Storia e società nel Mezzogiorno in alcuni studi recenti

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Storia e società nel Mezzogiorno
in alcuni studi recenti
di Salvatore Lupo
La discussione sulla crisi della storiografia si
è ormai diffusa ai più vari livelli, tra gli ad­
detti ai lavori come tra il pubblico colto, ina­
sprita forse in Italia dall’offuscamento defi­
nitivo deO’impostazione etico-politica che ha
condizionato la nostra cultura per tanti anni;
tanto che sembra ormai indispensabile una
rifondazione di Clio attraverso un salutare
bagno nelle scienze sociali. Storia sociale è
quanto tutti vorrebbero fare, anche se poi
molti continuano a utilizzare le sperimentate
metodologie tradizionali, magari limitandosi
a mettere il vino vecchio (e forse anche buo­
no) in botti nuove. C’è in alcuni il fondato
sospetto che il sacro timore col quale si è suc­
cessivamente guardato all’economia, alla so­
ciologia, all’antropologia, sia determinato
anche da un certo conformismo culturale1.
Però resta evidente il dato reale di un proble­
ma di identità dello storico, di una crisi di si­
gnificati e strumenti, di una necessità di con­
fronto tra la storiografia e le scienze sociali,
da effettuarsi prima che il ripiegamento sulla
storia ‘narrata’, configurandosi come una
nuova moda, renda ulteriormente difficile la
discussione.
Nel campo della contemporaneistica italia­
na, comunque, un simile dialogo resta oggi
più che altro al livello delle buone intenzioni:
è raro trovare nelle riviste specializzate re­
censioni di testi di scienziati sociali, è diffici­
le che nei libri di storia contemporanea sia
una seria attenzione per i risultati delle altre
discipline. E infine, anche se nei convegni
compaiono spesso storici accanto a scienziati
sociali, ognuno fa il proprio discorso senza
confrontarsi realmente sull’altrui terreno.
Ma ormai tale confronto non può più essere
procrastinato, soprattutto per chi lavora sul
campo, e non dal punto di vista di una meto­
dologia che rischia spesso di rimanere astrat­
ta. Il sovrapporsi, su uno stesso tema di ri­
cerca, di apporti provenienti da diverse aree
risulta, infatti, cosa usuale, e il rinchiudersi
nel ghetto significherebbe rinunciare a un ve­
ro dibattito scientifico, sicché l’esigenza che
a me pare prioritaria non risiede tanto nel
confronto interdisciplinare in quanto tale, né
tanto meno nella polemica di scuola o di par­
rocchia; ma piuttosto consiste nella valuta­
zione delle possibili confluenze di strumenti e
metodi su argomenti delimitati, laddove i
confini tra i diversi approcci disciplinari ap­
paiono labili o addirittura pretestuosi.
Pensiamo ad esempio alla celebre analisi
di Hobsbawm sul banditismo come forma
1 Cfr. ad esempio le considerazioni di uno studioso non sospetto di tradizionalismo e chiusura al dialogo interdisci­
plinare come Alberto Caracciolo nelle Conclusioni del convegno su Mezzogiorno e contadini: trent’anni di studi
(Roma, 4-5 aprile 1981), in cui Am' sono pubblicati nei “Quaderni dell’istituto romano per la storia d ’Italia dal fasci­
smo alla Resistenza”, 1981, n. 4, e possono essere considerati un utile contributo al dibattito attuale.
Italia contemporanea”, marzo 1984, fase. 154
72
Salvatore Lupo
elementare di rivolta sociale, che certamente
rappresenta uno dei casi più cospicui di con­
taminazione tra impostazioni metodologiche
differenti2. Ebbene, alcuni anni fa un antro­
pologo come Anton Blok ha inteso confutare
alcuni nodi essenziali di quel discorso soste­
nendo la funzionalità del fenomeno del ban­
ditismo agli interessi proprietari e (in un qua­
dro più ampio) alle forze reazionarie. In par­
ticolare Blok ha rimproverato a Hobsbawm
la sopravvalutazione del mito del brigante
nei confronti della realtà, di un dato cultura­
le rispetto agli elementi fattuali; mentre
Hobsbawm ha replicato di aver voluto enu­
cleare un filone tematico astraendolo dal
contesto3: singolare scambio di parti tra lo
storico e l’antropologo che può fare sperare
in una fine dei contrasti ritualizzati tra le
scienze sociali e in un prossimo confronto sui
temi della ricerca, non più pregiudicato dallo
sforzo costante di delimitare i campi e di sal­
vare le identità.
Il caso del Mezzogiorno d’Italia appare a
tal proposito emblematico. Lo studioso che
intende affrontare i temi della storia della so­
cietà meridionale, dovrà per forza tener pre­
senti i risultati che le scienze sociali hanno
raggiunto in un lungo lavorio di scavo e di ri­
cerca. Per chi vuole poi approfondire la te­
matica delle piccola dimensione, delle realtà
(urbane o urbano-rurali) omogenee e delimi­
tate, il confronto si propone in particolare
con la problematica antropologica4. La sto­
ria locale infatti può superare la pur degna
tradizione delle Società di storia patria solo
scendendo nel concreto delle strutture pro­
fonde, ambientali, culturali, familiari, del
microcosmo sociale5, mentre la stessa antro­
pologia, nata nello studio delle società ‘pri­
mitive’, cerca di affinare strumenti e metodi
che le consentano la conoscenza dell’uomo e
della sua cultura anche nell’ambito di società
più complesse6. In questo quadro va inserito
l’odierno sviluppo delle ricerche di antropo-
2 Eric J. Hobsbawm, I ribelli. Forme primitive di rivolta sociale, Torino, Einaudi, 1966, e / banditi. Il banditismo
sociale nell’età moderna, Torino, Einaudi, 1971.
3 La critica e l’anticritica in Eric J. Hobsbawm, Anton Blok, The peasant and the brigand. Social banditry reconsi­
dered, “Comparative studies in society and history” , 1972, n. 4. È proprio come “disciplina del contesto” in con­
tropposizione all’antropologia che Edward P. Thompson identifica la storia: Società patrizia e cultura plebea, Tori­
no, Einaudi, 1981, pp. 251-273.
4 Tra gli storici del Mezzogiorno più attenti al confronto con la tematica antropologica segnalo Gabriele de Rosa,
Vescovi, popolo e magia del Sud. Ricerche di storia socio-religiosa dal X V II al X I X secolo, Napoli, Guida, 1971;
Giuseppe Giarrizzo, Mezzogiorno e civiltà contadina, in Campagne e movimento contadino nel Mezzogiorno, a cura
di Francesco Renda, Bari, De Donato, 1980, vol. II, pp. 291-348; Giuseppe Galasso, L ’altra Europa. Per u n ’antro­
pologia storica del Mezzogiorno d ’Italia. Milano, Mondadori, 1982. La storiografia sul Mezzogiorno ha invece fino­
ra trascurato il tema della storia orale, che, com’è noto, rappresenta uno dei campi privilegiati di incontro tra le due
discipline.
5 Su questa linea molti dei numeri della rivista “Quaderni storici” degli ultimi anni, con particolare riferimento, pe­
rò, all’età moderna; cfr. anche Guido D’Agostino, Nicola Gallerano, Renato Monteleone, Riflessioni su “storia na­
zionale e storia locale”, “Italia contemporanea”, 1978, n. 133, pp. 3-18; Edoardo Grendi, Microanalisi e storia so­
ciale, “Quaderni storici” , 1977, n. 35. Cfr. ancora Pierre Goubert, Local history, “Daedalus” , 1971, n. 1, pp. 113127; Raphael Samuel, Local history and oral history, “History workshop” , 1976, n. 1, pp. 191-208; A. Mac Farlane,
History, anthropology and the study o f the communities, “Social history” , 1977, n. 5, pp. 631-52. Legata a una pro­
spettiva abbastanza diversa l’introduzione di Cinzio Violante al volume La storia locale: temi, fo n ti e metodi della ri­
cerca, Bologna, Il Mulino, 1982, pp. 7-32.
6 Tra gli antesignani dell’attenzione antropologica per le società complesse c’è certamente Redfield in America, per
lo studio delle società contadine (cfr. Robert Redfield, La piccola comunità. La società e la cultura contadina, Tori­
no, Rosenberg e Sellier, 1976) e Evans-Pritchard in Inghilterra, per l’attenzione al rapporto con la storia (cfr. Edvard
Evans-Pritchard, Antropologia e storia, in Introduzione all’antropologia sociale, Bari, Laterza, 1975, pp. 163-164).
Un’eccellente rassegna critica degli studi di antropologia mediterranea è quella di John Davis, Antropologia delle
Storia e società nel Mezzogiorno
logia mediterranea, delle quali gli studi su
‘comunità’ del Mezzogiorno sono parte inte­
grante. Partendo da una base territoriale ben
delimitata (Sicilia e Calabria) discuterò alcu­
ni di questi contributi7, scegliendoli tra quelli
più interessanti ai fini del confronto interdi­
sciplinare, perché più aperti a una consape­
volezza della dimensione diacronica dei fatti
sociali, e perché attenti al necessario collega­
mento tra grande e piccola dimensione, e
quindi a una più generale tematica di storia
della società. Queste caratteristiche si trova­
no sia nei lavori di Anton Blok e di Jane e
Peter Schneider su due paesi della Sicilia
occidentale8; sia negli studi di Fortunata Pi­
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selli e Pino Arlacchi su alcune aree della
Calabria9; sia in un volume di Gabriella Gribaudi, che ha applicato a un più vasto conte­
sto alcuni modelli antropologici attinenti al
rapporto comunità/Stato10. In tutte queste
opere la scelta diacronica è parte integrante
del tema prescelto, sicché a tutti può essere
attribuito il programma ennunciato con
grande chiarezza da Blok: “Il mio lavoro
[...] è stato di antropologo come di storico
sociale” 11.
Calabria e soprattutto Sicilia sono terre
classiche dell’analisi sociale: latifondo, ma­
fia, sottosviluppo hanno almeno da cent’an­
ni attirato l’attenzione di alcuni dei cervelli
società mediterranee. Una analisi comparata, Torino, Rosenberg & Sellier, 1980. Per un inquadramento degli studi
attuali di antropologia delle società complesse cfr. The Social Anthropology o f Complex Societies, a cura di M. Banton, London, Tavistock, 1966; vedi ancora Beyond the Community. Social Process in Europe, a cura di Jeremy
Boissevain e J. Friedl, La Haye, Ministerie von Ouderwijs en Wetenschappen, 1975.
7 Prescindendo per ora dai lavori che verranno esaminati nello specifico più avanti, alcune delle ricerche antropolo­
giche sull’area siculo-calabra sono: Joseph Lopreato, Peasants no more. Social class and social change in an under­
developed society, San Francisco, Chandler, 1967; Costance Cronin, The sting o f change, Chicago, University
Press, 1970; J. Boissevain, Poverty and politics in a Sicilian agro-town, “International Archives of Ethnography” ,
1966, n. 50, pp. 198-236. Ma cfr. la bibliografia del citato volume di Davis, che è autore anche di una ricerca sul cam­
po su un paese della Puglia; Land and fam ily in a South Italian town, London, Athlone, 1973. Ricerche geografiche
su paesi della Sicilia: Renée Rochefort, Un pays du latifondo sicilien: Corleone, “Annales Economies, Sociétés, Civi­
lisation”, 1959, pp. 441-460; Rolf Monheim, La città rurale nella struttura dell’insediamento della Sicilia centrale,
“Annali del Mezzogiorno”, 1972, pp. 195-303 e 1973, pp. 83-209. Cfr. anche la bibliografia citata nel volume di Al­
do Pecora, Sicilia, Torino, UTET, 1974, p. 616.
8 Anton Blok, The mafia o f a Sicilian Village (1860-1960). Study o f Violent Peasant Entrepreneurs, con prefazione
di Charles Tilly, Oxford, Blackwell, 1974, esposizione dei risultati di una ricerca sul campo effettuato tra il 1961 e il
1967 a ‘Genuardo’ (Contessa Entellina, provincia di Palermo); nello stesso periodo hanno lavorato a ‘Villamura’
(Sambuca di Sicilia, provincia di Agrigento) J. e P. Schneider, che hanno pubblicato il volume Culture and Politica!
