a un diverso concetto di
intenzionalità, la cui caratteristica precipua sta nella sua autentica trascendenza,
nell’indirizzamento alla realtà extra-mentale che la connota sempre e dovunque,
poiché nella relazione intenzionale non sono i poli relati a istituire la relazione, ma
è questa stessa a farli emergere, segnando la dinamicità costituiva della coscienza,
il suo essere autotrascendimento, apertura verso il mondo, verso le cose stesse,
tanto che il riempimento intenzionale opererà da ora in senso schiettamente
conoscitivo, nei termini dell’adaequatio, della presenza “in carne e ossa” di ciò
che è inteso. Rompendo perciò con il rigido immanentismo che ancora limitava la
posizione di Twardowski l’intenzionalità opera in senso autenticamente
conoscitivo, in quanto è nell’intuizione di ciò che si è inteso, dell’oggetto pensato
mediante il significato che essa si compie e non nella presenza di quanto
conferisce senso al segno, del contenuto a esso associato e da esso sostituito.
Ed è da qui che è possibile valutare il peso reale della distinzione tra
contenuto e oggetto. Il piano di autentica trascendenza nel quale si muove il
concetto di intenzionalità necessita infatti di quella disgiunzione e in maniera ben
più radicale di quanto fatto da Twardowski, poiché l’oggetto rappresentato è
casi di rappresentazioni di oggetti inesistenti ha un senso modificante, sì che l’oggetto
rappresentato diviene il contenuto della rappresentazione (cfr. B. Rang Einleitung cit., pp. XXIVXXV).
304
Ivi, p.97
128
sempre il termine di un riferimento extra-psichico, laddove il contenuto è invece
in ogni caso parte reale dell’atto e non puo’ perciò mai venir meno.
Ma ancor più importante è un’ulteriore distinzione che Husserl rileva,
stavolta del tutto di contro a Twardowski, quella cioè tra contenuto e significato.
L’associazionismo psichico non vale infatti come spiegazione della comprensione
linguistica, poiché tutt’al più simili sono i contenuti evocati dalla coscienza di chi
ascolta un’espressione, giammai identici; di conseguenza il contenuto psichico
non puo’ mai coincidere con il significato, ma ne è il rappresentante, poiché esso è
sempre qualcosa di individuale, di dato qui e ora, laddove il significato è piuttosto
ciò che rimane identico nella molteplicità variabile dei contenuti305. La
dimensione semantica non puo’ perciò essere ricondotta all’empiria, poiché il
significato è piuttosto l’invarianza non empirica dei molteplici contenuti psichici,
sì da non poter mai essere qualcosa di osservabile, di realmente appartenente
all’atto come immanenza, bensì presente in esso in senso soltanto funzionale: si è
così di fronte alla prima formulazione dell’idealità dei significati 306. Alla luce di
questa acquisizione diviene ancor più chiaro il rifiuto husserliano di fare
dell’oggetto un componente necessario per la rappresentazione, poiché è piuttosto
il significato il suo elemento distintivo, la sua essenza, ed è per giunta solo in virtù
di esso che è possibile il riferimento oggettuale.
Se in precedenza avevamo assistito alla comparsa di un doppio concetto
di rappresentazione qui radicalmente mutata è la situazione, perché le
rappresentanze decadono al ruolo di contenuti delle rappresentazioni, a motivo del
fatto che solo in quanto portatore di un significato il segno puo’ rappresentare
qualcosa, il contenuto in altri termini, distinto dal significato, è quella componente
reale che non rimanda di suo pugno a qualcosa, con la conseguenza che la
funzione surrogante non puo’ affatto dirsi rappresentativa, poiché l’intenzionalità
è ora di natura squisitamente significante e non semiotica, e il rimando è sempre e
comunque mediato dal significato, non rivolto verso di esso. La distinzione tra
espressioni e indici è così implicitamente stabilita, poiché il pensiero concettuale
non recede laddove si tratti di parole, o meglio ancora di proposizioni - che
Husserl annovera fra le rappresentazioni -, non v’è mai un rinvio associativo,
E. Husserl Recensione a K. Twardowski, “Sulla dottrina del contenuto e dell’oggetto delle
rappresentazioni intenzionali” in Logica, psicologia e fenomenologia cit., p.130
306
Ibid.; per un esplicita menzione dell’idealità cfr. E. Husserl Oggetti intenzionali cit., p.114
305
129
desemantizzato, poiché è solo in quanto significative che le espressioni
linguistiche posso dirsi intenzionali.
La centralità della dimensione semantica sancisce così il decadimento
della funzione surrogante dei segni, come mostrato fra l’altro dalla diversa
calibratura del carattere improprio della coscienza. L’improprietà infatti non
riguarda qui il rapporto tra segni e significati, bensì quello fra questi e gli oggetti,
poiché non si manifesta più nell’affidamento a meri segni come se fossero i
concetti sostituiti, ma riguarda il riferimento dei significati a oggetti inesistenti, il
loro far parte di giudizi che giudicano su rappresentazioni di oggetti come se si
trattasse di oggetti veri e propri307. Il come se, cifra distintiva della dimensione
impropria308, si declina perciò in maniera diversa, in accordo alle nuove
acquisizioni husserliane, non mettendo più capo all’ambito semiotico bensì a
quello semantico, sì che l’omissione inconsapevole a fondamento dell’improprietà
non attiene alla dimensione concettuale - a motivo dell’imprescindibilità dei
significati - bensì a quella oggettuale – vista la dispensabilità dell’oggetto nel
novero della rappresentazione: parlare infatti di oggetti inesistenti come se tali non
fossero non conduce infatti ad affermazioni esistenziali su realtà extramentali,
bensì a rilevare le relazioni che intercorrono tra significati diversi a partire dal loro
comune e ipotetico campo di riferimento309.
Alla centralità della questione semantica è poi strettamente legata
l’irruzione della dimensione ontologica, pressoché assente nelle analisi sin qui
affrontate. Il significato si rivela infatti il veicolo della trascendenza, consentendo
l’apertura all’essere come realtà extra-psichica, in virtù di un concetto di
intenzionalità ritagliato su di esso e che fa corpo con la sua duplice distinzione dal
contenuto e dall’oggetto. Si è visto come sia da escludere una coincidenza con
questo, poiché il significato è piuttosto il modo in cui l’oggetto è inteso, la
« Le rappresentazioni “Giove” e “il sommo degli dei olimpici” hanno lo stesso oggetto
intenzionale, vale a dire ‘Giove’ è il sommo degli dei olimpici – secondo la mitologia greca »
Ivi,p.97. L’oggetto a cui si riferiscono i significati è qui infatti non il dio, bensì la rappresentazione
che i greci avevano di questo dio; su questo punto cfr. B. Rang Einleitung cit., p. XXXVI e S.
Besoli Introduzione cit., p.38
308
Cfr. B. Rang Einleitung cit., p.XXXVII
309
Una siffatta concezione ha importanza soprattutto per l’analisi dei fondamenti della geometria,
riconducendo a un’impostazione formalista: « Tutte le proposizioni della geometria, quelle
esistenziali come quelle nomologiche, sottostanno a un’assunzione generale mai espressa, perché
ovvia: posto che ci sia uno spazio, che ci sia una molteplicità del tipo in tal modo determinato
(definito esattamente nei fondamenti), allora esistono in essa queste e quelle formazioni, per le
quali valgono queste e quelle proposizioni e così via. L’esistenza e la non-esistenza matematica
sono dunque un’esistenza e una non-esistenza soggette a posizione ipotetica dei fondamenti »; E.
Husserl Gli oggetti intenzionali cit., p.106
307
130
maniera in cui si attua il riferimento – intenzionale – a esso, per cui sempre
mediata concettualmente è la nostra presa sulla realtà empirica, che è per
l’appunto intesa, in qualche modo intenzionata. E la conseguenza in tal senso più
rilevante sta nell’emergere di un’idea di conoscenza come corrispondenza, come
adaequatio rei ac intellectus, in quanto è solo nel riempimento del significato,
nella presentazione intuitiva dell’oggetto così come è stato inteso che essa si attua,
cosicché è scoperto il valore dell’intenzionalità come via verso le cose stesse.
Sotto un profilo più strettamente semiotico ciò provoca la lateralizzazione della
funzione surrogante in ambito cognitivo, poiché non si tratta più di validare i
metodi conoscitivi simbolici presentando i contenuti per cui i segni stanno, ma di
presentare quanto i significati, costitutivi dei segni in quanto espressioni,
intendono: in altre parole, nel momento in cui l’attenzione di Husserl si rivolge
soprattutto al lato oggettivo della conoscenza, agli oggetti conosciuti più che ai
soggetti conoscenti, si ha il passaggio da una semiosi surrogante a una espressiva.
Ma a ben vedere è la stessa centralità del segno a essere ridimensionata dalla
dimensione semantica, poiché solo in quanto significanti i segni possono riferirsi
intenzionalmente a qualcosa e contribuire in tal maniera alla conoscenza, con la
conseguenza che il loro rapporto con il significato non si esplicherà più ai sensi di
un rimando, ma come una innige Einheit, nella quale il significato non è il termine
di un riferimento segnico, ma ciò che lo inabita, lo anima.
In questo si rivela fondamentale l’altra distinzione in precedenza
menzionata, quella tra significato e contenuto. L’aver ascritto a una dimensione
ideale il primo fa sì che la sua appartenenza all’atto sia di natura funzionale e non
reale310 e impedisce di considerarlo termine di un rimando meramente segnico come accadeva laddove si trattava di contenuti associati o semplicemente sostituiti
-, poiché è piuttosto il significato a consentire al segno il rimando a qualcosa, a
qualcosa per l’appunto di inteso e non meramente surrogato, poiché il rimando si
muove nella trascendenza e non più nell’immanenza psichica dell’atto. Deprivato
della natura semantica fin qui riconosciutagli il contenuto decade a mera
rappresentanza, cui la variabilità connaturata alle entità empiriche, lungi
dall’essere un vulnus, ne é in verità il tratto caratteristico, poiché differenti
possono essere le manifestazioni in cui si incarna il significato, in senso tipologico
(segno, immagine) e all’interno delle medesime tipologie (segni, immagini); anzi
E. Husserl Recensione a K. Twardowski, “Sulla dottrina del contenuto e dell’oggetto delle
rappresentazioni intenzionali” in Logica, psicologia e fenomenologia cit., p.130
310
131
è proprio in virtù di una siffatta variabilità che il differente status del significato
puo’emergere, in quanto identità ideale nella molteplicità empirica, sì che i segni
non esprimono soltanto il significato, ma consentono di affisarne l’autentica
natura. L’immanenza del contenuto va perciò declinata, contra Twardowski, in
senso semiotico, essendo questa la funzione dei contenuti in grazia della loro
stessa individualità empirica, che non consente a una loro identificazione con i
significati311.
Alla luce di queste acquisizioni è finalmente chiarita la distinzione tra
comprensione e conoscenza, ben più che opacizzata nei testi sin qui visti, a causa
della somiglianza relativa ai rispettivi modi di attuazione. L’apertura all’essere
garantita dal nuovo concetto di intenzionalità declina in senso esclusivamente
conoscitivo il rimando segnico, cosicché non è mai nell’ottica di un rinvio al
significato che si attua la comprensione, anche perché esso è l’essenza della
rappresentazione, qualcosa che necessariamente le appartiene perché la definisce,
per cui mai questa potrà esserne priva come accadrebbe qualora vi rimandasse;
piuttosto, è l’attuazione del riferimento a esser subordinata alla comprensione,
poiché solo comprendendo il significato si viene a sapere cosa s’intende con il
segno e come lo s’intende. In tal maniera è all’orizzonte intellettivo, al pensiero
che la comprensione rimanda come suo luogo, è cioè intellettivo l’atto in cui
matura il comprendere, non trattandosi più della presentazione intuitiva di un
contenuto psichico, anche perché l’intuizione è ora rivolta agli oggetti, alle cose
L’aver identificato contenuto e significato ha condotto Twardowski al raddoppiamento
rimproveratogli da Husserl. Egli infatti trovava necessario ammettere la presenza di oggetti nonesistenti proprio in virtù dell’immanenza del contenuto, della sua reale esistenza come parte
dell’atto, cosa che rendeva impossibile riconoscergli quegli attributi che spettano agli oggetti
impossibili, pena la sua – paradossale – impossibilità di esistere; un’impasse superata ammettendo
appunto gli oggetti non-esistenti come portatori di qualità contraddittorie (cfr. K. Twardowski
Contenuto e oggetto cit., pp.76-77). Husserl ha buon gioco nel dimostrare come in tal maniera la
difficoltà, lungi dell’esser risolta, sia soltanto spostata, poiché l’oggetto non-esistente, proprio
perché “rappresentato”, è anch’esso immanente, è perciò parte reale dell’atto, cosicché la difficoltà
non puo’ che riproporsi (cfr. E. Husserl Oggetti intenzionali cit., pp.109-110). Ma a ben vedere il
punto della questione sta in altro. Se Twardowski, come Husserl, avesse riconosciuto al contenuto
un mero carattere semiotico la difficoltà sarebbe svanita, riconoscendo cioè i molteplici rapporti
che i contenuti posso intrattenere con l’oggetto significativamente inteso, potendo essere simili
come le immagini o estranei come i segni (cfr. E. Husserl Recensione a K. Twardowski, “Sulla
dottrina del contenuto e dell’oggetto delle rappresentazioni intenzionali” in Logica, psicologia e
fenomenologia cit., p.130). In virtù di questa loro estraneità le qualità contraddittorie, ovvero i
significati, sono loro attribuiti in senso soltanto funzionale, senza che vi sia una raffigurazione che
condannerebbe il contenuto all’impossibilità di esistere. Sotto questo profilo si puo’ allora
convenire con Husserl quando riscontra in Twardowski le falle tipiche di una teoria delle immagini
in relazione all’analisi del contenuto (E. Husserl Oggetti intenzionali cit. p.91), benché lo studioso
polacco si guardi bene dall’aderire a essa, ritenendola primitiva (K. Twardowski Contenuto e
oggetto cit., p.119).
311
132
stesse come entità extra-mentali, cosicché è sul versante della conoscenza - e non
della comprensione - che va riguardata, una conoscenza ora intesa come
adaequatio rei ac intellectus o, nei termini della sua declinazione husserliana,
come sintesi fra atti significanti e atti intuitivamente riempienti.
A uno sguardo retrospettivo ciò che si lascia scorgere è una ricalibratura
dell’idea di conoscenza, dovuta all’attenzione per un aspetto sin qui trascurato,
ovvero il suo lato per così dire oggettivo, ontologico. In precedenza infatti era ai
sensi di un concetto pratico, operativo, metodologico di conoscenza che Husserl
conduceva le sue analisi, dove a venire in primo piano erano inevitabilmente i
metodi conoscitivi, il cui carattere prevalentemente simbolico garantiva al segno
un ruolo di primissimo piano. In un contesto del genere la comprensione valeva
come consapevolezza nell’utilizzo dei metodi, senza che con essa si aprisse alcuna
via a una dimensione trascendente, considerato che la conoscenza veniva colà
intesa come retta e consapevole acquisizione della verità312. L’insoddisfazione
crescente verso l’impostazione psicologista, a motivo della sua ardua
compatibilità con la validità oggettiva dei concetti matematici e logici 313, spinge
l’interesse husserliano sempre più verso il lato oggettivo della conoscenza,
provocando la decisiva, in termini conoscitivi, irruzione della dimensione
ontologica314. In ciò si rivelano essenziali le acquisizioni finora riscontrate, dalla
netta distanziazione del campo linguistico dal concetto di calcolo - in virtù del
riconoscimento della sua peculiare semiosi - al genere di intenzionalità emerso in
questo paragrafo. Ed è invero soprattutto quest’ultimo a rivelarsi decisivo assieme alla distinzione tra contenuto, significato e oggetto con cui fa corpo -,
poiché orienta l’attenzione husserliana in maniera autentica verso le cose stesse e
non più in via esclusiva sui metodi per appropriarsene, quando non surrogarle.
Sotto un profilo schiettamente semiotico ciò segna il passaggio da una semiosi
surrogante a una espressiva, in virtù della centralità del significato come modalità
in cui l’oggetto è inteso, la cui distinzione dal contenuto vale poi come scoperta
della dimensione autenticamente logica, quella cioè ideale. E in riferimento alla
312
Cfr. p.60 sg. del nostro scritto
Cfr. E. Husserl Abbozzo di un prefazione alle Ricerche logiche in Logica, psicologia e
fenomenologia cit., p.201 e id. Ricerche logiche cit., pp.4-5
314
Su questo punto cfr. anche D. Münch Intention und Zeichen cit., pp.130-31, per quanto una
siffatta posizione necessiti di una più adeguata calibratura, come vedremo nel prossimo capitolo.
Molto opportunamente egli sottolinea poi come nei testi del 1894 non siano più la psicologia e la
semiotica a essere in primo piano, bensì la struttura intenzionale della coscienza e l’ontologia (ivi,
p.178)
313
133
logica medesima si registra un ulteriore e fondamentale spostamento, quello cioè
da una logica dei segni – qual era quella tipica e congrua a un’idea metodologica
di conoscenza – a una logica dei significati e più in generale rivolta alle
oggettualità ideali.
Come però accennavamo poc’anzi non ci si puo’ limitare, sotto il profilo
che più dà il taglio alle nostre analisi, a registrare un semplice passaggio da un
genere all’altro di semiosi, poiché in verità ben più radicale è il mutamento
avvenuto: quanto è dato vedere è infatti una lateralizzazione della semiotica a
vantaggio della dimensione semantica. Nel momento in cui è nell’approdo alle
cose stesse che si definisce il concetto di conoscenza l’aspetto metodologico passa
in secondo piano, in una posizione di subordine, e così i segni, in quanto
costituenti dei metodi; in tal maniera è al linguaggio - la cui fisionomia
cominciava già a emergere nel confronto con Schröder - e a i suoi segni espressivi
che viene conferito una sorta di primato, proprio perché il termine del riferimento
semiotico non è meramente sostituito, bensì inteso. Pur tuttavia al segno non verrà
con ciò attribuita una funzione secondaria, poiché fondamentale sarà il suo ruolo
nelle Ricerche, come indispensabile, sebbene su un versante diverso rispetto a
quanto sin qui visto, sarà la sua occorrenza, non da ultimo per la stessa
conoscenza.
134
§ 3 – Fenomenologia e semiotica nelle Ricerche logiche
§ 3.1 – Kunstlehre e Wissenschaftslehre nell’ottica fenomenologica
Le analisi di questo ultimo capitolo si prefiggono di mostrare come vada
intesa la lateralizzazione della questione semiotica con l’approdo alla logica pura
nelle Ricerche logiche, per poi operare uno scarto interpretativo - sull’andamento
ricostruttivo del nostro percorso - al fine di rilevare se la marginalità del segno sia
in ultima istanza davvero possibile nell’ottica della fenomenologia, nella maniera
in cui è intesa laddove esordisce. Nel dar corso agli sviluppi di questi semplici
accenni, o ancor meglio nel dare riempimento a queste vuote intenzioni, vogliamo
partire da una questione che ha a lungo occupato le pagine precedenti, ovvero la
distinzione tra Kunstlehre e Wissenschaftslehre, e trattare più da presso
quest’ultima, finora soltanto accennata - o al più menzionata per determinare
distintamente la fisionomia di una logica intesa come tecnologia. Subordinata a
questo scopo, finora la nostra esposizione ha considerato i due poli come se
fossero diametralmente opposti, fino a farne gli estremi del percorso husserliano
sino alle Ricerche logiche. Si tratta ora di chiarire definitivamente il senso di
quella distinzione e la nostra maniera di intenderla, alla luce delle acquisizioni
maturate con il distacco dallo psicologismo.
Nei Prolegomeni a una logica pura, volti in un’ottica di per sé già
fenomenologica a fare chiarezza sull’idea di logica, Husserl prende le mosse dalla
definizione di logica come tecnologia315(Kunstlehre) mostrando in che senso essa
abbia il diritto di valere come una dottrina della scienza (Wissenschaftslehre):
se la dottrina della scienza si propone il compito più ampio di indagare sulle
condizioni in nostro potere, dalle quali dipende la realizzazione dei metodi validi, e di
fornire regole per determinare in che modo possiamo, mediante artifici metodici,
impadronirci della verità, delimitare e costruire scienze in maniera valida, e in particolare
trovare e applicare i molteplici metodi che promuovono il loro sviluppo, preservandoci
dagli errori sotto tutti questi riguardi -, allora essa si trasforma in tecnologia della
scienza316
Quanto qui (nuovamente) riportato, pur se di primo acchito pare
ridimensionare la nostra opposizione, ci consente in verità di affisarla nella più
315
316
E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., p.27
Ivi, pp.45-46
135
giusta maniera. Alla dottrina della scienza, Husserl è esplicito in tal senso, spetta
un ruolo fondativo, tanto che essa si configura come la “scienza delle scienza”. La
logica come Kunstlehre assolve a un tal ruolo in senso prettamente metodologico,
nella fissazione delle norme che presiedono alla realizzazione dei metodi
scientifici, quelle norme cioè che consentono di fatto la realizzazione dello scopo
costitutivo della tecnologia: l’appropriazione della verità o, se si vuole,
l’avanzamento del sapere317. Il punto però sta ora nel riconoscere che con la
tecnologia della scienza non si è ancora raggiunto il terreno ultimo, poiché le
norme che la costituiscono rimandano come ai loro fondamenti a discipline
teoretiche, in grado di giustificare e validare i procedimenti che più da presso
caratterizzano la scienza qua talis, ovvero le fondazioni318. Nell’ottica psicologista
sin qui trattata un tale compito veniva demandato alla psicologia, riguardando il
lato prettamente psichico delle fondazioni, il loro essere processi mentali la cui
validità rimonta all’operare di leggi naturali. L’insoddisfazione per questa
prospettiva, motivata sulla assoluta trascuratezza dei contenuti obiettivi della
scienza che rischiava di “psicologizzare” le oggettualità logico-matematiche,
emerge con chiarezza nell’autocritica portata avanti nei Prolegomeni, com’è
particolarmente evidente da questo passo:
i logici psicologisti….considerano la scienza più nel suo aspetto soggettivo
(come unità metodologica del conoscere specificamente umano) che nel suo aspetto
oggettivo (come idea dell’unità teoretica della verità) ed insistono perciò unilateralmente
sui compiti metodologici della logica, trascurando la fondamentale differenza tra le norme
puramente logiche e le regole tecniche di un’arte del pensiero specificamente umana319
L’interesse prevalente alla dimensione soggettiva della scienza – e
correlativamente della conoscenza – caratterizzava anche la riflessione husserliana
vista in precedenza; il punto di svolta sta qui non soltanto nella sua avvertita
insufficienza320, ma nella adeguata messa a fuoco della dimensione oggettiva con
317
Una logica così intesa è infatti per Husserl una disciplina normativa, che si trasforma in
tecnologia nel momento in cui la norma fondamentale, indirizzante, diviene il raggiungimento di
uno scopo pratico (ivi, p.63), nella fattispecie l’approdo alla verità
318
Ivi, pp.31-41
319
Ivi, p.169
320
Nell’autoricostruzione del suo travaglio intellettuale culminato nella stesura delle Ricerche
logiche Husserl infatti afferma che i dubbi sull’impostazione psicologista, sulle sue debolezze in
merito all’obiettività della scienza, lo tormentavano ben prima della pubblicazione del suo
136
la “idea dell’unità teoretica della verità”, perché è solo a partire da essa che si
svela la natura di quelle insufficienze, la loro incapacità di assicurare un
fondamento inconcusso alla scienza. Se la scienza trova nelle fondazioni il suo
tratto caratteristico e costitutivo non puo’ essere affatto sufficiente ricorrere
all’associazionismo empirico al fine di validarle, poiché questo vale solo a
motivarne l’occorrenza e a illustrarne il funzionamento nei meccanismi psichici,
non ad assicurarsi della loro fondatezza obiettiva, a dimostrare cioè la loro
incontrovertibilità. Il discorso deve perciò spostarsi sul nucleo teorico della
scienza, sulla sua unità obiettiva, ai sensi di un punto d’osservazione a parte
obiecti in cui è l’idea di scienza con i suoi contenuti a segnare la fisionomia della
logica in quanto Wissenschaftslehre, e in cui è riconoscibile l’attuazione del
celebre motto fenomenologico an die Sache selbst. Con questo l’aspetto
metodologico della scienza, con il suo riferimento alla psicologia della
conoscenza, non viene affatto tagliato fuori come inessenziale o peggio allotropo,
piuttosto ridimensionato nel suo valore, poiché sono altre le norme logiche in
senso pregnante321, quelle cioè che costituiscono la scienza nella sua natura
obiettiva, in cui si mostra ciò che essa essenzialmente è:
ogni scienza, secondo ciò che essa insegna (quindi obiettivamente,
teoreticamente), è costituita di verità, ogni verità si trova in proposizioni, tutte le
proposizioni contengono soggetti e predicati attraverso i quali si riferiscono ad oggetti o
determinazioni ecc.; le proposizioni come tali si collegano secondo premesse e
conseguenze, ecc. Ora è chiaro che le verità fondate in tali costituenti essenziali di ogni
scienza considerata come unità teoretica obiettiva, le verità cioè che non si possono
pensare soppresse senza sopprimere ciò che conferisce a ogni scienza come tale un senso
e una base obiettiva, formano evidentemente i criteri fondamentali322
Se, come Husserl medesimo afferma, è a partire dalla ripartizione della
verità in campi, in unità obiettive che le indagini scientifiche devono orientarsi323,
è allora tracciata la fisionomia della logica pura, in quanto chiamata a definire i
concetti che appartengono all’idea obiettiva di scienza così come i nessi che ne
rivoluzionario testo. Cfr. E. Husserl Abbozzo di una prefazione delle Ricerche logiche in Logica,
psicologia e fenomenologia cit., p.201
321
Cfr. E. Husserl Sulla fondazione psicologica della logica in Logica, psicologia e fenomenologia
cit., p.169
322
E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., p.171
323
Ivi, p.25
137
discendono analiticamente, una logica che è l’autentica Wissenschaftslehre,
considerato che la logica metodologica trova in essa “il primo e più essenziale
fondamento”324. Le norme infatti che regolano la tecnologia logica come “arte del
pensiero specificamente umana” non sono soltanto di natura psicologica,
antropologica, poiché a ben vedere il nucleo più significativo di esse consiste nella
trasposizione normativa delle leggi definite dalla logica pura, nella loro
applicazione pratica ai processi psichici a carattere fondativo, che ne fa le “regole
che stabiliscono come noi dobbiamo operare le fondazioni”325.
Ma la normatività non è affatto il tratto distintivo delle leggi puramente
logiche, quello che ne definisce la natura, tanto che solo in virtù di una
trasposizione esse acquisiscono il valore di norme; e non si tratta affatto di una
notazione corsiva, ma di un punto fondamentale in merito alla fisionomia della
logica pura. La sua mancata osservanza rappresenta infatti il punto debole degli
antipsicologisti, che declinando la contrapposizione tra psicologia e logica
sull’opposizione fra leggi naturali e normali non si sono avveduti del rischio che
v’era insito, quello cioè di confondere le leggi normative del pensiero con quelle
psicologiche326 - invalidando così la suddetta distinzione nell’atto stesso di
tracciarla. Il pericolo dell’equivocazione scompare invece laddove, con Husserl, si
svela l’esatta natura di quella contrapposizione, per cui
l’opposto di legge naturale come regola empiricamente fondata di un essere e di
un accadere fattuale non è la legge normale come prescrizione, ma la legge ideale nel
senso di una legalità che si fonda puramente nei concetti (idee, essenze concettuali pure) e
che perciò non è empirica327
Il rifiuto della normatività come tratto distintivo consente perciò di
mettere a fuoco il senso in cui è da intendersi la logica pura (die reine Logik),
quella logica cioè la cui legalità, puramente (rein) fondata nei concetti, sulle idee
come “essenze concettuali pure”, è di natura ideale. L’opposizione all’empiria che
definisce il senso di una logica non psicologica non va perciò declinata a partire
dalla prescrittività delle sue norme, in quanto lungi dall’essere un tratto dirimente
è piuttosto un carattere derivato, che rimonta, come ogni complesso normativo, a
324
Ivi, p.172
Ivi, p.173
326
Ivi, p.159
327
Ivi, p.175
325
138
un nucleo teoretico; ma è a partire da questo che va definita, la cui natura ideale,
puramente concettuale segna di per sé il distacco dalla dimensione empirica,
poiché mentre idealità e empiria si escludono vicendevolmente lo stesso non puo’
dirsi a proposito della normatività, che induce piuttosto a facili equivocazioni.
La distinzione tra Kunstlehre e Wissenschaftslehre discopre ora la sua
esatta caratura. La tecnologia della scienza puo’ infatti porsi come sua dottrina
solo in senso limitato, considerando cioè le scienze nel loro aspetto squisitamente
pratico, metodologico, assumendo pertanto una valore fondazionale solamente
parziale, poiché innestato sul lato esclusivamente soggettivo della scienza. Ma il
punto decisivo non sta tanto nella parzialità della sua ottica, quanto nel suo
rivelarsi insufficiente a proposito del suo stesso ambito, se i metodi che pretende
di fondare rimandano, come al nucleo più significativo delle loro condizioni, ai
contenuti obiettivi della scienza qua talis. L’apertura alla dimensione obiettiva
della scienza e la sua adeguata determinazione non soltanto consente a Husserl di
venire a capo dei tormenti sul rischio della psicologizzazione delle entità logicomatematiche, ma gli permette anche di rilevare i limiti che segnano la fisionomia
della Kunstlehre, in una maniera che rivela, superandole, le insufficienze delle
precedenti trattazioni. Qui infatti la validazione dei metodi conoscitivi consisteva
nel far maturare la consapevolezza a proposito del loro utilizzo, con il richiamo ai
processi psichici naturali come condizione, in linea con un’idea di scienza come
“arte del pensiero tipicamente umana”. Husserl ora non sconfessa affatto la
pertinenza di una siffatta prospettiva e del suo operato328, ma ne rileva la
lacunosità in rapporto alla fondazione della scienza, poiché oltre all’unità
soggettivo antropologica della conoscenza v’è l’unità oggettiva del contenuto di
conoscenza329, che non vale soltanto come necessaria integrazione dell’ambito
scientifico essendone piuttosto il fondamento essenziale. In tal senso non è
l’opposizione fra Kunstlehre e Wissenschaftslehre presa in astratto a caratterizzare
il percorso husserliano sino alle Ricerche logiche - anche perché, lo si è visto, non
si tratta affatto di termini reciprocamente escludentisi -, quanto piuttosto
l’emergere della loro disgiunzione, poiché nell’ottica in precedenza considerata
era a una logica di stampo metodologico che veniva attribuito un ruolo fondativo,
sì che la Kunstlehre veniva di fatto e tacitamente innalzata al ruolo di
Wissenschaftslehre; ora invece quest’ultima compare esplicitamente e come una
328
329
Ivi, p.172 e p.174
Ivi, p.182
139
scienza puramente teoretica, che forma il più rilevante fondamento di ogni
tecnologia della conoscenza scientifica330.
L’approdo a questo genere di disgiunzione è indice dello spostamento
d’accento, del mutamento di prospettiva che impronta le analisi husserliane a
partire dai Prolegomeni, dove l’interesse non è più tanto e soltanto rivolto alla
conoscenza come attività specificamente umana, bensì alla teoria, ovvero a ciò
che costituisce l’oggetto della conoscenza teoretica. Il punto di partenza non è più
infatti costituito dalla prima, come avveniva soprattutto in Semiotik, poiché è
semmai a partire dall’idea di teoria ovvero di scienza in generale che vien posto il
problema relativo alle condizioni di validità della conoscenza: se infatti la teoria
consta di verità e di connessioni deduttive331, la conoscenza scientifica, o meglio
ancora teoretica - in quanto indirizzata alle prime e costituita dalla seconde - non
potrà che trovare in quella il proprio fondamento essenziale. In tal maniera le
condizioni reali, psicologiche della conoscenza vengono messe da parte come del
tutto irrilevanti rispetto a quelle noetiche, fondate cioè sull’idea di conoscenza in
generale, senza più riferimento al conoscere umano e perciò stesso a priori.
Proprio perché svincolate dalla soggettività empirica siffatte condizioni rimontano
al contenuto della conoscenza, ai concetti categoriali cui esso sottostà, sì che sono
le condizioni di possibilità della teoria, della scienza a determinare quelle della
conoscenza:
le leggi a priori concernenti la verità, la deduzione e la teoria come tali (cioè
l’essenza generale di queste unità ideali) debbono essere caratterizzate come leggi che
esprimono le condizioni ideali della possibilità della conoscenza in generale, ovvero della
conoscenza deduttiva e teoretica in generale, condizioni che si fondano appunto nel
«contenuto» della conoscenza332
Il passaggio dalla Kunstlehre alla Wissensschaftlehre si colloca dunque,
dandone testimonianza, sullo sfondo del mutamento prospettico della riflessione
husserliana, indirizzata ora primariamente alla dimensione obiettiva della
conoscenza, dove il soggetto conoscitivo non rappresenta più il tema centripeto
delle analisi in quanto determinato e condizionato nella sua stessa natura dai
330
Ivi, p.28
Ivi, p.243
332
Ivi, p.244
331
140
contenuti cui si rivolge, poiché è l’oggetto a determinare la maniera in cui
accedervi, secondo una prospettiva che si rivela già in questo fenomenologica.
L’irruzione della dimensione ontologica, che abbiamo visto caratterizzare
la riflessione husserliana già a partire dal confronto con Twardowski, mostra qui
la sua esatta caratura, poiché è ai sensi della logica pura, formale che essa va
declinata, nei termini cioè di un’ontologia formale quale si svela appunto essere
una siffatta logica333. L’interesse ora preminente per i contenuti obiettivi della
conoscenza fa sì che logica non si presenti più come un’arte, una tecnica della
conoscenza (Kunst der Erkenntnis), in quanto il suo campo di indagine sta
appunto in quei contenuti, nell’oggetto di conoscenza in generale, qua talis,
ovvero nell’idea formale di oggetto, nel “qualcosa in generale”, in quell’a priori
formale che determina la logica come mathesis universalis334. Una tale scienza si
riferisce perciò agli oggetti pensati in forma puramente concettuale 335, senza alcun
riguardo per le differenze empiriche, materiali fra di essi, proprio perché presi in
una generalità incondizionata, il suo riferimento è quindi « a quei concetti e leggi
che rappresentano i costituenti ideali di una teoria in generale »336, quei concetti
cioè validi per ogni contenuto conoscitivo in quanto riguardano l’oggetto in
generale. La logica pura come ”teoria delle teorie”, “scienza delle scienze” disvela
così una natura squisitamente concettuale, poiché riferita ai concetti costituenti
ciascuna teoria, cioè ai concetti categoriali di oggetto e significato337, se ogni
scienza è per l’appunto costituita da significati con cui sono intesi i suoi oggetti.
In tal maniera l’ontologia formale si scopre essere una logica dei significati338
poiché è con questi che essa, a ben vedere, ha che fare, ovvero con i concetti, i
significati di “significato” e “oggetto”, con ciò che con essi s’intende, categorie
supreme cui si riconducono i costituenti di ogni teoria - così come con le leggi
puramente fondate in esse, che abbracciano tutti i possibili significati e tutti i
333
E. Husserl Abbozzo di una prefazione alle Ricerche logiche cit., p.198; cfr. anche V. Costa, E.
Franzini, P. Spinicci La fenomenologia, Einaudi, Torino 2002, p.78
334
E. Husserl Abbozzo di una prefazione alle Ricerche logiche cit., p.196
335
E. Husserl Ricerche logiche cit., p.246
336
Ivi, p.247
337
Ivi, p.249
338
« La logica pura è il sistema scientifico delle leggi e delle teorie ideali che si fondano
puramente nel senso delle categorie ideali di significato, cioè nei concetti fondamentali che sono
patrimonio di ogni scienza, poiché determinano nel modo più generale ciò che, dal punto di vista
oggettivo, in generale rende scienze le scienze, cioè l’unità della teoria » E. Husserl
Autopresentazione delle Ricerche logiche in Logica, psicologia e fenomenologia cit., p.173; su
questo punto cfr. anche R. Parpan Zeichen und Bedeutung cit., p.78
141
possibili oggetti339. Del resto, come Husserl stesso afferma, ogni teoria è una
“connessione deduttiva di proposizioni date” determinate a loro volta dai concetti
dati340, per cui è nei concetti come tali, nei significati341 e nelle leggi fondate in
essi che si disvela la forma della teoria, senza considerare che gli oggetti non solo
sono da intendersi concettualmente (i concetti di “oggetto”, “stato di cose”,
“unità” ecc.), ma si presentano solo e soltanto come correlati delle categorie di
significato342.
È chiaro allora che l’interesse preminente per la dimensione obiettiva
della conoscenza - motivato a partire dalle insufficienze della precedente
prospettiva così come dai fraintendimenti che rendeva possibili e culminante
nell’elaborazione di una logica come teoria delle teorie - comporta una
lateralizzazione della questione semiotica a vantaggio di quella semantica, o se si
preferisce, segna il passaggio da una logica dei segni a una logica dei significati. Il
mutamento di prospettiva che induce Husserl ad assegnare alla logica uno statuto
teoretico prima ancora che metodologico fa sì che i segni recedano dal ruolo di
primo piano in precedenza loro attribuito, cui si aggiunge, in posizione ancor più
rilevante, l’insufficienza della logica dei segni in merito al suo stesso compito –
se, come s’è visto, il più rilevante fondamento di ogni tecnologia, di ogni metodo
scientifico, conoscitivo, è da ricercarsi in una scienza puramente teoretica qual è
appunto la logica pura343. La consapevolezza nell’utilizzo dei procedimenti
simbolici a carattere conoscitivo, centrale in una logica come Kunst der
Erkenntnis, si rivela del tutto secondaria nell’ottica di una logica pura, che proprio
per la sua essenziale estraneità all’orizzonte empirico prescinde da qualsiasi
riferimento alla soggettività conoscente; in tal maniera il segno si rivela del tutto
inessenziale in quest’ottica medesima, se non addirittura allotropo, vista la sua
natura schiettamente empirica. Ciò che in precedenza garantiva al segno un ruolo
di primo piano, ovvero la sua funzione nel novero della conoscenza, il suo essere
un essenziale strumento per la soggettività conoscente, lo relega ora ai margini,
339
E. Husserl Ricerche logiche cit., p. 251
Ivi, p.248
341
Nel marcare la sua distanza dalle posizioni di Herbart Husserl sottolinea come questi « non ha
pronunciato l’unica parola capace di operare una chiarificazione nella definizione del concetto di
concetto, non ha detto cioè che il concetto o la rappresentazione in senso logico non è altro che il
significato identico delle espressioni corrispondenti »; ivi, p.225
342
Ivi, p.249 e p.250; cfr. anche V. Costa, E. Franzini, P. Spinicci La fenomenologia cit., pp. 80-81
343
In tal maniera i metodi algoritmici che hanno occupato in precedenza la nostra trattazione
rimontano a condizioni di natura ideale e non soltanto psicologica, per cui un’autentica logica dei
segni è da cercarsi nella logica formale, pura elaborata nei Prolegomeni; su questo punto cfr. anche
D. Willard Logic and the Objectivity of Knowledge cit., p.175
340
142
poiché una logica come scienza obiettiva, come teoria pura, non abbisogna affatto
della componente simbolica per statuirsi, ponendosi al di qua di ogni questione
metodologica. Anzi, a ben vedere v’è una totale incompatibilità tra una logica
pura e la dimensione simbolica, vista la natura non empirica, ideale della prima e
quella empirica della seconda, ché qualora i segni si rivelassero necessari per una
logica così intesa essa non potrebbe affatto dirsi pura, ideale, nel senso cioè di
quella legalità che si fonda puramente nei concetti (idee) e perciò stesso non
empirica344.