Economy in Western Sicily, New York, Academic Press, 1976. Di Blok cfr. anche South Italian agro-town, “Com­
parative Studies in Society and History” , 1968, 10; Land reform in a West Sicilian latifundo Village. The persistence
o f a feudal structure, “Anthropological Quarterly”, 1966, 39, pp. 1-16 e Peasants, patrons and brokers in Western
Sicily, ivi, 1969,42, pp. 155-70. Vedi ancora P. Schneider, Honour and conflict in a Sicilian town, “Anthropological
Quarterly”, 1969, 42; J. Schneider, O f vigilance o f virgins, “Ethnology”, 1971,9, pp. 1-24; J. Schneider, P. Schnei­
der, E. Hansen, Modernisation and development. The role o f regional elites and non corporate groups in the Euro­
pean Mediterranean, “Comparative Studies in Society and History”, 1972, 14, pp. 328-50. Degli Schneider cfr. an­
che, in lingua italiana, La dissoluzione delle élites dominanti nella Sicilia del ventesimo secolo, in “Incontri meridio­
nali”, 1981, n. 3, pp. 99-123.
9 Fortunata Piselli, Parentela ed emigrazione. Mutamenti e continuità in una comunità calabrese, presentazione di
G. Arrighi, Torino, Einaudi, 1981; Pino Arlacchi, Mafia, contadini e latifondo nella Calabria tradizionale. Le strut­
ture elementari del sottosviluppo, Bologna, 11 Mulino, 1980; dello stesso Arlacchi cfr. ancora il recente La mafia im­
prenditrice. L ’etica mafioso e lo spirito del capitalismo, Bologna, Il Mulino, 1983.
10 Gabriella Gribaudi, Mediatori. Antropologia del potere democristiano nel Mezzogiorno, con note introduttive di
A. Graziani ed E. Grendi, Torino, Rosenberg & Sellier, 1980.
11 Anton Blok, The mafia, cit., p. XXX. Anche nel citato volume di Davis il lavoro di Blok viene considerato un
modello positivo di rapporto tra storia e antropologia (p. 265).
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Salvatore Lupo
più alacri e sottili della cultura italiana. “La
regione del latifondo — scriveva Gaetano
Mosca nel 1905 — è ora la Sicilia classica dei
sociologi, quella che essi a preferenza osser­
vano e studiano, per lo più percorrendola nel
treno che da Catania, per Caltanissetta, con­
duce a Palermo12” .
Allo studio della realtà dell’estremo Sud
sono legati nomi di grande rilievo, da Sonnino a Franchetti a Sylos Labini (ma pensiamo
anche alla tradizione demopsicologica di Pitrè e Salomone-Marino); e al medesimo tema
sono dedicate molte delle pagine migliori del­
lo stesso Mosca, di Sereni, di Rossi-Doria, fi­
no ai recenti, eccellenti lavori geografici di
Gambi e di Pecora. A questo formidabile
sforzo di riflessione teorica e di analisi empi­
rica, di cui gli studiosi citati rappresentano
solo le vette più alte, fa riscontro un ancor
più fitto stuolo di studiosi sociali non italia­
ni, che provenendo dalle più disparate disci­
pline hanno cercato di affrontare lo studio
della società meridionale. Gli studi di Boissevain e di Blok si presentano perciò come par­
te di una vicenda culturale che vede come
suoi protagonisti personaggi come Sartorius, Vochting, Rochefort, Hess13 e tanti al­
tri; proprio alla Sicilia d’altronde sono dedi­
cati alcuni dei momenti di maggiore apertura
al dialogo con le scienze sociali da parte di
uno storico di prima grandezza come Hobsbawm14. Economisti (agrari e non), geografi,
sociologi, antropologi, storici, si vanno dun­
que già di fatto misurando su uno spazio co­
mune, anche se poi non sempre si ha l’im­
pressione di un vero confronto tra tali espe­
rienze di ricerca; anzi talvolta lo studioso
preferisce credere, o far credere, di muover-
versi in terreno non dissodato, vergine, lad­
dove siamo davanti a uno dei casi più eviden­
ti di coltura intensiva del panorama delle
scienze sociali.
Varrebbe la pena di interrogarsi sulle ra­
gioni di tanto interesse. L’attenzione così
diffusa a questo estremo lembo meridionale
d’Europa, dai tempi dei viaggiatori settecen­
teschi agli odierni antropologi mediterranei,
meriterebbe essa stessa uno studio approfon­
dito, tanto rilevante appare nella storia cul­
turale del rapporto Nord-Sud, rispetto cioè
al modo in cui si forma il modello di homo
atlanticus in contrapposizione a quello di ho­
mo mediterraneus15', e davanti al Sud come
davanti a un grande museo etnografico, a un
residuo socio-economico, a una chiave per
comprendere strutture elementari e profonde
del rapporto cultura/civilizzazione, si sono
da sempre posti gli intellettuali nord-europei
e americani. Di grande rilevanza dunque
l’approccio antropologico all’universo meri­
dionale: perché tutti i ‘viaggiatori’ sono stati
antropologi ante litteram. Con più sofisticati
strumenti, ma con l’identica convinzione che
l’esperienza conoscitiva ed esistenziale del
viaggio potesse far comprendere gli arcani di
un mondo primitivo e affascinante, gli an­
tropologi anglosassoni sono venuti nel no­
stro Sud alla ricerca, forse, di una verità ori­
ginaria che la loro società aveva perduto da
tempo, credendo di trovarla nel concetto di
comunità contadina; un’entità che veniva
presupposta come socialmente e cultural­
mente omogenea, stabile nei secoli, sostan­
zialmente uguale alle altre società contadine,
per quanto distanti esse fossero nel tempo e
nello spazio.
12 Gaetano Mosca, Igalantuomini, “Corriere della Sera” , 1° settembre 1905, ora in Id. Uomini e cose di Sicilia, a
cura di V. Frosini, Palermo, Sellerio, 1980, pp. 60-64.
13 A. Sartorius, Die Sizilianische Agrarverfassung und dire Wandlungen 1780-1912, Lipsia, 1913; Friedrich Vòchting, La questione meridionale, Napoli, 1956; Renée Rochefort, Le travail en Sicile. Études de géographie sociale,
Parigi, 1961; Henner Hess, Mafia, Bari, Laterza, 1973.
14 II riferimento è naturalmente ai citati I banditi e I ribelli.
15 Cfr. anche le acute considerazioni di Rosario Mangiameli, nell’intervento al convegno su Mezzogiorno e contadi­
ni, cit., pp. 138-42.
Storia e società nel Mezzogiorno
Quando nel 1929 Charlotte Gower Chap­
man venne in Sicilia alla ricerca della civiltà
field research erano le ipotesi di Redfield a
muoverla alla ricerca della civiltà e del villag­
gio contadino16, di quegli aggregati semplici
e originari alla cui scoperta si sarebbero poi
per molti anni dedicati gli studiosi di antro­
pologia; mentre da prospettiva opposta un
political scientist come Banfield, contrappo­
nendo brutalmente alla sana etica dello Utah
la miseria morale di ‘Montegrano’, intende­
va dimostrare l’incommensurabile distanza
che separava dai modelli culturali dell’Occi­
dente il mondo del villaggio meridionale17.
Le possibilità euristiche di simili imposta­
zioni si sono però rilevate alquanto modeste.
La realtà dell’Italia meridionale risulta, in­
fatti, singolarmente ribelle agli schemi contadinistici e comunitari. Innanzitutto manca
l’oggetto primo, il villaggio; al suo posto un
modello di popolamento per grossi nuclei
compatti di cinque, dieci, ventimila e più abi­
tanti pone allo studioso ben altri problemi
interpretativi.
Il paese meridionale vive già da molti seco­
li in un’intensa relazione con il mercato delle
merci, della forza-lavoro, dello strumento
principe di produzione: la terra. La grande
varietà nei modi di accesso alla terra determi­
na una complessità di figure sociali non infe­
riore, ma addirittura superiore a quella della
75
società industriale; la compenetrazione tra
rendita e profitto, tipica dell’economia bor­
ghese e nobiliare, ha il suo corrispettivo con­
tadino nella simbiosi tra commercializzazio­
ne del prodotto e autoconsumo nei modi del
lavoro salariato, della compartecipazione,
della piccola proprietà18. Il possesso della
terra è legato ai cicli del mercato fondiario,
ma anche agli avvenimenti della ‘grande’ sto­
ria politica soprattutto a partire dall’eversio­
ne della feudalità e attraverso le tappe del­
l’unità nazionale, dell’età giolittiana (emi­
grazione), del primo e del secondo dopoguer­
ra; contrariamente a quanto ritengono molti
antropologi, che continuano a privilegiare la
semplice, ‘naturale’ suddivisione eredita­
ria19. Così il mondo contadino si diversifica:
i gabellotti, i massari, gli industrianti emer­
gono collocandosi a cavallo tra città e paese,
contadini e proprietari, produzione e com­
mercio20, finché proprio da questa classe è
garantito il ricambio all’aristocrazia, a dimo­
strazione del fatto che anche una società ‘tra­
dizionale’ conosce la mobilità sociale, seppur
con ritmi rallentati e con modalità ad essa
peculiari.
h'agro-town si presenta come una realtà
socialmente stratificata ma cementata verti­
calmente dai legami familiari e clientelari. In
essa è antico il rapporto con il potere su base
locale, regionale, nazionale: nei confronti
16 Charlotte Gower Chapman, Milocca, a Sicilian village, Cambridge (Mass.), Shenkman, 1971: il manoscritto fu
perduto e ritrovato solo di recente, ma non per questo il lavoro della Chapman restò senza influenza; cfr. Rosario
Mangiameli, Le allegorie del buon governo: sui rapporti tra mafia e americani in Sicilia nel 1943, in “Annali 80” del
Dipartimento di Scienze storiche della Facoltà di Scienze politiche, Catania, Galatea, 1981, pp. 607-29 e in particola­
re p. 612; sulla linea della Chapman; W.F. Whyte, Sicilian peasant society, “American anthropologist” , 1944, n. 1,
pp. 65-74. Di R. Redfield cfr. Tepoztlàn, a Mexican village, Chicago, 1930, e La piccola comunità. La società e la
cultura contadina, cit.
17 E.C. Banfield, Le basi morali di una società arretrata, Bologna, Il Mulino, 1976.
18 Salvatore Lupo e Rosario Mangiameli, La modernizzazione difficile: blocchi corporativi e conflitto di classe in
una società "arretrata", in La modernizzazione difficile: città e campagna nel Mezzogiorno dall’età giolittiana al fa ­
scismo, introduzione di Giuseppe Giarrizzo, Bari, De Donato, 1983, pp. 217-62 e in particolare pp. 224-25.
19 J. Davis, Antropologia delle società mediterranee, cit., pp. 61-62.
20 Proprio questa è la tematica centrale de II capitalismo nelle campagne, di Emilio Sereni (Torino, Einaudi, 1947),
tanto spesso citato, invece, a sostegno di una visione statica e schematica dell’articolazione sociale nelle campagne
meridionali.
76
Salvatore Lupo
cioè dei gruppi dominanti paesani, delle fa­
miglie della grande aristocrazia, dello Stato.
La presenza aH’interno del paese di uno stra­
to di borghesia professionale politicizza pro­
fondamente il significato dei conflitti, come
nel caso della questione demaniale; e d’al­
tronde l’esperienza di vita associata tipica del
grosso paese rende tutti i gruppi sociali più
adusi al rapporto con la politica, pur attra­
verso il filtro deformante del clientelismo.
Da qui l’odio dei teorici del ruralismo italia­
no, da Sonnino ai tecnici dell’Inea, per l’uni­
verso culturale àe\Yagro-town\ in esso que­
sto grande filone della cultura italiana vede­
va paradossalmente riprodursi alcune delle
detestate caratteristiche delle ‘plebi’ urbane,
quelle che consegnavano le masse all’agita­
zione dei mestatori piccolo-borghesi e socia­
listi. Solo la distruzione di quest’entità socia­
le e culturale, con la disseminazione delle po­
polazioni nelle campagne, avrebbe potuto re­
stituire anche il corrotto Sud alle ‘vere’ ca­
ratteristiche del mondo contadino, quali si
riscontravano nell’Italia centrale o nel Vene­
to: autosufficienza, stabilità, fedeltà, rispet­
to dell’autorità paterna e padronale. “Il pae­
se — scriveva alla fine degli anni venti un ruralista convinto — è la città embrionale: è nel
paese che le nostalgie cittadine spuntano, si
concretano, spingono a migrare; non sui
campi, non nell’ora del lavoro che assorbe e
letifica. [...] Fu nei paesi che a suo tempo si
formò, non meno che nelle città, quello stato
d’animo ribellista, alimentato dalle periodi­
che concioni dei sovvertitori e dalle libagioni
domenicali. [...] Quella che restò sana, inte­
gra, devota alle leggi elementari della vita fu
la campagna autentica: i casolari dai quali
l’occhio del contadino non scorge intorno
che alberi, che campi rigogliosi, che verde
consolatore21.”