Il radicale mutamento di prospettiva avvenuto nella riflessione
husserliana sulla logica, culminante nella disgiunzione fra Kunstlehre e
Wissenschaftslehre, pare estromettere da qualsiasi considerazione che si voglia
pertinente la semiotica, se ideale, puro, incontaminato da qualunque intromissione
empirica è il dominio della logica come disciplina fondamentale e fondativa in
seno alla scienza, cui del resto la stessa Kunstlehre rimanda come al suo nucleo
teorico maggiormente rilevante. La componente simbolica si rivela infatti
costitutiva solo per quella logica congrua a una psicologia dal punto di vista
empirico, una logica come arte della conoscenza umana, il cui indirizzamento alla
verità si declina nell’analisi ed escogitazione dei metodi che consentono alle
soggettività empiriche di giungervi. L’abbandono della prospettiva psicologista
sembra così condurre a una esclusione dei segni nel novero della logica, rivelando
ulteriormente il forte nesso che lega, nelle considerazioni husserliane, psicologia e
semiotica. Certo, è pur vero che Husserl non rinnega affatto l’importanza di una
logica come disciplina pratica, né tantomeno la sua fondazione sulla psicologia
empirica345; v’è però da dire, o meglio da ribadire, che essa sconta la sua
essenziale dipendenza dalla logica pura, poiché è qui che trova i suoi principali
fondamenti, cosa che mostra l’insostenibilità di qualsivoglia logica empiristica o
psicologistica346, in quanto autonomo è il campo della logica propriamente detta,
di quella logica cioè che puo’ assolvere il compito di fondare tutte le altre
discipline proprio in virtù della sua natura a priori, formale, per il suo essere
mathesis universalis347.
344
E. Husserl Ricerche logiche cit., p.175
Cfr. E. Husserl Recensione a: M. Palágyi, la polemica tra psicologisti e formalisti nella logica
moderna in Logica, psicologia e fenomenologia cit., p.179
346
E. Husserl Ricerche logiche cit., p.220
347
E. Husserl Abbozzo di una prefazione delle Ricerche logiche cit., p.196
345
143
Se ci si ferma alla prospettiva sin qui tratteggiata è inevitabile concludere
all’esclusione della dimensione semiotica dal novero della logica, vista la diversità
di genere tra il piano empirico – cui attengono i segni – e il piano ideale, non
empirico, in cui quella logica dimora; o al più, si puo’ parlare di una sua
marginalizzazione, poiché solo in virtù di una trasposizione motivata da interessi
pratici le leggi logiche intervengono a regolare i processi psichici e i segni che per
tanta parte li costituiscono348. Il punto però è che una siffatta prospettiva, quella
del logico puro, non è affatto condivisa da Husserl, che anzi considera “ingenua”
una logica che si arresti a essa, una logica cioè come mera mathesis universalis349.
Edificarla nel senso che per essenza le spetta, ovvero come disciplina autonoma
perché ideale, pura, costituita da entità in sé cui è del tutto indifferente l’essere o
meno conosciute, non è ancora sufficiente in un’ottica rigorosa quale vuol essere
quella cui il filosofo aspira; perché è pur vero che quelle oggettualità non solo
devono poter essere coscienti e conosciute350 ma di fatto già lo sono diventate, se
è stato possibile affisarne l’esatta fisionomia. L’ingenuità di una prospettiva
meramente logica sta allora nel trascurare tutto questo, nel non occuparsi di quelle
attività psichiche che sole consentono (e hanno consentito) il presentarsi delle
oggettività ideali, nella sua mancanza di riflessività; dove invece è proprio della
filosofia, o se si preferisce di una logica pura propriamente filosofica farsi carico
di descrivere la “correlazione tra essere e coscienza”, “il coglimento ultimo del
senso dei concetti e delle proposizioni”, sì che la logica stessa assurge allo status
di disciplina filosofica351.
Ancor
più
che
nella
scoperta
dell’idealità
come
dimensione
autenticamente logica, che ne fa una disciplina fondante e autonoma, sta qui la
verità novità delle analisi husserliane, ovvero, come egli stesso afferma, nel
compito di indagare “la correlazione tra oggetti ideali della sfera puramente logica
e vissuto psichico soggettivo come attività formativa”352, in un’indagine che
partendo dalle rispettive categorie di oggettualità ne rileva i modi coscienziali a
esse inerenti353, perché solo a partire da qui è possibile andare alle cose stesse354,
348
E. Husserl Ricerche logiche cit., pp.173-74
E. Husserl Abbozzo di una prefazione delle Ricerche logiche cit., p.197
350
Cfr. E. Husserl Compito e significato delle Ricerche logiche in Logica, psicologia e
fenomenologia cit., p.229
351
E. Husserl Abbozzo di una prefazione delle Ricerche logiche cit., p.197
352
Cfr. E. Husserl Compito e significato delle Ricerche logiche in Logica, psicologia e
fenomenologia cit., p.229
353
Ivi, p.231
349
144
trattandosi appunto delle “fonti da cui scaturiscono i concetti fondamentali e le
leggi della logica pura”355: in altri termini, è la novità costituita dalle analisi
fenomenologiche. L’interesse ora predominante per la dimensione obiettiva della
conoscenza non vale affatto a sconfessare la posizioni husserliane riguardo alla
filosofia, concepita ancor sempre in termini gnoseologici e investita di un ruolo
chiarificatore, poiché essenziale è per Husserl non limitarsi all’acquisizione dei
contenuti, bensì anche al metodo che la consente, sì da venire in chiaro – nella
fattispecie – intorno ai concetti e ai fondamenti della logica pura osservandoli
laddove essi concretamente si manifestano356.
La preminenza dei contenuti influisce però sulla maniera in cui la
filosofia si esercita, determinando la sua fisionomia in un senso nuovo rispetto
alla tradizione, tanto da attribuirle un nome diverso quale appunto quello di
fenomenologia. Benché sia infatti la psiche la regione di pertinenza della filosofia,
poiché è pur sempre nei vissuti psichici che si ha traccia dei contenuti della logica,
non è però più alla luce degli atti che viene determinata la loro natura, con il
concreto rischio di una loro psicologizzazione, bensì sono i contenuti medesimi in virtù del loro essere obiettivi, autonomi, ideali - a determinare la tipologia dei
vissuti nei quali si manifestano357, rendendo così comprensibile e attuabile il
motto fenomenologico an die Sache selbst. La piega obiettivistica della
fenomenologia358 impedisce alla considerazione degli atti di ricadere nello
psicologismo, proprio perché questi scontano la loro dipendenza dagli oggetti che
manifestano, ne sono determinati fin dentro la loro natura, tanto che non si tratta
più dei vissuti psichici di un soggetto empirico e come tale altrimenti possibile,
ma di entità altrettanto ideali e necessarie dei contenuti correlativi:
sia che noi come soggetti pensanti assumiamo noi uomini, sia che immaginiamo
angeli, diavoli o dei ecc., esseri qualsiasi che contano, calcolano, compiono operazioni
matematiche, l’attività e la vita interiori del contare e del compiere operazioni
matematiche sono, per necessità a priori, ovunque essenzialmente le stesse, se deve
risultare qualcosa di matematico. All’a priori della logica e della matematica pure, a
questo regno di verità incondizionatamente necessarie e generali corrisponde
354
E. Husserl Ricerche logiche vol.I cit., p.273
Ivi, p.269
356
Cfr. anche G. Piana Introduzione in E. Husserl Ricerche logiche vol.I cit., p.XX
357
In proposito cfr. anche V. De Palma Introduzione in E. Husserl Logica, psicologia e
fenomenologia (sezione seconda) cit. p.160
358
Cfr. V. Costa, E. Franzini, P. Spinicci La fenomenologia cit., p.74
355
145
correlativamente un a priori di tipo psichico.… e precisamente come molteplice vita
psichica di un soggetto in generale, nella misura in cui esso va pensato, nella pura
idealità, come tale da conoscere in sé ciò che è matematico359
La scoperta della dimensione ideale della logica apre perciò le porte alla
fenomenologia360 come analisi dei vissuti nella loro “essenza generica pura”, di
ciò che spetta loro in una generalità incondizionata361, nella fattispecie dei vissuti
in cui si attua la conoscenza in generale, se formale, al di qua di ogni concrezione
materica è l’ambito ontologico cui qui si rivolgono le analisi fenomenologiche,
quello cioè della logica pura362, sì che si comprende come Husserl possa
assimilare la questione delle “condizioni di possibilità della teoria” con quella
kantiana delle “condizioni di possibilità di un’esperienza”363. La stessa
correlazione tra logica e teoria della conoscenza va perciò letta alla luce della già
ricordata piega obiettivistica delle analisi husserliane, poiché è in virtù di una
logica come ontologia formale e della sua natura ideale che è possibile una
considerazione fenomenologica dei vissuti come essenzialità pure, nel senso degli
unici vissuti possibili e perciò stesso necessari “se deve risultare qualcosa di
logico-matematico”. In tal maniera “la massima fenomenologica secondo la quale
per venire a capo della natura di un oggetto si deve descrivere l’esperienza che ne
abbiamo”364 non consente affatto una ricaduta nello psicologismo, poiché vale
come indicazione del luogo in cui è possibile approdare alle cose stesse.
Ed è partire da qui che va posta la questione semiotica, nel luogo cioè in
cui essa effettivamente dimora nella filosofia husserliana. La fenomenologia, lo si
è visto, si configura come la necessaria integrazione della logica pura, o meglio
ancora come la sua fondazione365, superando l’ingenuità di una disciplina
scientifica che non si preoccupa affatto di indagare le origini delle proprie
oggettualità, che rinuncia a chiedersi come sia possibile per essa avere a che fare
359
E. Husserl Compito e significato delle Ricerche logiche cit., p.239
E. Husserl Abbozzo di una prefazione delle Ricerche logiche cit., p.200. Anche Willard rileva
nell’approdo a una ontologia formale quale appunto la logica pura il fattore decisivo per la svolta
fenomenologica; cfr. D. Willard Logic and the Objectivity of Knowledge cit., pp.193-94
361
E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., pp.283 e 284
362
E. Husserl Abbozzo a una prefazione delle Ricerche logiche cit., p.198
363
E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., p.243. Alla luce di questa impostazione Husserl non
poteva affatto consentire con l’impianto trascendentale kantiano, le cui facoltà non esita a definire
“concetti mitici” (ivi, p.222), poiché è partire dagli oggetti conosciuti - nella fattispecie dalle entità
della logica pura - che si definiscono le modalità di conoscenza, che si determina la soggettività
conoscente
364
Cfr. V. Costa, E. Franzini, P. Spinicci La fenomenologia cit., p.80
365
E. Husserl Ricerche logiche vol. I cit., p.269
360
146
con ciò con cui ha a che fare. Le chiarificazioni gnoseologiche di cui si occupa la
fenomenologia, indirizzate ai luoghi in cui quelle oggettualità si manifestano ovvero i vissuti psichici -, si rivelano perciò fondative, proprio perché rivelano le
condizioni per cui la logica è possibile - ché se quei vissuti non vi fossero non
verrebbe certo meno la validità di leggi ed entità logiche, ma non potrebbe esservi
alcuna scienza che vi si riferisca, perché di essi non vi sarebbe traccia. In questo il
carattere ingenuo di una logica pura, ignara delle sue condizioni di possibilità,
così come il valore fondante delle fenomenologia. Ora, nel momento in cui essa si
propone di assolvere al proprio compito è proprio la dimensione semiotica a farsi
immediatamente incontro, ai sensi del sistema segnico più importante, il
linguaggio:
gli oggetti che la logica pura intende indagare si presentano anzitutto sotto
forma grammaticale. Più precisamente, essi sono dati per così dire nell’alveo di vissuti
psichici concreti che nella loro funzione di intenzione significante o di riempimento di
significato (da quest’ultimo punto di vista, come intuizione illustrativa o evidenziante)
ineriscono a certe espressioni linguistiche, con le quali formano una unità
fenomenologica366
V’è qui un esplicito riconoscimento del ruolo decisivo del linguaggio,
dell’espressione linguistica nel novero della scienza, ivi compresa la logica pura,
che sconta la sua ingenuità nel trascurare quanto le consente di esistere come
scienza, sì che pur non potendo più coincidere con una logica dei segni – vista la
natura ideale del suo ambito d’indagine – non per questo è autorizzata a escludere
del tutto la dimensione semiotica, se non vuol rimanere per l’appunto ingenua.
Nel rilevare l’imprescindibilità del linguaggio per l’accesso alle entità logiche la
fenomenologia si rivela “integrazione fondamentale della mathesis pura”367, e nel
novero più ristretto delle nostre analisi si registra quella preminenza della semiosi
linguistica cui facevamo risalire l’allontanamento dallo psicologismo, indice del
passaggio da una logica dei segni a una logica dei significati.
Quanto
fenomenologia
detto
con
non
comporta
un’analisi
però
grammaticale,
alcuna
ché
identificazione
altrimenti
della
seriamente
compromesso sarebbe il compito attribuito all’operato fenomenologico, quello
366
367
Ivi, pp.269-70
Ivi, p.285
147
cioè critico-chiarificatore nei riguardi della logica pura. L’autentica analisi dei
significati non puo’ infatti svolgersi sul piano prettamente linguistico, dove è
facile la confusione fra differenze logiche e grammaticali, concettuali e verbali;
piuttosto si tratta di regredire all’istituzione stessa dei segni significativi, di
analizzare cioè il rapporto tra espressione e significato così come si configura
laddove si istituisce, ovvero nei nessi fra gli atti di intenzione significante e
riempimento di significato368.
Già da qui è riconoscibile un tratto caratterizzante la riflessione
husserliana sui segni, ovvero il rischio dell’equivocazione legato al loro uso, o per
usare una terminologia più tarda il pericolo rappresentato dalla “seduzione dei
segni” - a fronte dell’imprescindibilità del segno per gli atti significanti e quindi
per la fondazione della logica come disciplina pura, del suo ruolo decisivo
nell’ambito fenomenologico al tempo delle Ricerche. A partire dalla difficile
conciliabilità tra queste due esigenze andrà perciò riguardata la semiotica
husserliana e si motiveranno le posizioni in merito alle diverse tipologie di segno
trattate nel suo testo, come vedremo meglio nei prossimi paragrafi.
Quello che però qui ci preme sottolineare è lo stretto legame tra la
semiotica e l’analisi dei vissuti psichici, che rappresenta senz’altro un punto di
continuità nella riflessione husserliana, poiché è nell’alveo psichico che si registra
l’insorgenza del segno. In tal maniera trova conferma la solidarietà già rilevata tra
psicologia e semiotica, in quanto seppur vien meno l’idea di logica come
tecnologia tipica dello psicologismo, incentrata sulla dimensione simbolica, è
esclusivamente nell’analisi della coscienza psichica che il segno rivela la sua
centralità, tanto che la fenomenologia è identificata ai suoi esordi con la
“psicologia descrittiva369.
Ivi, pp.278-79. In maniera ancora più esplicita, Husserl si perita di distinguere l’operato
fenomenologico da una mera analisi dei significati delle parole nel più volte citato Abbozzo di una
prefazione delle Ricerche logiche, rilevando come l’ambito della fenomenologia sia
incomparabilmente più vasto, occupandosi di ogni genere di vissuti e non soltanto di quelli legati
ai fenomeni verbali. Se è rilevabile una certa preminenza di questi ultimi è in virtù della funzione
ivi attribuita alla fenomenologia, cioè la «”chiarificazione” gnoseologica della mathesis
universalis; e, poiché ciò che è logico è dato alla coscienza nei fenomeni logici, e questi sono
fenomeni dell’enunciare, e quindi di un certo significare, l’indagine inizia appunto con un’analisi
di questi fenomeni »; E. Husserl Abbozzo di una prefazione delle Ricerche logiche cit., pp.212-13
369
Cfr. in proposito E. Husserl Autopresentazione delle Ricerche logiche cit., p.173 e id.
Recensione a: M. Palágyi, la polemica tra psicologisti e formalisti nella logica moderna cit., p.
180. Husserl a dire il vero si rese ben presto conto dell’improprietà di una siffatta identificazione,
come mostrato ad esempio dalle integrazioni alla seconda edizione delle Ricerche logiche, in
particolare dall’Appendice III all’Introduzione (cfr. E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., pp.28283). Ma è nelle Idee che la distinzione tra psicologia descrittiva e fenomenologia viene tracciata
368
148
E a ben vedere su questa linea di continuità si conferma un legame ancor
più importante, quello della conoscenza con la componente segnica: i segni infatti
non si limitano a dare espressione alle oggettualità, ma intervengono attivamente
nella loro conoscenza, poiché essa consiste nel riempimento intuitivo di
un’intenzione significante, dell’atto cioè responsabile della significanza
linguistica, che forma un’unità fenomenologica con i segni linguistici. L’idea
classica di conoscenza come adaequatio rei ac intellectus, che Husserl riconosce
come propria, rivela allora il segno come sua componente necessaria, in quanto
l’intellectus è qui intenzione significante, signitiva, simbolica370 e perciò stesso
bisognosa di riempimento intuitivo, non presentando l’oggetto inteso in carne e
ossa ma in maniera “impropria”, simbolica. I segni si rivelano perciò essenziali
nel’ottica fenomenologica - e di rimando per la logica pura come disciplina
filosofica - poiché consentono l’approdo alle cose stesse e quindi in maniera ben
più rilevante che in precedenza, dove assolvevano a un compito meramente
surrogante. E proprio perché maturate all’interno di un’ottica che considera i
vissuti come essenzialità pure, una siffatta rilevanza del segno non attiene soltanto
alla costituzione psichica dell’individuo – com’era nella prospettiva psicologista e
antropologica di Semiotik – bensì all’idea di conoscenza qua talis, si rivela a essa
intrinseco, consustanziale, appartenente alla sua essenza e non semplicemente alla
natura empirica del soggetto conoscente. Conclusioni di questo genere sono a
nostro avviso inevitabili nella prospettiva delle Ricerche logiche, pur in presenza
di un riconoscimento esplicito da parte del loro autore, poco incline ad attribuire
ai segni un ruolo così importante, a motivo soprattutto del pericolo di equivocità
legato all’uso dei segni, nonché in virtù di una prospettiva che ha nei significati e
nella loro natura ideale uno dei suoi precipui oggetti d’indagine. Si tratterà allora,
nel prosieguo del nostro lavoro, di affrontare più da presso le questioni
semiotiche, mostrando le scelte in cui Husserl impegna e motivandole a partire
dalla prospettiva poc’anzi richiamata, a partire cioè da una fenomenologia volta in
nella maniera più chiara e definitiva, in virtù soprattutto della comparsa dell’epochè. (E. Husserl.
Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, vol. I, cit., Appendice IX,
pp.394-97). In proposito rimandiamo anche ai testi in cui Husserl, forte delle acquisizioni esposte
nelle Idee, rileva retrospettivamente le mancanze delle Ricerche logiche, ovvero E. Husserl
Abbozzo di una prefazione alle Ricerche logiche cit., pp.213-14 e id. Compito e significato delle
Ricerche logiche cit., pp.243-44. Sull’identificazione della fenomenologia con la psicologia
descrittiva al tempo delle Ricerche così come sulla loro successiva differenziazione cfr. anche
V. Costa Husserl, Carocci, Roma 2009, p.29
370
Sulla scorta di questo Münch ha potuto parlare di “symbolischer Erkenntnis” in merito alle
Ricerche logiche; cfr. D. Münch Intention und Zeichen cit., pp.189-90
149
via esclusiva alla chiarificazione della mathesis universalis e delle sue
oggettualità. E prima ancora che sui segni è necessario soffermarsi su queste
ultime, poiché sono esse a motivare e orientare la classificazione semiotica
husserliana, non soltanto per quanto concerne le tipologie ravvisate, ma anche nel
merito della loro considerazione.
§ 3.2 – La questione del significato nelle “Ricerche logiche”
§ 3.2.1 – L’idealità dei significati
Dar corso alle analisi delle oggettualità logiche equivale, come dovrebbe
risultare evidente dalle precedenti considerazioni, a occuparsi della questione del
significato e della sua natura ideale, dando conto non soltanto della maniera in cui
l’idealità vada correttamente intesa, ma anche delle problematiche che suscita
nell’ottica fenomenologica, se come s’è visto la natura psichica dei suoi oggetti
appare di per sé altra dalla dimensione in cui i significati dimorano.
Per venire al primo punto, ai fini di un’adeguata messa a fuoco dell’esatta
determinazione dell’ideale è opportuno esplicitare il debito contratto da Husserl e da lui stesso apertis verbis riconosciuto371 - con Hermann Lotze, in specie per
quanto concerne la sua interpretazione della platonica dottrina delle idee372 su cui
dovremo, seppur brevemente, soffermarci.
Esposta nel volume terzo della sua Logik, dedicato alla conoscenza, una
siffatta interpretazione viene introdotta nel novero di un confronto critico con lo
scetticismo, dove Lotze giunge alla fondamentale conclusione per cui “questo
mondo cangiante delle nostre rappresentazioni è il solo materiale su cui ci è dato
lavorare” e “che la verità e la conoscenza della verità consistono solo nelle leggi
di interconnessione ritrovate spesso all’interno di un gruppo dato di
rappresentazioni”373; ne consegue perciò che l’opposizione tra il mondo delle
rappresentazioni e quello delle cose, su cui si innesta uno dei tropi prediletti dallo
scetticismo, viene lasciata fuori come del tutto insussistente, sì che è all’interno
371
Cfr. E. Husserl Recensione a M. Palàgyi, la polemica tra psicologisti e formalisti nella logica
moderna cit., p.181 e Abbozzo di una prefazione alla Ricerche logiche cit., p.202
372
Heidegger rileva infatti, al fondo della critica allo psicologismo, la diversificazione
fondamentale dell’essere dell’ente in due polarità opposte, ovvero reale e ideale; cfr. M. Heidegger
Logik. Die Frage nach der Wahrheit V. Klostermann, Frankfurt am Main 1976 (trad. it. M.
Heidegger Logica. Il problema della verità Mursia, Milano 1986, p.35)
373
H. R. Lotze Logik, Hirzel, Lepzig 1880 (trad. it Logica, Bompiani, Milano 2010, § 309, p.963)
150
del primo che vanno riscontrati “i punti fermi originari di certezza” 374. La dottrina
platonica delle idee risponde proprio a questo intento, poiché a detta di Lotze
rappresenta “il primo e più caratteristico tentativo di dar conto della verità che
appartiene al nostro mondo interno di rappresentazioni”375, poiché le entità ideali
non si rivelano altro che i concetti con cui si pensano le cose, distinte in ciò dalle
affezioni passivamente ricevute, ovvero dal fatto che queste ultime vengono
trasformate “in un contenuto oggettivo indipendente il cui significato è dato una
volta per tutte”376. Ricondotte al mondo del pensiero, o meglio ancora del
pensabile, le idee si rivelano i contenuti permanenti della coscienza, i significati
fissi e immutabili necessari alla concepibilità del mutamento medesimo, che è
sempre passaggio da una determinazione all’altra e non trasformazione dell’una
nell’altra, pena l’insorgere dell’indistinzione che renderebbe inconcepibile lo
stesso flusso eracliteo - come Lotze opportunamente rileva sulla scorta di quanto
Platone aveva già dimostrato, ad esempio nelle battute finali del Cratilo e
nell’esposizione della “seconda navigazione” nel Fedone377. Quanto detto non
vale però a ridurre le idee a meri prodotti del pensiero, tant’è che Lotze rifiuta di
parlare di un”porre”, di una “posizione” a loro proposito, proprio per escludere
che si tratti del risultato di un atto produttore378; piuttosto, egli parla di realtà
(Wirklichkeit) delle idee, una realtà che non potrà naturalmente essere quella del
mondo esterno, da cui si è prescisso, né quelle delle rappresentazioni, a motivo
della loro mutevolezza, bensì quella degli enunciati, che sono reali in quanto
valgono379. La dimensione esclusivamente rappresentazionale in cui si muovono
le sue analisi non impedisce a Lotze la distinzione tra rappresentazione e suoi
374
Ivi, § 312, p.973; su questo punto cfr. anche M. Heidegger Logica. Il problema della verità cit.,
p.44)
375
H. R. Lotze Logica cit., § 313 p.977
376
Ivi, § 314, p.979
377
« Eppure, mentre il nero diventa bianco e il dolce aspro, non è la nerezza stessa che passa nella
bianchezza, né la dolcezza in asprezza…qualsivoglia mutevolezza le cose possano mostrare, ciò
che sono in ogni attimo, lo sono sempre attraverso una fluttuante partecipazione a concetti che non
sono transeunti, ma sempre identici e costanti » Ibid. Per quanto concerne i luoghi platonici dai
quali emerge con una certa nettezza la dipendenza delle argomentazioni lotzeane rimandiamo a
Platone Cratilo in Opere complete 2, Laterza, Roma-Bari 2003, 439c-440c e Fedone, Laterza,
Roma-Bari 2005, 101a-b
378
Heidegger fa opportunamente notare la disgiunzione dei concetti di “posizione” e
“affermazione” e la preferenza accordata da Lotze a quest’ultimo, in virtù del legame con il trarre
in essere da cui la prima è condizionata: « quel che si vuole intendere con le espressioni “esseraffermato” e “posizione” non ha a che fare con un venir-prodotto, e l’espressione “esseraffermato” è preferibile a “posizione” perché nell’affermazione trova maggiore espressione il fatto
che io conosco qualcosa, dice Lotze, qualcosa che è già lì, mentre l’espressione “posizione” dice
piuttosto che io dapprincipio traggo qualcosa da me stesso »; M. Heidegger Logica. Il problema
della verità cit., p.47
379
H. R. Lotze, Logica cit., § 316, pp.985-86.
151
contenuti, tant’è che egli li assegna a due diversi ordini della realtà, quello cioè
della validità (Geltung) per i secondi e quello dell’occorrenza (Geschehen) per la
prima: se infatti è sempre e soltanto in una rappresentazione che le idee si
manifestano, e dunque in tal senso occorrono (accadono) nella nostra mente, è pur
vero però che questo genere di realtà non appartiene loro per essenza, com’è per le
rappresentazioni, poiché “noi tutti avvertiamo di certo, nel momento in cui
pensiamo una qualche verità, che non l’abbiamo creata per la prima volta ma
l’abbiamo riconosciuta”380. A occorrere sono perciò le rappresentazioni che le
hanno come contenuti e non - a rigore - le idee, ché laddove non occorressero in
quanto “non rappresentate” non cesserebbero d’essere reali – come “accadrebbe”
alle rappresentazioni – poiché in nulla sarebbe intaccata la loro validità,
riconosciuta e non generata dall’attività rappresentativa. Di ogni idea, e quindi di
ogni verità, si puo’ allora dire che
pur non pensandola, essa valeva prima e continuerà a valere senza riguardo ad
alcuna esistenza di qualunque tipo, delle cose o nostra, a prescindere dal fatto che essa
trovi o meno manifestazione nella realtà dell’essere, o un posto, come oggetto di
conoscenza, nella realtà del pensiero381
Il dilemma platonico – ma in tal senso soprattutto tardo-platonico – della
metessi non ha perciò motivo di sussistere in Lotze, che pur distinguendo ben
quattro diversi significati del termine “realtà” è pur sempre in un unico orizzonte,
quello rappresentativo, che fa muovere le sue analisi, tanto che le stesse entità
ideali si presentano solo e soltanto come contenuti delle rappresentazioni,
contenuti che, come egli afferma, verranno scoperti in esse “da chiunque, al pari
di noi, pensi a quelle rappresentazioni allo stesso modo”382. Punto questo che
rischia di gravare come un’ipoteca psicologista sulla riflessione lotzeana, come
Husserl stesso non mancherà di far notare laddove, pur riconoscendo i meriti del
logico tedesco anche e soprattutto per la sua formazione fenomenologica, opererà
una delimitazione critica nei confronti di questi383.
380
Ivi, § 318, p.991
Ivi, § 318, pp.991-92
382
Ivi, § 4. p.141
383
A proposito di Lotze - pur in riferimento a un passo diverso e ancor più esplicito rispetto a
quello da noi per ultimo menzionato - Husserl affermerà infatti quanto segue: « Si parla
continuamente del nostro pensiero, e precisamente in senso effettivamente antropologico….La
considerazione viene continuamente riferita alla natura di tutti gli spiriti, che è compresa
381
152
Stante questo, l’interpretazione lotzeana della Ideenlehre risulta
fondamentale nel percorso husserliano, poiché è al suo incontro che si deve la
scoperta della dimensione ideale con i caratteri che la contraddistinguono. Nel
circoscrivere le sue analisi al mondo delle rappresentazioni Lotze aveva elaborato
un concetto di verità che preclusa la via della corrispondenza presentava i caratteri
della stabilità, della permanenza, dell’identità rispetto a ciò che è mutevole e
transeunte384, rispetto cioè al mondo delle rappresentazioni, sì che da un lato
veniva schiusa la dimensione ideale mercé la messa in rilievo dei suoi caratteri di
identità, permanenza, generalità385 - e dall’altro era indicata la via per risolvere un
dilemma che, lo si è visto, tormentava Husserl, ovvero il rischio della
psicologizzazione delle entità logico-matematiche, in virtù della distinzione fra
occorrenza empirica della rappresentazione e validità atemporale del suo senso.
Con le parole husserliane:
con “proposizioni in sé” non si deve intendere altro se non ciò che nel
linguaggio quotidiano, che oggettualizza l’ideale, si designa come “senso” dell’enunciato
e che si definisce come la stessa e unica cosa laddove si dice ad esempio di diverse
persone che esse affermano la stessa cosa….la dottrina di Bolzano secondo la quale le
proposizioni sono oggetti, ma non hanno tuttavia un’”esistenza”, acquisisce allora il
significato facilmente comprensibile che a esse spetta l’essere o valere ideale degli
“oggetti generali” (quindi quell’essere che viene stabilito ad esempio nelle “dimostrazioni
d’esistenza” della matematica), ma non l’essere delle cose o dei momenti cosali nonindipendenti, delle singolarità temporali in generale386
Quanto decisiva sia la scoperta della validità come statuto ontologico
delle entità ideali lo si riscontra ancor più se si tiene a mente il solco nel quale
Husserl aveva maturato la sua formazione filosofica, vale a dire la psicologia
brentaniana. Le idealità infatti, o in linguaggio più propriamente husserliano, “le
specie non sono nulla di reale, e se non sono nulla neppure nel pensiero, esse non
sono nulla in generale”, poichè “come potremmo parlare di qualcosa, senza che
effettivamente come un fatto (Faktum) della realtà » cfr. E. Husserl Abbozzo di una prefazione alle
Ricerche logiche cit., p.209
384
Cfr. in proposito M. Heidegger Logica. Il problema della verità cit., p.45
385
Ivi, p.40
386
Cfr. E. Husserl Recensione a M. Palàgyi, la polemica tra psicologisti e formalisti nella logica
moderna cit., pp.181-82
153
esista almeno nel nostro pensiero?”387 Un’impostazione di questo genere viene
ora ritenuta da Husserl fallace, una “falsa metafisica”, poiché a ben vedere il reale
(Real) comprende nel suo dominio anche quanto è nella coscienza e non soltanto
quel che la trascende, sì che dissolta è così l’opposizione tra il dentro e il fuori
della coscienza tacitamente ammessa da quell’impostazione. Reale infatti è
“l’individuum”, ovvero “un hic et nunc”, il cui contrassegno fondamentale è per
l’appunto la temporalità388, che accomuna entrambe le dimensioni menzionate. Di
conseguenza gli oggetti pensati, proprio perché identici e immutabili a fronte della
mutevolezza che attiene all’empiria cosale e psichica - ché ad esempio in tutti i
vissuti che hanno a oggetto il numero 4 è sempre a quel numero con quelle
determinate proprietà che ci si riferisce - non potranno affatto dirsi “reali”, poiché
non inscrivibili nell’orizzonte individualizzante della temporalità, bensì “ideali”,
“irreali” in quanto atemporali, sì che lungi dall’essere entità fittizie avranno
piuttosto uno statuto ontologico proprio quale appunto quello della validità389:
a chi è solito comprendere con essere solo l’essere «reale», con oggetti, oggetti
reali, sembrerà fondamentalmente erroneo parlare di oggetti generali e del loro essere;
mentre non troverà nulla da ridire chi prenderà questo modo di esprimersi come
un’indicazione della validità di certi giudizi, di quelli nei quali si giudica sui numeri, le
proposizioni, le figure geometriche ecc., e che quindi si domanda se il titolo di «oggetto
che è in verità» debba essere attribuito in modo evidente come correlato della validità del
giudizio a ciò su cui si esprime un giudizio390
Come già in Lotze, l’accesso alle entità ideali è qui guadagnato a partire
dall’orizzonte linguistico, al punto che solo in questo si definisce il loro statuto
ontologico, quella validità che in sé attiene al senso degli enunciati, delle
proposizioni, dei giudizi. In forza di ciò il privilegio assegnato da Husserl al
linguaggio nell’Introduzione alle Ricerche logiche acquisisce un profilo più netto
e un rilievo ben maggiore, poiché il darsi degli oggetti logici “sotto forma
387
E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., p.395
Ibid.
389
Il rapporto tra la temporalità e le oggettività ideali, qui soltanto accennato, verrà trattato con
maggiore estensione e perizia in Esperienza e giudizio, in un contesto dove comunque
radicalmente mutata sarà non soltanto la prospettiva fenomenologica husserliana, ma anche la
concezione delle entità ideali; Cfr. E. Husserl Erfahrung und Urteil, Felix Meiner Verlag GmbH,
Hamburg 1999 (trad. it. Esperienza e giudizio, Bompiani, Milano 2007, § 64c-d e §65, pp.629-61)
390
E. Husserl Ricerche logiche vol. I cit., p.369
388
154
grammaticale”391 rimonta alla qualità del loro essere, si manifesta come una
necessità fenomenologica, sì che solo come significati linguistici compariranno i
significati ideali, ovvero negli atti costituenti il linguaggio.
È in quest’ordine di considerazioni che si spiega il cosiddetto platonismo
husserliano, che proprio perché mediato dall’interpretazione lotzeana manifesta
come del tutto insussistente il rimprovero di “ipostatizzazione”. L’esistenza delle
entità ideali non si motiva infatti alla luce di una mitica pianura iperuranica in cui
dimorerebbero nella loro incontaminatezza, poiché piuttosto il richiamo di Husserl
va a quanto comunemente si ha dinanzi gli occhi quando si giudica o più
latamente si ha a che fare con entità logico-matematiche, dove per l’appunto
proposizioni e giudizi in nulla riguardano la realtà empirica, sia quella esterna
delle cose o interna della psiche, pur manifestando qualcosa che lungi dall’esser
fittizio è piuttosto essente in quanto valido392. Di conseguenza per Husserl non v’è
alcun χωρισμός tra piano reale e ideale poiché le idealità non sono affatto realtà
(nel senso del termine real), bensì si danno sempre e soltanto come validità, a
partire cioè dagli atti in cui gli enunciati si costituiscono, dove si manifesta nella
più chiara evidenza la necessità della fenomenologia e delle sue analisi in
relazione alla logica, se è il rivolgimento agli atti in cui il linguaggio si costituisce
che consente alle sue entità di emergere nella loro autentica fisionomia, se è solo,
in altri termini, nella considerazione di quei vissuti psichici che si mostra la loro
natura ideale e il senso in cui va intesa.
§ 3.2.2 – L’idealità come specie
Al fine però di dar più adeguatamente conto del nesso che stringe le
entità della logica pura, ovvero i significati ideali393 agli atti è necessario
soffermarsi su un punto sin qui solo accennato, ovvero la definizione dei
significati come specie ideali. Ciò che caratterizza una specie, come noto, è il suo
occorrere in diverse manifestazioni, il suo “specificarsi” per l’appunto in differenti
entità empiriche come membri della sua estensione, senza naturalmente risolversi
nella loro molteplicità dispersa. Istituendo un parallelismo con casi in cui è
particolarmente manifesta una siffatta situazione Husserl afferma che il rapporto
391
Ivi, p.269
E. Husserl Abbozzo di una prefazione alle Ricerche logiche cit., p.194
393
« …ogni qual volta si tratta di concetti, giudizi, inferenze, la logica pura ha a che fare
esclusivamente con queste unità ideali che noi chiamiamo significati »: E. Husserl Ricerche
logiche Vol. I cit., p.359; cfr. anche id. Autopresentazione delle Ricerche logiche cit., p.173
392
155
intercorrente tra significati e atti – o per meglio dire intenzioni – significanti è
dello stesso genere di quello che sussiste fra la specie rosso e le strisce di carta
rosse394. La definizione di specie vale perciò a chiarificare un punto
descrittivamente
inoppugnabile
ma
concettualmente
problematico
-
e
fenomenologicamente fondamentale - quale il darsi del senso identico all’interno
di una molteplicità di atti empiricamente distinti, poiché evita di risolvere le entità
ideali nei vissuti psichici in cui non soltanto compaiono, ma al di fuori dei quali
non possono affatto manifestarsi; l’autonomia di quelle risulta perciò
salvaguardata in quanto specie, che pur fenomenizzandosi nell’empiria non si
risolvono in questa, mostrando per ciò stesso una natura ideale. A distinguerle poi
dalle altre consimili è la dimensione in cui si individuano, in quanto la loro
particolarizzazione non avrà luogo in entità fisiche – come nel caso del “rosso” e
della strisce colorate – bensì in atti psichici395, sì che tracciata in senso
fenomenologico è la distinzione fra oggetti e significati ideali. Atti psichici, o
ancor meglio vissuti intenzionali di cui i significati costituiscono nientemeno che
le specie, da cui discende, com’è stato giustamente osservato, che nelle Ricerche
logiche il significato è un carattere d’atto, un’ideale struttura d’atto che si
singolarizza nei singoli casi psichici396. Questione centrale e comunque delicata,
su cui converrà indugiare ancora, esplicitandola con maggiore completezza a
partire dal tema forse maggiormente caratterizzante per la fenomenologia, vale a
dire l’intenzionalità.
S’è visto infatti come le entità ideali, pur manifestandosi in via esclusiva
nella regione psichica, non si individuino in contenuti qualsiasi, bensì in atti o per
meglio dire in vissuti intenzionali, distinti dagli altri contenuti proprio per la loro
natura intenzionale, ovvero per la loro caratteristica facoltà di “riferirsi a”, di
“dirigersi verso” qualcosa, di intendere cioè un oggetto in diverse modalità397. Il
punto qui fondamentale sta nell’aver fatto, dell’intenzionalità, il Charakteristikum
della coscienza398 in una maniera tale per cui essa non vale a istituire una
394
Cfr. E. Husserl Ricerche logiche vol. I cit., p.368e p.377 e id. Recensione a M. Palàgyi, la
polemica tra psicologisti e formalisti nella logica moderna cit., p.181
395
In proposito cfr. anche D.Willard Logic and the Objectivity of Knowledge cit., p.183
396
R. Bernet Bedeutung und intentionalesBewuβtsein. Husserls Begriff des Bedeutungphänomens
in Studien zur Sprachphänomenologie Verlag Karl Alber GmbH, Freiburg/München 1979, p.48
397
Cfr. E. Husserl Ricerche logiche Vol. II cit., p.163
398
Dove peraltro, com’è stato acutamente rilevato, si specifica il senso autentico in cui Husserl
intende la psicologia descrittiva, che è tale perché indirizzata a ciò che rende psichico lo psichico,
perché tesa all’esibizione di quest’ambito tematico e della sua struttura, per l’appunto intenzionale.