La limitata diffusione del mito mezzadri­
le nel Sud sta a dimostrare la sostanziale
estraneità di tale modello alle classi domi­
nanti meridionali. Ma ancor più ostili si di­
mostrarono i ceti subalterni, interamente le­
gati ai propri schemi abitativi e culturali,
attaccati alle chiacchiere da donne, ai ‘di­
vertimenti’ del paese, a quello stesso merca­
to delle braccia in piazza che (in mancanza
di meglio) poteva forse rappresentare un ar­
gine allo strapotere padronale, perché dove
si ritrovano i lavoratori in massa lì può na­
scere la resistenza; indisponibili dunque, i
contadini, a “inselvatichire nelle inospitali
campagne”22 e pronti perciò opporsi, maga­
ri sabotandoli, ai progetti di colonizzazione
interna legati al modello mezzadrile, il cui
fine era un processo di acculturazione, cioè
la disgregazione della rete di solidarietà pa­
rentali, vicinali, clienterali che rappresenta­
va il cemento di quella società. Per com­
prendere tutto ciò bisogna innanzitutto
uscire dalla sterile posizione di condanna,
inconsciamente ereditata dalla grande tradi­
zione del ruralismo, che ha fatto guardare
con prospettiva falsamente produttivistica e
veramente ideologica al tipico paese meri­
dionale, definito ‘parassitario’ o ‘paese dor­
mitorio’; ed è in questa direzione, nella va­
lutazione de\Yagro-town come universo coe­
rente di rapporti sociali, culturali e di pote­
re, che una sensibilità e una strumentazione
antropologica possono dare il massimo con­
tributo alla conoscenza della società meri­
dionale.
21 Manlio Pompei, Piccolo urbanesimo, “Il Resto del Carlino”, 14 dicembre, 1928. È notevole il fatto che questo
testo sia stato favorevolmente chiosato da Mussolini, che lo ritenne “degno di lettura e considerazione. Dovunque
è possibile è meglio fare case isolate piuttosto che borgate rurali”, nota per Giuriati del 15 dicembre 1928, in ACS,
Presidenza del Consiglio 1928-30, 3-2, 10-9261. A proposito dei tentativi del fascismo di attuare la colonizzazione
nel Mezzogiorno cfr. le considerazioni di S. Lupo, Mezzogiorno e questione contadina, “Italia contemporanea”,
1981, n. 142, pp. 21-30.
22 Sebastiano Cammareri Scurti, Conseguenze sociali del latifondo siciliano, “Critica sociale” , 1908, n. 8, p. 124.
Storia e società nel Mezzogiorno
Il concetto di omogeneità sociale, che l’an­
tropologia considerava come un presupposto
dovuto alla mancanza di stratificazione, può
in questo senso essere recuperato mediante lo
studio delle forme di mediazione — clienteli­
smo, familismo — che mantengono coeso
l’universo locale. Improponibile appare dun­
que una visione dicotomica della piccola so­
cietà che veda due mondi, quello dei ricchi e
quello dei poveri, segregati e contrapposti; e
perciò, dal confronto con la tematica antro­
pologica più avveduta, esce ridimensionata
l’equazione storia sociale = storia locale =
storia delle classi subalterne, tipica di chi ha
inteso ritrovare per questa via l’eco di una
soggettività delle classi subalterne, sottratta
al condizionamento dei gruppi dominanti:
anzi, viene proposta l’immagine di un mondo
integrato, ispirato da comuni modelli cultu­
rali, segnato da solidarietà e aggregazioni interclassiste.
“Una stratificazione orizzontale, certo —
ha affermato Giovanni Levi riflettendo sul­
la società d’ancien régime —: ricchi e pove­
ri, ceti abbastanza strettamente conclusi,
una mobilità sociale estremamente margi­
nale. Ma il cuore del conflitto, o meglio il
sistema continuo di tensioni che reggono e
modificano i valori e le norme, è ampia­
mente legato ad aggregazioni verticali, che
si istituzionalizzano o restano il fluido
mondo dei gruppi, delle clientele. Se in mo­
menti di crisi sociale gli schieramenti paio­
no definirsi più nettamente in forme — di­
ciamo — di classe, anche in quel momento
il fenomeno che studiamo scompone e ri­
compone una serie di relazioni verticali.
Potere, prestigio, clientela, padrinaggio, le
varie forme di solidarietà e le relazioni
eguali o diseguali del sociale, hanno un’evi­
77
denza palese in questi quadri comunita­
ri”23.
Su questo mondo, in cui l’età contem­
poranea reca un’accentuata stratificazione
sociale sempre però recuperata dai vincoli
familiari e clientelari, può utilmente ap­
puntarsi l’analisi antropologica; purché
non si dimentichi la sua specifica comples­
sità e la sua differenza, anche rispetto ad
altre società rurali. “L’antropologia, nelle
sue specializzazioni etnologica, culturale e
sociale, è sorta per superare le discrimina­
zioni e il pregiudizio e per comprendere
appieno i valori e le strutture delle culture
altre24.”
Ed è proprio partendo dalla diversità della
società meridionale che si può affrontarne i
problemi interpretativi per cogliere gli ele­
menti profondi di quella vicenda e di quel­
l’eredità.
I più recenti studi antropologici hanno af­
frontato l’analisi della realtà meridionale
con una strumentazione ampiamente rinno­
vata. Le innovazioni interpretative si espri­
mono essenzialmente lungo tre filoni: 1.
l’analisi di uno spazio cronologico anche se­
colare; 2. l’attenzione al fatto modernizza­
zione, e quindi il riconoscimento di una fon­
damentale discontinuità, collocata nel secon­
do dopoguerra; 3. l’allargamento della mi­
croanalisi al problema del rapporto tra co­
munità, Stato e mercato.
Blok e gli Schneider hanno studiato due
comunità nella loro vicenda secolare e nel lo­
ro rapporto con il più vasto mondo. I lavori
sul clientelismo e sulla mafia hanno consenti­
to di uscire dalla sterile polemica sul ‘famili­
smo amorale’, mostrando la relazione esi­
stente tra l’organizzazione della società e l’i-
23 Giovanni Levi, Villaggi, “Quaderni storici” , 1981, n. 46, pp. 7-8.
24 Bernardo Bernardi, Uomo, cultura, società: introduzione agli studi etno-antropologici, Milano, Angeli, 1976,
p. 44.
78
Salvatore Lupo
stituto familiare con la sua ideologia25. Lo
studio dei modelli culturali viene affrontato
senza alcuna subalternità al dato statico, e
nemmeno con la solita curiosità archeologica
per il residuo folclorico, ma piuttosto cer­
cando di comprendere come i codici siano
“mezzi di adattamento a queste forze [stori­
che] secolari e non semplicemente residui di
un passato preindustriale ‘tradizionale”2627.
L’oggetto dell’analisi, il paese meridionale,
non è più indifferenziato e omogeneo: emer­
gono quegli strati di paesani entrepreneurs
che assumono una posizione decisiva nel rap­
porto tra grande e piccola società, mediando
tra comunità e Stato, tra società e mercato,
tra contadini e proprietari. Particolarità di
questi imprenditori è quella di investire auctoritas, credibilità, capacità di condizionare
uomini, gruppi, istituzioni, più che capitale.
Un tal potere si appoggia sul reticolo della
famiglia allargata come sulla strumentalizza­
zione del rapporto amicale: ne derivano
gruppi non-corporate (non formalmente
strutturati) che si raccolgono intorno al capo
clientela/imprenditore al fine di garantirsi
un accesso privilegiato alle risorse. In questo
contesto la politica non è per le attività eco­
nomiche un dato accessorio, ma un elemento
costitutivo, e decisiva è la capacità di chi rie­
sce a mediare tra la comunità e il potere eco­
nomico e politico che sta al di fuori di essa. Il
broker, il mediatore, diviene così il protago­
nista della vita sociale meridionale, la vera
chiave per comprenderne i meccanismi più
profondi.
Brokers sono i gabellotti studiati da Blok,
guide delle aggregazioni familiari e di potere
che dall’Unità si alternano nell’affitto dell’ex
feudo di ‘Baronessa’ e quindi nel controllo
del paese di ‘Genuardo’ (Contessa Entellina). Un’analisi attenta e sfaccettata, basata
su un ampio ventaglio di fonti, archivi, inter­
viste, letteratura, segue il conflitto fra i vari
gruppi, la loro capacità di procurarsi appog­
gi dentro e fuori della comunità, la loro atti­
tudine alla gestione del potere attraverso il
comportamento mafioso. La mafia è il siste­
ma attraverso cui si riempie il communica­
tion gap tra centro ed estrema periferia, do­
vuto all’incapacità da parte dello Stato di far
valere il monopolio della violenza con uni­
formità sul territorio nazionale. La cosca
mafiosa si configura quindi come un’orga­
nizzazione — pur se informale — che inglo­
ba sia gli addetti al sistema di controllo so­
ciale nel feudo, dal gabellotto al campiere,
sia i latitanti, i banditi cui spesso è demanda­
to il lavoro più sporco, di sgherro e sicario;
donde la polemica di Blok con Hobsbawm,
contro ogni idealizzazione del bandito come
ribelle all’ordine sociale. Il metodo prosopografico di Blok, dando una singolare solidità
di storia ‘narrata’ alla ricostruzione degli av­
venimenti, permette bene di cogliere un dato
che mi pare centrale: la mobilità sociale nelVagro-town11. Infatti, al di là dell’innegabi-
25 Tra i molti lavori cfr. Joseph La Palombara, Clientela e parentela. Studio sui gruppi d ’interesse in Italia, Milano,
Comunità, 1967; l’antologia a cura di Luigi Graziano, Clientelismo e mutamento politico, Milano, Angeli, 1974, e so­
prattutto i saggi dello stesso Luigi Graziano, Clientelismo e mutamento politico: il caso del Mezzogiorno, pp. 323-362
e di Jeremy Boissevain, Rapporti diadici in azione:parentela amicizia e clientela in Sicilia, traduzione parziale dell’ar­
ticolo, Patronage in Sicily, “M ann.s.” , 1966,1,P P -18-33; dello stesso Boissevain cfr. ancora Friends o f friends. N et­
works, manipolators and coalitions, Oxford, Blackwell, 1974; Eric Wolf, Kinship, friendship and patron-client rela­
tions in complex societies, in Anthropology o f complex societies, cit., pp. 1-22. Una notevole rassegna critica degli stu­
di sul Mezzogiorno, in relazione al problema del conflitto sociale, è quella di Raimondo Catanzaro, Struttura sociale,
sistema politico e azione collettiva nel Mezzogiorno, “Stato e mercato”, 1983, n. 8, pp. 271-315.
26 J. e P. Schneider, Culture and political economy, cit., p. 2.
27 È questo un elemento che appare in molte ricerche, ma che comunemente non viene valutato a sufficienza; cfr.
anche l’analisi, anch’essa concernente la vicenda dell’affitto di un feudo, nel paese di Castelbuono di Orazio Cancila, Gabellotti e contadini in un comune rurale (sec. X V III-X IX ), Caltanissetta-Roma, Sciascia, 1974.