Cfr. M. Heidegger Logica. Il problema della verità cit., p.67
156
relazione tra due entità in sé costituite, in quanto è con la presenza del vissuto che
è dato il riferimento all’oggetto399 - anche se non necessariamente quest’ultimo - e
anzi è soltanto grazie a esso e in forza della sua natura costitutiva che si puo’
parlare di qualcosa come un oggetto400. Quest’ultimo perciò si manifesta sempre e
soltanto come intenzionato, come in qualche modo inteso, si tratti degli atti in cui
un siffatto intendere è vuoto – le intenzioni significanti – o di quelli nei quali la
sua presenza è data in carne e ossa – le intuizioni che riempiono il significato; in
altri termini, l’oggetto si manifesta sempre e soltanto come in certo modo
“significato”. Se infatti i significati sono specie ideali degli atti, dei vissuti
intenzionali, di quei vissuti cioè in cui si stabilisce il riferimento all’oggetto, ne
deriva che per significato si debba intendere la modalità di quel riferimento 401, e
questo a ben vedere non vale soltanto per gli atti espressivi in cui l’oggetto è
assente, quali appunto le intenzioni significanti, ma anche per le intuizioni
riempienti, dove per l’appunto l’oggetto è sì presentato in carne e ossa, ma pur
sempre inteso in quella certa maniera che consente il riempimento, ovvero
Ibid. Particolarmente esplicative in proposito sono le parole di Lenoci: «…emerge come
l’intenzionalità non sia la proprietà estrinseca di una coscienza o di un soggetto già costituiti nella
loro intima struttura…allorchè c’è un vissuto di coscienza, per sua intrinseca necessità essenziale,
è anche dato un riferimento all’oggetto, e ciò accade indipendentemente dallo statuto ontologico
dell’oggetto stesso » M. Lenoci Pensiero linguaggio verità. La riflessione husserliana sino alle
“Ricerche logiche” Cusl, Milano 1986, p.176
400
La considerazione fenomenologica dell’intenzionalità, e più latamente dell’intera coscienza,
consente a Husserl di rompere con l’immanentismo brentaniano, né l’idea per cui è con
l’intenzionalità che qualcosa diviene oggetto per noi vale a ridurre il mondo al vissuto di un
pensante (E. Husserl Ricerche logiche Vol. II cit., p.175). A motivo di tutto questo v’è la
fondamentale differenza fenomenologica esplicitata nella Quinta Ricerca tra contenuto reale e
contenuto intenzionale (ivi, p.143), dove solo il primo a rigore è vissuto: «Le sensazioni e anche
gli atti che le “apprendono o “appercepiscono” vengono vissute ma non si manifestano
oggettualmente; esse non vengono viste, udite, percepite con un “senso” qualsiasi”. Gli oggetti
d’altro lato si manifestano, vengono percepiti, ma non sono vissuti » (ivi, p.174). In forza di ciò
puo’ dirsi acquisita – fenomenologicamente – la distinzione tra vissuto e oggetto, per cui «vissuto
è l’intendere-il-mondo, mentre il mondo stesso è l’oggetto inteso» (ivi, p.175), sì che carattere
fondamentale dello psichico si rivela il rimandare oltre sé, l’apertura alla trascendenza, a una
dimensione cioè extrapsichica. Un rimando a ben vedere non immediato, perché mediato e di
natura significativa, in quanto è sempre come in qualche modo intesa che la realtà si manifesta, le
sensazioni sono di per sé apprese, interpretate, appercepite, ché solo questa eccedenza fa sì che
esse possano manifestare un oggetto (ivi, p.174); a sua riprova vale del resto l’illustrazione della
situazione controfattuale: «Se noi immaginiamo una coscienza anteriore a ogni esperienza, essa
avrà la nostra stessa possibilità di avere sensazioni. Ma essa non vedrà le cose o gli eventi concreti,
non percepirà gli alberi e le case, il volo degli uccelli o l’abbaiare del cane. Si sarebbe quasi tentati
di esprimere questa situazione nei termini seguenti: ad una coscienza di questo genere le
sensazioni non significano nulla» (cfr. E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., p.342). Di qui, il
nesso assai stretto che lega l’intenzionalità al significato, come è illustrato di seguito nel testo.
401
« un’espressione, cioè, acquista un riferimento all’oggetto per il solo fatto che essa significa, e
quindi si dice giustamente che l’espressione designa (denomina) l’oggetto per mezzo del suo
significato, ovvero che l’atto del significare è il modo determinato di intendere l’oggetto in
questione » ivi, p.315
399
157
“significato” in quel modo402. Emerge così il forte nesso che lega l’intenzionalità
al significato, il loro vicendevole spiegarsi e determinarsi, ché se l’intendere rivela
una natura “significante” al tempo medesimo il significato disvela il suo status
intenzionale403.
Al fine di dar meglio conto di questo fondamentale nesso è necessario
discendere più a fondo nella considerazione fenomenologica degli atti, illustrando
in che termini le specie ideali si individuino in essi, a quali loro proprietà
rispondano: il che equivale a occuparsi del contenuto intenzionale. Dei tre concetti
che Husserl in proposito distingue404 ci occuperemo innanzitutto del secondo,
ovvero la materia intenzionale. Come noto, con questa espressione Husserl
intende il contenuto (intenzionale) di un atto, ciò in grazia di cui esso puo’ riferirsi
a una determinata oggettualità nella modalità in cui un tale riferimento si esplicita.
Con la materia infatti non è soltanto fissato il riferimento a un oggetto, ma anche
il modo in cui l’atto lo apprende405, tanto che i rapporti tra significato e oggetto
illustrati da Husserl nella Prima Ricerca a proposito delle espressioni406 sono da
ricondurre alla materia407, definita del resto senso apprensionale408. O per meglio
dire, vanno ricondotti all’essenza intenzionale dell’atto, vale a dire all’unione di
qualità e materia come suoi due momenti solo astrattamente separabili, quei
momenti cioè che ne definiscono il carattere intenzionale determinando il
riferimento - rispettivamente - tanto in rapporto al suo carattere generale d’atto
(come
rappresentazione,
giudizio,
desiderio
ecc.)
quanto
in
relazione
all’oggettualità intesa. Benché infatti sia la materia come senso apprensionale a
determinare la modalità in cui l’oggetto è inteso, e quindi il significato, Husserl
ritiene che sia a partire dall’essenza intenzionale che si ricavi il significato come
402
« negli atti di riempimento è sempre necessario distinguere tra il contenuto, cioè tra ciò che
nella percezione (categorialmente formata) è, per così dire, relativo al significato, e l’oggetto
percepito. Nell’unità di riempimento, questo contenuto riempiente “coincide” con quel contenuto
“intenzionante”, in modo tale che, nel vivere questa unità di coincidenza, l’oggetto che è
contemporaneamente intenzionato e “dato” non ci sta di fronte in una duplicità, ma come unico
oggetto »; ivi, p.317.
403
Su quest’ultimo punto cfr. anche F. Silvestri Segni significati intuizioni cit., p.158 (nota 118)
404
E. Husserl Ricerche logiche Vol. II cit., p.187
405
Ivi, p.201
406
« Due nomi possono avere significati diversi, ma denominare la stessa cosa. Ad esempio: Il
vincitore di Jena – Il vinto di Waterloo; il triangolo equilatero – il triangolo equiangolo » E.
Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., p.313. Su questo punto dovremo comunque ritornare
successivamente, quando tratteremo più da presso la questione semiotica
407
« Le stesse materie non possono mai presentare un riferimento diverso all’oggetto; è vero
invece che materie diverse possono presentare uno stesso riferimento all’oggetto » E. Husserl
Ricerche logiche Vol. II cit., p.201
408
Ibid.
158
specie409. A motivo di ciò sta innanzitutto la già rilevata inseparabilità dei due
momenti all’interno dell’atto, che mai possono andar disgiunti l’uno dall’altro se
sono essi stessi a determinarlo qua talis. Ma soprattutto è il carattere del
significato come specie ideale degli atti a imporre una siffatta considerazione, di
quegli atti cioè che sono donatori di senso, ovvero intenzione significante e
intuizione riempiente. In questi infatti l’essenza intenzionale si configura come
un’essenza significazionale410 proprio perché è in essi che il significato si
costituisce, è in essi che in prima e ultima istanza ha modo di manifestarsi, è qui
in altri termini che il significato si individua costituendone l’essenza, per cui è ad
atti di questo genere che bisogna rivolgersi per ottenere il significato come specie
ideale, alla loro essenza - costituita per l’appunto da qualità e materia. Con le
parole di Husserl:
il riferimento ad un’oggettualità si costituisce in generale nella materia. Ma ogni
materia, così dice la nostra legge, è materia di un atto oggettivante e solo per mezzo di un
simile atto puo’ diventare materia di una nuova qualità d’atto in esso fondata411
Compare qui un concetto centrale nelle Ricerche logiche, quello di atto
oggettivante, nel cui novero rientrano tutti quei vissuti intenzionali in cui si
costituisce il riferimento a un oggetto, in cui qualcosa si “oggettiva” e che per ciò
stesso sono responsabili della materia di qualsivoglia atto: in altri termini, si tratta
della classe di quei vissuti in cui si costituisce il significato, ovvero degli atti
conferitori di senso quali appunto intenzione significante e intuizione
riempiente412. Agli atti significanti viene perciò attribuito un ruolo fondamentale,
in quanto “fondamento” degli altri vissuti intenzionali: affinché infatti un
desiderio o una volizione possano manifestarsi manifestando la loro intenzione
desiderativa e volitiva è necessario che quel qualcosa verso cui tendono sia inteso,
“significato”, “oggettivato” al di qua dell’eventuale compimento, del tutto
inessenziale al fine del loro statuirsi. Ma soprattutto è questo il genere di atti
coinvolti nel processo conoscitivo, sono cioè essi a rendere possibile la
409
Ivi, p.206. Su questo punto cfr. anche R. Parpan Zeichen und Bedeutung cit., p.171, R. Bernet
Bedeutung und intentionalesBewuβtsein cit., p.48 e D. Münch Intention und Zeichen cit., p.188
410
E. Husserl Ricerche logiche Vol. II cit., p.203
411
Ivi, pp.279-80
412
Ivi, p.351.
159
conoscenza come la intende Husserl, vale a dire “adaequatio rei ac intellectus”413,
consistente per l’appunto nel darsi della cosa, o meglio nella presentazione
intuitiva di essa, nella maniera in cui è stata intesa dall’intelletto, dall’intenzione
significante.
A questa dinamica non sfuggono naturalmente le oggettualità cui più da
presso è dedicata l’attenzione husserliana, le entità logiche, per quanto la
situazione sia qui fenomenologicamente ben più complessa. Affinché sia infatti
possibile la loro datità e si giunga così alle cose stesse cui s’indirizza l’indagine
delle Ricerche logiche è necessario innanzitutto scovarne la fonte, che non potrà
affatto essere l’intuizione sensibile, trattandosi di oggettualità non empiriche,
“irreali”, bensì un nuovo atto intuitivo, che Husserl denomina “intuizione
categoriale”. La sua introduzione però, a ben vedere, si motiva a partire dalle
problematiche emergenti a proposito del riempimento di enunciati empirici, quale
ad esempio “la carta è gialla”. In questo caso se è vero che noi vediamo tanto la
carta quanto il colore giallo, è altrettanto vero che non siamo in grado di vedere
l’esser-colorato, quasi fosse una qualità che appartiene realmente alla carta così
come il colore. Né puo’ venirci in soccorso la percezione interna, la riflessione
sulla percezione, le cui datità non sarebbero affatto categorie come quella qui in
esame - ovvero l’essere predicativo - bensì il concetto di percezione (o al più i
suoi elementi costitutivi)414, proprio perché si tratta di una riflessione che ha per
oggetto la percezione e non il percetto. Ne deriva allora che sarà a un nuovo
genere di intuizione che bisognerà appellarsi, la quale si riferisca all’oggetto
intendendolo in certo modo, ovverosia nella sua messa in forma categoriale415.
Al fine di chiarire di cosa si tratti e come tutto ciò avvenga possiamo
rifarci al nostro esempio. Nel dare riempimento al giudizio l’intuizione non si
limiterà a presentare soltanto una carta gialla, poiché piuttosto dovrà mettere in
relazione il giallo con la carta, sarà perciò necessario un atto sintetico che mostri
l’appartenenza del colore a quel sostrato, un atto cioè che rivolgendosi alla carta
percettivamente data ne noti la relazione con il giallo che le aderisce e la metta in
rilievo, mostrando così la presenza del rapporto predicativo, dell’essere-coloratodella-carta. L’intuizione categoriale si rivela così un atto non-indipendente,
413
Ivi, p.302
Ivi, p.443
415
Ivi, p.445
414
160
fondato416, poiché non puo’ che esercitarsi sul materiale offerto dall’intuizione
sensibile, rilevandone la relazioni implicite e dando così riempimento alle
intenzioni significanti rivolte non a oggetti semplici, ma ad oggettualità
categorialmente formate, nelle quali cioè compaiono forme categoriali (collettivi,
disgiuntivi, copula ecc.).
Al fine di evitare fraintendimenti - facilitati peraltro da espressioni quali
“messa in forma (Formung) categoriale” che indurrebbero a pensare a un ruolo
per così dire produttivo degli atti - è opportuno indugiare un momento sul senso di
quella fondazione. Benché infatti gli atti in questione siano definiti sintetici non si
deve pensare a una sintesi di stampo kantiano, come se quegli atti si fondassero
sulla sensibilità nel senso che questa offrirebbe loro il materiale da plasmare in
forza di categorie appartenenti all’intelletto, con l’inevitabile ammissione di un
residuo noumenico che destituirebbe di senso l’appello “alle cose stesse”. Le
categorie husserliane non costituiscono infatti il corredo trascendentale del
soggetto conoscente, a impedirlo è la natura intenzionale della coscienza417: gli
atti categoriali, come qualsiasi altro atto in quanto tale, hanno il loro oggetto
intenzionale, che nel loro caso è per l’appunto un’entità categoriale, quella che
essi “lasciano essere” a partire dal materiale offerto dalla intuizione sensibile418,
che presentano dinanzi ai nostri occhi proprio perché fondata sulle oggettualità
sensibili. Le due intuizioni, sensibile e categoriale, intendono - come atti
intenzionali - il medesimo oggetto sensibile in modalità diverse, come Husserl
stesso afferma senza possibilità di equivoci:
possiamo apprendere un oggetto sensibile in modi diversi. Anzitutto,
naturalmente, in modo semplice…..In questa apprensione esso si trova di fronte a noi, per
così dire, in una volta sola: le parti che lo costituiscono sono indubbiamente in esso, ma
non diventano per noi oggetti espliciti nell’atto semplice. Noi possiamo tuttavia anche
apprendere lo stesso oggetto in modo esplicativo: negli atti articolanti “mettiamo in
416
Ivi, pp.454-58
Su questo punto cfr. anche M. Heidegger Prolegomena zur Geschichte des Zeitbegriffs, Vittorio
Klostermann Verlag, Frankfurt am Main 1975 (trad. it. Prolegomeni alla storia del concetto di
tempo, Il Nuovo Melangolo, Genova 1999, p.89)
418
« Le “forme” categoriali non sono creature degli atti, ma oggetti che in questi atti diventano
visibili a sé stessi. Non sono affatto creatura del soggetto, né tantomeno qualcosa di estrapolato
negli oggetti reali, in modo che grazie a questa conformazione l’ente reale stesso venga
modificato, ma essi presentano questo ente reale proprio autenticamente nel suo “essere-in-sé” »
Ibid.
417
161
rilievo” le parti, negli atti relazionali poniamo in relazioni le parti messe in rilievo sia tra
loro, sia rispetto all’intero419
L’accesso alla entità categoriali necessita perciò di un particolare genere
d’intuizione perché è solo un atto intuitivo che puo’ presentare l’oggettualità in sé
stessa, è soltanto esso a poter rispondere positivamente all’appello “alle cose
stesse” in quanto condizione necessaria - benché non sufficiente - della
conoscenza420.
L’aver attribuito a un atto intuitivo l’accesso alle categorie conduce
necessariamente Husserl a un ripensamento dell’intelletto come facoltà
categoriale, a un diverso modo d’intendere il tradizionale concetto di “intelletto
puro”, così come la sua distinzione dalla sensibilità. Quest’ultima infatti va vista e
letta alla luce delle due tipologie di intuizione rilevate in quanto luogo in cui è
possibile chiarirla in via definitiva421, poiché l’intelletto si rivela a ben vedere la
“facoltà degli atti categoriali”422, sì da coincidere di fatto con l’intuizione
categoriale. Strettamente legato all’ampliamento del concetto di intuizione è
dunque un ampliamento di altro genere, quello cioè del concetto di pensiero,
distinto per l’appunto in eigentliches e uneigentliches Denken, dove la differenza
è quella tra gli atti categoriali riempienti e quelli meramente intenzionanti423. Un
punto questo che non invalida affatto l’idea di conoscenza fin qui vista, quasi che
il riempimento non fosse quello apportato dall’intuizione al pensiero ma da questo
a sé medesimo, ma ne rappresenta piuttosto la necessaria integrazione: gli atti di
419
E. Husserl Ricerche logiche Vol. II cit., p.454
La conoscenza è infatti intesa come adaequatio per cui non è affatto sufficiente l’intuizione al
suo attuarsi. Un punto in cui Husserl è particolarmente esplicito in tal senso sono la battute finali
del § 24 della Seconda Ricerca. Prendendo a esempio l’intuizione totale attribuita in sede teologica
alla divinità egli afferma che pur nella sua perfezione essa non potrebbe comunque assurgere al
grado di conoscenza, poiché “intuire non equivale a pensare” (E. Husserl Ricerche logiche vol. I
cit., p.440). Il motivo per cui una siffatta intuizione viene considerata una conoscenza sta nel fatto,
continua Husserl, che noi immaginiamo un tale essere « come uno spirito che non è attivo soltanto
nell’intuizione (in un’intuizione che pur essendo adeguata è priva di pensiero), ma dà anche forma
categoriale alle proprie intuizioni, collegandole sinteticamente, e trova quindi, nelle intuizioni così
collegate e formate, il riempimento ultimo delle proprie intenzioni di pensiero, realizzando con ciò
l’ideale di una conoscenza totale » (ivi, p.441). Dove oltre a ribadirsi, o meglio ad anticiparsi il
carattere necessariamente “intellettuale” dell’intuizione categoriale (su cui insisteremo a breve), si
chiarisce come la conoscenza sia per l’appunto « non mera intuizione ma intuizione adeguata, che
ha una forma categoriale e che si adegua pienamente al pensiero, o viceversa: lo scopo, la
conoscenza vera è il pensiero che attinge evidenza dall’intuizione » (Ibid.), sì che a esser
necessaria non è soltanto l’intuizione riempiente, ma anche l’atto cui del resto dà riempimento,
vale a dire l’intenzione significante.
421
Cfr. E. Husserl Ricerche logiche Vol. II cit. p.303
422
Ivi, p.498
423
Ivi, p.495
420
162
pensiero riempienti sono infatti a rigore atti intuitivi, poiché conducono
determinate oggettualità alla manifestazione “in carne e ossa”, le “lasciano essere”
per ciò che in sé stesse sono e non le intenzionano meramente, dove a rivelarsi
decisiva è la loro fondazione sull’intuizione sensibile, a partire dalle cui datità
soltanto possono manifestarsi le entità categoriali. Con l’intuizione categoriale
perciò la distinzione tra pensiero e intuizione perde in certo senso la sua nettezza,
poiché pur definendosi il primo facoltà degli atti categoriali non puo’ però venir
ricondotto all’idea di un intelletto puro, tale perché sganciato da qualsiasi facoltà
della sensibilità424, piuttosto trovando fondamento in questa in merito alle
oggettualità che ne definiscono la natura.
V’è però un altro senso della Reinlichkeit che legittima l’idea di un
intelletto puro, un senso che ci conduce al tema per noi decisivo ma al quale ci
siamo sinora soltanto avvicinati, vale a dire la maniera in cui è possibile cogliere i
significati ideali. Finora infatti la nostra analisi ha dato conto dei riempimenti
correlativi agli atti in cui viene intesa un entità categorialmente formata, ma nulla
ancora si è detto sulla effettiva modalità d’accesso alle oggettualità categoriali
medesime. Per intendersi: presentare lo stato di cose corrispondente alla mera
intenzione equivale al suo riempimento, ma certo non è sufficiente a ottenere
l’oggettualità categoriale “stato di cose”, che necessita allora di un nuovo atto –
naturalmente – categoriale, un atto cioè che afferri “direttamente l’unità specifica
su base intuitiva”, ovverosia l’astrazione categoriale425. Non si tratta, a ben
vedere, di un atto che si ponga affianco all’intuizione dividendo il genere degli atti
categoriali, poiché invero è nel novero di questa che esso rientra, trattandosi per
l’appunto di un atto originalmente offerente, in cui si manifesta un’entità in carne
e ossa, un’oggettualità cioè che in quanto tale non puo’ non darsi in un atto
intuitivo426. Le differenze rimontano invece a un altro ordine di considerazioni, a
principio del quale v’è la diversa maniera in cui si esplicita l’esser-fondato nel
caso dell’astrazione. Benché alla sua base, come per ogni atto categoriale, vi sia
un’intuizione sensibile come fondamento, nel suo caso gli oggetti presentati da
quest’ultima in quanto tale non sono co-intenzionati, come avveniva nel
424
Ivi, p.485
E. Husserl Ricerche logiche Vol. I. cit., p.427
426
In proposito cfr. anche M. Heidegger Prolegomeni alla storia del concetto di tempo cit., p.75:
« Come “totalità”, “numero”, “soggetto”, “predicato”, “stato di cose” “qualcosa”, sono oggetti,
così si dovrà concepire in modo corrispondente gli atti che li mostrano originariamente come
intuizioni »
425
163
riempimento di un determinato stato di cose - dove ad esempio la sintesi
predicativa come atto categoriale doveva pur intenzionare quegli oggetti per
intenderli come soggetto e predicato, che venivano così a costituire il suo oggetto
intenzionale. Con l’astrazione categoriale infatti le oggettualità sensibili
rimangono sì fondanti senza però più esser co-intenzionate, non costituiscono il
suo oggetto intenzionale, che è dato perciò in essa senza che vi compaiano le
entità sensibili fondanti. In tal maniera è in parte aperta la via che ci conduce al
rilevamento di quel senso della Reinlichkeit con cui è possibile riabilitare l’idea di
un intelletto puro nominata all’inizio dell’ultimo capoverso, in quanto è escluso
uno dei caratteri che più configgono con esso, ovvero l’individualità, se a definirlo
è la generalità delle sue nozioni. Solo parzialmente però, poiché a dover essere
esclusa ai fini di una “purezza” che aspiri a esser tale è tutto quanto la possa per
così dire opacizzare, intromettendo elementi allotropi: a dover esclusa è perciò,
oltre l’individualità, l’intera sensibilità. Se infatti ci si limitasse solo al concetto di
astrazione sin qui descritto difficilmente potrebbe emergere un carattere
categoriale, poiché a ben vedere anche un’astrazione sensibile non co-intenziona
le oggettualità fondanti, né è limitata all’individualità se i suoi oggetti sono
appunto concetti universali; perciò, se la diversità in cui si manifesta il rapporto di
fondazione vale ad affisare un’intuizione di specie diversa qual è appunto
l’astrazione, a renderla categoriale servirà l’estromissione rigorosa di quanto a
questo dominio s’oppone, ovvero di ogni carattere sensibile427, quali appunto
materialità e spazialità428. In tal maniera a essere esclusi non sono soltanto
concetti puramente sensibili - come “colore”, “casa” ecc. - ma anche concetti
categorialmente misti come “esser-colorato (coloratezza)” - dove se l’essere
rimanda al dominio categoriale sensibile invece è il concetto di colore429. Priva di
qualsiasi riferimento all’individualità così come alla sensibilità nelle sue
componenti spaziali e temporali, l’astrazione categoriale o ideante si rivela l’atto
in cui si manifestano le oggettualità della mathesis universalis e nella quale per
ciò stesso si legittima l’idea di un intelletto puro nell’unico senso che Husserl
puo’ consentire, quello cioè di un atto puramente categoriale, i cui oggetti sono
427
E. Husserl Ricerche logiche, Vol. II cit., p.485
M. Heidegger Prolegomeni alla storia del concetto di tempo cit., p.88
429
E. Husserl Ricerche logiche, Vol. II cit., p.485
428
164
per l’appunto “concetti puramente categoriali” in quanto non affetti dalla
sensibilità430.
Con l’astrazione categoriale giunge perciò a compimento il cammino
indicato nell’Introduzione alle Ricerche logiche in quanto dischiusa è la fonte da
cui scaturiscono “i concetti fondamentali e le leggi ideali della logica pura”431. E
al tempo medesimo ancor più acuta diviene la critica allo psicologismo di quanto
già non fosse nei Prolegomeni. Colà infatti la confutazione delle sue posizioni
mirava a far risaltare la natura ideale delle oggettualità logiche ex negativo,
mostrando cioè il loro diverso status in opposizione alla dimensione empirica cui
di fatto riconduceva la riduzione psicologista; ma riguardo alla maniera effettiva
in cui il mondo delle idealità divenisse manifesto e potesse in tal modo
legittimarsi come tale, non si andava molto al di là di qualche pur importante
accenno432. Con l’astrazione ideante diviene finalmente comprensibile come
l’effettivo darsi delle entità logiche nella coscienza non valga affatto a
psicologizzarle, poiché la psiche non è il luogo in cui si producono, bensì quello
in cui si manifestano; con le parole di Husserl:
non nella riflessione sui giudizi o meglio sui riempimenti giudicativi, ma nei
riempimenti giudicativi stessi risiede veramente l’origine dei concetti di stato di cose e di
essere (nel senso della copula); non in questi atti in quanto oggetti, ma negli oggetti di
questi atti troviamo il fondamento dell’astrazione per la realizzazione di questi concetti433
In tal maniera una delle questioni che più tormentava la riflessione
husserliana, ovvero l’idea che un concetto fondamentale in aritmetica come la
collezione sorga dalla riflessione sull’atto del collegare, viene ora risolta alla luce
430
Ivi, pp.485-86
E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., p.269
432
Ad esempio: « Ora anche la verità è un’idea: noi la “viviamo” come ogni altra idea in un atto di
ideazione fondato sull’intuizione (un atto, in questo caso, di comprensione evidente) e nella
comparazione cogliamo come evidente anche la sua unità identica di fronte a una disparata varietà
di casi singolari concreti »; ivi, pp.142-143 (cfr. anche p.249 dove si accenna all’importanza della
fenomenologia per la logica in virtù dell’accenno a un’ideazione adeguata, ovverosia all’astrazione
categoriale). Anche Lenoci rileva l’insufficienza dei Prolegomeni ai fini dell’affermazione in
positivo del mondo delle entità ideali, giudicandoli un lavoro necessario ma comunque preliminare
in tal senso, preludendo così a un’indagine ulteriore qual è appunto quella fenomenologica.
Soltanto, egli non rimanda alle analisi sull’astrazione categoriale della Sesta Ricerca, bensì alla
Seconda e Quinta Ricerca, dove si analizzano “la peculiarità delle specie ideali, la struttura della
coscienza e la natura dell’atto intenzionale” (cfr. M. Lenoci Pensiero Linguaggio Verità cit.,
pp.112-13); un rimando che a nostro avviso avrebbe un indiscusso valore qualora indicasse una
tappa intermedia, poiché è invero la Sesta Ricerca, forte delle acquisizioni maturate nelle
precedenti, a completare in via definitiva la fondazione fenomenologica della logica pura.
433
E. Husserl Ricerche logiche Vol. II cit., pp.443-444.
431
165
dell’impostazione fenomenologica, in virtù della quale non si guarda più all’atto
bensì a ciò che esso dà portandolo a manifestazione. E a ben vedere si rivela qui
un‘altra importante differenza in merito al rapporto di fondazione che caratterizza
l’astrazione ideante, che non soltanto non intenziona le oggettualità fondanti, ma
si scopre fondata in prima istanza sulle datità dell’intuizione categoriale - e
conseguentemente soltanto in ultima istanza sulle datità sensibili -, poiché è nei
riempimenti delle oggettualità categoriali che essa si esercita434, avendo per
l’appunto come oggetto le categorie e non i concetti sensibili.
§ 3.2.3 – La problematicità del significato come specie
Con questo però il nostro discorso non puo’ dirsi ancora concluso, poiché
invero complesse sono le problematiche che inevitabilmente si sollevano in
rapporto al significato. Se teniamo fermo quanto acquisito sinora a proposito
dell’astrazione ideante come fonte dalla quale scaturiscono le oggettualità della
logica pura, la situazione non sembrerebbe di per sé questionabile, in quanto esse
si ricavano dagli oggetti degli atti categoriali adeguatamente riempiti. A ben
vedere però questo vale a rigore soltanto per le categorie dell’oggetto e non per
quelle del significato, men che meno per i significati come specie. Il significato si
definisce infatti come modalità del riferimento all’oggetto e in forza di ciò è sì una
specie, ma sui generis, poiché si singolarizza laddove quel riferimento avviene,
vale a dire negli atti, per cui si rivela essere - come s’è visto - un carattere d’atto,
una struttura ideale che si individua nell’essenza intenzionale, o per meglio dire
significazionale degli atti significanti. Un atto di astrazione ideante che voglia
perciò volgersi ai significati dovrà riferirsi non agli oggetti degli atti bensì a
questi atti in quanto oggetti, poiché quelli non sono affatto l’intenzionato, bensì
quanto costituisce l’intenzione, sono cioè specie che non si individuano negli
oggetti intenzionati, ma negli atti intenzionali, per cui è su questi che deve
necessariamente esercitarsi, sono essi in altri termini i fondamenti dell’astrazione
richiesti. Con le categorie di significato si è allora di fronte a una situazione di
segno opposto, da cui discende che benché medesimo sia l’atto tramite cui si
dischiude il regno delle oggettualità logiche, diverse e per certi versi opposte sono
le rispettive modalità d’accesso, se in un caso è agli oggetti degli atti che bisogna
rivolgersi e nell’altro agli atti in quanto oggetti. O per meglio dire, con i significati
434
Ivi, p.486
166
non è agli oggetti degli atti che s’indirizza l’intenzione, bensì ai loro contenuti,
perché non è certo il significato a essere oggetto dell’atto del significare,
divenendo piuttosto tale in un atto ulteriore qual è appunto l’ideazione che a esso
si rivolge fondandosi sull’enunciato significativo435.
E i contenuti sono qui le essenze significazionali degli atti, su di esse
viene operata l’astrazione che dà il significato, dove si palesano le difficoltà in cui
incorre la concezione husserliana del significato come specie. Se infatti ogni
specie, in quanto tale, si individua negli oggetti concreti che costituiscono il suo
ambito, sì che ciascuno di essi ha il suo proprio momento individuale che ne fa un
“caso” della specie medesima – come accadeva al ”rosso” e alle strisce di colore
rosso – ne deriva allora che anche per il significato avverrà qualcosa di identico,
ovverosia vi sarà nell’atto un momento individuale come particolarizzazione del
significato ideale, con la conseguenza che l’essenza significazionale degli atti non
sarà più semplicemente da intendersi come contenuto intenzionale, poiché a ben
vedere è “ciò che forma in essi il correlato fenomenologico reale (reel) del
significato ideale”436.
La conseguenza più evidente, benché non voluta o forse non
adeguatamente considerata, sta nella natura ibrida che l’essenza significazionale
viene ad assumere, scoprendosi come un concetto intenzionale-reale437, sì che
perlomeno ridimensionata risulta la distinzione fondamentale acquisita nella
Quinta Ricerca in merito ai contenuti d’atto, se non viziata da una palese
contraddizione.
Ma ancor più che in ambito fenomenologico è nel campo logico che si
manifesta una discrasia ancor più stridente, poiché la non chiarita natura di specie
del significato rischia di entrare in conflitto con quei caratteri che ne fanno
appunto una specie ideale, quindi di dar vita anche qui a una contraddizione e ben
più grave di quella or ora ravvisata in campo fenomenologico. Nei Prolegomeni
infatti la Reinlichkeit delle categorie del significato era stata ritrovata nella
peculiarità della loro estensione concettuale, composta non da entità empiriche
435
E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., pp.370-71
E. Husserl Ricerche logiche Vol. II cit., p.206
437
Richiamandosi al passo husserliano citato per ultimo, Parpan fa opportunamente notare come il
concetto del significato ai tempi delle Ricerche logiche si riveli essere uno “logisch-psicologischen
Zwitterbegriff” proprio in quanto specie d’atto, ovvero come idea o concetto di un reale momento
d’atto (R. Parpan Zeichen und Bedeutung cit., p.172)
436
167
bensì da singolarità ideali438, laddove nella Quinta Ricerca è proprio
un’estensione empirica quella che caratterizza i significati, come s’è visto in
merito all’essenza significazionale. Un’aporia questa che per essere rettamente
intesa richiede che si completi il quadro in cui emerge, menzionando la
distinzione fondamentale in seno alle idealità che fanno capo al significato, quella
cioè tra categorie e singolarità ideali, ovvero (ad esempio) tra il concetto di
“proposizione” e le diverse proposizioni. È qui infatti che si motiva la reclamata
purezza delle idealità logiche, poiché a costituire l’estensione delle categorie di
significato sono proprio e soltanto le singolarità ideali, i singoli significati, per cui
a essere specie sono a rigore le categorie di significato, in quanto solo esse si
individuano in casi specifici quali appunto i singoli nomi, le singole proposizioni,
i singoli giudizi e via dicendo. L’errore che Husserl medesimo riconoscerà d’aver
commesso nelle Ricerche in merito alla concezione del significato emerge allora
con nettezza proprio da queste considerazioni, poiché consiste nell’aver
considerato come specie non soltanto le categorie del significato, ma anche le
stesse singolarità in cui queste si individuano, un errore del resto inevitabile
qualora si concepisca l’idealità in senso esclusivamente “specifico”439. La
ristrettezza di questa prospettiva in merito alla natura delle idealità viene a
contaminare la Reinlichkeit reclamata per le categorie logiche, poiché se è vero
che la loro estensione è costituita da entità ideali, è però altrettanto vero che a
quest’ultime in quanto specie spetta un’estensione e di natura empirica, vale a dire
i correlati reelen dei significati ideali, sì che le stesse categorie del significato
palesano in ultima istanza a un’estensione empirica e non più quindi
“esclusivamente composta di singolarità ideali”440.
Per evitare questa rovinosa conseguenza sarebbe stato necessario
riconoscere che le idealità non necessariamente devono essere specie, avvedersi
438
E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., p.182
Particolarmente esemplificativo in tal senso è il § 33 della Prima Ricerca, dove dei significati e quindi non soltanto delle categorie del significato - si dice « che formano una classe di “oggetti
generali” o di specie »; ivi, p.370. V’è però da aggiungere che anche una simile prospettiva si
rivelerebbe inaccettabile nell’ottica fenomenologica delle opere successive, Idee in primis. Qui
infatti si riconosce un carattere specifico alle forme pure della logica, tanto che ogni proposizione
si configura come una singolarizzazione di una determinata forma proposizionale; è però vero che
siffatte forme pure non sono affatto generi rispetto a queste singolarizzazioni, tanto che la modalità
per accedervi non consiste nella generalizzazione, che riconduce ciascuna specie al suo genere
d’appartenenza, bensì nella formalizzazione, dove esclusa è ogni componente contenutistica della
determinatezza data (cfr. E. Husserl Idee per un fenomenologia pura e una filosofia
fenomenologica Vol. I cit., p.34)
440
E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., p.182
439
168
insomma che l’ideale ha il senso sì dell’irrealtà di contro all’empiria, ma non per
forza lo status del γένος, poiché come s’è visto
il “generale” come contenuto giudicativo, il senso, si specifica solo in questo o
in quel senso, mai però in atti. Il generale, l’idea rispetto alla realtà degli atti, è tutt’al più
l’essenza generale di atto, mai però contenuto d’atto441
Sarebbe stato necessario, quindi, riconoscere nei significati delle idealità
come unità di validità, delle singolarità ideali e nient’affatto delle specie, bensì
individuazioni di specie ideali, che in quanto tali non si singolarizzano a loro volta
in ulteriori entità e nei loro momenti442.
Ci si potrebbe però fondatamente chiedere: è davvero possibile intendere
in questo modo i significati? Non cesserebbero per ciò stesso d’essere caratteri
d’atto, in quanto non più specie che in essi si individuano? E quale sarebbe allora
il loro rapporto con questi, considerando che solo negli atti e non nei loro oggetti è
dato trovare qualcosa come il significato? Domande di questo genere mettono in
luce quella che è forse la deficienza centrale nella fenomenologia delle Ricerche
logiche, vale a dire la sua limitazione alla dimensione noetica della coscienza. La
concezione dei significati come specie fa infatti tutt’uno con questa limitazione,
poiché induce a ritenere che in quanto caratteri d’atto essi non potranno che
singolarizzarsi in un loro momento reel, così come di natura empirica è l’entità in
cui si individua una specie oggettuale quale il colore. Il punto però qui trascurato e
decisivo sta nel fatto che la specie di un atto quale ad esempio il giudicare non è
affatto il giudizio come senso, bensì per l’appunto l’idea del giudicare, è essa e
non il significato a singolarizzarsi nei diversi giudizi come vissuti psichici.
Rendersi conto di questo conduce allora a una diversa e più adeguata
441
M. Heidegger Logica. Il problema della verità cit., p.42
Su questo punto cfr. anche R. Bernet Bedeutung und intentionales Bewuβtsein cit., p.57. Poco
più oltre egli osserva come la comprensione di una proposizione non consista nel comprendere la
maniera in cui il parlante si riferisce all’oggetto, bensì ciò che è detto, ovvero il “pensiero” in
senso fregeano (ivi, p.58). Effettivamente la concezione del significato di Frege è al riparo dalle
difficoltà in cui si dibatte quella husserliana nelle Ricerche logiche. Riscontrando l’idealità in
termini husserliani del pensiero, ovvero del senso, nella sua non percepibilità così come
nell’indipendenza da qualsivoglia portatore – cosa che non consente di confonderlo con un
contenuto psichico – (cfr. G. Frege Der Gedanke. Eine logische Untersuchung, « Beiträge zur
Philosophie des deutschen Idealismus », I (1918-19), pp.58-77, trad.it. Il pensiero. Una ricerca
logica, Guerini, Milano 1988, p.60) Frege non indulge ad alcuna concessione al regno della
psicologia, poiché i sensi non si individuano affatto in controparti empiriche, ma vengono
“afferrati” dai soggetti (ivi, p.68), per cui sono qualcosa che non gli inerisce come componente, ma
con cui entra in relazione (ivi, p.74, nota 5), similmente al noema e al significato come
Vermentheit cui Husserl giungerà nelle fasi successive della sua riflessione.
442
169
considerazione fenomenologica che riscontra la bipolarità costitutiva della
struttura d’atto, dove correlativamente alla componente noetica v’è quella
noematica. Per rifarsi ancora al caso del giudizio in esso sono infatti da
distinguere il giudicare e il giudizio come senso, ovvero il suo contenuto, che non
è più da intendersi come controparte reale di un significato ideale, bensì come
correlato del giudicare medesimo, componente sì costitutiva ma non per questo
effettiva (reel)443, trattandosi piuttosto del giudicato nel giudicare, di quanto gli
inerisce per essenza, tant’è che l’inesistenza dell’oggetto su cui si giudica non
pregiudica la possibilità del giudizio, poiché è semmai questo a poterla verificare.
Con la distinzione tra noesi e noema è quindi possibile ascrivere una natura ideale
ai significati senza però considerarli specie – trattandosi di correlati che in quanto
tali non si individuano ma si manifestano negli atti444, ovverosia di
intenzionatezze445, ideali in quanto componenti non reali (reel) degli atti e il cui
carattere precipuo è la permanenza identica a fronte della variabilità empirica dei
vissuti psichici correlativi. E a ben vedere una simile concezione non stride affatto
con l’idea del significato come carattere d’atto, a patto però d’intendere un simile
carattere in senso noematico e non più noetico, come accade invece nelle Ricerche
logiche.
L’errore fondamentale commesso da Husserl sta allora nell’aver ritenuto
che i caratteri che contraddistinguono l’ideale siano ravvisabili solo nelle specie, e
di rendere in tal modo l’idealità dei significati “un caso particolare dell’idealità
443
Cfr. E. Husserl Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica Vol. I cit.,
pp.249-50
444
Husserl stesso riconoscerà nel § 94 delle Idee i limiti della sua considerazione noetica
dell’essenza intenzionale ai tempi delle Ricerche logiche, affermando che la considerazione
noematica dell’atto è quella che consente di affisare il “concetto puramente logico di giudizio”
richiesto dalla mathesis universalis (ivi, p.240)
445
Cfr. E. Husserl Esperienza e giudizio cit., p.637. Dove fra l’altro si registra una più matura
consapevolezza in merito all’idealità, in virtù dell’introduzione decisiva della dimensione
temporale della coscienza, che consente di stabilire nella maniera più netta la differenza con
l’individualità poichè « mentre l’individuale ha la “sua” posizione temporale e la sua durata,
comincia in un punto per cessare in un altro ed essere poi un passato, l’irrealtà di cui parliamo ha
l’essere temporale della sovratemporalità, della onnitemporalità che è pure un modo della
temporalità » (Ibid.). E a ben vedere ciò consente di disgiungere il tema dell’idealità dalla
dimensione del “valere”, poiché è alla luce della loro diversa temporalità e non in riferimento alla
validità eterna del loro contenuto che si motiva la natura ideale delle proposizioni, vale a dire nel
loro essere intenzionatezze, sensi, sì che « la proposizione “l’automobile è il più veloce mezzo di
comunicazione” perde la sua validità nel tempo degli aeroplani. Tuttavia come proposizione una e
identica essa puo’ sempre essere formata di nuovo da qualsiasi individuo nell’evidenza della
distinzione; ed essa ha, come intenzionatezza, la sua identità irreale e sovratemporale ». Punto
questo del tutto trascurato nelle Ricerche logiche, interessate in via esclusiva ai significati come
componenti della logica pura, dove per l’appunto il tema della validità è irrinunciabile. Sul
significato come Vermentheit cfr. anche R. Bernet Bedeutung und intentionales Bewuβtsein cit.,
p.59
170
dello specifico”446, con la conseguenza che il significato non viene individuato nel
correlato dell’atto significante, bensì in quel suo momento che ne è la
singolarizzazione, come se il genere dell’intenzione significante non fosse l’idea
di atto significante ma quella di significato. Un errore che deriva a nostro avviso
dal non aver tenuto adeguatamente distinti i due piani categoriali del significato e
dell’oggetto, nell’aver sovrapposto le istanze proprie di questo all’altro, mancando
in tal maniera la fondamentale distinzione tra le categorie logiche del significato e
dell’oggetto in quanto specie. Un punto questo che si manifesta con evidenza
laddove si tratta della modalità d’accesso a siffatti concetti categoriali, vale a dire
dal versante dell’astrazione ideante. Si è visto infatti come la sua Reinlichkeit si
motivi a partire dai suoi fondamenti immediati, vale a dire le datità dell’intuizione
categoriale, da cui le categorie vengono appunto ricavate447; come però per ogni
altro atto categoriale, datità sensibili sono le basi ultime di una siffatta astrazione,
poiché fondata su un’intuizione sensibile è l’intuizione categoriale che ne
costituisce il più immediato fondamento. Descrizione, questa, che è senz’altro
valida per quanto concerne le categorie dell’oggetto, su cui peraltro si motiva, ma
che non necessariamente mantiene la sua validità per l’altro genere categoriale: se
infatti le prime poggiano in ultima istanza su entità sensibili (la categoria di
relazione si ricava infatti sì dall’intuizione categoriale di una relazione, ma una
siffatta intuizione, per essenza, poggia su una datità sensibile), lo stesso non vale
per le altre, il cui riferimento ultimo sono i significati e dunque entità ideali.
Invece di fermarsi a questa evidenza descrittiva, Husserl ha ritenuto necessario
introdurre una particolarizzazione sensibile anche per il significato, costituita dalla
controparte reel dell’essenza significazionale, ovvero un contenuto, non potendo
naturalmente darsi un oggetto sensibile nel dominio del pensiero. Tarata sulle
istanze poste dall’oggetto, l’astrazione ideante delle Ricerche logiche mostra di
non poter poggiare in ultima istanza su entità ideali, quasi come se un elemento
psicologista emergesse surrettiziamente a scompaginare la trama fenomenologica,
ai sensi di un’astrazione che si fatica a concepire come del tutto slegata da
elementi sensibili.
Quanto allora qui si manifesta è un errore imperdonabile in ambito
fenomenologico, ovvero un cedimento nella descrittività che definisce l’operato
stesso della fenomenologia per una sorta di μετάβασις εἰς ἄλλο γένος, poiché è
446
447
E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., p.369
E. Husserl Ricerche logiche Vol. II cit., p.486.
171
dalla sovrapposizione dei caratteri delle idealità dell’oggetto a quelle del
significato che discendono le problematiche sin qui scorte, dall’aver inteso come
specie non soltanto - com’era lecito - le categorie del significato, ma anche le loro
singolarizzazioni448, che a differenza di quanto accade per le categorie
oggettuali449 non lo sono affatto, trattandosi piuttosto di singolarità ideali.
Un’indicazione in tal senso veniva del resto fornita già dal testo delle
Ricerche logiche, dalla maniera in cui veniva introdotta l’idealità del significato
come specie, dove per l’appunto era dal paragone con le specie sensibili - rosso e
strisce di carta rosse - che si motivava quell’idea del significato. E a ben vedere
v’è un’ulteriore inammissibile conseguenza che deriva da quell’impostazione,
come Husserl medesimo riconoscerà più tardi. L’astrazione di una specie
comporta infatti una comparazione dei casi in cui essa si singolarizza ed emerge
come qualcosa di comune che si dà nella loro coincidenza. In quanto specie i
significati dovranno sottostare al medesimo processo al fine di venir ricavati, per
cui sarà dalla comparazione degli atti che sarà evinto il significato ideale, a partire
cioè dalla comparazione dei momenti d’atto, con la conseguenza che a fornire
un’idealità pura quale appunto il singolo significato non sarà un’astrazione
ideante, bensì sensibile, visto il suo riferimento alla componente psichica. O per
converso, data la natura che questa astrazione viene a rivelare, idealità pure come i
significati saranno avvicinate a concetti sensibili quale appunto quello di “colore”,
ridimensionando così la distinzione nettamente tracciata nel § 60 della Sesta
Ricerca450. Evitare l’insorgere di questa situazione dilemmatica è possibile
soltanto se si tiene fermo alla istanza descrittiva, poiché
la proposizione stessa è per tutti questi atti un identico come correlato di una
identificazione e non un universale come correlato di coincidenza comparativa. Il senso
identico non si singolarizza individualmente e, mentre il genere universale ha sotto di sé,
nella coincidenza, il singolo, il senso non ha sotto di sé alcun singolo451
448
La considerazione del significato come specie manifesta secondo Parpan una confusione tra
piani diversi, poiché conduce all’identificazione del rapporto tra genere categoriale (es. la
“proposizione”) e singoli significati ideali (le singole proposizioni) con quello tra queste
singolarità e gli atti (cfr. R. Parpan Zeichen und Bedeutung cit., p.173).
449
«Se ad esempio alla base dell’astrazione vi è l’intuizione di una relazione, la coscienza
dell’astrazione puo’ rivolgersi allora alla forma della relazione in specie, in modo tale che resta
fuori qualsiasi componente sensibile dei fondamenti della relazione » E. Husserl Ricerche logiche
Vol. II cit., p.486.
450
Ivi, pp.485-86
451
E. Husserl Esperienza e giudizio cit., p.643
172
Mosso invece dal paragone con l’ambito ideale degli oggetti Husserl ha
ritenuto che i caratteri essenziali452 del significato ne facessero una specie poiché
soltanto queste gli apparivano in tal maniera determinate; e per quanto fosse
un’evidenza descrittiva quella che lo conduceva a non confondere il vissuto
individuale con il significato in cui compariva, la descrittività veniva però meno
nel momento in cui quell’evidenza era fatta oggetto di un’interpretazione, poiché
l’identità del significato non veniva rilevata nei termini in cui effettivamente si
presentava – ovvero come correlato dell’atto significante, come noema – bensì
letta alla luce di tutt’altra evidenza, quella che attiene al regno delle specie
oggettuali453. Una siffatta e più acuta vigilanza fenomenologica avrebbe inoltre
impedito la discrasia in merito alla diversa attuazione dell’astrazione ideante,
rivolta in un caso agli oggetti degli atti e nell’altro agli atti in quanto oggetti,
tagliando così fuori gli ultimi residui psicologisti evidenti nell’ammissione di una
controparte psicologica del significato ideale. Con il noema infatti non è più l’atto
a essere fatto oggetto di considerazione al fine di ricavare le categorie del
significato, poiché è a ben vedere il suo correlato quello a cui ci si rivolge, a
quanto cioè dall’atto risulta intenzionato, a quanto vi si manifesta senza esser
realmente presente, ovvero all’oggetto vuotamente intenzionato nel ‘”come” del
suo manifestarsi454.
Su questo punto cfr. anche J. N. Mohanty Husserl’Thesis of Ideality of Meaning in Reading’s
on Edmund Husserl’s Logical Investigations, Martinus Nijhoff, The Hague 1977, p.77 e id.
Edmund Husserl’s Theory of Meaning, Phaenomenologica 14, Martinus Nijhoff, Den Haag 1964,
p.54. In quest’ultimo testo in particolare Mohanty afferma che il significato non va inteso in senso
ontologico, bensì come inteso, come correlato d’atto (ivi, p.52). Posizione questa che a nostro
avviso non valuta nella giusta misura la natura “specifica” del significato
453
Particolarmente illuminante in tal senso è il § 31 della Prima Ricerca
454
Sarebbe a questo punto interessante chiedersi se e che cosa abbia impedito a Husserl di rilevare
il noema come costituente dell’atto già nel novero delle Ricerche logiche. A nostro avviso - ma si
tratta soltanto di un’idea abbozzata, al limite della semplice suggestione - l’approdo a un siffatto
fondamentale concetto è reso possibile dalla progressiva assolutizzazione della coscienza negli
sviluppi della filosofia husserliana. Tracce in tal senso sono già ravvisabili nella Bedeteungslehre
del 1908 dove compare in nuce la differenza tra noesi e noema nei termini della correlazione tra
significato fansico e ontico, in cui si chiarisce come al diverso modo del significare e del pensare
corrisponde un diverso modo del significato e del pensato, ovverosia un diverso “tema” che è
posto dinanzi agli occhi della coscienza e che non coincide con l’oggetto tout court (cfr. E. Husserl
Vorlesungen Über Bedeutungslehre Sommersemester 1908, Martinus Nijhoff Publishers,
Dordrecht/Boston/Lancaster 1987, trad. it. La teoria dl significato Bompiani, Milano 2008,
pp.231-35). Ebbene in questo testo risulta chiaro come non ci si muova in un dualismo ingenuo
soggetto-oggetto, poiché quest’ultimo «non è presente in altra forma che quella per cui viene
giudicato appunto in maniera valida », per cui non risulta essere altro che “il perdurante identico”
(ivi, p.477) nelle sintesi predicative, anche perché « nel pensiero e solo nel pensiero puo’ essere
compiuta a priori la separazione tra lo stesso oggetto e il pensiero dell’oggetto. “L’oggetto stesso”
rinvia a certe unità dell’identificazione che devono essere compiute nel pensiero identificante »
(ivi. p.253). Proprio in virtù di questa assolutizzazione è possibile uno sguardo più attento alla
strutturazione della coscienza, che diverrà ancora più acuto laddove con l’epochè verrà messo
452
173
La confusione husserliana tra i piani dell’oggetto e del significato non si
rivela però particolarmente destabilizzante per le Ricerche logiche, poiché non
impedisce l’attuarsi del compito fondamentale cui devono la loro genesi, quello
cioè di dar luogo a una logica come disciplina filosofica. Le categorie che la
strutturano sono infatti specie, si tratti dei concetti categoriali del significato o
dell’oggetto, per cui gli stessi problemi che abbiamo visto riversarsi
sull’astrazione non intaccano la sua natura di atto categoriale, di “fonte” da cui
essi scaturiscono, poiché è sul piano dei singoli significati ideali che quei dilemmi
sorgono e non sulle categorie che ne costituiscono per l’appunto genere. V’è però
da dire che quella certa miopia dello sguardo fenomenologico che abbiamo qui
ravvisato pur non impedendo l’accesso alle categorie - e quindi l’attuazione del
piano indicato già nei Prolegomeni - comporta a rigore sul piano fenomenologico
e in base a suoi stessi assunti un intorbidamento della Reinlichkeit reclamata per la
logica come Logik der Bedeutungen455, poiché i suoi costituenti rivelano in ultima
istanza un’estensione empirica, quella cioè dei singoli significati ideali in cui si
individuano. L’aspetto per certi versi paradossale di questa situazione sta nel fatto
che è proprio l’interesse per una logica pura a condizionare una siffatta
concezione dei significati ideali456 così come la sottovalutazione delle loro
problematiche, che verrà meno nel momento in cui la fenomenologia non vedrà
più ristretto il proprio compito alla fondazione di quella logica: solo a quel punto
infatti il significato come singola entità ideale non verrà più delineato su misura
della categoria logica di significato.
La confusione di cui sinora abbiamo parlato nonché ribadito agli inizi
dell’ultimo capoverso è del resto particolarmente palpabile laddove si afferma che
i significati costituiscono una classe di oggetti generali457. Non viene meno allora,
si potrebbe con qualche ragione dire, la distinzione tra oggetto e significato che
tanta parte occupa nelle analisi husserliane, a partire dalla rilevazione dei loro
distinti ambiti categoriali sino a giungere alle acquisizioni della Prima Ricerca,
fuori circuito l’essere reale, sia fisico che psichico, e si rivelerà come a ogni atto sia propria per
essenza una forma di correlazione: nel caso ad esempio di una percezione in tal senso “ridotta”
« noi troviamo come qualcosa che appartiene ineliminabilmente alla sua essenza il percepito come
tale…..L’albero simpliciter, la cosa della natura, è qualcosa di completamente diverso da questo
albero-percepito come tale, che come senso percettivo appartiene inscindibilmente alla
percezione » (E. Husserl Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica
Vol. I cit., p.227)
455
Cfr. E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., p.182
456
Su questo punto cfr. anche R. Parpan Zeichen und Bedeutung cit., pp.167-68
457
Cfr. E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., p.369 e p.370
174
dove si distingue per l’appunto “tra ciò che l’espressione vuol dire e ciò su cui
essa dice qualcosa”458? Che una simile difficoltà fosse presente agli occhi di
Husserl è dimostrato in particolare dall’ultimo paragrafo della Seconda Ricerca.
Dopo aver affermato infatti che i concetti costituiscono i significati dei nomi, si
pone qui un’identificazione dei primi con gli attributi degli oggetti, con la
conseguenza che il “concetto” viene a essere un’entità sospesa fra i due piani del
significato e dell’oggetto, potendosi dire equivocamente concetti “sia gli oggetti
generali che le rappresentazioni generali (i significati generali)”459. A complicare
il quadro v’è inoltre la summenzionata affermazione che fa rientrare i significati
nella classe degli oggetti generali.
Al fine di sbrogliare questa intricata matassa è necessario anzitutto
osservare cosa davvero s’intenda per oggetto. E in ciò v’è da dire che Husserl è
abbastanza chiaro, ritenendo che esso debba intendersi nella maniera più ampia,
per cui coincide con il soggetto predicabile460, vale a dire “un qualcosa su cui è
possibile formulare enunciati sensati e veri”461. In forza di questo si comprende
come Husserl abbia potuto definire i significati una classe di oggetti generali,
trattandosi per l’appunto di entità su cui è possibile formulare enunciati sensati e
veri462, vale a dire in atti dove il significato stesso è reso oggetto, atti cioè
propriamente fenomenologici quali quelli riflessivi che rivolgendosi alle
intenzioni significanti rendono il significato oggetto per la coscienza463. Diviene
allora chiaro come sia il versante fenomenologico quello in cui si apprezza e si
delucida la distinzione tra significato e oggetto, perché un oggetto è tale solo per
una coscienza che vi si riferisce per via della mediazione di un significato, tanto
che i significati stessi possono essere oggetti, resi cioè tali da atti che a loro volta
sono significanti, dove si conferma come il significato non sia altro che la
modalità di riferimento a un oggetto, anche qualora questo sia un significato. Che
poi, per dirla con una battuta, il significato sia stato “reso oggetto” non soltanto in
termini fenomenologici, tanto da attribuirgli quei caratteri che s’addicono soltanto
alle entità oggettuali facendone perciò delle specie, rappresenta quell’errore di
fondo dell’impostazione husserliana su cui ci siamo già abbondantemente
458
Ivi, p.313
Ivi, p.492
460
E. Husserl Abbozzo di una prefazione alle Ricerche logiche cit., p.194
461
E. Husserl Compito e significato delle Ricerche logiche cit., p.226
462
Cfr. in proposito E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., p.369
463
Su questo si veda l’intero § 34 della Prima Ricerca (ivi, pp.371-72)
459
175
soffermati. Quanto invece ci preme rilevare è la particolare evidenza con cui qui si
manifesta la saldatura fra fenomenologia e logica pura. Intesa come logica dei
significati464 essa non potrà che demandare alla fenomenologia la sua fondazione,
poiché è come carattere d’atto che si definisce il significato, come modalità in cui
qualcosa è inteso465, tanto che solo come in certo modo “significato” l’oggetto
puo’ manifestarsi, ovverosia come correlato466. Che però questo non valga affatto
a confondere i due piani, né a trasferire sul piano dell’oggetto quanto vale per il
significato – tanto che abbiamo sin qui registrato una tendenza per certi versi
opposta – è un punto fermo nella riflessione husserliana, che si motiva e si
chiarisce in ultima istanza a partire dalla diversa legalità che definisce,
determinandoli, i due piani - e di cui è ora tempo di occuparsi.
§ 3.2.4 – La Grammatica puramente logica e lo “uneigentliches Denken”
Un tema che si tratta di interrogare ancora a più fondo se si vuol cogliere
la specificità del significato in rapporto all’oggetto è lo statuto ontologico delle
entità ideali, vale a dire la validità. Dai passi husserliani in precedenza citati
sembrerebbe infatti che validità sia sinonimo di verità, tanto che a proposito delle
idealità si utilizzava la formula “oggetto che è in verità”467, sull’esempio degli enti
matematici il cui essere è per l’appunto quello che viene stabilito dalle
dimostrazioni d’esistenza468. D’altro canto però non è al piano veritativo che
rimonta l’essere dei significati, poiché sta piuttosto nel permanere identico di
ciascuno di essi a fronte della molteplicità empirica in cui comunque si
manifestano. Al fine di comprendere la peculiarità di questo essere e la maniera in
cui si possa parlare a rigore di validità dei significati senza con ciò renderli
464
Ivi, p.360
Su questo punto cfr. anche A. Bonomi Sul problema del linguaggio in Husserl, “Aut-Aut”, 118,
1970, pp.42-43
466
Alla luce di questo si comprende la natura ibrida che in precedenza avevamo rilevato a
proposito del concetto. Ogni scienza, com’è noto, si serve di concetti tramite cui cogliere le
oggettualità che ne costituiscono il dominio, che vengono per l’appunto sussunte sotto di essi. La
scienza delle scienze, la logica pura, occupandosi per l’appunto di ciò che costituisce l’essenza di
una scienza dovrà trattare dei costituenti di questa in senso formale, ovvero di “oggetto” e
“significato”; e se il concetto determina ciò che intendiamo quando parliamo di qualcosa, va da sé
che esso assumerà i contorni di genere sommo, perché è partire dai concetti di “oggetto” e di
“significato” che comprendiamo cosa s’intende con essi, un punto questo che come vedremo trova
la sua più chiara delucidazione nella messa in luce della loro diversa legalità. Del resto, lo stesso
Husserl nei Prolegomeni aveva rilevato come fosse proprio della logica pura aver a che fare con
concetti di concetti (E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., p.248)
467
Ivi, p.369
468
Cfr. E. Husserl Recensione a M. Palàgyi, la polemica tra psicologisti e formalisti nella logica
moderna cit., pp.181-82
465
176
dipendenti dall’oggetto per il loro sussistere, è necessario mettere in luce le
specifiche condizioni di possibilità del significato medesimo, muovendosi
innanzitutto e soprattutto sul piano fenomenologico.
Il punto a cui tener fermo nel dare inizio alle analisi è la definizione del
significato come modalità del riferimento all’oggetto da parte dell’atto. Un
riferimento come s’è visto esclusivo di una particolare categoria d’atti quali quelli
oggettivanti e che puo’ esplicitarsi in due distinte maniere, in senso cioè tetico o
sintetico, monoradiale o pluriradiale469. In questo è tracciata, o ancor meglio
rintracciata nell’alveo fenomenologico l’origine della distinzione fra nomi ed
enunciati, dovuta per l’appunto all’essenza significazionale degli atti, alla maniera
in cui qualcosa è inteso, ovvero per via di una denominazione che lo nomina
soltanto - e dove il “raggio intenzionale” è diretto soltanto all’oggetto - oppure
per mezzo di un intendere che ne metta in luce la caratteristiche, gli attributi che
gli appartengono e lo definiscono – dove invece v’è una pluralità di raggi
intenzionali che mettono in evidenza la sua articolazione, come avviene nella
sintesi predicativa. Nomi e proposizioni rimandano così agli atti in cui si
costituiscono, rimontano a differenziazioni nella materia degli atti oggettivanti,
dove si conferma la validità della chiarificazione fenomenologica anche in
rapporto alla dimensione linguistica. Per quanto poi concerne il loro rapporto
Husserl attribuisce una preminenza alle proposizioni, agli enunciati, perché è nel
novero da essi costituito che si chiarisce in via definitiva cosa sia il nome:
vediamo allora che le parole o complessioni verbali che valgono come nomi,
esprimono un atto concluso solo quando possono presentare un soggetto completo e
semplice di un enunciato…..quando possono assolvere la funzione del soggetto semplice,
senza variare la loro essenza intenzionale470
Ancor prima che qui, nella Quinta Ricerca, una tale preminenza era già
stata espressa nella Quarta Ricerca, dove per l’appunto si rilevava come “ogni
struttura concreta di significato è una proposizione o interviene all’interno delle
proposizioni come loro possibile membro”471. Ne deriva allora che laddove si
469
E. Husserl Ricerche logiche Vol. II cit., p.269
Ivi, p.250
471
Ivi, p.118. Dalla lettura di questo passo Parpan ricava la priorità delle proposizioni predicative
nel discorso husserliano, considerando l’identificazione qui operata tra le proposizioni e i giudizi
(ibid.; cfr. R. Parpan Zeichen und Bedeutung cit. p.101). Una priorità che va però intesa nel senso
470
177
tratti come nel nostro caso di mettere in luce le condizioni di validità dei
significati è alle proposizioni che bisognerà rivolgersi, o in altri termini alla
maniera in cui è possibile formare complessioni di significati valide. A instradare
su questa via è del resto la distinzione che Husserl considera fondamentale nel
domino formale, categoriale del significato, quella cioè tra significati indipendenti
e non-indipendenti - ovvero tra significati che possono o meno assolvere la loro
funzione significante in maniera autonoma e quindi senza bisogno di integrazioni,
o in termini più strettamente fenomenologici tra significati in grado o meno di
costituire o meno “il pieno e intero significato di un concreto atto significante”472.
Laddove infatti ci si riferisce a un oggetto categorialmente formato quale ad
esempio una congiunzione si manifesta con evidenza come i due termini congiunti
possano sussistere indipendentemente l’uno dall’altro e al di fuori della
congiunzione medesima, mentre lo stesso non vale per il significato della
particella “e”, che proprio perché “congiuntiva” abbisogna di membri da
congiungere affinché possa attuarsi quella certa modalità d’intendere l’oggetto, a
che il significato possa comprendersi473. Si comprende allora come a definire nonindipendenti dei significati sia il bisogno d’integrazione che inerisce loro per
essenza474, da cui consegue che
un significato non-indipendente puo’ dunque realizzarsi soltanto in un atto nonindipendente che sia parte di un atto significante concreto, puo’ concretizzarsi solo in
di un privilegio - come Husserl stesso ammette esplicitamente nella Quinta Ricerca (E. Husserl
Ricerche logiche Vol. II, p.268) - motivato dagli interessi logici e gnoseologici che animano le
analisi husserliane, e non come se a essa fossero da ricondurre le altre tipologie di sintesi
(congiuntiva, disgiuntiva) che invece le si “contrappongono” (ibid.), come egli stesso del resto
chiarirà in termini ancor più espliciti in Logica formale e trascendentale: « esse non fondano una
unità categoriale di questo genere, né vi rimandano in qualche “modificazione” o in qualche altro
modo – come se ciò che esse collegano e il collegamento stesso dovessero necessariamente
presentarsi all’interno di una predicazione »; E. Husserl Formale und transzendentale Logik.
Versuch einer Kritik der logischen Vernunft in Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische
Forschung 10, Halle 1929 (trad. it Logica formale e trascendentale, Mimesis, Milano-Udine 2009,
p. 300)
472
E. Husserl Ricerche logiche Vol. II cit., p.103
473
Husserl si pone esplicitamente il problema della comprensione dei sincategoremi - ovvero dei
significati non-indipendenti - isolati, affermando che « noi comprendiamo lo e isolato perché ad
esso si associa come significato anomalo l’idea indiretta, benché verbalmente non articolata di una
certa particella a noi ben nota; oppure perché, con l’aiuto di vaghe rappresentazioni di cose e
senza alcuna integrazione verbale interviene un’idea del tipo A e B » (ivi, p.106). Una
comprensione in questo caso non soltanto dimidiata, vaga e non piena, ma che per esser comunque
tale necessita del sopraggiungere per quanto anomalo dell’integrazione giustappunto richiesta.
474
Ivi, p.102
178
connessione con certi altri significati che lo integrano: esso puo’ “essere” solo in un
intero-di-significato475
Quanto però qui si richiede non è affatto un’integrazione qualsiasi,
poiché soltanto in determinati contesti quel bisogno puo’ essere soddisfatto, v’è in
altri termini una legalità ideale che regola l’integrazione in nuovi significati
determinando le modalità in cui un intero-di-significato puo’ costituirsi. E per
converso, poiché solo tramite forme connettive che hanno la natura di significati
non-indipendenti è possibile realizzare una connessione di significati 476, siffatte
leggi saranno le condizioni di possibilità del significato medesimo, se è
innanzitutto nella - e come - proposizione che esso interviene.
Per cogliere la legalità in questione è necessario muoversi in senso
fenomenologico, garantirsi cioè la modalità in cui è possibile accedervi e che
Husserl individua nel processo di formalizzazione477, trattandosi per l’appunto di
leggi che determinano le forme pure del significato come genere categoriale478.
Sostituendo delle variabili alle componenti di una proposizione ad esempio
predicativa si otterrà non soltanto la forma ideale comune a tutte le proposizioni di
quel genere, ma si mostrerà anche a quali condizioni una siffatta struttura ideale
puo’ dirsi valida e per ciò stesso costituirsi. Nella forma Sèp gli elementi che
affiancano la copula non possono affatto venir particolarizzati ad arbitrio, ovvero
non è affatto indifferente che cosa si pone come soggetto e predicato. Detto in altri
termini l’analisi husserliana non si ferma affatto al piano sintattico, al rilievo del
rapporto fra soggetto e predicato come forma comune a ogni predicazione, poiché
le forme sintattiche non sono sufficienti a circoscrivere il campo della validità.
Come egli stesso afferma infatti, accanto o per meglio dire più a fondo delle forme
sintattiche si pongono le forme nucleari che le prime presuppongono 479, poiché
per l’appunto solo materie nominali, ovvero materie che hanno la forma nucleare
del sostantivo, possono occorrere come soggetto e soltanto materie aggettivali,
con la forma nucleare dell’aggettivo, possono fungere da predicati.
475
Ivi, p.103
Ivi, p.107. Husserl stesso del resto chiarisce come la questione dell’essere dei significati non si
ponga affatto per i tipi primitivi, “che hanno la loro origine nella pienezza dell’intuizione”, ovvero
per i significati semplici, bensì per quelli risultanti dalla loro composizione (ivi, p.494)
477
Ivi, p.108
478
Su questo punto cfr. cfr. E. Husserl Idee per una fenomenologia pura e una filosofia
fenomenologica Vol. I cit., § 13, pp.33-35
479
E. Husserl Ricerche logiche Vol. II cit. p.115
476
179
Nelle Ricerche logiche la distinzione fra queste diverse tipologie di
forme non è però esplicitata con la dovuta chiarezza, poiché le forme nucleari
vengono a ben vedere introdotte senza essere adeguatamente rilevate, né è facile
comprendere in che senso le forme sintattiche presuppongano “già come sostanze
sintattiche contenuti nucleari in e con forme nucleari qualsiasi “480. Ben più chiaro
nel merito è il testo di Logica formale e trascendentale. Qui infatti si mostra come
la materia sintattica – ovvero la materia ottenuta astraendo dalle forme sintattiche
soggetto, predicato, attributo ecc. – non sia affatto di per sé “informe”, poiché in
esse si rilevano forme diverse, quale appunto “sostantivo”, “aggettivo”, “relativo”,
che non solo si distinguono da quelle della sintassi, ma condizionano la stessa
messa in forma sintattica, poiché questa agisce appunto su materie già in tal senso
formate481. Forme definite nucleari poiché determinano intrinsecamente la materia
e perché questa si presenta quale nucleo identico di diverse formazioni, contenuto
comune da esse informato, come mostrato ad esempio da “rosso” e “il rosso”,
rispettivamente aggettivo e sostantivo con un medesimo “momento essenziale…
sotto l’aspetto materiale”482. Forme che costituiscono le autentiche categorie del
significato483, la cui intrinseca legalità determina le condizioni di possibilità del
significato medesimo perché discende dall’a priori “che si radica puramente
nell’essenza generale del significato come tale”484, sì che la disciplina che le ha
per oggetto, quella che Husserl definisce “morfologia pura dei significati”, si pone
come fondamento necessario della logica pura in quanto Logik der
Bedeutungen485.
480
Ibid.
E. Husserl Logica formale e trascendentale cit., p.307. In tal senso estremamente chiaro e
illuminante è quanto si dice in Esperienza e giudizio: « I termini della proposizione giudicativa
non hanno solo la formazione sintattica del soggetto, del predicato ecc., come forme di funzioni,
che convengono ai termini della proposizione come tali, ma essi possiedono ancora un altro genere
di formazione sottostante, le forme del nucleo; il soggetto ha la forma nucleare della sostantività, e
nel predicato la determinazione p sta nella forma nucleare della oggettività »; cfr. E. Husserl
Esperienza e giudizio cit., p.507
482
E. Husserl Logica formale e trascendentale cit., p.308. Ancor più che nelle Ricerche logiche
(per cui cfr. E. Husserl Ricerche logiche Vol. II cit., p.120) si comprende qui cosa debba intendersi
con il concetto, fondamentale in logica, di “termine”, ovvero la materia-nucleo (E. Husserl Logica
formale e trascendentale cit., p.310), da distinguere peraltro dalle materie sintattiche in unità con
le loro forme, che a scanso di facili equivocazioni sono ora da intendersi come sintagmi (ivi,
p.304)
483
Su questo punto cfr. la preziosa Introduzione di Giovanni Piana all’edizione italiana delle
Ricerche logiche (E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., p.XXIX) e R. Parpan Zeichen und
Bedeutung cit., pp.106-108
484
E. Husserl Ricerche logiche Vol. II cit., p.124
485
Ivi, p.118 e p.126
481
180
La morfologia pura dei significati vale perciò a distinguere in maniera
netta e inequivocabile il senso dal non-senso. Nell’esempio fatto in precedenza
sono infatti le forme nucleari, le categorie del significato propriamente dette a
vincolare la particolarizzazione delle forme sintattiche, poiché non puo’ mai
essere un aggettivo o una relazione qua talis a occorrere come soggetto di una
proposizione predicativa, ma soltanto un sostantivo. L’indifferenza alla materia
che definisce la purezza della dimensione logica si rivela qui nella legalità formale
cui rispondono le componenti significative, dove a influire sulla composizione di
un intero semantico non è affatto la particolarità materiale dei significati, bensì la
maniera in essa è intesa, la categoria alla quale è ricondotta, perché è sempre e
soltanto come materia “categorialmente formata” (nominale, aggettivistica,
relazionale) che essa compare in un intero di significato486. Lo si è visto poc’anzi,
con l’entità sensibile “rosso”, nucleo che puo’ assumere le forme aggettivistica e
sostantivale e che rivela per l’appunto la legalità valida per i significati, per cui
nel campo dei significati vi sono leggi a priori secondo le quali i significati si
trasformano in vario modo mantenendo un nucleo essenziale
487
Responsabile di questo genere di trasformazioni è una legge che assieme
alla complicazione di significati in nuovi significati complessi488 è parte
costitutiva della morfologia puramente logica, ovvero la modificazione. Ogni
significato infatti puo’ per essenza mutarsi nella sua rappresentazione diretta, puo’
cioè divenire “significato proprio” del significato originario, sì che la sua
espressione verbale vale come nome proprio di quest’ultimo489. La particella “e”
ad esempio diviene nome proprio del suo significato in espressioni quali “’e‘ è
una congiunzione”, dove appunto il significato originario non è più espresso,
486
« Ovunque, i concetti materiali (anche quelli superiori, come cosa fisica, spazialità, psichicità,
ecc.) sono sostituiti da rappresentazioni indeterminate e generali di elementi materiali in generale,
che hanno tuttavia categorie di significato ben determinate (ad esempio, significato nominale,
aggettivistico, proposizionale) »; ivi, pp.118-19. A complemento di questo v’è da aggiungere la
distinzione fondamentale tra momenti puri della forma e momenti che ricevono una forma intendendo con questi ultimi quanto consente il riferimento alle cose (ovvero significato nominale
ecc.) - dove vale la proposizione analitica, acquisita già nella Terza Ricerca, secondo cui ”in un
intero le forme non possono in genere fungere come materie, e le materie come forme”. Se infatti
il termine che consente il riferimento a una cosa venisse particolarizzato con un momento puro
della forma si avrebbero palesi insensatezze: nel caso della proposizione predicativa Sèp verrebbe
fuori qualcosa come un albero è e (ivi, p.110).
487
Ivi, pp.113-14
488
Si pensa qui naturalmente alle congiunzioni e alle disgiunzioni
489
Ivi, p.114
181
bensì denominato da essa, o ancor meglio dove “e” non è più ciò tramite cui ci si
riferisce a qualcosa bensì ciò su cui qualcosa si dice, non è più a ben vedere
significato, ma oggetto cui il significato si rivolge490. E in quanto “oggetto” in
certo modo significato, inteso in un atto tetico, un tale significato puo’ allora
essere soggetto di una proposizione predicativa, essere cioè “nome”. L’operazione
di modificazione si chiarisce allora, coerentemente con l’impianto e i fini delle
Ricerche logiche, sul piano fenomenologico, perché è un atto di nominalizzazione
a consentire di trasformare in nomi significati di genere diverso491, quell’atto cioè
che si riferisce teticamente, monoradialmente a un significato, sia esso un
sincategorematico, un aggettivo o una sintesi492, facendone per ciò stesso un
oggetto nel senso che qui esclusivamente si predilige, quello cioè logico, vale a
dire “un qualcosa su cui è possibile formulare enunciati sensati e veri”493.
Le leggi della modificazione e complicazione, assieme alle forme
primitive dei significati indipendenti (nominale, aggettivistica, proposizionale)
non costituiscono soltanto la sfera della morfologia puramente logica dei
significati494, ovvero la grammatica puramente logica, quell’impalcatura formale e
ideale che ciascuna lingua rivela al di sotto della sua veste empirica495. Esse infatti
rappresentano la condizioni di possibilità della pensabilità in genere, sono in altri
490
Ivi, p.112
Ivi, p.115
492
Ivi, p.269
493
E. Husserl Compito e significato delle Ricerche logiche cit., p.226. La logica pura di cui
parlano i Prolegomeni non potrà perciò non porsi come Logik der Bedeutungen, perché è sempre e
soltanto come riferimenti di un significato, come termini intenzionali che gli oggetti si danno, che
le oggettualità logiche si manifestano, compresi i significati medesimi. Su questo punto cfr. anche
V. Costa, E. Franzini, P. Spinicci La fenomenologia cit., pp.90-91
494
E. Husserl Ricerche logiche Vol. II cit., p.119
495
Ivi, pp.126-27. In proposito si registra un significativo mutamento terminologico tra la prima e
la seconda edizione delle Ricerche logiche, poiché se in precedenza la morfologia pura dei
significati era stata denominata “grammatica pura” ora diviene “grammatica puramente logica”.
Mutamento che lo stesso Husserl rileva e di cui dà conto, osservando come una grammatica pura
debba trattare di ogni genere di a priori linguistico, non limitandosi soltanto a quello logico, cosa
che spiega perché ora la purezza sia assegnata soltanto all’ambito logico della grammatica e non
alla grammatica tout court (ivi, p.128). Una siffatta limitazione non è ovviamente sfuggita agli
interpreti né inosservate sono passate le sue conseguenze, tra le quali la più rilevante è senz’altro la
sottovalutazione, se non il disinteresse per l’elemento propriamente linguistico (più in particolare
cfr. R. Parpan Zeichen und Bedeutung cit., p.111; V. Costa, E. Franzini, P. Spinicci La
fenomenologia cit., p.90 (nota 21); F. Costa Husserl e il linguaggio in “Giornale di metafisica”,
14, 1992, pp.214-15 (dove si sottolinea come il linguaggio non sia affatto produttivo, ma si limiti a
rispecchiare entità già costituite); R. Raggiunti The language problem in Husserl’s
phenomenology, in A. Ales Bello The great chain of being and italian phenomenology, Analecta
Husserliana, 11, D. Reidel, Dordrecht/Boston/London 1981, p.270 (dove si registra la priorità sul
linguaggio di qualcosa di non linguistico come il pensiero indiretto con le sue leggi)).
Emblematica in tal senso è la marginalizzazione dell’elemento comunicativo del linguaggio, di cui
ci occuperemo diffusamente nel prossimo paragrafo
491
182
termini ciò che definisce l’intelletto qua talis496 per via della sua natura
intenzionale, poiché gli atti che lo costituiscono attuano il loro costitutivo
“riferimento a” sempre e soltanto attraverso quelle categorie con la legalità che
inerisce loro per essenza497.
Si tratta però di intendersi meglio sul tema della pensabilità nella
riflessione husserliana, su come cioè vada inteso il pensare e quindi il pensiero.
Come abbiamo già visto in precedenza si parla in proposito di atti, di vissuti
intenzionali, e più nello specifico di atti categoriali, sì che la distinzione
tradizionale tra sensibilità e intelletto, e correlativamente tra intuire e pensare, va
riletta e declinata nei termini della differenza fra dimensione sensibile e
categoriale498. Husserl stesso definisce infatti l’intelletto facoltà degli atti
categoriali499. V’è però da sottolineare che due sono i generi categoriali ammessi
da Husserl, vale a dire significato e oggetto, da cui discende che il pensiero stesso
dovrà ammettere un’ulteriore e importantissima distinzione qual è quella tra
uneigentliches e eigentliches Denken. A definire l’improprietà è qui come già
nella
Filosofia
dell’aritmetica
il
carattere
non-intuitivo,
il
darsi
di
rappresentazioni in absentia dell’oggetto, dove però non si tratta di segni in
funzione surrogante bensì di significati che intendono un’oggettualità senza che
questa sia presente, con la conseguenza che a regolare il pensiero improprio non
sono più leggi psicologiche, bensì ideali - quali quelle della grammatica
logicamente pura. Trattandosi in questo caso di forme categoriali l’improprietà va
vista nella dispensabilità dell’oggetto per le categorie del significato, che si
limitano a intendere senza perciò presentarlo, mentre come s’è visto poc’anzi è a
partire da un oggetto sensibile che si danno le forme categoriali oggettuali; e
correlativamente l’astrazione ideante rivela qui come suo fondamento il mero
496
Ivi, p.498
Che quanto rilevato a proposito della grammatica esuli dal piano linguistico per coinvolgere la
sfera del pensiero è pressoché un’ovvietà se si pone mente al fatto che già nell’Introduzione alle
Ricerche logiche si erano stabiliti atti significanti a monte e come condizioni degli enunciati
linguistici (cfr. E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., pp.269-70). Un punto divenuto ben più
chiaro nel momento in cui il significato si è mostrato come una specie d’atto singolarizzata nella
essenza d’atto, dove a essere rilevante è soprattutto la materia come senso apprensionale. Nella
Quinta Ricerca Husserl osserva infatti come le leggi della grammatica puramente logica stiano a
fondamento della messa in forma categoriale operata dagli atti, rilevando che « da questo punto di
vista, ciò che importa sono soltanto le materie (i sensi oggettivanti degli atti), nelle quali si
esprimono tutte le forme nella costruzione delle sintesi oggettivanti »; E. Husserl Ricerche logiche
Vol. II cit., p.270
498
Già nell’Introduzione alla Sesta Ricerca veniva stabilito questo punto (ivi, p.303), che trova
però una più ampia, articolata ed esauriente trattazione nell’intero capitolo VIII della medesima
ricerca
499
Ivi, p.498
497
183
pensiero, o se si preferisce il mero intendere significativo privo di riempimento, sì
che l’atto categoriale è in tal caso sui generis, poiché non riconduce mediatamente
o immediatamente alla sensibilità, come Husserl stesso aveva dichiarato nel § 60
della Sesta Ricerca500. La dimensione impropria acquisisce allora un’importanza
ben più rilevante di quanto avveniva nei testi d’esordio poiché non consiste
semplicemente
nella
surrogazione
semiotica
dell’oggetto
ai
fini
dell’economizzazione dei processi psichici, svelandosi piuttosto come ciò che
costituisce la necessaria modalità d’accesso al regno oggettuale medesimo e dove
perciò non v’è semplicemente un segno che sta per un oggetto non presente, bensì
un significato che lo intende501, per cui l’improprietà non si motiva empiricamente
sui limiti psichici di un soggetto, ma si svela come necessità oggettiva e ideale,
come condizione di possibilità dell’intelletto qua talis502 e dunque del pensiero.