Storia e società nel Mezzogiorno
79
le stabilità delle strutture economico-sociali parlano del nostro paese, e che occupano un
nell’arco secolare proposto (1860-1960), la posto di rilievo nel dibattito internazionale
lunga lotta intorno all’affitto del feudo, e la della loro disciplina. Ci si potrebbe però chie­
notevole quantità di gruppi clientelar-ma- dere se quest’impostazione sia in grado di su­
fiosi — interni ed esterni al paese — che vi scitare un’eco che trascenda i limiti discipli­
concorrono, sta a dimostrare la grande va­ nari, tenendo conto della babele dei linguaggi
riabilità della battaglia per l’egemonia, il ri­ e dei metodi, ma anche della difficoltà del
cambio frequente dei gruppi dominanti, gra­ tradurre, cioè del rapportare una tematica nel
zie alla possibilità sempre presente di ‘scala­ più generale confronto culturale italiano.
ta’ al potere che resterà patrimonio del feno­ Non dimentichiamo che molte delle opere
meno mafioso anche in diverso contesto.
scritte da stranieri sull’Italia hanno spesso un
Brokers sono, secondo gli Schneider, gli carattere di dignitosa divulgazione, e che cio­
imprenditori rurali che da secoli mediano il nonostante divengono il filtro (magari defor­
rapporto tra Sicilia e mercato-mondo. Ap­ mante) attraverso cui intere aree culturali
poggiandosi alle note tesi di Wallerstein sulla guardano al nostro paese, finendo per condi­
precoce determinazione, in età moderna, di zionare ricerche di ambizioni scientifiche as­
un’economia dualistica basata sullo scambio sai maggiori: qual è il caso del supercitato li­
ineguale tra beni primari e manufatti28, gli bro di Mack Smith sulla Sicilia30. Per influire
Schneider ritengono che già a partire dal sulla nostra cultura molte opere avrebbero
XVI secolo la Sicilia sia stata vittima di un perciò bisogno di essere sfrondate di ingenui­
rapporto coloniale collegato alla funzione tà e luoghi comuni e arricchite di una maggio­
dell’isola di grande esportatore di grano; tale re conoscenza della produzione scientifica e
rapporto avrebbe vissuto una nuova fase, del dibattito culturale italiano; sennò si ripe­
neocoloniale, allorché il principale bene terà la chiusura, ma anche la diffidenza e l’in­
esportato diviene la manodopera, tra Otto­ comprensione che ha accompagnato la tradu­
cento e Novecento. Durante tutte queste vi­ zione di libri di notevole valore come, ad
cende la comunità ha bisogno di qualcuno esempio, quello di Tarrow sul partito comu­
che medi tra essa e il mercato, e tra essa e i nista nel Mezzogiorno31.
vari dominatori (Spagna, Italia): da qui il
Non può dunque stupire il fatto che la re­
ruolo cruciale del broker, più abile, più mo­ cente antropologia italiana abbia raccolto
bile, più capace di conoscere uomini e cose questa tematica in maniera culturalmente più
dello stesso grande proprietario, e di orga­ articolata e sofisticata rispetto ai propri stes­
nizzarsi in conseguenza a tutela del proprio si modelli. È il caso dell’uso che Gabriella
potere (mafia).
Gribaudi ha fatto della categoria della Me­
Le opere di Blok e degli Schneider, come diazione nella sua recente Antropologia del
quelle di Boissevain, non sono state ancora potere democristiano nel Mezzogiorno: com­
tradotte in italiano. La circostanza fa pensa­ binando infatti le ricerche di Boissevain,
re, e può darsi sia indice di un certo pro­ Blok, degli Schneider con la magistrale lezio­
vincialismo29: si tratta infatti di lavori che ne di Polanyi32, l’autrice ha inteso studiare il
28 Immanuel Wallerstein, Il sistema mondiale dell’economia moderna, Bologna, Il Mulino, 1982, 2 voli.
29 Come mi sembra ipotizzi E. Grendi nell’introduzione al volume della Gribaudi, p. 18.
30 Denis Mack Smith, Storia della Sicilia medioevale e moderna, Bari, Laterza, 1970.
31 Sidney Tarrow, Partito comunista e contadini nel Mezzogiorno, Torino, Einaudi, 1972.
32 Tra le opere di Karol Polanyi, quella che ha decisamente influenzato il dibattito è stata La grande trasformazione.
Torino, Einaudi, 1974, ben più delle opere più spiccatamente antropologiche del grande studioso ungherese, conte
Economie primitive, arcaiche e moderne, a cura di G. Dalton, Torino, Einaudi, 1980.
80
Salvatore Lupo
modo in cui la figura del broker abbia potuto
svolgere la sua tradizionale funzione anche
all’indomani della ‘grande trasformazione’
del secondo dopoguerra, dopo cioè l’integra­
zione del Mezzogiorno nei circuiti del capita­
lismo nazionale e l’avvento di un sistema po­
litico basato sui partiti di massa. In questo
contesto radicalmente mutato, chi sa meglio
interpretare le esigenze della società meridio­
nale è la Democrazia cristiana, con la sua
ispirazione solidaristica e la sua capacità di
gestire l’intervento pubblico e la redistribu­
zione delle risorse al Sud, evitando gli impat­
ti eccessivamente traumatici del processo di
modernizzazione e proteggendo il sociale da
quella che si configura come un’aggressione
di violenza senza precedenti da parte della
sfera economica, del mercato. Con quest’im­
postazione la Gribaudi supera tendenzial­
mente i suoi maestri. Più che chiedere all’an­
tropologia un repertorio di cosa, della socie­
tà tradizionale, scompare, e di cosa sopravvi­
ve, bisognerà domandarsi quanto delle for­
me comunitarie e dei rapporti tradizionali di­
viene funzionale nella e alla trasformazione;
quanto del vecchio serve come materiale per
edificare il nuovo, al di là di ogni schema
unilineare ed evoluzionistico. Attraverso
analisi come quella della Gribaudi storici e
scienziati sociali possono forse comprendere
come l’esigenza ‘conservatrice’ della difesa
della società dallo sviluppo finisca poi per
condizionare nel profondo lo sviluppo stes­
so, non certo come residuo ma come elemen­
to generatore del nuovo: è appunto il caso
del clientelismo democristiano e della varian­
te italiana dello Stato sociale.
Ancora una volta, però, una così interes­
sante suggestione interpretativa riposa su
una base documentaria debole e su un’argo­
mentazione talora poco pertinente. C’è una
formidabile discrepanza tra la ricchezza dei
riferimenti metodologici, enfatizzati da ben
due introduzioni (dovute a grossi nomi come
Graziarti e Grendi), e una ricerca di stampo
sostanzialmente tradizionale sulla questione
meridionale nel dopoguerra ed il problema
dello sviluppo industriale nel Mezzogiorno,
condotta attraverso un’attenta ricognizione
delle posizioni dei Cenzato, Campilli, Sara­
ceno, che rappresenta poi l’unico contributo
empirico del volume. L’etichetta antropolo­
gica appare quanto mai slegata da questa
parte del testo, e ad essa sovrapposta: il tema
del broker, della sua capacità di intervento e
controllo, pur sostenuto da un oceano di ci­
tazioni dei prediletti antropologi, non è mai
trattato concretamente mediante esemplifi­
cazione, cosicché non ci è dato di leggere no­
mi di persone in situazioni reali, né risultano
analizzate le aggregazioni clientelari dall’ot­
tica giusta, cioè quella periferica, attraverso
le posizioni, ma soprattutto le storie e le
azioni concrete, degli imprenditori assistiti,
degli enti, dei notabili De. Insomma, si tratta
di un libro che riposa su libri, di una traspo­
sizione di notevole intelligenza dei temi della
nuova antropologia, nei confronti della qua­
le c’è da sperare che la Gribaudi non intenda
limitarsi a fungere da broker, ma voglia in
un prossimo futuro svolgere una funzione di
più evidente controllo scientifico mediante
un’applicazione nel concreto dei modelli e
una verifica, quindi, della loro applicabilità.
Esiste dunque un problema di metodi e di
fonti per chi voglia commisurare storia e
scienze sociali dando luogo ad accumulazio­
ne di conoscenze e alla costruzione di model­
li solidamente ancorati a dati dimostrabili,
confrontabili, falsificabili. Non mi pare qui
il caso di affrontare la vexata quaestio
dell’uso dei modelli in storia e nelle scienze
sociali; in ogni caso però l’individuazione di
un corpus di fonti primarie è necessario per
dare solidità a qualsiasi discorso, e qui certa­
mente si verificano i principali problemi per
gli antropologi che studiano la correlazione
tra la prediletta piccola dimensione e la
grande.
Questa difficoltà mi sembra evidenziata
dalle diverse caratteristiche dei due lavori
sulla Calabria scaturiti da una ricerca coordi­
Storia e società nel Mezzogiorno
nata da Giovanni Arrighi: quello di Fortuna­
ta Piselli e quello di Pino Arlacchi. Nel pri­
mo caso abbiamo una risoluta e sobria ade­
renza alla microdimensione; nel secondo un
tentativo di allargare l’analisi ad aree omoge­
nee su scala subregionale ma anche di com­
prendere quanto le diverse caratteristiche so­
cio-economiche delle zone prescelte possano
dire nei confronti del ben più vasto problema
del sottosviluppo. Il lavoro della Piselli stu­
dia il passaggio dal tradizionale al moderno
in un paese del Cosentino attraverso il feno­
meno dell’emigrazione, cioè mediante il gri­
maldello del mercato e del più vasto mondo
che finisce per aprire il microcosmo locale: le
fonti sono i racconti dei vecchi, le statistiche
demografiche, gli archivi comunali, che per­
mettono, a chi ha il dominio degli strumenti
del proprio mestiere, di ricostruire le storie
delle famiglie, degli uomini e delle donne, e
infine gli effetti differenziati dell’emigrazio­
ne sulla struttura sociale e sull’universo cul­
turale del paese.
L’oggetto dell’analisi di Arlacchi presen­
ta invece caratteri di complessità assai mag­
giore: perché si tratta non di paesi, ma di
zone agrarie, e perché tali zone sono state
selezionate con l’occhio attento a che pos­
sano rappresentare “tre sistemi economici
distinti, autonomi e notevolmente diver­
si”33. Un’analisi differenziata e di grande
interesse, dunque, che spezza l’apparente
univocità della questione meridionale cer­
cando di rendere conto dei diversi punti di
partenza, e quindi dei diversi punti di arrivo,
nel passaggio dal tradizionale al moderno.
Tre sono le aree tipo prescelte: il Crotonese,
la piana di Gioia Tauro, il Cosentino. Nel
81
primo caso abbiamo una riflessione sicura­
mente convincente, appoggiata su una lette­
ratura vasta e consolidata. Il sistema sociale
del Crotonese, uno dei più macroscopici
blocchi latifondistici dell’intero Mezzogior­
no, viene ricondotto a una logica basata sulle
tensioni e sui valori dell’universo capitalistico, ben più che sul peso di pretesi residui feu­
dali; ne risulta una conflittualità di classe
sempre più chiara e lineare, che finisce per
travolgere il sistema.
Anche il capitolo sulla piana di Gioia Tau­
ro è di notevole valore. Qui siamo di fronte a
una delle prime analisi sulla realtà del Mez­
zogiorno caratterizzata da un’agricoltura in­
tensiva, commercializzata e proiettata verso
il mercato internazionale,che dall’autore
vien detta “società di transizione permanen­
te”. In questa zona l’apertura completa al
mercato mondiale provoca l’esposizione di
una piccola imprenditoria agricola a una se­
rie di fluttuazioni economiche di grande vio­
lenza che finiscono per impedire la cristalizzazione di vere gerarchie sociali, cioè il con­
solidamento di una classe dirigente. In una
simile situazione si pone il fenomeno mafio­
so, come fatto di intermediazione e di sosti­
tuzione ai fini della stabilità sociale, in con­
trapposizione ai processi più classici di ege­
monia che nella piana di Gioia Tauro non
possono verificarsi; la mafia si colloca dun­
que negli interstizi di un’agricoltura svilup­
pata, ma che non riesce a completare la sua
transizione al moderno: attraverso di essa
vengono veicolati i processi di mobilità so­
ciale e le aspettative di profitto, sempre fru­
strati dalTincapacità delTintero assetto so­
ciale di registrare definitivi progressi34.
33 P. Arlacchi, Mafia contadini e latifondo, cit., p. 9.
34 II legame così stabilito tra il fenomeno mafioso e un tipo di dinamismo economico, pur distorto, viene in una cer­
ta misura ridimensionato dal più recente lavoro di Arlacchi su La mafia inprenditrice, cit., in cui alla mafia contem­
poranea, momento genetico di un nuovo capitalismo, viene contrapposta quella classica, sistema di comportamento
e codice culturale, dove secondario è il problema dell’accumulazione e della gestione delle risorse (pp. 68-71 e pas­
sim). Vengono così sottovalutati gli elementi ‘imprenditoriali’ della mafia classica (gabella, intermediazione com­
merciale) e di quella degli anni cinquanta-sessanta (edilizia); la differenza, a mio parere, attiene piuttosto ai diversi
82
Salvatore Lupo
L’analisi di Arlacchi appare qui affasci­
nante, ma non è egualmente convincente,
perché quanto più è complesso il modello
tanto più dovrebbe essere limpido il percor­
so di ricerca e la base documentaria che lo
sostiene. Per tratteggiare adeguatamente
una “società di transizione permanente” si
sarebbero dovute studiare le caratteristiche
del mercato internazionale, l’influenza della
congiuntura sulla struttura sociale, i tempi
e i modi della formazione delle élites e del­
la loro sostituzione/trasformazione, capen­
do ad esempio se i capitali accumulati nelle
annate favorevoli vengano reinvestiti in al­
tri settori e in altre zone, seguendo cioè gli
spostamenti degli interessi dal profitto alla
rendita e viceversa. In mancanza di ciò si
può solo ammirare l’intelligente trasposi­
zione di Polanyi, o magari riconoscere
l’eco della migliore analisi dell’agricoltura
intensiva meridionale, quella di Carlo Ro­
dano35: anche se il modello non è esplicita­
to, e comunque, per essere operativo in
una microanalisi, avrebbe avuto bisogno di
una verifica che invece è carente.
Nel caso del Cosentino, invece, la prevari­
cazione del tradizionale modello antropolo­
gico di società compatta e indifferenziata,
magari rimpolpato dall’elaborazione (oggi di
moda) di Chayanov36, rischia di fuorviare
decisamente il discorso. Il Cosentino viene
definito una società contadina ‘quasi pura’
perché è largamente appoderato, perché è
fuori del mercato37, perché la presenza della
grande proprietà vi è limitata, mentre risulta
molto diffusa la proprietà contadina auto­
sufficiente. In realtà le stesse cifre Inea
(1947) citate dall’autore dicono cose diverse:
forte incidenza della grande e grandissima
proprietà, superiore alla media calabrese e
meridionale, limitata incidenza della media
proprietà, ma sempre inferiore alla media ca­
labrese e meridionale38. Il dato della diffu­
sione di una colonia parziaria appoderata ri­
sulta effettivamente condizionare questa zo­
na in maniera originale rispetto ai modelli
prevalenti di insediamento nel Mezzogiorno,
caratterizzati com’è noto da una spiccata
precarietà; ma ciò non può far parlare di
“modo di produzione contadino” , perché ac­
canto all’azienda contadina stabile (in pro­
prietà o in colonia) esiste pur sempre, e mas­
sicciamente, la grande e media proprietà or­
ganizzata con i soliti contratti precari e so­
prattutto la piccola e piccolissima proprietà
particellare che, specie in zona cerealicola e
di montagna, non può che servire da riserva
di manodopera per l’azienda capitalistica39.
ritmi dell’accumulazione nei vari periodi, e quindi alla più lenta cooptazione degli strati intermedi mafiosi nei ranghi
dell 'élite fino alla seconda guerra mondiale.
35 Cfr. C. Rodano, Mezzogiorno e sviluppo economico, Bari, Laterza, 1954, soprattutto alle pp. 55-56.
36 A.V. Chayanov, The theory o f peasant economy, Illinois, 1966.
37 L’A. afferma che negli anni quaranta il 75% della produzione veniva destinata all’autoconsumo (p. 32), ma non
cita la fonte. Comunque bisogna dire che proprio gli anni quaranta, per la particolare struttura del mercato nel pe­
riodo guerra-dopoguerra, non possono essere molto rappresentativi.
38 Arlacchi (p. 22) lavora sulle elaborazioni Inea, La distribuzione della proprietà fondiaria in Italia, Roma, 1948,
secondo cui nel Cosentino il 12,9% dalla superficie è coperto dalla proprietà oltre i 1.000 ha, cui va aggiunto il
33,4% oltre i 100 ha: tot. 46,3%; siamo dunque molto più in là della media regionale calabrese (rispettivamente 5,6
+ 28,2 = 33,8%) e della media meridionale (4 + 26,2 = 30,2%). Né diversa appare la situazione della media pro­
prietà da 10 a 100 ha, dove dovrebbe situarsi il podere contadino autonomo; il 23,7% del Cosentino è inferiore alla
media regionali (28,1%) e meridionale (32%).
39 Se sommiamo il 30% di superficie lavorabile a colonia parziaria (p. 23) al 23,7% della media proprietà possiamo
dedurre che poco più di metà della terra, nel Cosentino degli anni quaranta, vede un insediamento contadino stabile
e autosufficiente. Non possiamo invece assimilare a questa realtà il 19,2% rappresentato dalle proprietà da 2 a 10 ha
per il quale l’autonomia dal mercato del lavoro, in un’area dalle caratteristiche del Cosentino, non è provabile: non è
quindi convincente l’affermazione dell’A., che considera marginale l’incidenza della colonia precaria e / o del lavo-
Storia e società nel Mezzogiorno
Questa piccola area, così poco rappresentati­
va dei rapporti socio-economici del Mezzo­
giorno, esprime anch’essa un rapporto di
simbiosi tra economia contadina e proprieta­
ria, subisce il prelievo della rendita, vive i
rapporti di lavoro salariato al di fuori della
famiglia-impresa, pur se non siano espressi
in forma monetaria. Credo quindi che si pos­
sa concludere che in nessuna zona del Mez­
zogiorno, neppure nella più arretrata e stati­
ca, possano funzionare gli schemi elaborati
per il villaggio messicano o vietnamita, o per
il mir russo; ma neppure i modelli (francesi o
toscani che siano) basati sulla continuità del
rapporto tra l’uomo e la terra attraverso le
generazioni e sulla rigida contrapposizione
tra città e campagne: proprio quello che non
si riscontra nel nostro Sud40.
Al di là, quindi, del notevole sforzo di or­
ganizzare materiali così complessi in un uni­
co discorso, e dell’indubbio interesse del la­
voro nella sua interezza, lo studio di Arlacchi
risulta di valore alquanto diseguale proprio
per il carattere non sempre convincente del
rapporto tra analisi empirica e costruzione
dei modelli. Il problema può risultare più
chiaro se ci rifacciamo alle dichiarazioni pro­
grammatiche di Arlacchi, il quale ritiene che:
“ 1) le aree-tipo individuate possedessero la
83
proprietà di contenere in modo amplificato
ed astratto le possibili forme elementari del
sottosviluppo meridionale e che: 2) le altre
unità sociali e territoriali della Calabria e del
Mezzogiorno potessero essere considerate
come il prodotto della ‘combinazione’ di
questi insiemi fondamentali”41. Da questo
punto di vista alcune scelte interpretative di­
scutibili si spiegano con il tentativo di dare
alle tre zone quei caratteri tra loro opposti
(Crotonese e Cosentino) che sono funzionali
alla costruzione del modello: tale completa
divergenza difficilmente potrebbe verificarsi
davvero in aree tra loro contigue, e in conti­
nua comunicazione, senza una robusta for­
zatura dei dati. E infatti si ha l’impressione
che l’individuazione del modello avvenga
prima, e talvolta senza un’approfondita ana­
lisi fattuale, sostituita troppo spesso dalla ci­
tazione di una letteratura di grande livello,
ma riferita a tutt’altri contesti. Naturalmente
il lavoro di comparazione è essenziale nelle
scienze sociali, come anche in storiografia:
ma se non si distingue tra bibliografia e fon­
ti, il comparativismo rischierà di risultare
improprio, o anche fuorviarne, e soprattutto
resterà non verificabile l’applicabilità ai casi
concreti dei modelli, qualunque sia il loro re­
spiro culturale42.
ro salariato e la assimila alla devianza (pp. 54-55 e passim). Al proposito non si può far altro che ribadire la notazio­
ne critica di Piero Bevilacqua, Calabria fra antropologia e storia, “Studi storici” , 1981, n. 3, che ricorda (p. 666) le
dimensioni veramente esigue, al di sotto del mezzo ettaro, di una metà della cosidetta proprietà. In generale sul ruolo
della piccolissima proprietà particellare nel Mezzogiorno cfr. Emilio Sereni, La questione agraria nella rinascita na­
zionale, Torino, Einaudi, 1975, pp. 100-101 e passim, con la conseguente critica delle falsificazioni del ruralismo fa­
scista; falsificazione cui resta invece subalterna l’impostazione di Arlacchi, come dimostra l’acritica riproposizione
delle tesi del Turbati, Rapporti tra proprietà, impresa e manodopera nell’agricoltura italiana: Calabria, Roma, Inea,
1929, sul carattere totalmente autosufficiente dell’azienda contadina.
40 Cfr. anche le equilibrate considerazioni di G. Galasso, L ’altra Europa, cit., pp. 431-452. Il mito della Gemeinschaft contadina, cui da qualche tempo indulgono anche alcuni intellettuali di sinistra, ha avuto di recente una sua ri­
proposizione di particolare rozzezza (ma di maggior coerenza ideologica) da parte dell'integralismo cattolico: cfr.
Massimo Guidetti, Paul Henry Stahl, Un’Italia sconosciuta. Comunità di villaggio e comunità familiari nell’Italia
dell’800, Milano, Jaca Book, 1977.
41 P. Arlacchi, Mafia contadini e latifondo, cit., p. 11.
42 Come ad esempio a p. 37, dove si descrive la famiglia contadina del Cosentino avendo come unico riferimento
William I. Thomas, Florian Znaniecki, Il contadino polacco in Europa e in America, Milano, Angeli, 1969, testo di
indiscutibile valore ma alquanto incoerente con l’argomento.
84
Salvatore Lupo
L’attenzione a un quadro di interrelazioni
ben più ampio di quello locale, come nel caso
del lavoro di Arlacchi, rappresenta comun­
que un fatto estremamente positivo, anche se
comporta molti problemi. Nel caso della ri­
cerca degli Schneider tali difficoltà raggiun­
gono il livello più alto, perché qui siamo di
fronte addirittura a un tentativo di rapporta­
re la Weltgeschichte alla microanalisi.
Un discorso di questo genere richiede, se
vuol essere scientificamente fondato, l’uso di
fonti specifiche e di una salda documentazio­
ne. Nel lavoro degli Schneider, invece, man­
ca qualsiasi tipo di fonte storica43; né può
supplire l’attenzione a una storiografia,
d’avanguardia come quella di Braudel o di
Wallerstein, che in questo contesto può dare
solo suggestioni generali. La mancata focalizzazione su un corpus di fonti primarie
comporta un rischio decisamente rilevante
nel rapporto tra storia e scienze sociali: quel­
lo dell’uso strumentale della storiografia in­
tesa come elemento collettore di dati per le
generalizzazioni dello scienziato sociale44. E
infatti il lavoro degli Schneider consta di tre
elementi mai fusi tra loro sul piano del meto­
do anche se funzionali al fine interpretativo:
una parte antropologica, che contiene i risul­
tati della ricerca sul campo, dedicata all’ana­
lisi dei codici culturali (onore, furberia, ami­
cizia); una ricostruzione storica, che è una
sintesi di letture fatte senza contributo di ri­
cerca alcuno; l’applicazione degli schemi di
ispirazione terzomondista sulla dipendenza
coloniale, dei quali resta difficile dimostrare
l’applicabilità allo specifico. In contrapposi­
zione, Blok dimostra ben altra capacità di
fondere storia e antropologia non tanto nelle
dichiarazioni programmatiche quanto nel
concreto della ricerca, cioè nella capacità di
maneggiare le fonti dando al modello un’in­
discutibile solidità cognitiva. I risultati di
Blok derivano dalla ricerca, quelli degli
Schneider dall’ideologia; e quest’ultimo è un
metodo sterile, seppure possa esprimersi at­
traverso un’argomentazione a tratti convin­
cente e culturalmente rilevante.
Riconoscere la dimensione diacronica nel­
lo studio della società meridionale significa
fare soltanto un primo passo nella ricerca di
un modello che renda veramente conto degli
elementi dinamici. La dialettica tra continui­
tà e mutamento, naturalmente, attiene a tutti
i fenomeni sociali; ma nell’approccio alla so­
cietà meridionale resta pesante, su storici e
scienziati sociali, l’eredità di una prospettiva
culturale che ha inteso l’assenza di sviluppo
come un’assenza di storia, proprio nel senso
di una totale staticità.
Anche rispetto alla tematica del broker
bisogna trovare il punto di intersecazione
tra la lunga e la breve durata, se non si
vuole dar vita a una categoria tanto onni­
comprensiva quanto vuota di contenuti rea­
li. La scelta di Blok è quella di formulare
un discorso su un secolo di storia unitaria
giocandolo attorno al rapporto Stato-periferia: la continuità del sistema di potere ba­
sato sulla mediazione è dunque correlata a
una indubitabile continuità istituzionale,
quella appunto dello Stato unitario, insie­
me a una continuità di relazioni politico­
economiche che viene dimostrata nel corso
della ricerca.
43 All’assenza di fonti fa riscontro una limitata conoscenza della letteratura coeva: nessuna delle opere citate in
bibliografia è anteriore al 1785; a quest’unico testo del secolo XVIII si accompagnano una decina di volumi editi
nell’Ottocento.