Centrale in questo è il concetto di intenzionalità che definisce il pensiero
medesimo nei suoi atti, poiché qualsiasi pensato, in quanto “oggetto”, non potrà
che darsi come in qualche modo inteso, in certo modo significato, dunque
dipendente dalle categorie del significato. E a questo non sfuggono naturalmente
le categorie medesime, che sono sì date in virtù di un pensiero fondato
sull’intuizione - eigentliches Denken - ma anche intese in atti significanti, oggetto
cioè di intenzioni significative - uneigentliches Denken - a cui gli atti di pensiero
propri, le intuizioni categoriali, forniscono i riempimenti corrispondenti503
garantendone così la conoscenza. Dove ancora una volta si avverte il senso in cui
consiste l’improprietà delle categorie del significato, nel loro essere cioè prima
facie non oggetti bensì quanto consente il riferimento agli oggetti504, ivi comprese
appunto le categorie oggettuali
500
Ivi, p.485. Poco più in là nel testo si afferma a dire il vero che le forme significative sono forme
categoriali in senso improprio (ivi, p.487), senza con ciò voler intendere che siano categorie in
qualche modo dimidiate, ma a sottolineare l’inessenzialità di un’intuizione sensibile fondante, il
fatto cioè che non necessariamente corrisponde a esse “un tipo di oggettualità categoriale” (ivi,
p.494), ovvero un oggetto – in tal modo – categorialmente formato.
501
Anche in questo è rilevabile il passaggio dal segno al significato come una delle possibili cifre
attraverso cui leggere la svolta fenomenologica. V’è però da dire che Husserl anche nelle Ricerche
logiche continua ad attribuire un carattere improprio di tipo surrogante ai segni, anche se solo a
una precisa tipologia semiotica quale i simboli matematici, come avremo modo di vedere nel
prossimo paragrafo.
502
« Un intelletto con altre leggi che non siano quelle puramente logiche [scil. della grammatica
puramente logica] sarebbe un intelletto privo di intelletto »; ivi, p.498
503
Ivi, pp.494-95
504
Ciò non toglie naturalmente che le stesse categorie del significato possano essere rese oggetto
di atti significanti, divenendo in tal modo oggetti e rispondendo così alle leggi valide per essi; il
riferimento a esse sarà però comunque mediato da significati e quindi ancora una volta da
184
La distinzione tra pensiero proprio e improprio505 consente inoltre di
venire a capo sul piano fenomenologico della distinzione fra significato e oggetto,
considerando che è pur sempre negli atti che entrambi si manifestano, pur nella
diversità in cui ciò avviene. Una diversità che si manifesta e giustifica nella
differente legalità che sovrintende ai due ambiti e in tal maniera li costituisce. Se
infatti le leggi del pensiero improprio sono quelle della grammatica puramente
logica, trattandosi dell’intendere significativo, delle modalità in cui è possibile il
riferimento all’oggetto, il pensiero proprio, avendo a che fare con il dominio
oggettuale, risponderà alle leggi “delle intuizioni categoriali secondo le loro pure
forme categoriali”506, ovvero alle condizioni di possibilità dell’oggetto, non a
quelle del riferimento a esso – leggi analitiche quali ad esempio i principi di
identità e non contraddizione.
Che poi si tratti di dimensioni tutt’altro che slegate, bensì correlative, è
mostrato dalla preferenza accordata da Husserl ai significati intuitivamente
riempiti, che è quanto dire alla questione della verità e quindi della conoscenza.
Laddove infatti si parla di significati validi - per giungere così al punto che aveva
aperto questo paragrafo - di validità dei significati, ci si riferisce sempre alla loro
traduzione intuitiva adeguata, la loro validità - ma non il loro essere - è in altri
termini identificata con la possibilità oggettiva507. E in questo ad avere un peso
categorie del significato nella loro funzione significativa - e non come termini di un riferimento
oggettuale.
505
Nella nostra esposizione abbiamo preferito discostarci dalla pregevole e insuperata traduzione
di Giovanni Piana, che nei paragrafi più da presso dedicati alla distinzione tra eigentliches e
uneigentliches Denken traduce invero “pensiero diretto e indiretto”. Una scelta, la nostra, che si
motiva a partire dal largo spazio concesso alla tematica delle uneigentliche Vorstellungen nei
capitoli precedenti, che venivano per l’appunto tradotte nella formula “rappresentazioni
improprie”. Lo stesso Piana del resto non si attiene univocamente alla traduzione di uneigentlich
con “indiretto”, tanto che nel § 61 della Sesta Ricerca il termine viene appunto tradotto con
“improprio” (ivi, p.487; nell’edizione originale - nella versione da noi consultata - cfr. E. Husserl
Logische Untersuchungen cit., p.714)
506
E. Husserl Ricerche logiche Vol. II cit., p.492
507
Ivi, p.496. A tal proposito, indicativo era quanto già si diceva nelle battute finali del § 31 nella
Prima Ricerca. Nel giustificare infatti l’essere dei significati Husserl affermava che un tale modo
di esprimersi è da considerarsi come indicazione della validità di certi giudizi, per cui il titolo
“oggetto che è in verità” è da attribuirsi “a ciò su cui si esprime un giudizio”. (E. Husserl Ricerche
logiche Vol. I cit., p.369) E un giudizio valido è qui un giudizio vero, per cui validi sono quei
significati intuitivamente riempiti, oggettivamente possibili. Nella prima edizione dell’opera,
laddove si considerava il discorso sull’essere dei significati come Anzeigen für die Geltung
gewisser Urteile, compariva una nota assai significativa, che recitava “sei es nur für die
supponierte Geltung” (E. Husserl Logische Untersuchungen cit., p.106, nota 2). Husserl infatti
aveva già stabilito come il significato non dovesse nulla per la sua “validità”, per il suo essere al
darsi dell’oggetto, sì da chiarire in nota come la validità del giudizio in senso veritativo potesse
anche essere soltanto supposta. Nel prosieguo dell’opera comunque, laddove si tratterà - come
nella Quarta Ricerca - del significato qua talis, a prescindere dall’esistenza dell’oggetto cui si
185
decisivo è senz’altro l’influenza dell’es gilt lotzeano, contrassegno delle verità
ideali, tutt’altro che sorprendente in un’opera come le Ricerche logiche mossa in
prevalenza da interessi logici e gnoseologici.
L’orientamento logico-gnoseologico delle analisi husserliane fa sì che i
domini del significato e dell’oggetto, pur se garantiti nella loro autonomia dalla
rispettiva legalità, non solo si condizionino a vicenda, ma emerga in questo
vicendevole condizionamento una primarietà del campo oggettuale. A darne la
misura è la stessa concezione del significato nelle Ricerche logiche, il suo essere
un carattere d’atto, quel carattere cioè che ne costituisce l’essenza intenzionale in
quanto modalità del riferimento all’oggetto508. La stessa distinzione fra senso e
nonsenso matura e va colta a partire da una siffatta concezione. Si è visto infatti
come a produrre nonsensi sia il mancato rispetto della legalità inerente alle
categorie del significato, nel non tener conto ad esempio che in una proposizione
predicativa non puo’ esser predicato un termine relazionale, bensì aggettivale509.
A ben vedere questa impossibilità si motiva a partire dall’idea del significato
come modalità del riferimento all’oggetto, poiché nel caso di una pseudoproposizione quale “l’albero è e” a esser reso impossibile è proprio quel
riferimento, non è rilevabile cioè alcun indirizzamento a un oggetto. In tal maniera
Husserl puo’ distinguere l’autentico nonsenso (das Unsinnige) da quanto di solito
riferisce, egli parlerà non della sua validità, bensì del suo “essere nel ‘mondo’ dei significati
ideali” (E. Husserl Ricerche logiche Vol. II cit., p.116)
508
Molto opportunamente Ernst Tugendhat rileva al fondo della considerazioni husserliane sul
significato un “gegenstandstheoretisch Ansatz” (cfr. E. Tugendhat Vorlesungen zur Einführung in
die sprachanalytische Philosophie Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1976, p.144), mostrato in
maniera eminente dalle due modalità in cui il significato è inteso nelle Ricerche logiche, vale a
dire come essenza dell’atto e modo di datità dell’oggetto - dove anche la prima manifesta un
Gegestandsbezug, se l’atto è per l’appunto das Bewuβtsein von einen Gegenstand (ivi, pp.149-50)
509
Yehoshua Bar-Hillel rileva in questo il punto debole delle analisi husserliane sulla grammatica,
nell’aver cioè stabilito come categorie del linguaggio qua talis quelle di una specifica lingua, o al
massimo regione linguistica quale l’indo-europea (Y. Bar-Hillel Husserl’s conception of a purely
grammar, in “Philosophy and phenomenological research”, 17, 1957, p.365). A dar man forte a
questa tesi sono le manchevolezze che egli ritrova nel discorso husserliano, in specie laddove
osserva che una proposizione quale “l’albero è una pianta” è sensata anche se una materia
nominale quale “pianta” è qui al posto di una materia aggettivale, in funzione di predicato. Punto a
dire il vero di cui lo stesso Husserl non sembra preoccuparsi, se anch’egli ritiene sensata
un’espressione in tal senso simile quale “verde è un colore” (E. Husserl Ricerche logiche Vol. II
cit., p.115); e non se ne preoccupa in forza del concetto di nome attributivo (ivi, p.255), di nomi
cioè che fungendo da attributi possono venir sussunti sotto la categoria aggettivale. Come è stato
poi giustamente osservato « quando Husserl ci parla di significati nominali, aggettivali o
relazionali non dobbiamo lasciarci impressionare più di tanto dal fatto che nelle nostre lingue vi
sono appunto nomi e aggettivi, ma dobbiamo esclusivamente richiamare l’attenzione alla
differente funzione logica che i significati in quanto tali possono esercitare in un contesto più
ampio – una differente funzione che si manifesta nella diversa modalità in cui la dipendenza o
l’indipendenza del significato si realizzano »; V. Costa, E. Franzini, P. Spinicci La fenomenologia
cit., p.89
186
pur vi si ascrive e che invece va considerato controsenso (das Widersinnig)510, da
suddividere in controsenso materiale e formale o analitico511.
Esempi del primo sono espressioni quali “quadrato rotondo”, dove è
l’incompatibilità
dei
concetti
materiali
a
manifestare
un’impossibilità,
un’incompatibilità che rimanda a leggi sintetiche a priori, ben diversamente da
quanto accadeva nei testi d’esordio, nei quali era l’impossibilità psicologica del
sussistere assieme delle rappresentazioni a motivare il nonsenso.
Diverso e maggiormente interessante è il caso del controsenso formale,
nel quale l’incompatibilità è fondata “nell’essenza pura delle categorie del
significato”, cosa che però non dà origine a nonsensi, in quanto le leggi che
entrano qui in gioco appartengono alla legalità dell’oggetto, mostrano cioè “che
cosa valga in rapporto all’oggettualità come tale in forza della pura ‘forma del
pensiero’”512, l’ambito di pertinenza è in altri termini quello dell’eigentliches
Denken, tanto che si fa questione dei significati non in merito al loro essere bensì
a proposito della loro validità obiettiva. Nei termini husserliani una proposizione
come “A e non-A” non è a rigore insensata, costituendo piuttosto come
controsenso un settore della sensatezza, come mostrato dal fatto che a essere
impossibile non è affatto la sua comprensione - che per l’appunto avviene - bensì
l’oggetto che intende. E lo stesso vale naturalmente per i controsensi materiali.
Ricondurre al nonsenso i controsensi equivarrebbe allora a indebolire, se non a
dissolvere la distinzione fra significato e oggetto, poiché in tal caso l’insensatezza
deriverebbe dall’impossibilità dell’oggetto, dalla sua inesistenza, che abbiamo
invece visto esser del tutto dispensabile per i significati.
Ciò che quindi caratterizza il nonsenso non è l’impossibilità dell’oggetto,
bensì l’impossibilità del riferimento all’oggetto, che decreta l’impossibilità della
comprensione, in quanto in tal caso a venir meno è proprio il significato nella sua
natura, come modalità di riferimento all’oggetto513. E in questo la concezione
510
E. Husserl Ricerche logiche Vol. II cit., p.116
Ivi, p.124
512
Ibid.
513
A ciò si potrebbe facilmente obiettare, con un certo sapore sofistico, che in fondo anche il
nonsenso viene compreso, per l’appunto come nonsenso, e in ciò sta la sua sensatezza. In questo
caso però il nonsenso stesso diverrebbe, per essere affisato, oggetto di considerazione, un oggetto
specifico con la legalità che lo contraddistingue - qual è appunto quella della grammatica
logicamente pura. Rivolgendo a esso l’attenzione ci si rende immediatamente conto che gli
attribuiti da cui è costituito non possono stare insieme in virtù di quella legalità, sì che un siffatto
oggetto, ovvero il significato, si rivela impossibile e dunque non-significato, nonsenso. Come
afferma Husserl, paragonando questo caso con quello del controsenso materiale « il giudizio di
incompatibilità è qui diretto alle rappresentazioni, là agli oggetti: mentre qui intervengono
511
187
husserliana del significato si rivela fortemente condizionata, o meglio improntata
dalla sua impostazione logica, poiché il criterio della sensatezza sta nell’apertura
verso l’oggetto, in ciò che consente la possibilità della conoscenza, in
un’intenzionalità conoscente resa in tal senso evidente dal processo di
formalizzazione, come magistralmente rilevato da Jacques Derrida ne La voce e il
fenomeno:
la differenza tra “il cerchio è quadrato e “verde è o” o “abracadabra”….è che la
forma di rapporto all’oggetto e di un’intuizione unitaria non appare che nel primo
esempio. Questa intenzione sarà qui sempre delusa, ma questa proposizione ha senso
soltanto perché un altro contenuto, insinuandosi in questa forma (S è P), potrebbe darci
un oggetto del conoscere e da vedere. Il “cerchio è quadrato”, espressione dotata di senso
(sinnvoll), non ha oggetto possibile, ma ha senso soltanto nella misura in cui la sua forma
grammaticale tollera la possibilità di un rapporto all’oggetto514
Forti di queste acquisizioni sull’idea del significato potremo ora
rivolgerci al tema che più da presso ha mosso le nostre analisi, vale a dire la
questione semiotica, poiché è a partire da una siffatta concezione che si motivano
e quindi in ultima istanza si chiariscono le considerazioni husserliane a proposito
dei segni, così come il peculiare atteggiamento che egli lascia tralucere nei loro
riguardi.
§ 3.3 – Per una fenomenologia del segno
§ 3.3.1 – La natura della distinzione tra indice ed espressione
Le considerazioni che inaugurano la trattazione semiotica husserliana
immediatamente manifestano la loro dipendenza e discendenza dalla questione del
significato, prima ancora che dalla maniera in cui essa è declinata e risolta nel
novero delle Ricerche logiche. Quanto si ha di mira è infatti la semiosi costitutiva
rappresentazioni di rappresentazioni, là intervengono semplici rappresentazioni nell’unità del
giudizio » (ivi, p.117). L’accostamento con il controsenso materiale potrebbe di primo acchito
sorprendere, considerando che non materiale è il dominio della grammatica puramente logica, cosa
che indurrebbe a un paragone con il controsenso formale. A ben vedere però una siffatta scelta non
rimonta a ragioni meramente espositive, né tantomeno puo’ dirsi opinabile. Le leggi che
impediscono il controsenso formale riguardano infatti gli oggetti in generale, mentre qui si è di
fronte a un’oggettualità specifica quale appunto il significato, che - come accade nel caso del
“quadrato rotondo” con la sua legalità geometrica - risponde a un preciso ambito di leggi, quelle
appunto della grammatica puramente logica, tant’è che nei nonsensi non è presente violazione
alcuna dei principi di identità e non contraddizione.
514
J. Derrida La voce e il fenomeno cit., p.139
188
del linguaggio - nelle cui forme come s’è visto si presentano le oggettualità della
Wissenschaftslehre come Logik der Bedeutungen - al punto che nella sua
esposizione Husserl si riferisce al segno in funzione dell’espressione linguistica e
della sua esatta messa in rilievo. L’incipit della trattazione denuncia infatti la
frequente ed errata assimilazione del segno all’espressione, senza con ciò fornire
una definizione di segno, ma limitandosi a evidenziarne la funzione che lo
costituisce, quella dello “stare per”, al fine di evidenziare come questa non
necessiti affatto del significato per potersi istituire, si che l’espressività vale a
identificare una precisa tipologia semiotica e non il segno tout court515.
L’attenzione perciò non è tanto rivolta ai segni – come poteva essere in Semiotik
– bensì a circoscrivere il dominio espressivo nell’alveo semiotico confacente, ad
assegnare cioè al significato la tipologia semiotica che per sua natura reclama,
servendosi fenomenologicamente delle distinzioni più che delle definizioni. Da
queste distinzioni, attuate in senso alla struttura rinviante costitutiva del segno,
emerge infatti la peculiarità dei segni espressivi, vale a dire la natura intenzionale
del loro riferimento, dove per l’appunto il rimando semiotico non è affidato al
mero segno, non è questo di suo pugno a rinviare all’oggetto per cui sta, bensì è il
significato a renderlo possibile, sì che è il concetto di intenzionalità l’autentico
discrimine fra le diverse tipologie semiotiche. In questo, oltre che nella già
menzionata predominanza della questione del significato con cui del resto fa
corpo, si spiega la ben più scarna classificazione semiotica delle Ricerche logiche:
nel momento in cui il riferimento intenzionale si rivela costitutivo per la
conoscenza la differenza non potrà che essere fra segni intenzionali e non, il che
equivale a dire fra segni significativi e non, per cui le differenti tipologie ravvisate
in Semiotik andrebbero retrospettivamente ascritte al dominio dei segni non
espressivi, agli indici. Ed è al fine di illustrare con maggiore pregnanza e
fondatezza quanto siamo venuti sin qui dicendo che ci dedicheremo ora alla
distinzione fra espressioni e indici.
515
E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., p.291. In questa mancata definizione del segno Derrida
vede una sorta di traccia del movimento che condurrà Husserl ad attribuire via via sempre
maggiore importanza al significante come possibilità costitutiva della verità minando la sua
adesione alla tradizione filosofica occidentale fondata sulla metafisica della presenza, movimento
culminante nelle riflessioni sulla Origine delle Geometria (J. Derrida La voce e il fenomeno cit.,
pp.55-56). Una lettura che per quanto interessante e ricchissima di spunti non ci sentiamo di
condividere, poiché a nostro avviso quella mancanza di definizione si spiega con l’interesse
predominante per la dimensione del significato, che in termini derridiani colloca Husserl nella
tradizione filosofica occidentale senza che si ravvisino elementi di frattura
189
A esser oggetto di una più attenta analisi sono in prima istanza, seguendo
la scansione della Prima Ricerca, gli indici, gli Anzeichen, la cui funzione
caratterizzante è quella di essere indicazione di una cosa qualsiasi per un soggetto
pensante. Benché siano qui tracciate delle differenziazioni, ad esempio tra note
(Merkmals), segni naturali (fossili), mnemonici (il nodo al fazzoletto) o in
generale arbitrariamente prodotti (bandiere), esse non valgono a distinguere
diversi domini nel’ambito più generale del segno, poiché « non sopprimono
l’unità essenziale in rapporto al concetto di segnale » compendiata nella già
menzionata funzione indicativa516, che si tratta ora di intendere nei suoi termini
fenomenologici, non da ultimo per far risaltare in maniera più netta la distanza che
separa i segni indicativi da quelli espressivi. Nel trattare questo importantissimo
punto è opportuno riportare, per poi commentarle, le righe che Husserl vi dedica:
« Ora, come aspetto comune troviamo qui il fatto che oggetti o stati di cose
qualsiasi indicano a chi ha conoscenza attuale del loro sussistere la sussistenza di certi
altri oggetti o stati di cose, nel senso che la convinzione dell’essere dei primi è da lui
vissuta come motivo (e precisamente come motivo non evidente) per la convinzione o la
supposizione dell’essere dei secondi »517
L’accento va innanzitutto posto sull’attualità della conoscenza relativa al
sussistere degli indici: ciò che si intende è infatti la necessità che questi si diano
come effettivamente esistenti, o per meglio dire, presenti hic et nunc alla
coscienza conoscitiva e dunque percettivamente, non semplicemente immaginati,
ché qualora si trattasse di quest’ultima eventualità non potrebbero svolgere la loro
funzione - a differenza di quanto avverrà per le espressioni. Altro snodo
fondamentale è la peculiarità del nesso fra indicante e indicato, definito qui di
natura motivazionale e non evidente. Parlando di motivazione, Husserl vuole
intendere l’unità descrittiva che si istituisce fra gli atti giudicativi costituenti,
rispettivamente, stati di cose indicanti e indicati, unità cui corrisponde come
correlato lo stato di cose unitario dell’indicazione, che puo’ esser espresso in tal
maniera: qualcosa puo’ o deve esistere poiché è dato qualcos’altro, o altrimenti,
l’esistenza di qualcosa è motivo per la possibile esistenza di qualcos’altro.
Orbene, benché nel correlato compaia un termine equivoco come il poiché, il
nesso motivazionale è per Husserl un rimando estrinseco, che nulla ha a che fare
516
517
E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., p. 292
Ivi, pp.292-93
190
con l’essenza delle entità connesse, come indicato dalla sua non evidenza.
L’evidenza qui mancante è quella relativa al coglimento di una connessione
necessaria perché fondata su una legalità ideale, sulla rispondenza cioè a un
legame obbiettivo - che quindi prescinde dai soggetti e dai loro vissuti - e ideale in quanto non empirico e valido atemporalmente -, come avviene ad esempio nei
rapporti tra premesse e conseguenze di una deduzione logica, dove infatti non si
parla di rimando, bensì di dimostrazione518. Nei casi ascrivibili all’indicazione
non v’è alcun rapporto di necessità tra indicante e indicato, di conseguenza si ha a
che fare con una connessione accidentale perché empirica, non fondata cioè
sull’essenza ideale delle entità in rapporto, lo stato di cose costituito dal suddetto
nesso non manifesta alcuna legalità ideale, bensì una semplice motivazione
empirica assimilabile al meccanismo psicologico dell’associazione519. Di
conseguenza, non manifestandosi alla coscienza alcuna idealità, non essendovi
passaggio deduttivo dall’uno stato di cose all’altro né una fondazione intrinseca
dell’uno sull’altro, il nesso motivazionale è un rimando estrinseco, non evidente.
Su questi caratteri dell’indice è però opportuno indugiare ancora un
momento, in particolare sulla necessità che l’indice sia esistente, sulla sua
necessaria presenza empirica. A richiederla è il meccanismo stesso che regola e
costituisce l’indicazione, vale a dire l’associazione psichica, per la cui attuazione è
necessario che un soggetto psichico si imbatta in qualcosa in grado non soltanto di
richiamare in lui qualcos’altro, ma anche di farsene per così dire testimone, di
rafforzare l’idea della sua sussistenza520. Affinché si attui il segno deve perciò
porsi in rilievo, colpire l’attenzione, deve cioè avere il carattere dell’importuno,
dell’imprevisto, perché è solo e soltanto esso con la sua presenza a poter dar conto
del designato, a rinviarvi come ciò che ne testimonia l’esistenza. In virtù di questo
è nell’ambito della passività, della ricettività che l’indice essenzialmente agisce,
ovverosia nella dimensione comunicativa, in quanto escogitato al fine di
manifestare a qualcuno qualcos’altro, laddove l’atto istitutivo è contumace. E ciò
si badi bene vale anche per i segni che l’individuo istituisce solo per sé stesso,
come il famoso nodo al fazzoletto, in quanto in tal caso si è in presenza di una
comunicazione differita con il proprio sé, dove fattualmente non identici sono
518
Ivi, pp.293-94
Ivi, pp.296-97. Meccanismo associativo rilevabile soprattutto nella coscienza passiva
dell’indice, ovvero nella sua comprensione
520
Ivi, p.297
519
191
l’emittente e il ricevente. Il rinvio che istituisce qui la relazione semiotica è infatti
a esclusivo carico del mero segno, è cioè di natura semiotica e non semantica, è la
sua presenza empirica, corporea, materiale a renderlo possibile, tanto che non v’è
un significato che intenda l’oggetto designato, perché è il segno a richiamarlo, a
motivare la sua esistenza per via di un legame associativo e quindi empirico.
Nelle analisi dedicate all’indice così come nelle conseguenze che è lecito
trarne è facilmente riconoscibile la caratterizzazione del segno fornita nei testi
della fase pre-fenomenologica, anzitutto riguardo ai requisiti necessari per lo
svolgimento della funzione segnica, dove l’accento era per l’appunto posto sulla
sua materialità, quasi fosse un contrassegno521, tanto che le differenze sensibili
venivano addirittura considerate logiche522. E a ben vedere è di qui che si lascia
comprendere la ragione e i motivi della diversa classificazione semiotica che è
dato trovare nella produzione husserliana. Laddove si trattava, come accadeva
nell’ottica di una logica come Kunstlhere, di dar conto degli strumenti cognitivi
l’accento veniva inevitabilmente posto sui segni, sulle diverse maniere in cui si
articolava il rapporto al designato, insistendo persino sulle caratteristiche fisiche
dell’entità segnica523 e dando luogo a una classificazione semiotica ben più
consistente e corposa qual è quella contenuta in Semiotica. Se però si osserva con
attenzione lo sfondo in cui essa compare e sul quale si stagliano le diverse coppie
di opposizioni ci si accorge che siffatte differenziazioni esprimono tutte un profilo
psicologista, si riducono a suoi aspetti, in quanto di natura associazionista è il
rinvio che ciascuna compie verso il designato, sì che nell’ottica delle Ricerche
logiche tutte codeste varianti sono assorbite nel dominio unitario dell’indice.
Per conseguenza, vista soprattutto la primarietà ora attribuita al
significato, scarso peso viene attribuito alle opposizioni, potremmo dire, fra “meri
segni”, poiché a esser fondamentale è una distinzione del tutto nuova e ben più
radicale, che lungi dal porsi all’interno dell’insieme da quest’ultimi costituito ne
fa invece uno soltanto dei suoi poli, vale a dire la distinzione tra segni significativi
521
E. Husserl Semiotica cit., p.62
Cfr. E. Husserl Filosofia dell’aritmetica cit., pp.287-89
523
Emblematica in proposito è la distinzione fra segni identici ed equivalenti, dove per l’appunto
la differenza sensibile vale a rendere non identici e quindi equivalenti due segni come “re” e “rex”.
Cfr. E. Husserl Semiotica cit., p.65
522
192
e non, che assimila gran parte delle opposizioni di Semiotik ridefinendole in senso
radicalmente nuovo, a partire cioè dal significato - e non dal (mero) segno524.
La natura empirica, vale a dire motivazionale e quindi psicologica
dell’unità descrittiva che lo costituisce fa sì inoltre che l’indice - o potremmo dire
il mero segno, in quanto privo di significato - non possa reclamare alcun ruolo in
seno alla conoscenza, perché laddove vige un meccanismo associativo non v’è
spazio per la relazione intenzionale e non v’è perciò alcun significato che intenda
l’oggetto designato, per cui la teoria della conoscenza avente la fenomenologia
come base525 è posta al riparo da qualsiasi contaminazione psicologista. Ed anche
in ciò è avvertibile una netta cesura con i testi della fase pre-fenomenologica,
ancor più importante perché relativa all’ambito husserlianamente fondamentale,
quello gnoseologico. Se in essi il credito attribuito ai (meri) segni si nutriva delle
convinzioni psicologiste che manifestava, tanto che la conoscenza veniva ridotta e
ricondotta a una semiosi consapevole, la gnoseologia è ora invece del tutto
sganciata da presupposti empirici, poiché i segni non significativi, fondati
sull’associazionismo, esulano completamente dal campo d’indagine di una teoria
della conoscenza come adaequatio, dove l’intellectus è intenzionale. Il versante
soggettivo della conoscenza è perciò messo al riparo dallo psicologismo proprio in
virtù dell’esautoramento del segno, in quanto sono rapporti intenzionali a
determinare la conoscenza medesima, dove è il significato - nei termini di
significato intenzionante e senso riempiente - e non il segno a rivelarsi costitutivo.
In questo sta a nostro avviso lo snodo fondamentale nella riflessione
husserliana sul segno. Il “riferirsi a” costitutivo dell’intenzionalità è sempre un
riferirsi in certo modo a qualcosa, per mezzo cioè del significato come modalità
del riferimento all’oggetto, per cui non puo’ esservi soltanto una mera
associazione tra segno e designato, perché verrebbe a mancare la maniera in cui
quell’oggetto è inevitabilmente inteso, il modo in cui ci s’intende riferire a esso,
mancherebbe in altri termini quell’Überschuss costituito dall’appercezione, grazie
al quale un oggetto è inteso così come è inteso e - nel caso dei vissuti intuitivi
Nei testi della prima fase la latenza della questione semantica e soprattutto l’assenza della
dimensione ideale fanno sì che i segni linguistici si configurino quindi come indici e non come
espressioni, tanto che la funzione segnica dominante, vale a dire la surrogazione, si costituisce
sulla base di un rinvio di natura indicale, considerando che in essa il segno “sta per” il significato
al quale rinvia, al concetto associato alla parola.
525
Ivi, p. 284
524
193
costitutivi del riempimento - in tal maniera presentato526. La primarietà del
linguaggio che abbiamo più volte sottolineato a proposito delle Ricerche si
manifesta qui nel carattere del significato, il cui aspetto è per l’appunto quello di
un “voler dire qualcosa su qualcosa”527, o ancor meglio su un oggetto, dove
ribadita se non sancita è l’impossibile significanza dell’indice, che a rigore “non
vuol dir nulla”, non si rivolge a un oggetto intendendolo in un certo modo, bensì
rimanda a esso estrinsecamente, senza dirne alcunché, sì che in nulla risulta
arricchita la nostra conoscenza dell’oggetto quando si presenta alla mente. Anche
perché come Husserl stesso dirà in un testo più tardo, nel regno degli indici non
v’è alcuna grammatica528, per cui non puo’ nemmeno esservi riempimento
mancando un significato (intenzionante).
Considerazioni di questo genere ci conducono alla trattazione delle
espressioni, dei segni linguistici, vale a dire dei segni significativi. Già di qui si
comprende quanto siamo venuti dicendo poc’anzi a proposito della natura del
significato nelle Ricerche, vale a dire della fisionomia linguistica in cui si
presenta, poiché il suo essere modalità di riferimento all’oggetto si esplicita come
un “voler dire qualcosa su qualcosa”, tanto che, lo si è visto, di natura
grammaticale sono le leggi del pensiero uneigentliches, meramente significativo.
Proprio perché il significato si “costituisce” in atti di intenzione significante, in
vissuti nei quali ci s’intende riferire a qualcosa e dei quali quindi il significare è il
carattere d’atto, prive di significato saranno quelle manifestazioni esteriori che di
solito vengono associate all’esprimere, ovverosia i gesti e il gioco mimico: con
esse infatti non s’intende dire nulla in quanto non animate da un’intenzione per
così dire espressiva, si tratta in altri termini di manifestazioni istintive e non
intenzionali, che servono piuttosto come indici dei nostri vissuti per chi ci ascolta.
« L’appercezione è per noi l’eccedenza che sussiste nel vissuto stesso, nel contenuto descrittivo,
di fronte all’informe esserci della sensazione, si tratta del carattere d’atto che , per così dire, anima
la sensazione e per sua essenza fa sì che noi percepiamo questa o quella oggettualità »; E. Husserl
Ricerche logiche Vol. II, p.174. Su questo punto dovremo comunque tornare più avanti
527
Su questo punto cfr. J. Derrida La voce e il fenomeno cit., p.48 e soprattutto R. Sokolowski
Semiotics in Husserl’s Logical Investigations in D. Zahavi, F. Stjernfelt One hundred years of
phenomenology. Husserl’s Logical Investigations revisited, Phaemenologica 164, Kluwer
Academic Publishers, Dordrecht 2002, p.177
528
Cfr. Husserliana XX/2, Logische Untersuchungen. Erganzungband. Zweiter Teil. Texte für die
Neufassung der VI Untersuchung, Zur Phänomenologie des Ausdrucks und der Erkenntnis
(1893/94-1921), herausgegeben von U. Melle, Springer 2005, p.53. In verità Husserl si riferisce
qui ai Signalen e non agli Anzeichen avendo in precedenza stabilito una differenza all’interno del
genere dell’indicazione. Una differenza però del tutto assente nelle Ricerche logiche, come
mostrato dall’uso sinonimico dei due termini nel § 2 della Prima Ricerca.
526
194
Per conseguenza sarà nel dominio esclusivo della Rede, del discorso e quindi del
linguaggio che andranno ricondotti i segni significativi e con ciò il significato529.
Con questo non si vuole naturalmente suggerire una dipendenza dei
significati dalle interazioni linguistiche, quasi che le parole in quanto segni
fossero la condizione dei significati – laddove la situazione è esattamente opposta.
Parlare dell’aspetto linguistico del significato vale piuttosto a rilevare come esso
si presenti a noi per via delle espressioni, nei termini di un voler-dire, in quanto è
nelle intenzioni significanti, negli atti costitutivi del linguaggio che si manifesta
individuandosi, sì che dall’ambito strettamente semantico rimarranno escluse –
come peraltro già poc’anzi emerso – tutte le manifestazioni esteriori non
linguistiche. Per conseguenza è nell’orizzonte fenomenologico che si motiva il
peso attribuito alle espressioni così come è di qui che va ricondotto e spiegato il
rapporto che le costituisce, quello tra mero segno, tra l’entità deputata a svolgere
una funzione semiotica e il significato. Ed è su quest’ultimo aspetto che si
soffermerà la nostra attenzione, dapprincipio soltanto per meglio rimarcare la
distinzione fra le due tipologie semiotiche.
La dipendenza più volte ricordata della semiotica husserliana dalle sue
convinzioni in merito ai significati e alla loro natura non soltanto è qui
particolarmente evidente, ma sola consente di comprendere le scelte cui Husserl
s’impegna, costituendone l’ineludibile sfondo. Già le analisi condotte in merito
all’indice possono invero instradarci verso il chiarimento di quanto siamo venuti
sin qui solo accennando. La fisionomia degli Ausdrücken si ricava infatti,
perlomeno in larga misura, per contrapposizione rispetto agli Anzeichen,
dall’esclusione cioè dei caratteri che li definiscono, per cui teleologicamente
orientato si scopre l’ordine espositivo della Prima Ricerca. L’intento husserliano è
quello di far risaltare la specificità dell’espressione, o ancor meglio la purezza del
dominio espressivo, che andrà perciò non soltanto nettamente distinto
dall’indicazione, ma anche per così dire decontaminato dagli aspetti indicali che
pur lo riguardano. A partire da questo si spiega la natura dell’espressione. La
relazione semiotica fra segno e designato non si istituisce infatti fra i suoi membri
costitutivi, poiché qui non v’è affatto una designazione del significato, rivelandosi
piuttosto quest’ultimo come ciò che invero consente il riferimento al designato. Di
altro genere dovrà allora essere il rapporto tra segno e significato, anzi a ben
529
E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., p.298
195
vedere è addirittura improprio parlarne in questi termini, poiché non è che vi sia
dapprima un segno a cui vien poi conferito un significato, ma l’esser segno è qui
dipendente, ha come sua condizione necessaria la presenza del significato, in
assenza del quale si è di fronte a un semplice oggetto della percezione esterna530.
Situazione ben diversa da quella costitutiva degli Anzeichen, poiché per quanto
colà fosse comunque un certo modo di considerare una determinata entità a
renderla un indice, era però sufficiente una semplice associazione, un mero
accostamento fra oggettualità diverse a istituire il rimando e a costituire il segno.
Qui invece non basta accostare un A a un B per rendere il primo segno del
secondo, non basta cioè coordinare due entità in maniera tale che l’attenzione
dalla prima scivoli sulla seconda, ma è necessario che l’A si faccia latore di
qualcosa d’altro per svolgere la sua funzione segnica, o ancor meglio per essere
segno.
Si potrebbe allora sostenere che un rimando di questo genere viga tra
un’entità e il significato, che insomma il mero segno rinvii al significato così
come l’indice a quanto indica; lo stesso Husserl del resto afferma che la parola
distoglie da sé l’interesse per orientarlo verso il significato531. A ben vedere però
una siffatta concezione si rivela insostenibile nell’ottica delle Ricerche logiche.
Anzitutto la parola si costituirebbe qui come un indice, l’espressione in altri
termini rivelerebbe come sua condizione una relazione indicale, quindi
psicologica, rimandando all’associazionismo che legava segno e significato in
Semiotik, in specie per quanto concerneva i segni indiretti. L’espressione vedrebbe
quindi indebolita la sua distinzione dall’indice, poiché questo ne sarebbe invero la
condizione di possibilità, del suo essere cioè segno significativo. Husserl si
affretta perciò a precisare che la parola non motiva l’esistenza del significato
quasi fosse un’indicazione, poiché essa stessa non ha affatto bisogno d’esistere
per svolgere la sua funzione segnica, tant’è che nei soliloqui ci si serve di parole
inesistenti perché semplicemente rappresentate532.
Rimandando di qualche pagina la fondamentale trattazione del monologo
interiore possiamo qui osservare un punto decisivo della semiotica husserliana,
vale a dire la neutralizzazione del (mero) segno nell’ambito logico. Le parole
infatti, in netta antitesi rispetto agli indici, sono segni che per svolgere il loro
530
Ivi, p.307
Ivi, p.302
532
Ivi, pp.302-303
531
196
ufficio devono ritrarsi fino a passare inosservati, perché è ciò che li rende tali, che
consente loro il riferimento al designato a dover risaltare, a esser oggetto
d’attenzione, il mero segno si rivela in altri termini del tutto improduttivo poiché
non è con esso che si istituisce il rimando, ma con il significato che ospita, che
esprime, per cui lungi dal fungere come entità rinviante è piuttosto il supporto
affinché il rinvio semiotico si attui. Mentre nel caso dell’associazione è necessario
che un’entità sia notata e fatta oggetto d’attenzione affinché l’altra possa esser
richiamata, qui non puo’ esservi spazio per alcun associazionismo poiché il
(mero) segno vale solo come latore del significato, come sostegno al suo
manifestarsi, non è la sua fisicità d’esistente a consentire l’attuazione del rimando,
del rinvio verso un oggetto che non è per l’appunto richiamato bensì inteso.