44 In questo senso mi sembra possano influire (seppure talora per vie traverse) le indicazioni di uno dei padri del
funzionalismo in antropologia, Radcliffe-Brown, che distingue etnografia e storia, discipline empiriche e ausiliarie, da antropologia e sociologia, discipline teoriche e di tipo scientifico. Cfr. Alfred Radcliffe-Brown, Struttura
e funzione nelle società primitive, Milano, Jaca Book, 1968.
Storia e società nel Mezzogiorno
Più arduo è senza dubbio il tentativo de­
gli Schneider di leggere la vicenda siciliana
nello specchio del legame con il mercato
mondiale, assicurato dalla figura del media­
tore, su un arco di sei secoli. Esiste un mo­
dello che possa unificare una vicenda così
lunga? La proiezione di lunga durata, e in
funzione subalterna, verso il mercato inter­
nazionale è certo una costante che giusta­
mente gli Schneider ritengono influenzi la
vicenda isolana e soprattutto la fisionomia
delle classi dirigenti e il loro rapporto con
l’intera società.
Appurata però l’esistenza di un simile rap­
porto di dipendenza, bisognerebbe applicare
quel tanto di distinzione e di analisi specifica
che permetta di uscire dal generico, soprat­
tutto evitando di usare concetti come quelli
di rapporto coloniale che, per indicare nor­
malmente tutt’altri fenomeni in tutt’altro
contesto, finiscono soltanto, a mio parere,
per ingenerare confusione. E qui non si vede
come si possa operare una reductio ad unum
di fattori del tutto differenti tra di loro, co­
me l’esportazione del grano in età moderna
e quella di forza-lavoro che si inaugura
nell’ultimo decennio del secolo XIX, mentre
resta oscuro il senso in cui gli Schneider uti­
lizzino in entrambi i casi l’onnipresente cate­
goria del broker senza analizzare veramente,
e quindi distinguere, le forze in campo. Qui
gli autori perdono un’occasione di applicare
85
le categorie antropologiche allo studio del
rapporto di mediazione tra società e mercato
messo in opera dai mercanti genovesi o cata­
lani, e in ultimo inglesi, che controllavano i
flussi delle merci; mentre per l’età contem­
poranea questo dato è assai meno importan­
te, e la mediazione del gabellotto si esplica
in tutt’altro senso. Il termine ‘rapporto colo­
niale’ infine, presuppone l’introduzione di
una logica di mercato completa, con la su­
bordinazione totale delle esigenze sociali, si­
no al limite estremo, alla generalizzazione
della categoria di merce, come ad esempio
nell’economia di piantagione45. Nel caso del­
la Sicilia del Quattro-Seicento, invece, il
prezzo risulta soltanto una delle variabili che
condizionano l’esportazione, spesso subor­
dinata alle esigenze alimentari della società
locale, che potevano farsi valere in vario
modo, e magari attraverso le riots46: si
esportava cioè solo l’eccedenza, se e quando
essa si verificava. Tutt’altro il contesto, na­
turalmente, del periodo tra fine Ottocento e
Novecento, quando effettivamente la Sicilia
si colloca a pieno titolo in un mercato mon­
diale unificato sotto l’egida del capitalismo
industriale47. La mancanza di un reale lavo­
ro di ricerca su questi temi non permette pe­
rò agli autori di ricostruire adeguatamente il
carattere multiforme della connessione del­
l’isola con il mercato mondiale, che non è
poi determinato così esclusivamente dall’im-
45 Mi pare che una simile critica possa essere mossa anche all’impostazione di Wallerstein, nel senso che non può
essere omologata la condizione di un paese inserito, magari in maniera subalterna, in un sistema internazionale di
scambi, a quella di un paese che subisce la violenza distruttiva del colonialismo, cioè di una forma tutta particolare
di integrazione; considerazioni analoghe, prendendo ad esempio Polonia e zona andina, sono fatte da Oscar Itzcovich, L ’opera di Wallerstein sul sistema economico mondiale: I, “Quaderni storici”, 1979, n. 40, pp. 249-261.
46 Sul commercio del grano in Sicilia cfr. tra l’altro Maurice Aymard, Il commercio del grano nella Sicilia del ’500,
“Archivio storico per la Sicilia orientale” , 1976, pp. 7-40; Orazio Cancila, Baroni e popolo nella Sicilia del grano,
Palermo, Palumbo, 1983. L’analisi più brillante della riots come tentantivo di controllo del mercato è certo quello
di E.P. Thompson, L ’economia morale delle classi popolari inglese nel secolo X V III in Idem Società patrizia, cit.,
pp. 57-136.
47 Cfr. i saggi di Giuseppe Barone, Salvatore Lupo, Rita Palidda, Marcello Saija nel volume, Potere e società in
Sicilia nella crisi dello Stato liberale, Catania, Pellicano Libri, 1977; Salvatore Lupo, Blocco agrario e crisi in Sici­
lia tra le due guerre, Napoli, Guida, 1981.
86
Salvatore Lupo
portazione di manodopera. Si pensi per
esempio alla sorprendente affermazione de­
gli Schneider, secondo la quale la propensio­
ne dell’isola all’esportazione dei prodotti
pregiati dell’agricoltura mediterranea sareb­
be abortita con Crispi48: laddove proprio at­
traverso questo canale (insieme a quello rap­
presentato dallo zolfo) si realizza uno dei ca­
si più macroscopici di integrazione interna­
zionale di una regione del Mezzogiorno. Ma
si ha l’impressione che, in questo come in al­
tri casi, le intuizioni interessanti di questo la­
voro finiscano coll’essere svalutate dalle
scelte metodologiche interne alla ricerca,
dalla mancanza di un’analisi sfaccettata,
dalla ricercata univoca rigidità delle ipotesi
interpretative.
La Gribaudi, diversamente dagli Schnei­
der, ma anche da Blok, inserisce opportuna­
mente la tematica del broker in relazione ai
processi di modernizzazione, una grande di­
scontinuità collocata nel secondo dopoguer­
ra che non necessariamente tronca i rapporti
sociali consolidati nel tempo, piuttosto muta
di segno di equilibri tradizionali ovvero li
conserva in maniera però funzionale a un
contesto radicalmente mutato. Ma anche il
lavoro di Fortunata Piselli dimostra con
quanta maggior sensibilità si muova in que­
sto campo l’antropologia italiana, con quale
più matura coscienza del carattere di grande
complessità del divenire sociale nel nostro
paese.
Oggetto dello studio della Piselli è ‘Alto­
piano’ (Acri), un paese della provincia di Co­
senza situato al centro di una zona appodera­
ta, contadina, e comunque caratterizzata da
un notevole grado di omogeneità sociale e
culturale. Ad Altopiano il meccanismo del
mercato penetra attraverso l’emigrazione:
ma le cause, i modi e gli effetti del fenomeno
risultano radicalmente diversi se ci riferiamo
alla prima metà del secolo o al periodo tra
anni cinquanta e anni sessanta. Nel primo
caso l’esodo, transoceanico, si caratterizza
per il prevalente contributo delle classi inter­
medie e anche superiori; l’emigrazione “si
sviluppava secondo ritmi e processi determi­
nati dalle stesse strutture di parentela e del
vicinato — che assolvevano alla funzione di
riproduzione della vecchia economia di sussi­
stenza (quando la comunità era relativamen­
te isolata dai meccanismi di mercato) — ed
era un meccanismo ‘spontaneo’ di riequili­
brio del sistema, che si risolveva in un raffor­
zamento dei valori e delle strutture esi­
stenti”49.
In sostanza si perpetuavano così gli equili­
bri tradizionali della famiglia e della comuni­
tà; si stabiliva un minimo di mobilità sociale;
si allontanavano gli elementi devianti e po­
tenzialmente disgregatori dell’ideologia fa­
milistica. Se si esclude quest’ultimo caso,
l’emigrante partiva come una propaggine
dell’aggregato familiare, da esso sostenuto
affinché potesse sostenerlo, rientrando infi­
ne all’interno del microcosmo di partenza
come fattore di rinnovata stabilità. Questo
meccanismo però non può operare oltre il se­
condo dopoguerra, quando una nuova emi­
grazione di massa spezza il meccanismo tra­
dizionale e l’ideologia familistica che ne assi­
curava il funzionamento. La cesura degli an­
ni cinquanta insomma amplifica le tendenze
centrifughe e rende irreversibili le trasforma­
zioni; ma questo non vuol dire che i rapporti
e le ideologie familistico-clientelari non pos­
sano essere riciclati secondo le esigenze del
48 J. e P. Schneider, Culture, cit.; p. 125; di seguito (p. 127) si afferma che l’emigrazione giolittiana scoraggiò la tra­
sformazione intensiva, anche se ogni fonte o testimonianza afferma esattamente il contrario: cfr. soprattutto G. Lorenzoni, Inchiesta parlamentare sulle condizioni dei contadini nelle province meridionali e nella Sicilia: Sicilia, Ro­
ma, 1910.
49 Fortunata Piselli, Parentela, cit., p. 7.
Storia e società nel Mezzogiorno
nuovo universo del mercato e della moder­
nizzazione.
Questo problema del trasferimento degli
equilibri tradizionali in quelli attuali attra­
verso la fondamentale discontinuità della
‘grande trasformazione’ è dunque la temati­
ca fondamentale della giovane antropologia
italiana, dalla Gribaudi ad Arlacchi alla
Piselli50. Bisogna però chiedersi in che misu­
ra la dicotomia tradizionale/ moderno non
rischi di impoverire l’analisi e semplificare
all’eccesso i modelli. Una versione hard di
quest’antitesi finirebbe infatti coll’appiattire
il passato in una dimensione indifferenziata e
statica, ingabbiando l’evoluzione, ma anche
le brusche accelerazioni di una storia secola­
re, attorno a un salto unico e formidabile: il
secondo dopoguerra. Qui paradossalmente
le scienze sociali convergono con la più tradi­
zionale storiografia etico-politica sul Mezzo­
giorno, che utilizza periodizzazioni consimi­
li, risospinge il fascismo in mezzo alle paren­
tesi, liquida il sistema giolittiano come mera
riedizione di quello crispino e la Sinistra sto­
rica come ripetizione mascherata della De­
stra: tutto fermo sino alla palingenesi del se­
condo dopoguerra, magari con il movimento
contadino come deus ex machina. Non vo­
glio certo negare il carattere radicale del rivolgimento verificatosi al Sud aH’indomani
dell’ultimo conflitto mondiale, in particolare
per quanto attiene al rapporto Stato-merca­
to-società, con la relativa dissoluzione/mu­
tazione di forme assai antiche, stabili, di
umana comunità. Ma la trasformazione co­
mincia ben prima del dopoguerra: gli studi
87
sugli anni trenta son lì a dimostrarci che pro­
prio in questo periodo il nostro diviene un
paese prevalentemente industriale, e non sol­
tanto a livello dei grandi comparti produtti­
vi, ma anche della composizione delle élites e
del sistema politico. Il discorso della moder­
nizzazione nel Mezzogiorno potrebbe usu­
fruire di una ancora più ricca prospettiva se
si tenessero presenti i risultati di alcuni lavori
recenti, che hanno sottolineato gli effetti mo­
dernizzanti di fattori come il protezionismo,
l’emigrazione giolittiana, le leggi speciali, il
regime reazionario di massa51.
Se Arlacchi (come ha già notato Bevilac­
qua) ha potuto poggiare tutta un’analisi de­
gli anni 1860-1945 su dati statistici riferiti al
secondo dopoguerra52, lo ha fatto perché la
‘società contadina’ del Cosentino gli sembra­
va immobile sull’intero periodo. Invece i dati
del 1947 non dicono niente sull’Ottocento né
sul primo Novecento, perché la proprietà
contadina che l’autore ritiene tradizionale si
forma proprio in quest’arco storico attraver­
so le tappe dell’eversione della feudalità,
dell’età giolittiana, del primo dopoguerra;
anzi bisognerebbe vedere quanto la figura
sociale del contadino meridionale, con l’uni­
verso culturale che essa esprime, sia essa stes­
sa il portato di fenomeni, avvenimenti, rela­
tivamente recenti. Discorso simile può essere
fatto per l’‘Altopiano’ della Piselli, dove
l’emigrazione del primo Novecento, più che
a confermare le strutture tradizionali, serve
forse anche a formarle, per quanto attiene a
quel carattere di zona appoderata e contadi­
na: società contadina che si modella ben po-
50 In questo senso la prospettiva antropologica risulta un correttivo assai utile agli aspetti più schematici della socio­
logia della modernizzazione, che ad esempio può vedere proprio nella caduta della centralità dei rapporti primari
una delle caratteristiche basilari della transizione.