Declinando la questione, soprattutto per comodità espositive, in termini
saussuriani si registra qui una totale irrilevanza del significante, al prezzo del
venir meno del linguaggio medesimo nella sua natura, che ha nella
indeterminatezza e nello sfumare dei contorni espressivi i tratti precipui del suo
agire, manifestarsi ed essere, sì che l’idealità lotzeana dei significati impone
un’ulteriore e diversa idealità al linguaggio, di natura cioè kantiana, nei termini di
un telos infinitamente lontano - per non dire irraggiungibile - quale è la lingua
ideale533. In questo senso è da intendere la già menzionata improduttività del
linguaggio, dove alla corporeità dell’indice s’oppone la diafanità, la trasparenza
delle espressioni534, in nome di significati che vi si rivelano senza però
costituirvisi, un’improduttività oltre che conseguente anche necessaria, ché
laddove non vi fosse le espressioni correrebbero il rischio dell’equivocazione.
Se dunque è nella presentazione del significato, nel lasciar scorgere la
sua presenza che sta la funzione costitutiva delle espressioni non potrà allora
esservi alcun rinvio operato dal (mero) segno, un rinvio che rivelerebbe una natura
indicale, per cui laddove s’incorrerà nel rischio dell’equivocazione saranno
sempre gli indici a intaccare la purezza del dominio espressivo. E per converso, il
rinvio a un’assenza o a una presenza comunque differita porterà con sé un siffatto
rischio, motivando perciò ex negativo il rapporto di intima coabitazione tra (mero)
segno e significato costitutivo dell’espressione.
533
Ivi, pp.358-59. Torneremo su questo trattando delle espressioni essenzialmente occasionali
Punto richiamato più volte nella letteratura secondaria. Cfr. J. Derrida La voce e il fenomeno
cit., p.115; R. Bernet, I. Kern, E. Marbach Husserl cit., pp.219-20; F. Silvestri Segni significati
intuizioni cit., p.112; F. Costa Husserl e il linguaggio in “Giornale di metafisica” 14, 1992,
pp.214-15; R. Raggiunti The language problem in Husserl’s phenomenology cit., p.229
534
197
Inevitabilmente si solleva qui una questione centrale nel novero delle
Ricerche logiche, quale è il rapporto tra logica pura e fenomenologia. La
trasparenza del (mero) segno matura infatti in ambito logico e si svela come
un’esigenza da essa imposta, che deve però riscontrarsi a partire dall’analisi
fenomenologica e non sovrapporglisi, pena il venir meno della descrittività. La
maniera in cui Husserl descrive fenomenologicamente il rapporto significantesignificato rivela il tentativo di render complementari queste istanze, dove però è
l’impronta logicista e i termini che ne delineano la fisionomia a rivelarsi, evidente
soprattutto nella limitazione alla dimensione noetica della coscienza tipica di
questa fase.
Particolarmente rilevante a questo proposito non è soltanto la preminenza
del significato, ma anche la sua natura, il suo essere cioè specie, che s’individua
per l’appunto nell’atto espressivo e abbisogna del segno soltanto come supporto
della sua manifestazione. Quel che in tal modo si svela è la solidarietà fra
l’esclusività della dimensione noetica e il rapporto segno-significato, poiché non
puo’ affatto esservi rimando del primo al secondo laddove il significato non è un
correlato intenzionale – noema – bensì è specie, che si individua e individuandosi
reclama il segno come luogo, dimora, o ancor meglio come sostegno (Stütze) per
l’atto significante, per il pensiero. In maniera prima facie piuttosto singolare qui
dove sembra registrarsi una certa prossimità con le assunzioni di Semiotik, in
merito al ruolo di necessario supporto del pensiero esercitato dal segno, si misura
invero la più netta distanza. Colà infatti si trattava di sostegni necessari
all’attuazione e all’ampliamento delle capacità della psiche, in merito soprattutto
al pensiero logico-formale, per cui era ai segni come strumenti che l’attenzione in
prima istanza si rivolgeva, in funzione perlopiù surrogante. Nelle Ricerche invece
il sostegno che il segno offre non concerne tanto la psiche, quanto il significato, o
ancor meglio la sua manifestazione, poiché la conoscenza non riguarda più la
giustificazione di procedimenti simbolico-formali, dove il rimando ai significati
sostituiti rendeva labili i confini con la comprensione, in quanto il significato è
necessario per così dire a quo e non ad quem e non puo’ perciò non esser sempre
presente, se è nell’intuizione di ciò che da questo è soltanto inteso che essa
consiste. Nel caso delle espressioni il rinvio è perciò sempre opera del significato,
in quanto rimando a un’oggettualità intesa, la sua natura è cioè intenzionale e non
associativa, con la conseguente lateralizzazione del (mero) segno che interviene
198
soltanto come sostegno, necessario non – si badi bene – all’attuarsi del rimando
costitutivo della semiosi, bensì al suo manifestarsi.
Nella lateralizzazione del segno si puo’ leggere allora un chiaro “segno”
del passaggio dallo psicologismo alla fenomenologia. Laddove infatti l’attività
della coscienza è determinata in via esclusiva dall’associazionismo il segno non
puo’ che assumere un ruolo centrale, come entità associante che consente il suo
attuarsi, tanto che i segni giungono addirittura a prendere il posto dei significati a
cui sono per l’appunto associati. In tal maniera ancora più scoperto diviene il
legame tra psicologia e semiotica, tra la dimensione psicologica e quella segnica,
conservato del resto nelle stesse Ricerche logiche con la disamina sull’indice.
L’emergere dell’intenzionalità ridimensiona notevolmente il ruolo del segno
poiché il suo rimando non è verso il significato bensì di natura significazionale, va
verso le cose stesse piuttosto che surrogarle, per cui i segni non soltanto
decadranno al ruolo di semplici supporti di un significato già costituito, ovverosia
sostegni per un rimando che non si attua bensì si manifesta attraverso di essi, ma
dovranno persino passare inosservati, la loro presenza dovrà notarsi solo nel suo
render presente quanto vi si manifesta, per cui non potrà esservi alcun ruolo e
quindi alcun rinvio operato dal (mero) segno, che rende soltanto visibile il
significato senza costituirlo, tanto che laddove l’entità puramente segnica acquista
rilievo è sempre come indice che viene operare ed è sempre al rischio concreto e
diremmo ineludibile dell’equivocazione che un tale operare si attua. Non puo’
allora esservi alcuna associazione segno-significato, ché altrimenti l’entità segnica
dovrebbe richiamare a sé l’attenzione come un indice al fine di dar corso a un
siffatto rinvio, mentre il significante esercita compiutamente la funzione a cui è
chiamato solo al prezzo della propria neutralizzazione, tant’è che la fluttuazione
semantica è sempre da imputare al significare e non al significato, dovendo il
primo - e non il secondo - ricorrere ai segni. Ne consegue allora che il rinvio
strettamente semiotico, operato dal segno qua talis, dal mero segno, andrà sempre
declinato alla maniera dell’indice, per cui nonostante le distinzioni essenziali è
soprattutto come indice che Husserl pensa il segno535, poiché nelle espressioni un
tale rinvio non si diparte affatto dall’entità segnica, che funge piuttosto come
supporto di quanto effettivamente rimanda al designato - vale a dire il significato.
535
Cfr. J. Derrida La voce e il fenomeno cit., p.74
199
Se prima, in merito alla funzione di sostegno assolta dai segni, avevamo
misurato una netta distanza tra le acquisizioni di Semiotik e delle Ricerche
logiche, ora e per un aspetto ancor più decisivo ci troviamo costretti a rilevare una
certa prossimità, poiché empirica continua a essere la dimensione in cui il segno si
colloca, come mostrato peraltro dall’insistenza husserliana sulla necessità della
presenza intuitiva per l’indice. L’esigenza della neutralizzazione discende in
ultima istanza proprio da questo punto, se pura e quindi estranea all’empiria è la
logica delle Ricerche. Neutralizzazione che non potrà però risolversi in una
semplice estromissione della componente semiotica, poiché è anzitutto in segni, in
espressioni linguistiche che quella logica come s’è più volte richiamato si
presenta. Al fine di conciliare le diverse se non opposte istanze dell’idealità e
dell’empiria non rimane che escogitare un segno sui generis, che pur mantenendo
la necessaria funzione di sostegno non abbia però natura empirica, un segno in
altri termini ideale qual è appunto l’espressione. In questo si compendia il
discorso sin qui fatto sulla progressiva perdita di centralità della semiotica nella
riflessione husserliana, perlomeno per quanto concerne la logica: laddove infatti di
questa si tratti il segno subisce un’effettiva smaterializzazione, diviene invero un
irreale perdendo in ciò la sua connotazione empirica, rivelandosi per un segno sui
generis che solo al prezzo della perdita della sua natura puo’ esercitare una
funzione logica, mentre in precedenza era anche questa a garantirgli un ruolo di
primo piano. La funzione di mero supporto cui il segno espressivo assolve lo priva
della sua stessa corporeità non solo per così dire a parte subiecti – per cui passa
inosservata – ma anche a parte obiecti poiché l’entità che ospita lo trasfigura fino
a renderlo simile a sé, irreale, ideale e dunque al riparo dalle trame empiriche che
contaminerebbero la purezza della logica. Ed è solo e soltanto nell’esercizio di
una siffatta funzione, in qualità di sostegno che il segno puo’ esser guadagnato
alla logica - da intendere a rigore come disciplina filosofica - , ovvero inibendosi,
al prezzo del rinvio che pur dovrebbe costituirlo e che invece soltanto ospita come
già attuato, tant’è che laddove un rimando autonomo si attua sempre indicale è la
sua natura, si è invero sempre di fronte a un indice e dunque nell’empiria, nell’hic
et nunc. O per meglio dire nel luogo dell’equivocazione, non essendovi legame
alcuno fra il segno e ciò che designa, diversamente da quanto accade con il
significato, il cui rimando è necessario e addirittura costitutivo per la conoscenza,
se l’intuizione della res opera come riempimento di significato. Ne consegue
200
allora che l’idealità del segno linguistico è tale in virtù della peculiare funzione di
sostegno che esercita, discende cioè dall’idealità dei significati, gli appartiene in
virtù di quanto ospita e non per quel che è, tanto che la stessa entità puo’ venir
riguardata anche come una semplice oggettualità empirica536.
Su questo punto è però necessario spendere ancora qualche riflessione,
aprendo una breve parentesi in merito alla sua evoluzione nel Denkweg
husserliano. Nelle Ricerche logiche l’idealità del segno linguistico è ammessa pur
senza essere esplicitamente trattata, come mostrato nel § 11 della Prima Ricerca:
se ci poniamo il problema del significato di un’espressione qualsiasi (ad es.
resto quadratico) non intendiamo ovviamente come espressione questa formazione
fonetica pronunciata hic et nunc, questo suono fuggevole, che non ritorna mai identico.
Intendiamo l’espressione in specie537
In questa citazione, oltre a ribadirsi il carattere specifico con cui
l’idealità è intesa, l’accento è a ben vedere posto sul significato dell’espressione,
un significato tratto dall’ambito logico della mathesis universalis (resto
quadratico), per cui è soprattutto nei termini dell’idealità del significato
manifestato che va riguardato il carattere ideale del segno espressivo, linguistico,
con concessioni pressoché nulle alla sua natura sensibile. Negli sviluppi
successivi del suo pensiero Husserl affronterà più da presso il tema dell’idealità
del linguaggio, a partire già dalla Bedeutungslehre, dove un’intera appendice gli è
dedicata e dove soprattutto essa non è più intesa in senso specifico. Ancor più
rilevante è il chiarimento apportato nel merito, la cioè maggiore esplicitezza:
536
A fronte di quanto or ora affermato, si potrebbe sostenere che anche nel caso dell’indicazione
v’è un’idealità, una forma che si presenta identica nelle sue diverse manifestazioni, ovvero il
rapporto indicativo medesimo, concretato nello stato di cose per cui «certe cose possono o
debbono esistere poiché sono date certe altre cose » (E. Husserl Ricerche logiche vol. I cit., p.293).
Per quanto Husserl non si esprima parlando di idealità, qualcosa del genere puo’ esser a nostro
avviso sostenuto, se idealità è ciò che emerge comparativamente come il permanente identico nelle
più diverse manifestazioni. Ciononostante, indice ed espressione non vedono diminuita la loro
distanza: se infatti nel primo l’idealità è quella del rapporto come forma comune a ogni
indicazione, nella seconda sono i termini del rapporto stesso a essere ideali - laddove nell’altro
caso sono empirici - e per di più intrinsecamente legati, tant’è che il riferimento costitutivo
dell’esser segno puo’ attuarsi solo in virtù della coalescenza di significato e rappresentazione di
base, la quale per l’appunto rende l’oggetto rappresentato segno, e segno espressivo. Torneremo su
una così decisiva questione più avanti, quando ci dedicheremo più da presso a un’analisi
fenomenologica del segno, misurando la diversa incidenza per la fenomenologia dell’indice e
dell’espressione.
537
Ivi, p.309
201
Questa parola italiana “Re” non è una cosa del mondo reale, non è neanche una
cosa immaginata, non è niente che possa singolarizzarsi in tali cose o determinatezze
cosali. È un’unità ideale538
Nel momento in cui Husserl, come peraltro già si evidenzia dalla
citazione or ora riportata, considererà l’idealità del segno linguistico non
limitandola al solo ambito logico, una sempre maggiore attenzione sarà rivolta al
lato sensibile dell’espressione, non più soltanto sostegno diafano del significato,
ma sua componente essenziale benché “spiritualizzata”:
Dunque tanto il sensibile quanto ciò che è relativo-al-significato di una forma
spirituale, di un’opera culturale di qualsiasi genere, è ideale; noi scorgiamo infatti in
modo assolutamente diretto l’identità di ciò che intendiamo ogni qualvolta ripetiamo
l’atto dell’intendere. Ciò vale ugualmente per l’identità della pura parola, del puro
discorso – puramente considerati dal lato sensibile – nella ripetizione dell’atto discorsivo
e dei suoni o segni scritti e stampati che appaiono539
Considerazioni simili si trovano in Logica formale e trascendentale, dove
Husserl riconosce al linguaggio l’idealità delle produzioni culturali in quanto
“formazione spirituale obiettiva” e dove l’accento è posto con forza anche sul lato
esclusivamente sensibile, al cui proposito si deve parlare di una corporeità
spirituale540. Il segno non è più allora soltanto necessario al manifestarsi
dell’idealità, bensì alla sua stessa costituzione, perdendo in ciò la trasparenza
attribuitagli al tempo delle Ricerche, dove l’interesse esclusivo per le oggettualità
logiche induceva alla trascuratezza della sua componente sensibile, vista come un
intralcio per il rischio dell’equivocazione. Il significato, in altri termini, non si
rivela più soltanto nel segno, ma si costituisce per necessità in esso, per cui
l’idealità di questo andrà riguardata autonomamente, poiché nel caso della
produzioni culturali sono proprio certi segni e non altri a esser responsabili di una
certa idealità, per cui non potranno affatto passare inosservati né venir trascurati.
E un’acquisizione di questo genere si ripercuoterà sulla stessa trattazione delle
538
E. Husserl La teoria del significato cit., Appendice II, p.439
E. Husserl Die Struktur der Sprache und die darin gegründete Möglichkeit einer doppelten
Forschungsrichtung in Phänomenologische Psychologie Husserliana vol. IX, Nijhoff, Den Haag
1962, ed. it. La struttura del linguaggio e la possibilità ivi fondata di una doppia direzione
d’indagine in Semiotica cit., p.187
540
E. Husserl Logica formale e trascendentale cit., pp.37-38
539
202
oggettualità della mathesis universalis, culminando nelle riflessioni sull’Origine
della geometria, dove per l’appunto costitutivo sarà il ruolo del segno e quindi del
linguaggio. Com’è stato infatti giustamente osservato “costituire un oggetto ideale
è metterlo a disposizione permanente di un puro sguardo”541, sì che l’incarnazione
linguistica provvede alla costituzione e produzione di un siffatto oggetto, con la
conseguente paradossalità dell’idealità medesima:
la parola non è più semplicemente l’espressione di ciò che, senza di essa,
sarebbe già un oggetto: riafferrata nella sua purezza originaria, essa costituisce l’oggetto,
è una condizione giuridica concreta della verità. Il paradosso è che senza quel che appare
come una ricaduta nel linguaggio - e quindi nella storia - ricaduta che alienerebbe la
purezza ideale del senso, quest’ultimo resterebbe una formazione empirica, imprigionata
come un fatto in una soggettività psicologica, nella testa dell’inventore. Anziché
incatenarlo, l’incarnazione storica libera dunque il trascendentale542
Opposta è invece la situazione al tempo delle Ricerche, dove l’unica
idealità che interessa, quella logica, non abbisogna affatto dei segni per costituirsi,
tanto che la produttività riscontrata nell’Origine della geometria cozza contro
l’improduttività del segno di cui siamo più volte venuti parlando. L’insistenza nel
definire la componente segnica come mero sostegno è una riprova di tutto ciò,
così come quella sulla diafanità, sulla trasparenza, che risponde sì alla esigenza,
costante nella riflessione husserliana, dell’univocazione, ma che non vale a
salvaguardare il linguaggio nella sua attività costitutiva, bensì a neutralizzarla,
fonte di possibili increspature su una superficie che si vuole invero traslucida.
Perciò l’idealità del segno linguistico (sommessamente) introdotta nelle Ricerche
è quella del segno significante, dell’espressione in specie e non della mera marca
come entità sensibile, ridotta del resto a un mero sostegno la cui trasparenza vale
più alla sua neutralizzazione che come suo requisito543.
Lo stesso primato assegnato alla Rede si comprende a partire da un
siffatto sfondo, nell’ottica cioè della rarefazione del segno linguistico, perché è nel
J. Derrida Introduction à L’origine de la gèometrie, Presses Universitaires de France, Paris
1962 (ed. it Introduzione a Husserl “L’origine della geometria”, Jaca Book, Milano 1987, p.131)
542
Ivi, p.130
543
La maniera in cui è qui intesa l’idealità del segno linguistico consegue dall’accentuazione del
carattere ab-soluto delle entità logiche, che relega all’improduttività del mero sostegno il
linguaggio per il timore dell’equivocazione non ultimo psicologista (su questo punto cfr. anche
J. Derrida L’origine della geometria cit., p.130)
541
203
parlare, nell’esprimersi che il significato è in assoluto rilievo rispetto al segno, a
differenza di quanto accade con la scrittura. Nelle Ricerche infatti non puo’
esservi alcun rimando attuato dal mero segno se non quello dell’indice, un
concetto come quello di ri-attivazione non puo’ affatto trovare spazio, poiché
laddove la presenza fisica, empirica del segno è in primo piano si è sempre di
fronte a un rimando indicale, psicologico, un rinvio invero al vissuto psichico più
che al senso in esso inteso. Tematiche quali l’intersoggettività, la comunità
linguistica, non possono qui trovar spazio, poiché la costituzione delle verità ideali
per la soggettività ha l’aspetto dell’approdo a qualcosa di già costituito, l’identità
nella permanenza è ratio cognoscendi e non essendi di esse; in ciò la
marginalizzazione del linguaggio, ridotto a mera superficie traslucida di un senso
che solamente vi si riflette. Per conseguenza la focalizzazione esclusiva sulla Rede
non si traduce in un privilegio accordato alla comunicazione, poiché quest’ultima
non solo non interviene attivamente nella costituzione del senso, ma si rivela
foriera di possibili equivocazioni, se l’atto che conferisce il senso è presente nella
coscienza del destinatario come termine del rimando segnico, ovvero di
un’espressione che agisce come un indice. A venire in primo piano è perciò la
corporeità del segno espressivo, la sua presenza fisica e dove di questa si tratta è
sempre l’indice a fare la sua comparsa, come s’è appena visto.
Non resta allora che trovare una dimensione della Rede in cui emerga la
purezza espressiva al netto della contaminazione indicale, in cui sia il significato a
emergere in primo ed esclusivo piano, nel quale il segno si riduca all’irrealtà di un
sostegno diafano e sia invero trascurabile da passare del tutto inosservato, perché
mai su esso potrà soffermarsi l’attenzione. Un ambito quindi nel quale l’atto
significante sia sempre presente e mai differito nelle trame del rimando indicativo,
possibile soltanto laddove non si attui comunicazione alcuna senza con ciò stesso
cessare di esprimere, o per meglio dire di esprimersi, l’ambito cioè della vita
psichica isolata, del monologo interiore. Ed è di questo che dovremo ora
occuparci, al fine di far risaltare la specificità dei segni espressivi, che è poi
quanto dire - in risonanza tutt’altro che casuale con la dimensione logica - la loro
purezza.
204
§ 3.3.2 – Comunicazione ed espressione
La diafanità dell’espressione, imposta dalla logica pura dei significati,
trova un limite pressoché invalicabile nella comunicazione, che ne è pur la
dimensione originaria544. Il che vale già a segnare un limite netto del linguaggio in
merito al significato, poiché a sorgere con esso è piuttosto il luogo
dell’adulterazione che non quello della costituzione del significato medesimo, così
come a ribadire l’esigenza della sua neutralizzazione.
Sin dall’origine infatti il linguaggio è ancorato alla corporeità e
materialità dei segni che lo costituiscono, poiché è a questi che l’emittente e il
ricevente devono affidarsi per comunicare, gli aspetti fisici del discorso sono cioè
essenziali e perciò tutt’altro che rarefatti, smaterializzati. Ma la corporeità del
segno, lo si è visto, è attributo precipuo dell’indice, per cui le parole, benché
significative, fungeranno qui come segnali, vi sarà invero una singolare
coabitazione delle due tipologie semiotiche nella medesima entità, dove già si
intravede in quale verso andrà cercata la purificazione delle espressioni
linguistiche. Comunicare, per Husserl, consiste nello scambio reciproco di
informazioni, nel render noto qualcosa a qualcun altro, un qualcosa che non è a
ben vedere il significato, bensì il vissuto psichico significante, il pensiero del
parlante. Il significato si scopre perciò del tutto indifferente al dominio della
comunicazione, l’approdo a esso non verrebbe pregiudicato dalla sua scomparsa, a
differenza di quanto avverrebbe per i vissuti psichici altrui, suo vero e proprio
oggetto.
E qui la situazione è invero singolare, sotto diversi aspetti. Anzitutto,
benché si dica che tutte le espressioni agiscono in un contesto comunicativo come
Anzeichen545, si tratta a ben vedere di indici sui generis, poiché la natura
dell’espressione reagisce sulla funzione indicale condizionandola. È infatti un
segno significativo, e proprio in quanto significativo a svolgere una siffatta
funzione, il significato è qui una componente strutturale dell’indice e del suo
rimando, poiché è in quanto espressione che il segno rinvia e puo’ rinviare al
vissuto del parlante. La formula usata da Husserl per descrivere quanto qui accade
è Kundgabe, render noto, formula che non compariva nella trattazione più da
presso dedicata all’indice perché attiene specificamente al contesto comunicativo,
544
E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., p.299. Punto questo costante nella riflessione
husserliana, in netta continuità con Semiotica (cfr. E. Husserl Semiotica cit., p.87)
545
E. Husserl Ricerche logiche vol. I cit., p.300
205
con il suo peculiare intreccio fra espressione e indice che reagiscono l’uno
sull’altra. Se infatti la corporeità propria dell’indice è necessaria affinché la
comunicazione si istituisca è anche vero che il significato gioca un ruolo tutt’altro
che secondario, facendo sì che il segno sia per l’appunto segnale del vissuto
psichico. V’è pero un ulteriore aspetto, ancor più rilevante, che illumina ancor più
sul senso della Kundgabe. Il rimando indicale che qui si attua non esaurisce la sua
peculiarità in quanto si è sin qui esposto, poiché l’oggetto potremmo dire indicato,
meglio ancora reso noto è costitutivamente precluso all’intuizione, non potrà mai
presentarvisi, non v’è insomma un semplice differimento bensì un’assenza
incolmabile. Come afferma Husserl
Si tratta della grande differenza tra l’apprensione effettiva di un essere in
un’intuizione adeguata e l’apprensione presuntiva di un essere in una rappresentazione
intuitiva ma inadeguata546
L’inadeguatezza è qui naturalmente quella del segno, o per meglio dire
quella della sua funzione, è qui che esso assurge in primo piano poiché
l’ascoltatore non puo’ che affidarvisi, non potendo fare altrimenti. Emerge allora
una differenza tra improprio (uneigentlich) e inadeguato (inadäquat) nell’ambito
linguistico di loro pertinenza, poiché diverso è il rapporto all’assenza che li
costituisce: nel primo caso, dov’è il significato ad agire, non v’è alcun rischio per
la comprensione, che si muove per l’appunto nel dominio esclusivamente
semantico e non intuitivo, dove l’oggetto è inteso e non semplicemente
richiamato; nel secondo, dove il significato semmai reagisce sul segno che attua il
rinvio, la comprensione è invero minacciata poiché non v’è affatto un intendere,
ma un render noto di stampo comunque associazionista, v’è cioè il rimando a
un’assenza che non è soltanto quella dell’oggetto indicato, ma dell’atto che dona il
senso, per cui il rischio dell’equivocazione oltre che concreto è di per sé
ineludibile, vista la costitutiva impossibilità di intuire quanto puo’ esser soltanto
reso noto. Ovunque il segno compaia nella sua fisicità, nella corporeità del suo
essere, dovunque cioè la sua presenza lungi dal rarefarsi sia piuttosto
indispensabile, a esser minacciata è la fenomenologia medesima, nel suo sforzo
chiarificatore e nel suo indirizzamento alle cose stesse, proprio perché è sempre
546
Ivi, p.301
206
una non-presenza che segna la sua comparsa. Neutralizzare il segno equivarrà
allora a sottrarre il linguaggio alla dimensione comunicativa, all’empiricità che la
costituisce, purificando cioè le espressioni da qualsiasi contaminazione empirica,
vale a dire con gli indici, snaturandolo per certi versi, se originariamente
comunicativa è la sua natura. Si tratterà in altri termini di sciogliere il linguaggio
da
qualsiasi
vincolo
con
la
soggettività
empirica,
protagonista
della
comunicazione, attribuendo la responsabilità dell’equivocazione in via esclusiva
al segno inteso come indice, come accade non soltanto laddove si tratti della
Kundgabe ma anche a riguardo delle espressioni wesentlich okkasionelle, definite
del resto anche subjektiven.
Questione a cui Husserl dedica uno spazio ben maggiore di quanto avesse
fatto con la comunicazione - nel cui novero si puo’ dire rientri - in considerazione
dell’entità del rischio che essa comporta, poiché qui la fluttuazione appare legata
al significato e non al segno. A venir dapprincipio ripreso è il discorso sulla
Kundgabe ma in un’ottica diversa che ne costituisce l’approfondimento, con
riferimento cioè ai casi in cui il contenuto informativo coincide con quello inteso,
significato, denominato, dove quindi il vissuto psichico non è soltanto reso noto
bensì espresso547. Un punto come accennavamo piuttosto spinoso perché è il
significato dell’espressione a rivelarsi dipendente dalla soggettività empirica, la
variazione dei contesti comunicativi comporta invero una parallela variabilità del
significato, per cui è il significato e non il segno a rivelarsi luogo dell’equivoco:
Le medesime parole io ti auguro felicità, con le quali ora io do espressione ad
un augurio, possono servire ad infinite altre persone per dare espressione ad auguri che
hanno lo “stesso” contenuto. Eppure sono di volta in volta diversi non soltanto gli auguri,
ma anche il significato degli enunciati ottativi. Poniamo che la persona A si trovi in
presenza della persona B e che la persona M si trovi di fronte alla persona N. Se A augura
a B la “stessa” cosa che M a N, il senso della proposizione ottativa è manifestamente
diverso, dal momento che esso implica la rappresentazione delle persone che si trovano di
fronte548
A venir minacciata è allora nientemeno che l’idealità dei significati, la
loro natura ideale e inequivoca, poiché questi si rivelano costitutivamente
547
548
Ivi, p.347
Ivi, p.348
207
contaminati dall’empiria, sì che essa non puo’ riguardare più soltanto il segno
significante. La componente empirica, soggettiva non è semplicemente resa nota,
riconducibile alla Kundgabe, a un segno che agisce come indice, poiché piuttosto
è espressa, concerne invero l’Ausdrücken e dunque il significato. Per conseguenza
l’indeterminatezza di cui qui si tratta si espliciterà sì, come sempre, in un rimando
indicale, operato però dal significato e non dal segno.
È in questi termini che si delinea la situazione in merito alle espressioni
soggettive essenzialmente occasionali, quelle forme del discorso “nella quali colui
che parla porta ad espressione normale qualunque cosa che lo riguardi o sia
concepito in relazione a sé stesso”549, come ad esempio “io”, “qui”, “là” e via
discorrendo. In casi come questi la parola opera infatti un’indicazione che ha però
dalla sua la permanenza dell’idealità, in quanto ciascuna espressione occasionale
orienta in maniera rigida il verso in cui indica, esplicita cioè una funzione
generale fissa550, v’è invero un carattere generale del rinvio determinato nella sua
forma benché indeterminato nel contenuto cui addita che rappresenta l’elemento
comune, il permanente identico a fronte della variabilità dei contenuti, che
distingue una siffatta plurivocità dall’equivocità accidentale551. Non si tratta
insomma di un rinvio qual è quello dell’indice vero e proprio, poiché è ai sensi
dell’idealità che l’indicazione si attua, il suo ambito è ovvero inteso, in quanto
circoscritto da un’entità ideale quale il significato e non da una empirica quale il
(mero) segno.
Sulla scorta di questo Husserl puo’ allora ritrovare una duplicità
semantica costituiva delle espressioni essenzialmente occasionali, distinguendo tra
significato indicante e indicato, dove il primo è il carattere comune e generale del
rinvio determinato dall’occorrere del contenuto, con cui il secondo si manifesta552.
In questi casi infatti il significato espresso dalla parola si scopre dipendente
dall’esperienza empirica nella sua stessa natura, poiché il suo rimando
all’oggettualità intesa è invero indeterminato perché variabile, diverso a seconda
della soggettività che lo esprime, è in altri termini un rinvio alla cui
determinazione è necessario il ricorso all’esperienza del soggetto. O per meglio
dire, a esser dato non è, come accade con le espressioni obiettive, il rinvio, bensì
549
Ivi, p.353
Ivi, p.352
551
E. Husserl Ricerche logiche Vol. II cit., p.318
552
E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., p.353
550
208
la sua rappresentazione indeterminata, e più che intendere con esse è indicato ciò
che s’intende553, per cui l’intuizione si svela qui necessaria non tanto, o meglio
soltanto, per la conoscenza, ma soprattutto per la comprensione. Non a caso
Husserl utilizza il termine eigentlich a proposito del significato indicato554, a
sottolinearne la dipendenza dall’intuizione e a registrare correlativamente un
diverso tipo di improprietà, che non è più quella del mero inteso che caratterizza e
definisce l’uneigentliches Denken, perché a mancare è proprio la determinazione
di quest’ultimo, tanto che qui non si puo’ affatto concepire pienamente il
significato senza l’intuizione correlativa555. Se in un caso l’Uneigentlickeit vale a
definire la peculiarità del significato, la sua indipendenza dall’intuizione ai fini
della sua piena costituzione e comprensione, nell’altro è proprio questo a venir
meno, perché il termine di riferimento, l’oggettualità intesa non si limita a
riempire il significato, ma lo determina come ciò a cui esso soltanto addita,
configurandosi e costituendosi come significato indicato. Con questo però non si
vuole affatto sostenere che una parte del significato risieda nell’intuizione, quanto
piuttosto che con questa esso giunge a determinarsi, vale a dire che è l’intuizione a
consentire al significato di dispiegare pienamente la sua natura di modalità di
riferimento all’oggetto, determinandola concretamente556; e a venir presentato è
del resto un contenuto che vale però a determinare il significato, necessario alla
comprensione prima ancora che alla conoscenza, sì che nella coscienza
dell’ascoltatore v’è una successione tra due tipologie del rinvio, indeterminata
(significato indicante) e determinata (significato indicato)557.
Come si vede, è nella comunicazione che una siffatta distinzione agisce,
si fa esplicita, perché è in essa che i segni espressivi sono immessi in trame
indicali, laddove cioè si tratti di comunicare qualcosa a un ascoltatore, per il quale
553
E. Husserl Ricerche logiche Vol. II cit., p.322
E. Husserl Logische Untersuchungen cit., p.89
555
Nel § 63 della Sesta Ricerca, dedicato per l’appunto alle leggi dell’uneigeintliches Denken, si
dice invece che « si puo’ peraltro concepire come effettuato qualsiasi significato senza l’intuizione
correlativa » (E. Husserl Ricerche logiche Vol. II cit., p.493), avendo però di mira soprattutto la
dimensione categoriale, punto questo che fa ancor di più risaltare la peculiarità delle espressioni
essenzialmente occasionali.
556
Ivi, pp.318-19
557
Cfr. in proposito quanto Husserl afferma sulla distinzione tra significato indicante e indicato
riguardo a un’espressione essenzialmente occasionale quale il dimostrativo “questo”, dove si tratta
per l’appunto dei « due pensieri che, subentrando l’uno all’altro, caratterizzano la comprensione:
in un primo tempo la rappresentazione indeterminata di qualcosa che s’intende con il questo, poi la
modificazione che sorge dall’aggiungersi della rappresentazione, l’atto di un rinvio
determinatamente diretto. In quest’ultimo atto risiede il significato indicato, nel primo il
significato indicante »; E. Husserl Ricerche logiche Vol. II cit., p.322
554
209
l’espressione essenzialmente occasionale funge in senso indicante fin quando non
giunge la rappresentazione di ciò che è indicato. L’improprietà che mina la
comprensione del senso si manifesta con l’insorgere nella dimensione semantica
dell’indice, e quindi con la comunicazione, dove trova la sua dimensione
originaria, si tratti degli Anzeichen, della Kundgabe o delle espressioni wesentlich
okkasionelle. È infatti la comunicazione l’ambito di appartenenza di tutti questi
casi di improprietà, il suo svolgersi è segnato dal rimando a un’assenza insolubile o meno - che rende necessari i segni nella loro fisicità, segni peraltro
che proprio in virtù del loro occorrere in un contesto comunicativo vedono la loro
natura espressiva costitutivamente intrecciata con una funzione indicale,
subiscono invero una sorta di ibridazione con gli indici, se com’è stato
giustamente osservato “si ha indicazione ogni volta che l’atto conferente il senso,
l’intenzione animatrice, la spiritualità vivente del voler-dire, non è pienamente
presente”558. Laddove il segno intervenga nella sua corporeità si ha sempre, come
peraltro già appurato poc’anzi, una funzione indicale e laddove questa agisca si è
inevitabilmente alle prese con la comunicazione, per cui è all’instabilità del
rimando indicale, alla sua contingenza che va imputato il rischio della
equivocazione.
Una conferma in tal senso è offerta dalla maniera in cui Husserl risolve il
problema posto dalle espressioni occasionali, la minaccia da esse apportata
all’idealità dei significati, alla loro natura stabile, rigida, fissa. Non in questi è
infatti da ricercarsi la ragione della fluttuazione, bensì nel significare, negli atti
che conferiscono senso alle espressioni559, fondati su una componente segnica, per
cui il significato vede minacciata la sua univocità nel venir espresso, nel momento
cioè in cui si incarna in un segno, vero e unico responsabile dell’indeterminatezza.
Un punto del resto già evidente se si tiene a mente che espressione essenzialmente
occasionale è per definizione “ogni espressione alla quale inerisca un gruppo
concettualmente unitario di significati possibili”, determinabile a seconda delle
situazioni in cui agisce560. Come si vede non sono qui i significati a essere
indeterminati,
bensì
l’attribuzione
di
un
significato
all’espressione,
il
conferimento di un senso tra i molti possibili, non sono perciò questi a passare
l’uno nell’altro, bensì le espressioni a poterne assumere di diversi, non v’è alcuna
558
J. Derrida La voce e il fenomeno cit., p.70
E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., p.359
560
Ivi, p.351
559
210
fluidità semantica ma solo un’instabilità semiotica. Siffatte espressioni intendono
perciò un significato stabile, idealmente unitario quanto il contenuto di quelle
obiettive561, perché pur sempre determinati sono i significati che ciascuna di esse
puo’ assumere, laddove l’indeterminatezza riguarda la soggettività con i suoi atti,
il significare con il suo inevitabile ricorso ai segni562, per cui è a questi che in
ultima istanza va ricondotto il rischio dell’equivocazione, tanto che la sua
riduzione o al limite eliminazione avviene sul piano strettamente semiotico, con
l’escogitazione del “necessario numero di parole-segno…di espressioni
esattamente significative”563.
La stessa distinzione tra significato indicante e indicato agisce
effettivamente soltanto nel contesto comunicativo, ovvero laddove è necessaria la
mediazione di un segno esistente, per cui è ancora una volta a partire da questo
che si instaura la relazione indicale. Per quanto infatti, a differenza della
Kundgabe, sia qui un significato ad agire da indice, è pur vero che una siffatta
indicazione si attua nella sua improprietà dove il segno si pone in rilievo, ché è
sempre per la sua datità percettiva che il rinvio si attua, non potendo l’ascoltatore
che rifarvisi. Anche qui perciò l’improprietà e la minaccia dell’equivocità
insorgono in forza del segno, perché è dove deve ricorrere a un segno
necessariamente esistente che il significato agisce in senso indicante, e ovunque
sia costretto a comparire nella sua fisicità è sempre in una trama indicale che il
segno si trova coinvolto. Non soltanto allora l’indice deve venir percepito come
esistente ma per converso dove l’esistenza empirica del segno è inevitabile
l’indice non puo’ affatto venir ridotto, escluso dall’ambito espressivo, e con esso
l’improprietà e il rischio dell’equivocazione. Quest’ultimo insorge quindi laddove
561
Ivi, p.357
Ivi, p.343.Ci appare perciò del tutto insostenibile la soluzione di Lanfredini in merito al
problema posto dalle espressioni occasionali, secondo la quale qualsiasi intenzione significante e
quindi qualsiasi significato è indeterminato, per cui è sempre l’intuizione ad apportare la
determinatezza come ultima differenza specifica del genere “significato” (R. Lanfredini Husserl.
La teoria dell’intenzionalità, Laterza, Bari 1994, pp.91-94). L’intuizione, nei casi delle espressioni
obiettive, non apporta infatti alcun contributo alla comprensione del significato, che è chiaramente
compreso a prescindere dal darsi o meno dell’oggetto a cui si riferisce, diversamente da quanto
accade per le espressioni essenzialmente occasionali.
563
Ivi, p.358. Husserl si affretta subito a precisare che si tratta di un ideale irraggiungibile, poiché
se “la ragione oggettiva non ha limiti”, se “ciò che è ha i suoi rapporti e le sue qualità in sé
fissamente determinate”, si riscontra al tempo medesimo la “deficienza delle determinazioni
spaziali e temporali”, ovverosia la « nostra incapacità di definirle in altro modo che mediante la
relazione alle esistenze individuali già date prima, mentre queste stesse esistenze sono inaccessibili
a una determinazione esatta, non resa confusa da espressioni che hanno un significato
essenzialmente soggettivo » (Ibid.). Si ribadisce perciò come l’indeterminatezza non stia affatto
dal lato del significato, bensì da quello del significare, dal lato cioè degli atti significanti e quindi
nei segni cui necessariamente ricorrono.
562
211
il segno è in primo piano, perché è questo e non il luogo in cui il significato
effettivamente dimora a presentarsi, a esser dato, e opera come una mediazione
che per la sua fisicità è tutt’altro che trasparente, agendo piuttosto in qualità di
rappresentante di una non-presenza a cui rinvia senza intenderla, com’è proprio
del (mero) segno. Una conferma immediata e definitiva la si trova se ci si pone dal
lato del parlante. Questi non attua a ben vedere alcun rinvio indicale in quanto da
subito presente è per lui la rappresentazione determinativa, il significato indicato,
che invero propriamente indicato non è perché non puo’ esservi alcun
differimento, ma rilevabile al limite come componente, come aspetto di un
significato inscindibilmente unitario564. L’esistenza del segno è perciò del tutto
inessenziale in quanto l’atto significante è immediatamente presente nella sua
coscienza e si serve sì di segni, ma semplicemente rappresentati, poiché non v’è
nulla che esuli dal dominio della coscienza medesima, il senso è nei suoi atti e non
in altri, per cui non v’è alcuna non-presenza che necessiti d’essere indicata da un
segno esistente.