51 Cfr. ed esempio i saggi di G. Barone, S. Lupo, R. Mangiameli, Aldo Cormio, Girolamo Sotgiu, Luigi Masella
raccolti nel volume La modernizzazione difficile, cit. La funzione periodizzante degli anni trenta nella vicenda economico-sociale del Mezzogiorno, e segnatamente della Calabria e della Sicilia, è stata evidenziata da Piero Bevilac­
qua, Le campagne del Mezzogiorno tra fascismo e dopoguerra; il caso della Calabria, Torino, Einaudi, 1980, e S.
Lupo, Blocco agrario e crisi, cit.
52 Piero Bevilacqua, Calabria fra antropologia e storia, cit., p. 666.
88
Salvatore Lupo
co ‘spontaneamente’, ma sotto le sollecita­
zioni violente del mercato unico delle merci e
della forza-lavoro. Né vale assumere come
decisivo il punto di vista dei protagonisti, che
comprensibilmente qualificano come “tradi­
zionali” , stabili e rassicuranti, i tempi della
propria giovinezza5354: più che subordinata al
carattere conservatore dell’ideologia e della
memoria, la Piselli mi pare qui condizionata
dall’ultimo residuo di una strumentazione
superata e... tradizionale.
Tradizionale, arretrato o sottosviluppato
che sia, questo Mezzogiorno rimane parte di
uno Stato nazionale di forma occidentale
coinvolto in maniera non marginale nello
sviluppo capitalistico, che esprime ideologie
e forze sociali indubbiamente partecipi di un
contesto europeo. Come ultima incarnazio­
ne della questione meridionale si pone dun­
que il problema della comunicazione tra il
Nord e l’estremo Sud del paese, due entità
supposte come sostanzialmente incomunica­
bili: ed è appunto il broker, nella problema­
tica dell’antropologia più recente, a rappre­
sentare il canale di collegamento tra centro e
periferia, tra grande e piccolo, tra moderno
e tradizionale, organizzandosi sia politicamente che economicamente al fine di media­
re la presenza di due elementi estranei
nell’universo subalterno del Sud: lo Stato e
il mercato.
Mi sembra evidente che l’integrazione po­
litica tra le due parti del paese in periodo uni­
tario sia stata sottovalutata. Si pensi all’influenza dei proprietari fondiari meridionali
sugli equilibri politici dello Stato liberale, ad
esempio con l’avvento della Sinistra al pote­
re; e, in generale, il personale politico meri­
dionale si è sovente trovato ai vertici del pote­
re statale, come espressione dei gruppi domi­
nanti del Mezzogiorno, come garante di un
equilibrio sociale nell’ambito del processo di
industrializzazione, persino — è il caso di
Nitti — come elemento-pilota dei più avanza­
ti progetti di modernizzazione. Il communi­
cation gap ipotizzato da Blok e Boissevain o è
relativo alla più generale struttura dello Stato
liberale, che lascia mano libera ai gruppi lo­
cali in Piemonte come in Calabria, o è un
concetto da prendere con le pinze e che co­
munque non tiene conto della capacità della
periferia di reagire sul centro utilizzando lo
Stato, senza vuoto di comunicazione alcuno,
per i propri fini. Il tradizionanale vittimismo
meridionalista finisce su questi temi per fuor­
viare l’analisi: e forse si può dire che la socie­
tà meridionale è capace di esprimere più sto­
ria, cultura, capacità di resistenza ma anche
di egemonia, di quanto gli storici meridiona­
listi e molti antropologi possano digerire. Se
poi, come fanno gli Schneider, si utilizzano
schemi di tipo coloniale per qualificare i
gruppi dominanti siciliani, si arriverà al para­
dosso di una classe dirigente ‘colonizzata’ che
pesa, come parte integrante di un blocco ege­
monico, sugli equilibri politici del paese ‘co­
lonizzatore’ sino a governarlo spesso: è il ca­
so di Crispi, Orlando, Sturzo, Sceiba, di
Rudinì, della grande burocrazia. Si provi solo
a immaginare cosa avrebbe detto Sua Maestà
britannica se qualche maharaja si fosse inse­
diato al numero dieci di Downing Street5*...
53 Fortunata Piselli, Parentela, cit., p. 3; qui l’autore fa proprie le posizioni di Jean Brògger, Montevarese. A study o f
peasant society and culture in Southern Italy, Bergen, Università forlaget, 1971, p. 27.
54 Più interessante la tesi degli Schneider secondo la quale élites come quelle siciliane, perché pesantemente subordina­
te al mercato internazionale, sarebbero interessate a un processo di modernizzazione (eteronomo) ma non allo svilup­
po autonomo ed equilibrato: cfr. Culture, cit., pp. 3-5 ma anche il citato saggio scritto insieme a Hansen, Modernisa­
tion and development. A parte la difficoltà di applicare il noto schema terzomondistico concependo uno sviluppo au­
tonomo di una singola regione, anche qui il discorso andrebbe sostanziato analizzando gli atteggiamenti dei gruppi do­
minanti davanti alle varie opzioni e in relazione ai differenti modelli; al proposito cfr. i saggi del volume Potere e socie­
tà, cit., e S. Lupo, Blocco agrario e crisi, cit.
Storia e società nel Mezzogiorno
Lo Stato unitario è dunque un aggregato
di forze sociali e gruppi regionali che in pe­
riodi diversi si scontrano e /o si alleano. In
questo quadro sarebbe il caso di riprendere
una delle parti più brillanti (ma più trascura­
te) dell’analisi di Polanyi: quella della fun­
zione protettiva svolta dai proprietari fon­
diari nei confronti della società dinnanzi ai
ritmi troppo rapidi della trasformazione55.
Penso al protezionismo, soprattutto a quello
granario, che tutela l’intera articolazione so­
ciale del Mezzogiorno dai rischi distruttivi
della crisi e della concorrenza internazionale;
ma purtroppo su questo tema la storiografia
ha preferito ripercorrere le orme della pole­
mica dei liberisti, che, favoleggiando di im­
probabili colossali ristrutturazioni produtti­
ve, intendevano esporre ‘senza rete’ le sorti
dell’agricoltura meridionale alle aggressioni
del mercato56. Le politiche protettive dello
Stato sono perciò più antiche del 1945. La
stessa tematica della Gribaudi si sarebbe cer­
tamente arricchita se avesse tenuto più pre­
sente la principale iniziativa dei brokers De
in favore della società ‘tradizionale’ del Sud,
cioè la riforma agraria: ma a tal fine si sareb­
be dovuto cogliere il profondo retroterra di
questa operazione nella cultura politica ita­
liana, nel ruralismo cattolico, sonniniano,
fascista e infine democristiano.
L’altro tema che meriterebbe una più ap­
profondita discussione è quello della penetrazione del capitalismo nel Mezzogiorno e
della mercantilizzazione dell’agricoltura. In
campo economico i caratteri di unificazione
delle due parti del paese in età liberale sono
in effetti ben più limitati che nella sfera poli­
89
tica, nel senso che esigua appare la rete degli
scambi di merci, di capitali, di manodopera
su scala nazionale57: donde la lunga persi­
stenza dei mercati locali, dell’autoconsumo,
dell’artigianato, ma anche il legame privile­
giato di alcuni prodotti con il mercato mon­
diale, che sollecita già da metà Ottocento
massicce riconversioni produttive (vigneto,
agrumeto, orto) ed una accentuata differen­
ziazione zonale58.
Prescindendo dunque dalle spinte al con­
solidamento di un mercato nazionale (che
comunque si intensificano lungo tutto il pe­
riodo unitario) risulta notevole anche in mol­
te zone del Sud la tensione verso la mobilità
del possesso fondiario, la commercializza­
zione del prodotto, le trasformazioni
agrarie59: fenomeni cui si accompagna la per­
sistenza di lunga durata di strutture tradizio­
nali, soprattutto nelle zone interne ma non
solo in quelle. Qui una posizione di tipo polanyiano, secondo la quale il mercato nasce
sempre al di fuori e contro la società, non
sembra realistica, né utile. In molti casi, in­
fatti, il Mezzogiorno ci appare capace di vi­
vere nel mercato capitalistico esprimendo es­
so stesso tendenze e valori tipici dell’universo
capitalistico, e in questo c’è una stridente
contraddizione con una tradizione culturale
consolidata, ma anche con le posizioni basi­
lari degli Schneider, Blok, Gribaudi, Piselli,
in parte Arlacchi, che vedono nel mercato
qualcosa di estraneo alla società meridiona­
le, che dall’esterno viene imposto; proprio
perché società e mercato restano sfere con­
trapposte (anche se non separate) c’è bisogno
di una figura di raccordo, il broker, che co-
55 K. Polanyi, La grande trasformazione, cit., pp. 235 sgg.
56 Cfr. S. Lupo, R. Mangiameli, La modernizzazione difficile, cit., pp. 234 sgg.
57 Di grande rilievo al proposito l’analisi di Luciano Cafagna, Intorno alle origini del dualismo economico italiano,
in Aa.Vv. Problemi storici dell’industrializzazione e dello sviluppo, Urbino, 1966.
58 Fenomeno già efficacemente analizzato da E. Sereni, Il capitalismo nelle campagne, cit., pp. 211 ssg.
59 Cfr. ad esempio i saggi del già citato La modernizzazione difficile e quelli del volume Problemi di storia delle
campagne meridionali nell’età moderna e contemporanea, a cura di A. Massafra, Bari, Dedalo, 1981.
90
Salvatore Lupo
stituisce l’unico canale di comunicazione tra
queste due entità. Momento dinamico e mo­
mento statico rischiano dunque di opporsi ri­
gidamente, senza rispecchiare il carattere
complesso e articolato della realtà meridiona­
le, in cui elementi in apparenza contraddittori
riescono a convivere in maniera simbiotica.
L’analisi di Polanyi va piuttosto intesa come
uno stimolo a non appiattire il discorso po­
nendoci esclusivamente dal punto di vista del­
lo sviluppo, ma ad appuntare la nostra atten­
zione sulla dialettica immanente tra necessità
umane e spinte allo sviluppo, tra sociale ed
economico; valutando quindi le esigenze di
resistenza e autoconservazione della società
dinnanzi al processo potenzialmente distrut­
tivo della ‘grande trasformazione’.
Per chi dunque voglia ritrovare tale dialet­
tica, tipica di una realtà così variegata, nella
microdimensione, i criteri di selezione del­
l’oggetto di studio risultano fattori da evi­
denziare e giustificare scientificamente. Il
grave rischio dell’approccio antropologico è
infatti quello di continuare nella ricerca (se­
condo una linea che può anche restare non
esplicita) di una società ‘fredda’, non com­
plicata da mutamento storico, dinamica eco­
nomica, articolazione sociale; donde la scelta
dell’argomento che meglio si presti alla ricer­
ca del semplice, del primitivo. Saranno così
studiate le poche aree caratterizzate dalla
piccola proprietà appoderata (caso ultimo
quello della Piselli e del Cosentino di Arlac­
chi), come quelle che possono dar garanzia a
chi cerca cultura contadina e Gemeinschaft;
oppure, come fanno Blok e gli Schneider, si
appunterà lo sguardo sulla più complessa
realtà del latifondo, ma sempre privilegiando
la zona più arretrata. Se si parla di Sicilia, si
parlerà di Sicilia occidentale; le zone agrarie
saranno sempre quelle interne e cerealicole,
mai quelle costiere e commerciali60.
Così, i nomi fantasiosi dati ai paesi delle
field researches, da Banfield a Blok, conti­
nuano a suonare come Monti, Alti e sempre
Grani: luoghi dove non si può non conclude­
re, direbbe Pizzorno, che proprio non c’è
nulla da fare61; mentre raramente sentiremo
parlare di Pianovino o Mareagrume, dei cen­
tri commerciali, delle città. Il perché poi si
continui a usare questa irritante toponoma­
stica convenzionale è cosa incomprensibile al
profano, che finisce per pensare che ciò serve
solo da ostacolo per chi voglia controllare i
dati e comparare i risultati; se poi si intende
implicitamente riaffermare che sudiare un
paese è solo soffermarsi su un case study,
sottolineando con il nome convenzionale il
carattere di necessaria astrattezza del model­
lo, bisogna tornare a chiedersi entro quali li­
miti gli Alti-Monti-Grani siano rappresenta­
tivi dell’intera realtà meridionale, in che mi­
sura cioè il microcosmo rispecchi il macroco­
smo.