In tal maniera nella presenza a sé della coscienza è guadagnata la
dimensione nella quale emerge la purezza espressiva, al netto di qualsiasi
contaminazione indicale che minacci equivocità in merito al significato565, una
dimensione cioè nella quale è il senso ad acquisire rilievo e non il segno - che
invero si ritrae sino all’impercettibilità. L’espressione perciò guadagna la sua
purezza in netta opposizione a quanto accade per l’indice, vale a dire al prezzo
della sua esistenza, nella sua più spinta rarefazione, avvicinandosi così a quelle
inesistenze empiriche che si propone di manifestare, assimilandosi cioè alle
idealità, ai significati, in virtù dell’inessenzialità del corpo empirico per la sua
funzione costitutiva. Come ogni altra idealità quella del segno si manifesta
opponendosi alla contingenza dell’empiria, con la differenza che in questo caso si
ha a che fare con un’entità originariamente empirica, per cui è nella sua
neutralizzazione, nella sua riduzione all’irrealtà che manifesta una natura ideale,
ovvero laddove la sua presenza venga trascurata, perché è nel lasciar essere
un’oggettualità originariamente ideale che consiste la sua idealità. Se il significato
manifesta la sua natura ideale quando viene fatto oggetto d’attenzione, con il
564
E. Husserl Ricerche logiche Vol. II cit., p.322
Come è stato giustamente osservato « ogni volta che la presenza immediata e piena del
significato sarà sottratta, il significante sarà di natura indicativa….ogni discorso, o piuttosto tutto
ciò che nel discorso non restituisce la presenza immediata del contenuto significato, è inespressivo »; J. Derrida La voce e il fenomeno cit., p.72
565
212
segno si verifica un processo per certi versi opposto, poiché la sua idealità emerge
nell’irrealtà che non gli pertiene originariamente ma alla quale deve venir ridotto,
vale a dire dove più che essere lascia essere, dove cioè distoglie l’attenzione da sé
per orientarla su quanto in esso semplicemente si manifesta. L’idealità del segno è
perciò guadagnata al prezzo della sua natura, che è quanto dire al prezzo della sua
neutralizzazione, per cui è laddove cessa di essere ciò che è che ha valore per la
fenomenologia e per la logica, il suo contributo è tanto più efficace quanto più
tende alla propria scomparsa. La vita psichica isolata, o ancor meglio - vista
l’importanza più volte ricordata del linguaggio per l’apprensione delle entità
logiche - il monologo interiore acquisisce un ruolo fondamentale in virtù
dell’interesse precipuamente logico che muove la fenomenologia agli esordi, ai
sensi di una Logik der Bedeutungen con i suoi significati precostituiti e perciò
intangibili, per i quali la comunicazione e dunque i segni lungi dall’esser luogo
costitutivo sono piuttosto fonte dell’equivoco. La riduzione dell’indice vale allora
come neutralizzazione del segno, poiché è soltanto dove il significato si specchia
in una superficie diafana566, dove non v’è invero differimento che si è certi
dell’approdo alle cose stesse, dove cioè il segno vale a supportare e non
semplicemente ad annunciare la presenza dell’atto significante.
Per la verità anche riguardo all’espressione pura, priva della funzione
informativa, Husserl parla di un rinvio dalla parola al significato, che però appare
ben da subito diverso da quello dell’indice567, come peraltro già riscontrato pur
senza il dovuto approfondimento. Il mero segno espressivo infatti non ha bisogno
d’esser percepito come esistente, tant’è che ci si accontenta di parole
semplicemente rappresentate, non si tratta perciò di un rapporto empirico fra due
esistenti nel quale uno motivi per via associativa la presenza dell’altro, è al di qua
di ogni empiria, nel campo fenomenologico che qui piuttosto ci si muove. Un
rinvio di questo genere, in maniera ben più che significativa, non è più
denominato Anzeigen bensì Hinzeigen568, con un termine cioè che vale a
sottolineare lo strettissimo rapporto che lega qui i due poli, un rapporto invero
Nella Quarta Ricerca Husserl afferma infatti che “la lingua, nel suo materiale verbale, deve
rispecchiare fedelmente i significati possibili a priori” (E. Husserl Ricerche logiche Vol. II cit.,
p.96). In proposito è stato giustamente osservato che i segni assumono una funzione denotativa e
non connotativa in rapporto ai significati, sì che la produttività del linguaggio risulta del tutto
assente (F. Costa Husserl e il linguaggio cit., p.221).
567
E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., p.302
568
E. Husserl Logische Untersuchungen cit., p.42. Su questo punto cfr. anche J.Derrida La voce e
il fenomeno cit., p.74
566
213
all’insegna della Innigkeit poiché si tratta delle componenti di un vissuto
internamente unitario569, simile alla già menzionata relazione tra significato
indicante e indicato nella coscienza del parlante. Il termine Hinzeigen è del resto
utilizzato da Husserl a proposito del rimando del significato all’oggetto 570, un
rimando cioè del tutto diverso da quello associativo poiché in questo caso v’è
un’unità vissuta tra segno e designato571, si è cioè di fronte non a un mero
accostamento bensì a un’unità d’atto572, a un dato di fatto fenomenologico
primitivo573, se solo in quanto in certo modo significati, intesi gli oggetti si
presentano alla nostra coscienza. Quello dell’Hinzeigen è perciò un rimando
interno, meglio ancora non estrinseco, perché compare laddove v’è un’unità
fenomenologica tra i termini del rinvio e non un associazione psichica, per cui la
sua opposizione all’Anzeigen vale anche a distinguere i domini della psicologia e
della fenomenologia574.
A esser necessaria, al fine di un retto intendimento del segno soprattutto
linguistico nella filosofia husserliana, è allora un’analisi fenomenologica di esso
ben più approfondita di quella sin qui emersa, perché è in quest’ambito che
l’espressione non soltanto si costituisce, ma rivela la sua decisiva portata per la
569
E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., p.302. A dire il vero soltanto qui Husserl parla di un
rinvio della parola, del mero segno al significato, ché nel prosieguo sarà sempre nei termini di una
innige Einheit che quel rapporto verrà declinato. Rinvio che come abbiamo sottolineato è
perlomeno sui generis poiché non v’è mai un differimento, il termine a cui si rimanda è invero
sempre presente, sì che i due poli si pongono per l’appunto come componenti di un’entità unitaria
quale il vissuto significante. Anche in questo è rilevabile come la preferenza per la Rede nella
Ricerche logiche vada letta ai sensi del monologo più che del dialogo, dell’esprimersi piuttosto che
dell’esprimere, del comunicare. In appunti più tardi dedicati alla riscrittura della Sesta ricerca
confluiti in Husserliana XX/2 si parlerà in maniera molto più dettagliata e pregnante del rinvio
della parola al segno, distinguendo la signifikative Intention – il rimando attuato dal significato –
dalla signitive Intention, ovvero dal rimando che il segno effettivamente attua al significato, un
rimando non più riducibile alla relazione fra componenti di un’entità unitaria; in testi dove per
l’appunto maggiore importanza, se non proprio la centralità, è assegnata alla dimensione
comunicativa
570
E. Husserl Logische Untersuchungen cit., p.46
571
E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., p.307
572
E. Husserl Ricerche logiche Vol. II cit., p.327
573
Ivi, p.332
574
Nel suo prezioso e più volte menzionato testo Dieter Münch assimila gli indici alle intenzioni,
in virtù dell’appercezione necessaria alla loro comprensione e statuizione, senza considerare che in
essi è presente un riempimento. Un’intenzionalità comunque sui generis poiché priva del nucleo
semantico e definita perciò indessicale (D. Münch Intention und Zeichen cit., pp.216-17). Che
all’Anzeigen possa venir attribuita una qualche intenzionalità è cosa che non puo’ essere affatto
accettata. Il rimando intenzionale ha infatti sempre una irriducibile natura semantica, il
“riferimento a” che lo definisce è sempre costituito dal significato in quanto modalità del
riferimento all’oggetto. Se si parla di riempimento a proposito del rimando indicativo lo si fa nei
casi delle espressioni occasionali – che Münch non considera però in questo contesto, limitandosi
agli indici propriamente detti – dove v’è innanzitutto un significato e non un mero segno.
214
conoscenza, dove già s’intuisce lo spostamento che la considerazione semiotica
subisce dal piano logico a quello fenomenologico.
§ 3.3.3 – Fenomenologia del segno linguistico
Il lettore attento rammenterà che in precedenza il richiamo all’orizzonte
fenomenologico era servito soltanto a far risaltare le differenze fra le due tipologie
semiotiche fondamentali, a distinguere con maggiore pregnanza l’espressione
dall’indice; ora che le nostre analisi hanno isolato la purezza espressiva del segno
linguistico si tratta di indagare più da presso gli atti in cui esso compare e si
costituisce, così come avviene per qualsiasi altra entità a cui l’attenzione si
rivolga.
Sfrondata delle componenti indicali che intervengono nella dimensione
comunicativa l’espressione si rivela essenzialmente costituita da un fenomeno
fisico e dal significato che l’anima575, elementi che vanno fenomenologicamente
ricondotti agli atti in cui si costituiscono, vale a dire – rispettivamente –
l’intuizione sensibile del mero segno e l’atto che conferisce il significato. Si tratta
allora di indagare il rapporto che regola i due vissuti, che non potrà naturalmente
essere di natura associativa, ma si manifesta nei termini di una peculiare unità
fenomenologica fra di essi, esplicitata in un altrettanto peculiare rapporto di
fondazione576. Ed è su questo che dovremo ora soffermarci.
Già in precedenza avevamo sottolineato come nell’espressione il mero
segno funga semplicemente da supporto, da sostegno per il significato, una
situazione che tradotta in termini fenomenologici mostra l’intuizione come
fondamento dell’atto significante poiché è essa a presentare quel necessario
sostegno. I due atti vengono perciò a costituire un’unità di fondazione, che “in
termini puramente fenomenologici” è così descritta:
il significare è un carattere d’atto che assume questa o quella impronta e che
presuppone come fondamento necessario un atto del rappresentare intuitivo. È in
quest’ultimo che l’espressione si costituisce come oggetto fisico. Ma essa diventa
espressione, in senso pieno e autentico, solo mediante l’atto fondato577
575
E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., p.304
Ivi. p.343
577
Ibid.
576
215
La peculiarità di questa fondazione, e del suo carattere necessario,
emerge dal confronto con quanto sin qui visto in merito ad altri atti altrettanto
necessariamente fondati, vale a dire le intuizioni categoriali. La situazione si
presenta infatti radicalmente diversa, anzitutto per la natura degli atti coinvolti nel
rapporto di fondazione, dove a essere intuitivo, a differenza di quanto avveniva in
precedenza, è solo l’atto fondante. In questo va ricercato il senso fenomenologico
del termine “sostegno” (Stütze) che Husserl utilizza a proposito dei segni
espressivi. L’atto fondato infatti non abbisogna dell’atto fondante per aggiudicarsi
il suo oggetto, bensì per acquisire il suo contenuto e quindi per realizzarsi, non v’è
qui un’oggettualità che necessiti di un’altra come base per potersi manifestare
poiché a ben vedere non si dà oggettualità alcuna per l’atto fondato, per
l’intenzione significante, che lungi dal presentarla piuttosto vi rinvia. Di
conseguenza l’intuizione fondante vale a presentare un’entità che nulla ha a che
fare con l’oggetto intenzionato, questo non ha in quella il fondamento della sua
manifestazione - com’era nei casi dell’intuizione categoriale - ma solo il sostegno
per essere meramente inteso, per cui il rapporto di fondazione vale esclusivamente
dal lato dagli atti, senza un corrispettivo nel versante oggettuale. La peculiarità di
una siffatta fondazione è del resto esplicitamente rilevata da Husserl, laddove egli
parla, e proprio in raffronto a quanto accade con gli atti categoriali, di una
connessione “extraessenziale”,
poiché l’espressione stessa, cioè il complesso fonetico che si manifesta (il segno
scritto oggettivo ecc.) non vale come elemento costitutivo dell’oggettualità intesa
nell’atto complessivo e neppure, in generale, come qualcosa che le appartiene
“intrinsecamente” o che in qualche modo la determina. Perciò gli atti che costituiscono il
complesso fonetico contribuiscono all’atto complessivo – ad es., un’asserzione – in modo
caratteristicamente diverso da quello degli atti fondanti precedentemente discussi, come
gli atti parziali inerenti ai membri predicativi nelle predicazioni complete578
L’intuizione fondante non contribuisce perciò in nulla alla costituzione
dell’oggetto inteso, quanto essa presenta subisce sì un’apprensione diversa da
parte dell’atto fondato, ma tale da renderlo del tutto estrinseco rispetto a ciò che si
ha di mira, tanto che al suo posto potrebbe subentrare qualsiasi altro contenuto, se
ci si riferisce a esso non per intuire un’entità bensì per intenzionarla meramente.
578
E. Husserl Ricerche logiche Vol. II cit., p.194
216
La mediatezza connessa all’uso del segno, qui espressivo, si motiva
fenomenologicamente a partire dalla natura fondata dell’intenzione significante,
che necessita di un contenuto fornito altrove per realizzarsi e realizzare il proprio
riferimento intenzionale, diversamente da quanto accade con le intuizioni. Parlare
di sostegno vale allora a segnalare e si spiega alla luce di una peculiare fondazione
fenomenologica qual è quella che struttura l’atto significante, vale perciò a dar
conto del plesso unitario costituito da (mero) segno e significato, dove l’uno puo’
fenomenologicamente essere solo tramite l’altro: se infatti è solo per mezzo di un
(mero) segno che il significato puo’ costituirsi per una coscienza è altrettanto vero
che è la presenza di questo a trasformare un contenuto sensibile qualsiasi in
espressione, a farne cioè un segno linguistico.
Si potrebbe a questo punto sostenere che nel caso delle intenzioni
significanti l’entità intuita, in virtù del suo ruolo di mediazione, non funge come
oggetto bensì da supporto per arrivare ad altro, vale a dire come rappresentante.
Una conclusione che però non tiene adeguatamente conto della natura stessa della
fenomenologia, ovvero della sua messa fuori gioco di qualsiasi posizionalità
trascendente579, del fatto che l’oggetto fenomenologicamente non è dato580. Se
l’epochè non è ancora a rigore esplicitata ben salda è invero l’acquisizione
dell’atteggiamento fenomenologico, con il suo orientamento verso i puri vissuti,
verso le loro leggi e strutture essenziali581, dove la messa fuori gioco di
qualsivoglia appercezione empirica vale a rilevare le pure componenti dei vissuti
medesimi582. Un atteggiamento che trova una esplicita e rigorosa applicazione
nella analisi della Quinta e soprattutto Sesta Ricerca dedicate alla conoscenza,
agli atti in cui essa si compie, quelli cioè oggettivanti, vale a dire intenzioni
significanti e intuizioni riempienti. L’esclusione dell’oggetto induce a ricercare
negli atti, segnatamente intuitivi, l’elemento responsabile del riempimento
conoscitivo, l’effettivo apportatore di conoscenza, che Husserl denomina pienezza
(Fülle) e ritrova nel contenuto fenomenologico, reale (reel) delle intuizioni
medesime583. In termini strettamente fenomenologici, l’intuizione dell’oggetto
consiste nell’apprensione di siffatti contenuti, ovvero nel carattere d’atto che
costituisce un’eccedenza (Überschuβ) “di fronte all’informe esserci della
579
Ivi, p.174
Ivi, p.391
581
E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., p.286
582
E. Husserl Ricerche logiche Vol. II cit., p.186
583
Ivi, pp.377-78
580
217
sensazione” e animandola fa sì che l’oggettualità sia da noi percepita, sì da poter
concludere che
ciò che, in rapporto all’oggetto intenzionale, viene detta rappresentazione
(intenzione diretta ad esso nei modi della percezione, del ricordo, dell’immaginazione,
della riproduzione immaginativa, della designazione) viene detta apprensione,
interpretazione, appercezione, in rapporto alle sensazioni realmente appartenenti
all’atto584
I contenuti appresi costituiscono lo statuto intuitivo dell’atto, il “sistema
delle determinazioni dell’oggetto che cadono nella manifestazione”585, vale a dire
la pienezza586. È perciò nei termini di una siffatta componente degli atti che va
spiegata la conoscenza, è per sua virtù che si realizza, tanto che Husserl distingue,
accanto all’essenza intenzionale, l’essenza conoscitiva degli atti medesimi, alla
quale spetta, oltre alla qualità e alla materia, la pienezza o contenuto intuitivo587.
Quest’ultimo
è
invero
definito
da
Husserl
“contenuto
intuitivamente
rappresentante”, per cui è perlomeno improprio sostenere che solo il segno funga
da rappresentante. La differenza tra intuizione e intenzione significante non andrà
perciò ricercata nel fatto che soltanto in una il contenuto funga da rappresentante
perché nell’altra è invero l’oggetto a darsi; l’esclusione fenomenologicamente
motivata di questo induce piuttosto a concentrarsi sulla diversa maniera in cui i
contenuti medesimi agiscono da rappresentanti nelle due tipologie d’atto. Il
contenuto rappresentante è infatti una componente strutturale di qualsiasi atto
oggettivante accanto a qualità e materia, sì che ogni genere d’atto rivela come
necessaria la presenza di un contenuto sensibile in funzione per l’appunto
rappresentante588. In virtù di questo suo ruolo una siffatta componente non si pone
584
Ivi, p.174. Cfr. anche E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., p.342
E. Husserl Ricerche logiche Vol. II cit., p.379
586
« La pienezza della rappresentazione è tuttavia il sistema delle determinazioni ad essa relative,
per mezzo delle quali essa rende presente il suo oggetto mediante l’analogia o lo coglie come dato
in sé stesso »; ivi, p.376
587
Ivi, p.396. La preminenza attribuita all’essenza intenzionale è dovuta alla sua indispensabilità
per l’atto oggettivante, ben diversamente da quanto accade con l’essenza conoscitiva: le intenzioni
significanti sono infatti atti oggettivanti privi del momento della pienezza (ivi, p.395). Per
esprimerci nei termini di una distinzione più volta comparsa in questo testo e dalla decisiva
importanza possiamo dire che la comprensione sta all’essenza intenzionale come la conoscenza
all’essenza conoscitiva.
588
Gli atti categoriali non fanno in ciò eccezione. L’intuizione categoriale presenta infatti un
contenuto rappresentante sensibile al pari dell’intuizione sensibile, vale a dire il legame psichico
fra gli atti fondanti (ivi, p.475), un momento psichico non-indipendente. Nel merito Dieter Lohmar
rileva uno spostamento nella tessitura della Sesta Ricerca: mentre nel VI capitolo un tale
585
218
affatto accanto alle altre due in maniera irrelata, costituendo invero un’unità
fenomenologica con la materia, poiché se da un lato v’è in ogni atto un contenuto
intuitivo che consente la rappresentazione, dall’altro un siffatto contenuto deve
alla materia il suo carattere di rappresentante, poiché è in quest’ultima che si
costituisce il senso in cui qualcosa viene rappresentato. L’unità fenomenologica
tra contenuto rappresentante e materia viene
da Husserl denominata
rappresentanza (Repräsentation)589, concetto fondamentale perché consente
all’analisi fenomenologica di raggiungere la sua completezza, di rilevare cioè in
via definitiva la struttura essenziale di ogni atto, dove non è semplicemente la
materia bensì la rappresentanza a rivelarsi come componente strutturale accanto
alla qualità590.
Ed è a partire da essa, ovvero dal genere di rapporto intrattenuto con la
materia – e non con l’oggetto, fenomenologicamente non dato – che va spiegata la
natura del contenuto rappresentante, motivata la ragione della sua diversa
funzione rappresentativa, sì che è qui che in ultima istanza le analisi sul segno
trovano il loro compimento, in una considerazione fenomenologica piuttosto che
semiotica. Affinché un contenuto possa dirsi segno è necessario infatti che il suo
rapporto con la materia sia di natura estrinseca, accidentale, ovvero che “tra la
peculiarità di tale contenuto e la peculiarità specifica della materia significativa
non troviamo alcun vincolo di necessità”, rapporto che definisce la rappresentanza
propria della intenzioni significanti, ovverosia la rappresentanza signitiva591. In
termini fenomenologici è perciò più opportuno parlare di rappresentanze signitive
piuttosto che di segni, poiché è nella specificità dei caratteri d’atto che essi si
costituiscono come tali, nel peculiare rapporto con la materia che ne definisce i
caratteri, sì che è alla luce dell’accidentalità ed extraessenzialità di questo che si
spiega l’eterogeneità tra segno e designato, o ancor meglio tra espressione ed
espresso592, vale a dire il suo essere mero supporto.
rappresentante è qualcosa di non sensibile, nel VII è invece un’entità sensibile quale appunto il
legame psichico fra gli atti (D. Lohmar Phänomenologie der Mathematik Kluwer Academic
Publishers, Dordrecht/Boston/London 1989, pp.48-51). Ne consegue che ciò che procura la
conoscenza è un’entità intuitiva, sì da rendere impossibile la conoscenza matematica come
deduzione di giudizi da un sistema assiomatico, dove non v’è appunto necessità di un contenuto
intuitivo, di un fondamento nell’intuizione (ivi, pp.60-61)
589
E. Husserl Ricerche logiche Vol. II cit., p.391
590
Ivi, p.394
591
Ivi, pp.392
592
La stessa idealità del segno linguistico è riconducibile alla situazione fenomenologica che lo
costituisce: « È ad esempio indifferente che i caratteri di cui è costituita una parola siano caratteri a
stampa, oppure siano fatti di legno o di ferro, ed è indifferente anche che essi si manifestino
219
Lo stesso rinvio operato dal segno rimonta a questa situazione
fenomenologica. Le intenzioni significanti, per via della rappresentanza signitiva
da cui sono costituite, rappresentano soltanto impropriamente l’oggetto, poiché in
esse non vive alcun suo aspetto, si tratta in altri termini di intenzioni vuote, vale a
dire “bisognose di pienezza”593. In virtù di questo il contenuto rappresentante non
ha alcun carattere ostensivo – a differenza di quanto accade con le intuizioni – per
cui è rinviando oltre sé stesso che adempie alla sua funzione rappresentativa594,
rimandando invero alla corrispettiva intuizione riempiente, dove è la
rappresentanza intuitiva, con il suo “nesso intrinseco e necessario tra la materia e
il rappresentante”595, ad apportare la pienezza richiesta.
La descrizione pura, che omette ogni posizionalità trascendente, ha a che
fare solo con atti e contenuti d’atto e in questi deve rilevare le differenze tra
intenzioni signitive e intuitive; perciò è nei termini della diversità delle rispettive
rappresentanze, a partire cioè dalla differente natura dei contenuti rappresentanti e
della loro apprensione che va appurata quella distinzione, dove è l’intervento della
fondazione a giocare un ruolo decisivo: nel caso dell’intuizione infatti non v’è
fondazione su un contenuto fornito altrove, perché non v’è mediatezza ma
immediatezza, il contenuto presenta e non rinvia, in esso l’oggetto si manifesta in
virtù del nesso intrinseco con la materia, per il fatto cioè che “ci sono posti dei
limiti dal contenuto da apprendere per via di una certa sfera di somiglianza ed
eguaglianza, quindi per via della sua natura specifica”596, sì che esso non vale qui
a fondare un altro atto ma a presentare l’oggetto per l’atto di cui è contenuto. La
messa fuori gioco dell’oggetto, lungi dall’impedire l’approdo all’idea di
conoscenza, è piuttosto la condizione del suo retto intendimento, poiché è nel
concetto fenomenologico di pienezza (Fülle) che trova la sua ragion d’essere, se
del resto è come riempimento (Erfüllung) di un atto significante, vuoto e
bisognoso di pienezza, che essa si manifesta, quindi nel rapporto fra
rappresentanze con diverso segno di pienezza597.
oggettivamente come tali. Ciò che conte è soltanto la costante riconoscibilità della forma (Gestalt),
ma neppure in quanto si tratta della forma oggettiva di una cosa di legno, ecc., ma in quanto forma
che sussiste effettivamente nel contenuto sensibili ostensivo dell’intuizione »; ivi, p.389
593
Ivi, p.376
594
Ivi, p.388
595
Ivi, p.392
596
Ibid.
597
« Questa pienezza è dunque un momento caratteristico delle rappresentazioni accanto alla
qualità ed alla materia; una componente positiva naturalmente soltanto nel caso delle
rappresentazioni intuitive, una mancanza in quello delle rappresentazioni signitive »; ivi, p.376
220
Il risultato più rilevante che le considerazioni sin qui svolte lasciano
apprezzare è il significativo spostamento che la riflessione semiotica subisce dal
piano logico a quello fenomenologico. L’approdo alla Wissenschaftslehre esclude
di per sé i segni dalla riflessione logica in nome della sua purezza, confinati alla
metodologia della conoscenza con cui più non si identifica essendone piuttosto
condizione. Il venir meno del primato della Kunstlehre non conduce però a un
parallelo accantonamento del segno in ambito conoscitivo, bensì a un mutamento
del genere della sua considerazione, non più (soltanto) psicologica, ma – come s’è
appena visto – fenomenologica. L’ottica psicologista dominante faceva sì che le
analisi semiotiche della fase pre-fenomenologica culminassero nella trattazione
delle rappresentazioni improprie, surroganti, in quella tipologia semiotica che più
di ogni altra si rivelava utile alle prestazioni conoscitive perché conforme ai
meccanismi della psiche umana. Laddove invece non si tratta dei metodi
conoscitivi bensì dell’idea stessa di conoscenza non è all’utilità dei segni per la
prassi conoscitiva umana che si rivolge l’interesse ma al ruolo che essi rivestono
in seno alla conoscenza medesima. Differenza decisiva, poiché testimonia dello
spostamento dal piano empirico, psicologico, a quello ideale, fenomenologico.
Analisi infatti che guardino alla conoscenza come attività specificamente umana
vedranno viziata la loro portata di verità dalla contingenza, poiché è certo
pensabile una psiche diversa per la quale esse non saranno punto valide, sì che sul
piano semiotico non puo’ affatto essere la trattazione della rappresentazione
impropria a dare la misura del ruolo del segno per la conoscenza, visto il suo
legame con un certo matter of fact. Lo è invece il concetto di rappresentanza
signitiva, che attiene all’unità fenomenologica degli atti in cui la conoscenza
essenzialmente si compie e lungi dall’essere una certa tipologia semiotica
rappresenta piuttosto l’essenza dei segni che intervengono nella relazione
conoscitiva. La lateralizzazione del segno non avviene perciò soltanto in ragione
dell’approdo a una logica pura, poiché invero si motiva a partire dalla
fenomenologia con la sua descrizione pura dei vissuti, che lascia emergere il
segno come mero supporto nella relazione conoscitiva in virtù del peculiare
rapporto fenomenologico costituivo della rappresentanza signitiva - componente
essenziale
dell’intenzione
surrogante
dei
segni
significante.
diviene
allora
L’accantonamento
inevitabile,
non
della
soltanto
funzione
perché
indissolubilmente legata a una logica come Kunstlehre ma anche in ragione della
221
matrice psicologica cui rimontava la primarietà accreditatagli; e la fenomenologia,
che vuol dar conto di cosa sia la conoscenza e non di un suo particolare decorso,
riscontra una semiosi ben diversa, qual è quella che regola l’indirizzamento alle
cose stesse, teleologicamente orientata al darsi dell’oggetto598, in linea con la
peculiare natura del significato o ancor meglio della sensatezza emersa nel
precedente paragrafo – dove, si ricorderà, era nell’indirizzamento all’oggetto che
essa si è rivelata consistere.
Le analisi fenomenologiche portate avanti in questo paragrafo non hanno
però ancora del tutto chiarito il ruolo del segno per la conoscenza, tantomeno per
la fenomenologia medesima, perché non del tutto chiara è la natura del rapporto
fra segno e significato, se vi sia invero una necessità in tal senso e di qual genere.
Ed è di questo che dovremo ora occuparci, avviandoci così alla conclusione del
nostro scritto.
§ 3.4 – I segni e la fenomenologia: le lenti dello sguardo fenomenologico
Per dar corso alle riflessioni nella direzione poc’anzi indicata è
necessario interrogarsi, ancora più fondo di quanto non abbiamo fatto, sul
peculiare rapporto di fondazione che lega segno e significato e che costituisce gli
atti significanti. Benché nel corso della Prima Ricerca si parli più volte di
un’unità intima, di una fusione tra le due componenti599 è pur sempre nei termini
di quella fondazione che essa va intesa, come mostrato non soltanto già nella
598
Per la verità anche nelle Ricerche è presente una trattazione sulla funzione surrogante dei segni
nel pensiero rigorosamente scientifico, per quanto tutt’altro che centrale non solo nell’economia
dell’opera ma anche riguardo alle sue analisi più specificamente semiotiche, vale a dire il § 20
della Prima Ricerca. Qui Husserl si avvale delle acquisizioni maturate nella recensione all’opera
di Schröder, approfondendole in senso fenomenologico. I segni aritmetici infatti, lungi dal ridursi a
mere entità fisiche, sono invero dotati di un significato di gioco, vale a dire operazionale,
costituito dalle regole di calcolo cui obbediscono, che solo consente loro di esplicare la funzione
supplente (E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., p.337). Una funzione esercitata non sul mero
significato, bensì sui segni aritmeticamente significativi, poiché a essere un surrogato è il
medesimo segno, soltanto animato, potremmo dire, da una diversa intenzione significante, poiché
non sono certo i segni « gli oggetti della considerazione del pensiero: noi viviamo piuttosto
interamente all’interno della coscienza del significato o della comprensione » (ivi, p.336). La
primarietà che il significato acquisisce a scapito del segno nella dimensione logica è qui ribadita
con forza, poiché non soltanto i procedimenti simbolici devono la loro validità e possibilità ai
significati che si incaricano di sostituire e che dunque li precedono; ma anche laddove è con essi
che più da presso si opera è ancora il significato, e non il segno, a esser oggetto di considerazione.
La distinzione tra due generi di significato, originario e operazionale, deve condurre a detta di
Piana,a una parallela distinzione in ambito semiotico, ovvero tra espressione e simbolo (G. Piana
Introduzione in Ricerche logiche Vol. I cit., p.XXXII), sì che quest’ultimo viene a essere una sorta
di terzo genere segnico. Rilievo acuto che non soltanto ci sentiamo di condividere ma che abbiamo
fatto nostro nel corso di tutto questo capitolo sulle Ricerche logiche, dove non casualmente si è
evitato di usare il termine “simbolo” come sinonimo di segno.
599
E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., pp.305-306
222
stessa Prima Ricerca600 ma soprattutto nella Quinta, dove un siffatto rapporto è
messo a confronto con la situazione apparentemente simile che si realizza con gli
atti categoriali.
Nel rimarcare la differenza fra le due tipologie di fondazione Husserl
sottolinea l’inessenzialità del complesso fonetico fondante di contro alla necessità
dell’oggettualità fondante per gli atti categoriali, perché a differenza di quanto
accade con questi esso “potrebbe persino venire completamente a cadere” (er
könnte sogar gänzlich in Fortfall kommen)601. Un’affermazione quest’ultima
piuttosto impegnativa, poiché induce a concludere sulla dispensabilità del segno
per il significato non soltanto in ambito logico, com’è ovvio per una logica
ideale602, ma anche nel campo fenomenologico, sì da mostrare l’inessenzialità del
segno, o ancor più specificamente del linguaggio, per il pensiero medesimo e non
soltanto per la costituzione del significato. Al fine di intenderla è innanzitutto da
tener presente il contesto in cui compare, dove a tema è il diverso genere d’unità
che si realizza fra gli atti. Nel merito è soprattutto al diverso contributo dell’atto
fondante nella costituzione dell’oggetto dell’atto fondato che si rivolge
l’attenzione, dove - come abbiamo in precedenza visto e poc’anzi ribadito seppur
solo in accenno - in un caso il primo si rivela necessario e nell’altro irrilevante,
poiché l’oggettualità che esso presenta vale a rendere possibile il rinvio
all’oggetto inteso dal secondo e non quest’oggetto medesimo. L’extraessenzialità
della connessione fra gli atti è perciò riguardata dal versante oggettuale, dove si
sottolinea l’irrilevanza del segno per la costituzione del’oggetto più che la sua
inessenzialità per l’atto significante, il suo poter venir meno, problematica questa
che Husserl affronta direttamente in un altro luogo dell’opera, il § 15 della Sesta
Ricerca. A tal riguardo è la dimensione conoscitiva a fare da sfondo, poiché ci si
chiede se le intenzioni signitive possano ricorrere al di fuori della funzione
significante, vale a dire se nei rapporti di riempimento il segno linguistico, la
parola è necessaria all’attuarsi della conoscenza. E la risposta pare inequivocabile:
i casi di conoscenza senza parole dimostrano la dispensabilità del segno, poiché il
riconoscimento di un oggetto presentato dall’intuizione puo’ avvenire anche
quando ci sfugge la parola: in tal caso, afferma Husserl,
600
Ivi, p.343
E. Husserl Ricerche logiche Vol. II cit., p.194; cfr. anche E. Husserl Logische Untersuchungen
cit., p.421
602
Su questo punto è particolarmente esplicito il § 35 della Prima Ricerca (E. Husserl Ricerche
logiche Vol. I cit., pp.372-73)
601
223
l’intuizione attuale suscita una disposizione associativa diretta all’espressione
significante; ma viene attualizzata solo la componente significante dell’espressione
stessa, che a sua volta ritorna, seguendo la direzione inversa, all’intuizione da cui è stata
suscitata, rifluendo in essa con il carattere di un’intenzione riempita603
In verità sarebbe azzardato concludere nella maniera che qui viene
suggerita. In altri luoghi infatti Husserl sottolinea la necessità dell’espressione per
l’atto significante e proprio nella situazione conoscitiva604, senza considerare che
le riflessioni del paragrafo precedente sulla rappresentanza hanno rilevato come
componente necessaria degli atti il contenuto rappresentante, che nelle intenzioni
significanti è per l’appunto il segno. Le parole husserliane sono nel merito
piuttosto chiare:
L’atto puramente signitivo sarebbe una mera complessione di qualità e materia
se in generale potesse sussistere di per sé stesso, cioè se potesse formare di per sé stesso
un vissuto unitario. Ma ciò è per esso impossibile; noi lo troviamo sempre in aderenza a
un’intuizione fondante. Questa intuizione del segno non ha certamente “nulla a cha fare”
con l’oggetto dell’atto significativo, cioè essa non entra rispetto a questo atto in nessun
rapporto di riempimento; ma essa realizza in concreto la possibilità dell’atto come
possibilità di un atto assolutamente non riempito605
E ancora:
La materia significativa ha bisogno solo in generale di un contenuto di
supporto….Il significato non puo’ stare sospeso a mezz’aria, ma in rapporto a ciò che
esso significa è pienamente indifferente il segno di cui esso è per noi significato606
L’extraessenzialità del segno sta qui non nella sua dispensabilità, bensì
nella sua estrinsecità rispetto all’oggetto, in un senso perciò più debole di quanto
abbiamo poc’anzi visto, poiché se inessenziale è a quale segno si ricorra
necessario invece è che un qualche segno si dia. Come uscire allora da questa
obiettiva impasse, documentata dal testo stesso delle Ricerche e non
603
E. Husserl Ricerche logiche Vol. II cit., p.359
Ivi p.335
605
Ivi, p.388
606
Ivi, p.392
604
224
semplicemente sorta dalla sua interpretazione? Una lettura più attenta del passo
del § 15 poc’anzi citato si mostra a ben vedere carente in quanto a chiarezza, a
causa della assimilazione delle intenzioni signitive con le Leerintentionen tipiche
dei decorsi percettivi, quale ad esempio l’ascolto di una melodia607, quasi che il
rimando associazionista proprio dell’aspettativa spieghi anche il rapporto di ben
altro genere che caratterizza il riempimento conoscitivo, come peraltro la
citazione
stessa
indurrebbe
a
pensare.
La
situazione
è
invero
fenomenologicamente differente e chiama in causa il genere della rappresentanza
signitiva. In questo caso infatti v’è la necessità di un’intuizione fondante il cui
oggetto diventi per l’appunto contenuto dell’atto signitivo, oggetto che però come
ogni altro puo’ essere presentato con diversi gradi di pienezza608, in maniera
perciò eventualmente vaga, o addirittura - come Husserl stesso dirà in un testo più
tardo al fine di chiarire una siffatta situazione - vuotamente rappresentato,
potendosi invero dare
la possibilità che le rappresentazioni vuote che sono dirette a un complesso
fonetico, ma che in quanto vuote non lo portano a coscienza conformemente alla
manifestazione, siano legate agli atti conferitori di senso609
Rappresentazioni vuote dotate però anch’esse di un certo contenuto
intuitivo, per cui è a partire da questa complessa situazione fenomenologica che si
motiva la necessità del segno per le intenzioni significanti, la sua indispensabilità,
anche qualora semplicemente rappresentato. Si conferma perciò quanto rilevato in
merito alle componenti degli atti nel precedente paragrafo, segnatamente riguardo
alla rappresentanza, cha ha tra le sue componenti strutturali il contenuto
rappresentante, sia esso dato o rappresentato per mezzo di un ulteriore contenuto;
che è quanto dire la necessità del segno per le intenzioni significanti e quindi per il
significato.
Sul genere di una siffatta necessità non si possono all’evidenza nutrire
dubbi, la sua è infatti una natura fenomenologica, concernendo in via esclusiva gli
607
Ivi, p.360. Su questo punto cfr. anche R. Parpan Zeichen und Bedeutung cit., pp.465-66 e
pp.467-68
608
Ivi, p..397-98
609
E. Husserl La teoria del significato cit., p.185. Parpan, sulla scorta di Kern, rileva come Husserl
stesso si sia successivamente accorto del’errore commesso nel § 15 della Sesta Ricerca, al quale le
considerazioni qui riportate e altre contenute in testi successivi intendono porre esplicitamente
rimedio (Cfr. R. Parpan Zeichen und Bedeutung cit., p.468)
225
atti e non gli oggetti, men che meno le entità logiche. Ogni vissuto intenzionale,
questa la conclusione cui giunge la Sesta Ricerca, è costituito da qualità e
rappresentanza di base, dove quest’ultima ha tra le sue componenti costitutive i
contenuti appresi “che indicano se l’oggetto è rappresentato per mezzo di questo o
quel segno, oppure per mezzo di questi o quei contenuti ostensivi”610. E a ben
vedere la necessità fenomenologica del segno non si limita soltanto al versante del
significato, riguardando piuttosto l’attuarsi della conoscenza medesima. Se infatti
quest’ultima è da intendersi come adaequatio rei ac intellectus, ovvero in termini
più propriamente fenomenologici come riempimento di un atto significante611, il
segno si rivela necessario, poiché la rappresentanza signitiva è per l’appunto ciò
che costituisce, assieme alla qualità d’atto, l’intenzione significante.
Benché si assista a un effettivo accantonamento della componente
semiotica nell’ambito squisitamente logico per via dell’approdo a una Logik der
Bedeutungen il segno continua a rivestire un ruolo decisivo e imprescindibile per
la conoscenza, se si vuole addirittura più forte, poiché non si tratta più di un
matter of fact, di un dato di fatto empirico, psicologico quale la conformazione
della nostra psiche con i suoi limiti - bensì dell’idea di conoscenza medesima e
degli atti in cui si costituisce, rilevata da un’analisi che mette fuori gioco “tutte le
appercezioni della scienza empirica e le posizioni esistenziali”612 ed è in tal senso
pura, ideale. Il segno si svela perciò necessario non soltanto per la conoscenza
come attività specificamente umana, in un senso squisitamente psicologico, bensì
è tale per la sua idea, per ciò che essa è e non puo’ non essere, vale a dire in senso
fenomenologico613. Nei termini della semiotica per così dire fenomenologica sin
qui emersa è pensabile una coscienza che non ricorra a indici ma non una che non
si appoggi alle espressioni come “meri segni”, dove in fondo non si fa che ribadire
l’inessenzialità della comunicazione nel novero delle Ricerche logiche.
Ma ancor più che per l’idea di conoscenza in genere è nell’economia di
quest’opera che il segno viene a rivestire un ruolo decisivo, o meglio per il genere
610
E. Husserl Ricerche logiche Vol. II cit., p.394
« Quando si parla di conoscenza dell’oggetto e di riempimento di significato si esprime dunque
la stessa situazione, soltanto da punti di vista diversi. La prima espressione si dispone dal punto di
vista dell’oggetto intenzionato, mentre solo la seconda prende come punti di riferimento gli atti da
entrambi i lati »; ivi, p.332
612
Ivi, p.186
613
Per queste ragioni non possiamo convenire con quanti hanno rilevato la necessità del segno solo
per gli atti di pensiero più elevati (cfr. R. Parpan Zeichen und Bedeutung cit., p.467 e R. Raggiunti
The language problem in Husserl’s phenomenology cit., p.244) riducendola per l’appunto a una
mera questione fattuale
611
226
di fenomenologia qui inaugurata, rivolta in via esclusiva alle oggettualità della
logica pura, che è quanto dire alla dimensione del significato. L’accesso ai
significati è infatti reso possibile da una riflessione logica in senso
fenomenologico, che si rivolga cioè agli atti in cui essi si costituiscono per la
coscienza, vale a dire alle intenzioni significanti, che hanno come componente
essenziale il segno, trattandosi di rappresentanze signitive. L’astrazione ideante si
esercita perciò sul fondamento di siffatti vissuti, nei termini di una riflessione che
si rivolge all’atto del significare, nella quale cioè a esser reso oggetto è il suo
contenuto e non quanto esso intende, quel significato che si manifesta a partire dal
segno, nell’espressione614.
La situazione che qui si delinea presenta una fisionomia invero
paradossale, costituita dal peculiare rapporto che si innesta fra logica pura e
fenomenologia e che fa perno sulla distinzione fra significati in sé ed espressi. Se
infatti l’espressività è inessenziale nel dominio logico non lo è affatto in quello
fenomenologico, in forza della necessità del segno per le intenzioni significanti,
per cui lo strato pre-espressivo a cui rimonta la regione dei significati si
documenta necessariamente a partire dalle espressioni, è insomma solo
l’espressività a poter dar conto di quanto la precede, in essa soltanto puo’
manifestarsi quanto è pre-espressivo. Ne deriva allora che è nell’espressione, nel
segno linguistico che logica pura e fenomenologia si incontrano e trovano la
chiave di lettura del loro rapporto, è qui in altri termini che si motiva l’accesso
fenomenologico alle entità logiche. Il paradosso per cui lo strato pre-espressivo
abbisogna dell’espressione per darsi e lasciarsi scorgere in quanto tale viene così a
essere la verità fenomenologica del rapporto fra logica pura e fenomenologia,
poiché è l’analisi dei puri vissuti a rivelare tanto l’irriducibilità del significato al
significare, all’intenzione significante, e quindi alla dimensione espressiva –
quanto la necessità di quest’ultima per il suo darsi e per accedervi. Un paradosso
che invero si risolve nella considerazione della logica come disciplina filosofica.
La lateralizzazione del segno imposta dalla logica pura non ha perciò il
suo corrispettivo fenomenologico nella messa da parte di questo, ma anzitutto
nella scelta di una precisa tipologia semiotica. L’esclusivo rilievo dato alle
espressioni si spiega infatti alla luce della fenomenologia medesima, del suo
indirizzamento alle cose stesse e quindi agli atti in cui si manifestano, dove la
614
Cfr. in particolare il § 34 della Prima Ricerca
227
componente segnica vale al compiersi del significato per la coscienza e non alla
sua sostituzione nell’ottica di un’economizzazione dei processi psichici. In questo
si puo’ leggere il passaggio dallo psicologismo alla fenomenologia, nella
distinzione tra calcolo e linguaggio e nell’assoluto rilievo acquisito ben presto da
quest’ultimo in ambito semiotico, se è in esso che “l’attività rappresentante e
giudicante si verifica presso le cose stesse (an der Sache selbst)”615. In tal maniera
non è il linguaggio a esser reso oggetto precipuo d’analisi, poiché è solo a partire
dagli atti, dai vissuti puri della coscienza che si costituiscono le espressioni, a
render significante un segno non è affatto il sistema linguistico di cui è parte bensì
l’atto conferitore di senso616, in virtù di un significato che lungi dal costituirsi
linguisticamente si rivela invero prelinguistico, una specie ideale che ha nelle
intenzioni significanti le sue individuazioni617. Il piano fenomenologico subordina
così a sé quello linguistico, come mostrato peraltro anche dalla legalità costitutiva
della Grammatica puramente logica, che concerne in prima istanza gli atti
significanti, l’uneigeintliches Denken, e pur essendo l’impalcatura ideale di ogni
lingua non rivela una natura linguistica bensì fenomenologica618.
Il rilievo fenomenologicamente assunto dall’espressione non deve però
fuorviare, inducendo magari a pensare a una costante centralità del segno nel
Denkweg husserliano sino alle Ricerche logiche, quasi che il passaggio da una
Logik der Zeichen a una Logik der Bedeutungen si traducesse nel privilegio
accordato a una diversa tipologia semiotica. Le espressioni devono infatti la loro
615
E. Husserl Aus Entwürfen Husserls zu seiner Schröder-Rezension cit., p.394; cfr. le pp.91-92 di
questo nostro scritto
616
« …gli oggetti che la logica pura intende indagare si presentano anzitutto sotto forma
grammaticale. Più precisamente, essi sono dati per così dire nell’alveo di vissuti psichici concreti
che nella loro funzione di intenzione significante o di riempimento di significato (da quest’ultimo
punto di vista, come intuizione illustrativa o evidenziante) ineriscono a certe espressioni
linguistiche, con le quali formano una unità fenomenologica »; E. Husserl Ricerche logiche Vol. I
cit., pp.269-70
617
Laddove invece i significati non preesistano alla lingua è nei termini esclusivi della sua analisi
che puo’ spiegarsi il rapporto tra segno, o ancor meglio tra significante e significato, come avviene
appunto in De Saussure: « Si prenda il significante o il significato, la lingua non comporta né delle
idee né dei suoni che preesistano al sistema linguistico, ma soltanto delle differenze concettuali
uscite fuori da questo sistema »; F. De Saussure Cours de linguistique générale, Edition Payot,
Paris 1922 (trad. it. Corso di linguistica generale, Laterza, Roma-Bari 2009, p.145). L’idea di un
atto conferitore di senso non solo è qui del tutto assente, ma esplicitamente rigettata, perché è nel
sistema linguistico che i significati vengono a costituirsi: « è una grande illusione considerare un
termine soltanto come l’unione di un certo suono con un certo concetto. Definirlo così, sarebbe
isolarlo dal sistema di cui fa parte »; ivi, p.138. Non a caso De Saussure rifiuta di utilizzare il
binomio corpo-anima come metafora per spiegare l’unità significante-significato costituiva del
segno linguistico (ivi, pp.125-26), diversamente da quanto accade a Husserl (“sinnbelebter
Wortlaut”, “sinnbelebten Ausdruck” cfr. E. Husserl Logische Untersuchungen cit., pp.44-45).
618
Su questo punto cfr. anche V. Costa Idealità del segno e intenzione nella filosofia di
E. Husserl cit., p.255 nota 24.
228
rilevanza al fatto di essere segni significanti, è il significato in altri termini,
conformemente alla natura di una logica pura di cui ci si propone di schiudere le
fonti, a essere centrale e a imporre determinate scelte semiotiche, tanto che come
s’è dianzi visto la semiosi linguistica è subordinata al piano fenomenologico, ai
vissuti nei quali il significato come specie si individua. Ed è nell’ottica di una
fenomenologia degli atti significanti che il ruolo assunto dall’espressione va
indagato, nel luogo in cui si è mostrato e motivato, al fine di illustrarne l’esatta
fisionomia, dove emerge con maggiore chiarezza quanto di per sé già rilevato
nella pagine precedenti, vale a dire come il ruolo del segno in ambito
fenomenologico stia nella sua più spinta neutralizzazione.
Quelle analisi hanno invero già consentito di rilevare la funzione dei
segni linguistici per le intenzioni significanti mercé la messa in luce della loro
stessa costituzione, giungendo a definire come supporto la prestazione offerta dai
segni linguistici, un termine dal senso fenomenologico ben preciso. Con esso
infatti si vuole intendere l’essenzialità dell’espressione per il compimento delle
intenzioni significanti così come l’extraessenzialità del rapporto tra i termini
costitutivi di essa, significante e significato. Declinata in questa maniera l’istanza
dell’extraessenzialità
non
soltanto
non
contraddice
quella
opposta
dell’essenzialità, quasi che il segno fosse e al tempo stesso sotto un medesimo
riguardo non fosse necessario, ma consente invero di darne la giusta misura,
poiché l’estrinsecità del rapporto con il significato fa sì che il segno sia necessario
soltanto come un mero supporto, a prescindere dalle peculiarità che lo
contraddistinguono, qualunque esse siano.
Il profilo che in tal maniera l’espressione rivela in sede fenomenologica
consente di far chiarezza sulla sua stessa idealità, sulla maniera in cui essa è intesa
nelle Ricerche logiche. Che anche le parole, i segni linguistici siano entità ideali è
esplicitamente affermato da Husserl nel § 11 della Prima Ricerca, in forza della
permanenza identica che emerge a fronte della variabilità empirica delle loro
occorrenze. L’idealità che qui si ha di mira rimonta però al significato, è quella
della espressioni in specie, che esprimono sempre lo stesso significato619. Va da sé
che il significante deve presentare una forma riconoscibile nella sue diverse
« ….se ci poniamo il problema del significato di un’espressione qualsiasi (ad es. resto
quadratico) non intendiamo ovviamente come espressione questa formazione fonetica pronunciata
hic et nunc, questo suono fuggevole, che non ritorna mai identico. Intendiamo l’espressione in
specie. L’espressione resto quadratico rimane identica a sé stessa indipendentemente da chi la
pronuncia »; E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., p.309
619
229
manifestazioni empiriche, ma non è questo il genere di idealità che a Husserl
primariamente interessa, si tratta piuttosto di una condizione necessaria ma non
sufficiente al manifestarsi di una ben altra idealità, quella dell’espressione e non
del mero significante, dove è la natura ideale del significato espresso a rivelarsi
decisiva.
Non si puo’ allora sostenere che l’idealità del significante è condizione di
possibilità di quella del significato620, non soltanto perché pre-lingistica è la natura
di questo, ma anche perché la situazione per così dire fenomenologica è
esattamente contraria, è per il fatto di esprimere uno stesso significato ideale che
un’entità intuitiva diviene un significante ideale. Si potrebbe però correggere il
tiro della posizione testé rigettata, sostenendo che l’idealità del significante è la
condizione fenomenologica di possibilità del significato, ovvero che l’accesso a
questo è reso possibile dalla permanenza identica del mero segno, che in questa
stia la necessaria ratio cognoscendi, benché non essendi, del significato come
specie ideale. Ma anche così una simile posizione, pur nella sua maggiore
aderenza al quadro d’insieme delle Ricerche logiche - se non altro perché tiene
conto della più volte ricordata natura pre-linguistica dei significati -, non puo’
però essere accolta. Certamente è un’unità fra due idealità a costituire
l’espressione ma questo non puo’ indurre ad assegnare un simile rilievo al
significante, tale da renderlo in certo qual modo oggetto d’attenzione. A impedirlo
è l’assoluta e quindi esclusiva primarietà di cui gode il significato, è a esso infatti
che va esclusivamente l’attenzione, tanto che anche a fronte di significanti
idealmente diversi puo’ manifestarsi, come nel caso delle espressioni tautologiche,
delle espressioni cioè reciprocamente corrispondenti in lingue diverse (ad es.
zwei, deux, due)621: qui infatti l’idealità del significato emerge non in virtù
dell’identità del significante, bensì come permanente identico a fronte della
diversità dei significanti medesimi, pur intesi nella loro idealità. Rilevante agli
occhi di Husserl non è tanto l’idealità del significante, del mero segno, la sua
forma sempre identica nella diversità delle occorrenze empiriche622, bensì quella
dell’espressione, la cui natura ideale non sta soltanto e semplicemente in quel
genere di identità, ma nell’esprimere sempre lo stesso significato, sì che è
620
V. Costa Idealità del segno e intenzione nella filosofia di E. Husserl cit., p.264
E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., p.313
622
In termini fenomenologici si tratta della riconoscibilità della forma del contenuto rappresentante
nelle rappresentanze signitive; cfr. E. Husserl Ricerche logiche Vol. II cit., p.389
621
230
l’idealità di quest’ultimo ad assorbire quella del significante costituendo in tal
maniera l’espressione come oggettualità ideale623.
Definire come supporto la funzione dei segni linguistici, nei termini
fenomenologici che la delineano e motivano, equivale ad attribuire ben scarso
peso alla natura del significante, alla sua fisionomia, poiché è nel passare del tutto
inosservato che il segno esercita al meglio quel genere di funzione, alla maniera di
un sostegno impalpabile per qualcosa che pur solo lascia emergere. E non si tratta
a ben vedere di una scelta individuale del fenomenologo bensì di una conseguenza
imposta dall’analisi fenomenologica, dalle cose stesse, dovuta cioè alla natura
degli atti in cui per necessità il significato si individua e dove perciò, ancora una
volta, è la concezione del significato come specie a rivelarsi determinante. La
preminenza va infatti agli atti che conferendo il senso costituiscono l’espressione,
per cui non è il linguaggio a costituire il senso bensì all’opposto è questo a
renderlo possibile, sono cioè i significati a costituire il linguaggio e non viceversa,
tanto che la comprensione della parola rivela una natura fenomenologica e non
linguistica624. In ciò il primato assegnato al monologo interiore sulla
comunicazione, dove l’atto significante ha la preminenza perché vissuto da noi
stessi e per ciò stesso immediatamente presente, e dove quindi l’espressione è del
tutto improduttiva, ovvero inerte, poiché non rimanda all’atto che pur la
costituisce ma si dà in sua presenza, per la sua presenza.
« Sostanzialmente, si ripete quindi il ‘medesimo’ enunciato, e lo si ripete perché esso è appunto
l’unica e più appropriata forme espressiva per quell’elemento identico che si chiama il suo
significato…ciò che l’enunciato vuol dire è sempre la stessa cosa. È qualcosa di identico,
comprendendo questo termine in senso stretto: si tratta di un’unica e identica verità geometrica »;
E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit.,, pp.310-11. E ancora: « l’espressione è l’elemento
accidentale…l’essenziale è il concetto, il significato idealmente identico »; ivi, p.362
624
« Quando comprendiamo i simboli senza sostenerci su alcuna immagine fantastica, non ci
troviamo affatto in presenza di un mero simbolo; vi è qui piuttosto la comprensione, questo
vissuto-atto di genere peculiare, che si riferisce all’espressione illuminandola e che, conferendo a
essa un significato, la mette in rapporto con l’oggetto »; ivi, p.333. Una siffatta posizione avvalora
i rilievi che Michael Dummett fa in merito alla concezione husserliana del rapporto fra segno e
significato. Egli ritiene infatti che essa sia estremamente vicina al modello linguistico di Humpty
Dumpty, il personaggio di Alice’s Adventures in Wonderland in grado di intendere qualcosa
d’altro rispetto alle parole effettivamente pronunciate, una concezione cioè « stando alla quale una
parola, pronunciata in una certa occasione, ha il significato che ha perché il parlante la investe di
quel significato » (M. Dummett Origins of Analytical Philosophy, Harvard University Press,
Cambridge 1993, trad. it. Origini della filosofia analitica, Einaudi, Torino 2001, p.61). Di qui la
critica di Dummett secondo cui « una parola della lingua ha il significato che ha non perché un
gran numero di persone ha deciso di attribuirle quel significato; i parlanti la usano come dotata di
quel significato perché quello è il significato che la parola ha nella lingua » (Ibid.) Una critica che
non tiene però conto della natura ideale, precostituita dei significati, del fatto cioè che i significati
che Husserl ha in mente sono entità logiche, quella della mathesis universalis.
623
231
L’improduttività del
linguaggio
qui
particolarmente evidente
e
sottolineata da diversi interpreti625 si declina nei termini della diafanità, della
trasparenza che la fenomenologia reclama per i segni linguistici. Reclama, ma non
puo’ garantire. Indirizzate alle fonti da cui scaturiscono le entità logiche626, vale a
dire gli atti significanti, le sue analisi pure rilevano nella struttura di questi la
radice dell’equivoco, in forza di un segno necessario soltanto come un supporto
qualsiasi, che è quanto dire per il legame inessenziale fra segno e significato. In
tal maniera il significare concreto non è affatto garantito dal rischio
dell’equivocazione ma ne è minacciato per la sua stessa essenza, poiché è ai sensi
dell’arbitrarietà che si declina il suo necessario ricorso al segno, visto il suo
inessenziale legame con il significato627. V’è dunque una precisa ragione
fenomenologica per cui il segno è additato come luogo dell’equivoco, e
correlativamente non è soltanto a motivo della natura ideale dei significati che la
responsabilità della fluttuazione semantica è addossata al significare, poiché
invero è nella natura degli atti significanti, nella loro stessa struttura costitutiva
che si radica la possibilità, o meglio il rischio dell’equivoco.
L’ìndirizzamento alle cose stesse che definisce la fenomenologia si svela
in ciò completo, poiché il suo giungere alle fonti concerne anche quelle
dell’equivoco, da cui del resto è motivata la sua istanza fondamentale, quella
chiarificatrice, nella quale si esplica il compito fondativo nei riguardi della logica
pura. In questo sta il ruolo tutt’altro che marginale rivestito dal segno nella
fenomenologia delle Ricerche logiche. Le espressioni infatti non sono soltanto il
punto di partenza necessario per la chiarificazione della logica pura, in forza
dell’incarnazione linguistica dei significati che la costituiscono628, perché la loro
necessità attiene ai vissuti puri di cui sono componente essenziale. Nelle schiudere
le fonti delle entità logiche la fenomenologia riscontra l’ineludibilità dei segni e
descrivendone la natura li rileva come un medium necessario per approdare alle
cose stesse, lasciandole scorgere per ciò che sono. Proprio in questo è da ricercarsi
la via per far fronte al rischio concreto dell’equivocazione, che consiste per
l’appunto nel rendere i segni del tutto trasparenti, diafani, improduttivi, sostegni di
625
Cfr. fra gli altri F. Costa Husserl e il linguaggio cit., pp.214-15, R. Raggiunti The language
problem in Husserl’s phenomenology cit., p.255, F. Silvestri Segni significati intuizioni cit.,
pp.112-13
626
E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., p.269
627
A partire da questa situazione fenomenologica si spiega perché “al di sotto delle parole possono
subentrare in un secondo tempo altri concetti” (ivi, p.271) e dunque la loro possibile equivocità.
628
Ivi, p.267
232
un significato che in essi si rivela soltanto, un’esigenza che trova la sua più
efficace realizzazione nel monologo interiore e addita al telos infinitamente
lontano della lingua ideale629.
V’è però da dire che a rigore l’espressione è segno per l’oggetto e non
per il significato, lungi cioè dall’essere il designato quest’ultimo è piuttosto ciò
che consente il riferimento a esso, ovvero all’oggetto, tanto che nelle Ricerche
logiche si afferma che in verità essa non esprime il suo significato poiché è
piuttosto l’atto riempiente, in cui l’oggetto si dà nella sua presenza, a essere
espresso630. L’espressione si rivela così del tutto simile al segno di De Saussure,
poiché con essa s’intende l’insieme, o meglio il totale costituito da significante e
significato631 e non semplicemente il primo. Ma, ed è qui il punto fondamentale,
al centro della fenomenologia husserliana sta il significato come entità ideale, prelinguistica, per cui è al suo rapporto con il (mero) segno che si rivolge l’interesse,
se è questo soltanto a poterlo manifestare. Husserl infatti parla di segni come di
ciò che realizza il significato nella vita psichica dell’uomo632, di meri segni come
supporti e non soltanto come espressioni che designano l’oggetto, o meglio
l’espressione è vista soprattutto dal lato del significato nella sua qualità di
supporto, come mera espressione.
A esser oggetto esclusivo dell’indagine fenomenologica è infatti logica,
gli atti espressivi che ne costituiscono il dominio, per cui è all’espressione qua
talis che si rivolge l’interesse, alla sua costituzione e agli elementi che la
determinano e non a quanto a rigore essa esprime, al suo rapporto con quanto
viene espresso. Per conseguenza l’improduttività da noi più volte richiamata non è
quella dell’esprimere nei riguardi dello strato che subisce l’espressione, non
concerne cioè la funzione dell’espressione in rapporto al senso degli atti, che in
essa trovano la forma dell’universale, non è in altri termini l’improduttività
sottolineata in Idee, forte della distinzione tra senso e significato del tutto assente
nelle Ricerche633. Non puo’ esserlo perché concerne la struttura stessa
dell’espressione, il rapporto tra mero segno e significato, dove a partire dalla
natura ideale e prelinguistica di questo si vuol sottolineare la trasparenza, la
diafanità che deve assumere il significante, condizione essenziale per depotenziare
629
Ivi, pp.358-59
Ivi, p.305
631
F. De Saussure Corso di linguistica generale cit., p.85
632
E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., p.372
633
Per tutto questo cfr. il § 124 di Idee
630
233
il rischio dell’equivoco e motivata fenomenologicamente dalla natura del mero
segno come semplice supporto. A essere qui al centro è il significato nella sua
natura ideale, quello che in Idee verrà definito significato logico o espressivo al
fine di distinguerlo dal senso, dal nucleo noematico634, per cui una fenomenologia
come quella delle Ricerche rivolta alla fondazione di una logica pura isola
l’espressione dai suoi rapporti con l’espresso e ne fa suo tema esclusivo in quanto
“medium specificamente logico”635, indagando perciò il segno espressivo ai sensi
del rapporto che lo costituisce e non per quello che intrattiene con quanto viene da
esso espresso636. In forza di questo è soprattutto nel senso saussuriano di
significante che si parla di segno, intendendo cioè, nel linguaggio husserliano, la
“mera espressione”, il supporto invero necessario alla manifestazione dei
significati, poiché è la dimensione prelinguistica del significato logico e non il
dominio pre-espressivo dei sensi noematici a esser oggetto esclusivo di
considerazione637.
La diafanità, la trasparenza che si è reclamata per le espressioni è per ciò
quella del mero segno in rapporto al significato, non dell’espressione nei riguardi
dell’espresso, come emerge in maniera evidente nella Quarta Ricerca, più da
presso dedicata alle questioni relative alla dimensione del significato nei suoi
elementi costitutivi e nella legalità che la concerne, dove per l’appunto è nei
termini sin qui rilevati che si intende il segno:
E se inoltre la lingua, nel suo materiale verbale, deve rispecchiare fedelmente i
significati possibili a priori, essa deve anche disporre di forme grammaticali che
consentano di conferire a tutte le forme distinguibili dei significati un’«espressione»
distinguibile, cioè, per il momento, una «segnatura» (Signatur) sensibilmente
distinguibile638
634
Cfr. E. Husserl Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica Vol. I cit.,
p.308
635
Ivi, p.309
636
Un discorso del genere, rilevando le condizioni della chiarezza espressiva a prescindere dai suoi
rapporti con quel che viene espresso, si rivela fondamentale anche in merito a quest’ultimo(cfr. ivi,
pp.311-12), se è in virtù dell’espressione che i sensi noematici degli atti assurgono al regno del
logos e vengono così guadagnati al pensiero scientifico
637
Derrida stesso, nel parlare del segno espressivo come medium, si riferisce soprattutto al
significante, nella fattispecie al fonema, all’immagine acustica saussuriana (cfr. J. Derrida La voce
e il fenomeno cit., p.114) e non a quanto effettivamente De Saussure intende con segno (e a rigore
Husserl con “espressione”), pur in un’opera che legge il ruolo dell’espressione tenendo conto delle
acquisizioni maturate in Idee (ivi, p.112)
638
E. Husserl Ricerche logiche Vol. II cit., p.96
234
Il rapporto segno-significato si manifesta perciò come leitmotiv della
riflessione semiotica husserliana, in quanto questione centrale laddove si tratti di
costituire la logica come disciplina, di fondarla come scienza, per cui l’idea di
logica si conferma lo sfondo su cui proiettare le riflessioni sul segno, pur nel
mutato panorama che si disegna in superficie. Di qui il ruolo del mero segno come
tematica centripeta delle analisi più da presso semiotiche639, dove la novità più
rilevante delle Ricerche sta nell’aver reso questo non soltanto un indice – nel cui
alveo puo’ retrospettivamente ricondursi la rappresentazione impropria di
Semiotik, per via del rinvio di stampo associazionista all’entità surrogata,
significato in primis – bensì un supporto, che “sta per” qualcosa che solo
attraverso di esso si manifesta, se è al significato e non alla mera marca sensibile
che si rivolge l’attenzione. La neutralizzazione che abbiamo più volte menzionato
sta appunto in questo, con il linguaggio ridotto a mera trasparenza su cui si
riflettono le entità ideali, che lo priva di qualsiasi funzione costitutiva e fa della
dimensione che gli è più propria, quella comunicativa, il luogo dell’equivoco640,
in forza della corporeità non più diafana del segno. L’affermazione secondo cui
per Husserl “il momento della crisi è sempre quello del segno”641 va letta
intendendo quest’ultimo come significante, marca, mero segno, e riferita al suo
emergere in primo piano nei contesti comunicativi in cui, non a caso, agisce come
indice642 ed è quindi ben lungi dal (poter) esser neutralizzato643.
639
Un punto del resto che segna una certa continuità nella riflessione semiotica husserliana
considerata in questo nostro scritto, poiché il mero segno è sovrapponibile al segno esteriore di
Semiotik
640
L’assenza di una funzione costitutiva del linguaggio fa tutt’uno con la messa da parte della
dimensione comunicativa e il correlativo privilegio accordato al monologo interiore,. Laddove
infatti il linguaggio verrà visto non solo come costituito bensì come costituente sarà la
comunicazione a venire in primo piano e quindi l’intersoggettività, a scapito del solipsismo:
« Poiché riconoscere nel linguaggio ciò che costituisce l’oggettività ideale assoluta, tanto quanto la
esprime, non è forse un altro modo di annunciare o di ripetere che l’intersoggettività trascendentale
è condizione dell’oggettività? »; J. Derrida Introduzione a Husserl “L’origine della geometria”
cit., p.132
641
J. Derrida La voce e il fenomeno cit., p.119
642
Su questo punto cfr. anche V. Costa Volerne sapere. Intenzionalità e produzione del significato
in J. Derrida La voce e il fenomeno cit., p.162.
643
Sulla scorta di Derrida Costa rileva la debolezza del primato assegnato al monologo interiore
dalle analisi husserliane - e conseguentemente le difficoltà di ottenere la reclamata trasparenza per
i segni. Tenendo soprattutto conto degli sviluppi successivi alle Ricerche logiche egli riscontra
l’impossibilità di un uso univoco del segno linguistico, poiché nel linguaggio, sia parlato che
scritto, non si fa altro che iterare marche di cui si ignora la provenienza, in virtù del rapporto
passivo che il parlante ha con la lingua (V. Costa Idealità del segno e intenzione della filosofia di
E. Husserl cit., pp.264-67). In tale maniera l’idealità del significato si rivela condizionata da quella
del significante (ivi, p.264) con conseguenze deleterie per l’univocità del senso, « se ciò che
costituisce l’espressività del linguaggio è la forma ideale e se questa è il risultato degli atti di
ripetizione » (ivi, p.267), vale a dire se l’idealità del significante è costituita come effetto
235
L’interesse per la logica, o ancor meglio l’intento fondativo che lega i
Prolegomeni alle Ricerche, delinea la fisionomia della fenomenologia agli albori e
orienta la riflessione semiotica sul mero segno, determinandone i caratteri.
Definire il ruolo del segno a riguardo del significato logico come “segnatura” ne è
la prova, perché dà la misura di come esso debba essere inteso in ragione della
fenomenologia che lo concerne, vale a dire come un supporto in cui il significato
si rivela senza però costituirvisi, nel quale le sue categorie e forme si rispecchiano,
donde la diafanità che ne rivela la neutralizzazione. Se perciò la fenomenologia
delle Ricerche logiche appunta il suo sguardo in via pressoché esclusiva su un
siffatto ambito, sulle entità della logica pura, sui significati ideali e quindi sugli
atti in cui essi si particolarizzano, i segni linguistici sin rivelano per così dire le
sue lenti, perché è attraverso di essi che nelle intenzioni significanti si individua il
significato644, sì che soltanto per loro mezzo è possibile affisarlo, supporti
traslucidi che proprio nel passare inosservati adempiono efficacemente alla loro
funzione.
In conclusione vorremmo suggerire una possibile rivisitazione delle
tematiche sin qui trattate alla luce degli sviluppi successivi della riflessione
husserliana, nell’alveo cioè della fenomenologia trascendentale che si annuncia in
Idee e delle questioni che solleva in rapporto al linguaggio - diverse e di una
problematicità ancor più radicale di quella finora emersa, pur se soltanto nella
forma dell’accenno, a proposito del rapporto fra espressione ed espresso.
Questioni che non concernono perciò il rapporto fenomenologico tra gli strati
espressivo e pre-espressivo perché ne sono invero a monte, riguardano cioè il
retroattivo degli atti di ripetizione (ivi, p.265; su questo punto cfr. anche id. Volerne sapere.
Intenzionalità e produzione del significato in J. Derrida La voce e il fenomeno cit., p.166). I rilievi
di Costa, acuti e senz’altro pertinenti nel novero più ampio della riflessione sul segno nel Denkweg
husserliano, hanno anche il merito di far risaltare per contrasto la posizione husserliana nelle
Ricerche. Proprio perché l’accento è posto in via esclusiva sull’idealità dei significati come specie,
sulla loro validità che prescinde da qualsiasi linguaggio costituito ed è in tal senso pre-linguistica,
l’idealità del significante è subordinata a quella del significato, sì da consentire la posizione di
privilegio al monologo interiore così come il richiamo alla trasparenza del mero segno. Derrida
stesso - nell’atto di ridimensionare il contrasto che Merleau-Ponty riscontra in merito alla
concezione del linguaggio tra le Ricerche e i testi successivi, Logica formale e trascendentale e
Origine della geometria in primis (cfr. M. Merleau-Ponty Signes, Gallimard, Paris, 1960, trad. it.
Segni, Il Saggiatore, Milano 1967, pp.117-18) - sottolinea come la funzione del linguaggio nelle
Ricerche, che Merleau-Ponty definisce accessoria, sia riconducibile a una fase preliminare della
filosofia husserliana, dove per l’appunto l’accento andava posto sulla « autonomia degli oggetti
ideali costituiti nei confronti di un linguaggio esso pure costituto » (J. Derrida Introduzione a
Husserl “L’origine della geometria” cit., p.130).
644
Husserl a dire il vero reclama la traduzione intuitiva dei significati al fine di coglierli in maniera
chiara e inequivoca L’intuizione però non mette fuori gioco l’intenzione significante e con essa i
segni in cui si compiono, ma le offre il suo riempimento (E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit.,
pp.338-40), trattandosi dell’unità fenomenologica fra gli atti in cui si costituisce la conoscenza
236
costituirsi della fenomenologia medesima come teoria, che dev’essere comunicata
per venir intesa e compresa: si tratta in altri termini del ruolo e della natura che il
linguaggio assume per la fenomenologia trascendentale nel suo esporsi.
Innanzitutto, in quanto essenzialmente espressione, si scopre come
mezzo volto per l’appunto a esprimere un significato già altrove costituitosi; a
questo però si aggiunge il suo carattere esclusivamente mondano, in quanto è nel
mondo che si manifesta ed è del mondo che parla, le parole che lo costituiscono
sono perciò mondane, come è stato giustamente sottolineato645. Il linguaggio
perciò non puo’ mai esser trascendentale, è sempre parte attiva e integrante
dell’atteggiamento naturale, per cui anch’esso viene trasceso, salvo poi dovervi
ricorrere per dar voce alla teoria fenomenologica. Da ciò si deve concludere che
non potrà mai esprimere il significato trascendentale, anche perché i suoi
significati sono sempre categoriali mentre la sfera ridotta della soggettività
trascendentale, in quanto origine, è il dominio del pre-categoriale, come mostrato
peraltro dalla messa fuori circuito della logica pura646.
Viene allora da chiedersi qual genere di significato sia quello
trascendentale, se non puo’ dirsi categoriale, poiché i significati linguistici in cui
si esprime necessariamente una teoria, una filosofia, sono per l’appunto
categoriali e mondani647. L’epochè in cui si realizza la riduzione mette fra
parentesi il linguaggio medesimo in cui la teoria fenomenologica ha la sua
condizione di possibilità in quanto teoria: è questa la paradossalità in cui si dibatte
il corpus teoretico fenomenologico. Ed è per questo che il linguaggio, se è
condizione di possibilità della fenomenologia in quanto teoria, non lo è di essa in
quanto atteggiamento; ed è per questo allora che il linguaggio non potrà che esser
mezzo, in quanto per l’appunto non costituente e luogo di mediazione.
Comprendere la fenomenologia non consiste allora nell’attenersi al testo e ai
significati espressi, comprensione che inchioderebbe nella dimensione mondana
645
E. Fink Die phänomenologische Philosophie Edmund Husserls in der gegenwärtigen Kritik, in
Studien zur Phänomenologie, Den Haag, Nijoff 1966, trad. it. La filosofia fenomenologica di
Edmund Husserl nella critica contemporanea in E. Fink Studi di fenomenologia 1930-1939,
Lithos, Roma 2010, p. 234
646
Cfr. E. Husserl Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica Vol. I cit.,
§ 59
647
« L’inadeguatezza di ogni resoconto fenomenologico, che ha il suo fondamento
nell’espressione mondana di un senso non mondano, non potrebbe trovare rimedio neanche con
l’invenzione di un linguaggio tecnico….La proposizione fenomenologica ospita in sé, per una
necessità essenziale, un conflitto interno tra il significato letterale mondano e il senso
trascendentale che viene alluso »; cfr. E. Fink La filosofia fenomenologica di Edmund Husserl
nella critica contemporanea Studi di fenomenologia 1930-1939 cit., p.236
237
che si deve trascendere; le parole qui, più che segni espressivi, assomigliano a
degli indici, in quanto più che esprimere un significato additano, rinviano verso
una dimensione altra, indicano una via che chi vuol comprendere deve
necessariamente seguire, la via cioè della riduzione fenomenologica.
La situazione che qui si delinea è allora ben diversa da quella vista a
proposito delle entità logiche, dei significati ideali, anch’essi pre-linguistici, preespressivi. Questi infatti trovavano nell’espressione il luogo in cui realizzarsi per
la coscienza, potevano e dovevano invero essere espressi tanto da costituire il
segno linguistico come tale. Nel caso invece dell’atteggiamento fenomenologico
fondamentale non si ha semplicemente a che fare con una dimensione preespressiva che condiziona l’espressione, bensì con quanto a rigore non puo’
affatto essere espresso, perché fenomenizzandosi in una dimensione mondana si
occulterebbe piuttosto che mostrarsi. In forza di questo le parole non possono
esprimerlo come fanno con i significati logici bensì limitarsi a indicarlo come
dimensione non mondana, per così dire di lontano648.
La teoria fenomenologica diviene quindi nella sua esposizione
un’indicazione di metodo, comprenderne le parole non equivale soltanto
all’afferramento del loro significato necessariamente mondano, poiché questo è
solo lo stadio iniziale che deve condurre oltre sé, alla realizzazione della
riduzione. La soggettività trascendentale, tematica centrale della fenomenologia,
non viene qui a rigore intesa, significata, ché questo ne farebbe un essente
mondano; piuttosto viene indicata, come una meta raggiungibile solo attraverso
un mutamento d’atteggiamento, indicata perciò così come si indica un luogo
additando la via che vi conduce; e affinché vi sia un approdo, la via deve essere
percorsa, deve cioè esser attuata la riduzione, per cui l’esposizione della
fenomenologia - se vuol davvero adempiere al dovere della comprensione, che ne
motiva la genesi - deve condurre alla realizzazione dell’atteggiamento
trascendentale, in quanto è solo come esperienza personale che la fenomenologia
puo’ esser compresa; o, per usare le parole Eugen Fink
648
Nei termini husserliani sin qui emersi si potrebbe dire che i lemmi utilizzati da Derrida per la
differànce agiscano per l’appunto come indici piuttosto che come espressioni. Cfr. J. Derrida
Marges – de la philosophie Les Edition de Minuit, Paris 1972 (trad. it. Margini della filosofia,
Einaudi, Torino 1997, pp.29-57)
238
senza avere esperienza personale di questo superamento e oltrepassamento
[quello cioè dell’atteggiamento naturale], nessuno puo’ ottenere un reale accesso alla
filosofia fenomenologica649
Quanto qui esposto in verità conferma uno dei leitmotiv della
fenomenologia, riguardante la comprensione dei significati: in essa infatti
l’attenzione va sempre al vissuto conferente il significato, sia esso assieme a
quello costituente il segno per via di una innige Einheit o si presenti piuttosto
come termine di un rinvio semiotico. V’è però una sostanziale differenza, che
riguarda la peculiarità della situazione che fin qui abbiamo descritto. Nel caso
della retta comprensione di un’esposizione fenomenologica, sia essa scritta od
orale, non ci si richiama a un vissuto mondano, ovvero conferente un significato
mondano, sia esso empirico o ideale. Piuttosto, si attua un rimando che si acquieta
non in questo o quel vissuto, ma in un radicale cambiamento di atteggiamento, in
un’estraneazione da tutta la significatività mondana che sola consente la
comprensione, mondanamente paradossale, di quanto esposto; le parole lette o
ascoltate, nel loro inevitabile significato mondano, indicano, proprio per via di
questo, verso una differente prospettiva, che possono descrivere soltanto
mondanamente, pur essendo ultramondana. E che in un siffatto contesto le
espressioni funzionino come indici non puo’ naturalmente sorprendere, poiché di
natura comunicativa è il contesto della fenomenologia nel suo esporsi e costituirsi
come teoria.
Quella che in tal maniera si scorge è, a nostro avviso, la prospettiva più
adatta da cui riguardare il rapporto fra fenomenologia e linguaggio, poiché il ruolo
dei segni linguistici non è più indagato a partire da un ambito determinato a cui le
analisi fenomenologiche si rivolgono, ai sensi cioè di una fenomenologia
applicata, bensì a riguardo della fenomenologia come disciplina filosofica,
649
E. Fink Was will Phänomenologie Edmund Husserls? in , in Studien zur Phänomenologie, Den
Haag, Nijoff 1966, trad. it. Che cosa vuole la fenomenologia di Edmund Husserl? in E. Fink Studi
di fenomenologia 1930-1939, Lithos, Roma 2010, p.246. In un suo articolo Robert Sokolowski
rileva la funzione indicante delle parole come loro parte costituiva e integrante. Soffermandosi in
particolare sui segni grammaticali egli vi ritrova la funzione di segnali per la costituzione delle
oggettività categoriali, in quanto invitano l’uditore a compiere i correlativi atti categoriali (R.
Sokolowski Grammatik und Denken, in AA. VV. Sprache, Wirklichkeit, Bewuβtsein: Studien zur
Sprachproblem in der Phänomenologie, Phänomenologische Forschungen, K. Aber
Freiburg/München 1988, p.35). Sokolowski giunge così ad affermare che comprendere
un’oggettualità categoriale – come i sincategoremi “e”, “o”, “è” – consiste nello svolgere l’attività
corrispondente. Una funzione che invero le parole rivestono con maggiore pertinenza a proposito
dell’atteggiamento fenomenologico, indicando cioè la via per la sua realizzazione.
239
fondamento di ogni altra scienza, che ha appunto come suo campo d’indagine la
dimensione dell’incontrovertibile, dell’assoluto, di ciò che non puo’ non essere.
Una prospettiva che abbiamo qui soltanto potuto abbozzare, con l’auspicio di
esser perlomeno riusciti a mostrarne la valenza per eventuali e future analisi.
240
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