Senza questo costante confronto la mi­
croanalisi rischia di perdere il senso delle in­
terrelazioni e quindi del ruolo del proprio og­
getto in un più generale contesto, ruolo che
può essere mutevole nel tempo. Se il paese
studiato è stato centro di attrazione econo­
mica e politica a metà Ottocento, può essere
divenuto una realtà periferica e degradata a
metà Novecento: dal punto di vista della sto­
ria del paese stricto sensu questa è una vicen-
60 Cfr. anche la descrizione fatta da Davis delle principali tendenze dell’antropologia economica mediterranea, che
privilegiano lo studio dell’agricoltura estensiva raffigurando comunità isolate, senza relazioni col più vasto mondo;
“ma è un’immagine falsa, priva com’è di città, con poche migrazioni, poco commercio, sempre pochissimo sul mare
stesso, a mala pena con qualche cenno sulle attività industriali o artigianali: gli studi antropologici sulle economie
mediterranee sono circoscritti, limitati, fuorviami” , Antropologia, cit., p. 31.
61 Alessandro Pizzorno, Familismo amorale e marginalità storica, ovvero perché non c ’è nulla da fare a Montegrano, celebre recensione critica al volume di Banfield ora pubblicata come postfazione alla recente edizione del libro,
cit.
Storia e società nel Mezzogiorno
da di stabilità e /o decadenza; ma dal punto
di vista delle forze sociali e culturali si tratta
di energie (classi dirigenti, capitale, lavoro)
che non si distruggono, ma si trasferiscono,
magari non lontano. È il caso dei paesi cala­
bresi, che continuano la loro vita sulla costa,
mentre il centro montano decade e muore62;
e mentre l’etnologo collaziona i reperti di
una società che scompare, e conta gli abitanti
sempre in decremento, quegli stessi gruppi
familiari, quegli stessi tratti culturali, vivono
e si traformano a pochi chilometri di distan­
za, seguendo quello scivolare della popola­
zione da monte a valle che è la caratteristica
basilare della storia sociale del Mezzogiorno
contemporaneo: è quanto ha fatto il profes­
sor Brogger, etnologo norvegese, allorché ci
ha descritto la comunità di ‘Montevarese’
(Bova, in Calabria), segnata dai ritmi eterni
delle stagioni e della vita dei campi63, senza
accorgersi che a pochi chilometri nasce Bova
Marittima, che finisce per risucchiare dina­
mismo, persone, storia, al vecchio centro.
Insomma, se continuiamo a studiare solo
l’area arretrata rischiamo di inficiare qual­
siasi buon proponimento di attenzione al da­
to diacronico, schiacciando in realtà il muta­
mento e dando una finta impressione di stati­
cità. In questo senso non è poi così distante
91
la posizione di Brogger da quella di Blok, al
di là delle opposte istanze metodologiche: il
primo seleziona una comunità greca perché
proprio questa peculiarità gli consente di evi­
denziare gli aspetti tradizionali, statici e di
isolamento che gli sembrano unici, rilevanti;
l’altro vuol sottolineare gli elementi storici,
ma sceglie egualmente un paese dell’interno
di cultura greca, anche se poi trascura di
menzionare tale piccolo particolare, forse
perché ininfluente rispetto al modello. In
ogni caso il lettore, non potendo conoscere i
veri nomi dei paesi, non sarà in grado di inte­
grare i riferimenti, né di verificare l’analisi,
né di individuare controtendenze64.
Soltanto nella tripartizione di Arlacchi
troviamo un tentativo di rispondere a questo
problema dei molti Mezzogiorni agrari, un
tema che ci rimanda a Jacini ed a Rossi-Doria. Arlacchi intende darci un modello di
funzionamento di tre realtà socio-economi­
che base nel Sud: la piccola proprietà delle
aree di montagna (il Cosentino), l’area co­
stiera e commercializzata (la piana di Gioia
Tauro), il latifondo (il Crotonese). Nel pri­
mo caso una società contadina, poco diffe­
renziata, stabile, bloccata attorno all’istituto
della famiglia-impresa, si mantiene chiusa di
fronte alle aggressioni della ‘grande’ storia e
62 Cfr. l’analisi di Lucio Gambi, Calabria, Torino, UTET, 1965, pp. 234-37 e 243-48. Per la dialettica zonale in Sici­
lia cfr. A. Pecora, Sicilia, cit., V. Guarassì, F. Micale, Autonomia e dipendenza nello sviluppo di una formazione
marginale, in Italia emergente: indagine geo-demografica sullo sviluppo periferico, Milano, Angeli, 1982, pp. 55390; Roberto Cacciola, Sara Musumeci, Rita Palidda, Le cinque Sicilie, a cura di R. Catanzaro, Catania, CULC,
1978.
63 J. Brogger, Montevarese, cit., p. 26. A Bova si parla un dialetto greco che il Rohlfs, Le origini della grecità in Ca­
labria, “Archivio storico per la Calabria e la Lucania” , 1933, pp. 231-58, considera un residuo della Magna Grecia,
ma che secondo studi più recenti e realistici appare un portato dell’influenza bizantina databile dal IX-X secolo: cfr.
ad esempio O. Pierangeli, Il presunto dorismo dei dialetti neo-greci d ’Italia, in A tti del IX Congresso di studi bizan­
tini, Atene, 1957, pp. 326-32. Il Brogger naturalmente preferisce credere alle prime ipotesi, pur non conoscendo i te­
sti di questo dibattito, e ritenendo bastevoli le informazioni di un locale self made historian, il maresciallo Salvatore
Messiano (p. 29). Se si riflette al fatto che, in bibliografia, il Brogger cita un solo libro italiano (Mafia e politica di
M. Pantaleone) si capirà il perché un antropologo norvegese possa rimanere subalterno alla mediazione municipali­
stica di un maresciallo dei carabinieri (magari etichettata come ‘cultura contadina’) quando va alla ricerca di meta­
storiche resistenze attraverso i millenni.
64 E perciò anche l’autore di queste pagine ha dedotto i veri nomi dei paesi studiati mediante un procedimento indi­
ziario; d’altronde, come direbbe Ginzburg, anche questo è lavoro da storico.
92
Salvatore Lupo
dell’universo mercantile; nel secondo la com­
mercializzazione dell’agricoltura determina
invece un’apertura ‘senza rete’ alle più vio­
lente tensioni provenienti dall’esterno; nel
terzo siamo dinnanzi alla polarizzazione tra
grande impresa latifondistica e masse brac­
ciantili, indifese di fronte a uno sfruttamento
illimitato che talora arriva alla distruzione fi­
sica della forza-lavoro attraverso la denutri­
zione e la malattia. Quella che Arlacchi chia­
ma l’utopia latifondistica è il tentativo di ba­
sare un sistema socio-economico su una pura
logica di mercato, senza la rete protettiva
delle strutture familiari e di autoconsumo.
Un caso tipicamente polanyiano, dunque
(anche se il modello non è esplicitato): allor­
ché il mercato cerca di distruggere la società,
la società stessa reagisce, finendo per di­
struggere il sistema, in questo caso mediante
lo strumento della lotta di classe.
Questa analisi sfaccettata ha il pregio di
introdurre il discorso delle differenze, ma nel
contempo ha il difetto di precludere la com­
prensione della relazione e della complemen­
tarietà. La forzatura interpretativa cui Ar­
lacchi ha sottoposto le sue aree-tipo al fine di
far corrispondere una zona a un modello, e
in modo da far risultare le aree-modello del
tutto divergenti, ha determinato un quadro
di rigida polarizzazione in sensi opposti:
Crotonese e Cosentino. Ma nella gran parte
delle zone latifondistiche il mercato ‘puro’
non esiste, anzi questo è proprio il caso clas­
sico in cui la durezza del rapporto capitalistico viene mitigata dalla complementarità con
l’autoconsumo e la piccola proprietà; il Cro­
tonese, quale ci viene descritto da Arlacchi,
sarebbe dunque un caso atipico di latifondo
meridionale. Caso atipico come il Cosentino,
una piccola zona ritagliata in modo alquanto
tendenzioso per salvare la vecchia ipotesi di
società contadina pura, con risultati però,
come si è visto, poco convincenti.
A me sembra invece che il problema, per
chi studia la società meridionale, sia coglie­
re gli elementi diversissimi, e in apparenza
contraddittori, che coesistono in uno stesso
quadro funzionale: la compenetrazione tra
rendita e profitto consente la trasformazio­
ne fondiaria e la speculazione edilizia;
l’emigrazione stagionale permette all’agri­
coltura commercializzata della costa di uti­
lizzare la sovrappopolazione relativa delle
aree montane. Interpretando il fenomeno
mafioso sulla base di una dialettica zonale,
si può dire che il luogo d’elezione della ma­
fia non sta nell’area arretrata né in quella
avanzata, ma piuttosto nei punti di interse­
zione tra la prima e la seconda, nei centri di
mercato (locale e internazionale), laddove si
controlla l’acqua e quindi la trasformazione
fondiaria, si commercia il prodotto o lo si
trasforma, nei momenti in cui si eroga il
credito, dall’usura alle casse rurali; sicché,
nella vicenda delle varie cosche, Bagheria,
Monreale o la stessa Palermo appaiono cen­
tri importanti almeno quanto Villalba e
Corleone65. Insomma, fin dalla seconda me­
tà dell’Ottocento, il mafioso utilizza i codici
familistici e clientelari ‘tradizionali’ per il
controllo delle risorse, fino a dare la scalata
ai centri del potere politico e finanziario,
come dimostra (tra l’altro) il caso Notarbartolo.
65 Questa linea interpretativa, alquanto trascurata nel dibattito recente, è però ampiamente presente già nella let­
teratura a cavallo tra Otto e Novecento: cfr. tra l’altro Leopoldo Franchetti, Le condizioni politiche e amministra­
tive della Sicilia, in Franchetti, Sonnino, La Sicilia nel 1876, Firenze, Vallecchi, 1925; Giuseppe Alongi, La mafia
nei suoi fa tti e nelle sue manifestazioni. Studio sulle classi pericolose della Sicilia, Torino, Bocca, 1886; Gaetano
Mosca, Che cos’è la mafia, “Giornale degli economisti” , s. II, 1901, pp. 236-62-ora in Idem., Uomini e cose di Si­
cilia, cit., pp. 1-25. Ma pure nella nota analisi di E. Sereni, Il capitalismo nelle campagne, cit., pp. 145 sgg., cen­
trata sulla mafia del latifondo, si pone l’accento più sui fattori di dinamismo che su quelli di staticità.
Storia e società nel mezzogiorno d’Italia
A livello di movimenti politici, altrettanto
decisive appaiono alcune esperienze appa­
rentemente locali o settoriali. Si pensi ad
esempio alla questione demaniale, quale si
pone in età contemporanea, come momento
di formazione politica e di raffigurazione
dei problemi collettivi, ben al di là della
consistenza materiale del patrimonio pub­
blico e quindi della portata ‘oggettiva’ del
problema. La rivendicazione tradizionale e
arcaicizzante sulle terre demaniali apre la
strada al conflitto orizzontale e classista at­
traverso le cristallizzazioni verticali della fa­
miglia allargata e della clientela, modella i
gruppi politici, pone le masse in rapporto
con lo Stato. Ma quanto, del preteso carat­
tere tradizionale della tematica demaniale, è
reale e quanto deriva dalla necessità della
cultura politica dei ceti intermedi e subalter­
ni di esprimere istanze più linearmente pro­
gressiste attraverso un involucro legittimi­
sta? E d’altronde, quale parte delle terre
contestate è veramente demaniale ab anti­
quo, e quale invece deriva da una conquista
recente fatta dai comuni, con un processo
speculare alle ben più note susurpazioni ba­
ronali?
Naturalmente, fenomeni mafiosi e que­
stione demaniale, come altri problemi-chia­
ve della storia meridionale, non si riscontra­
no dappertutto; ma l’intreccio indissolubile
tra vecchio e nuovo, che appare l’aspetto
fondamentale della vicenda del nostro Sud,
93
emerge con tale evidenza in alcune situazio­
ni locali da farle risultare un osservatorio
davvero privilegiato di una vicenda ben più
vasta. Non basta dunque cercare l’areacampione senza poi giustificare le scelte; bi­
sogna piuttosto studiare le zone di confine e
di passaggio, dove si evidenziano le più ge­
nerali tendenze evolutive del territorio, della
cultura, dei rapporti sociali e di potere. A
tal fine io credo vadano privilegiate le realtà
che vedono la compresenza di società tradi­
zionale e mercato, grande e piccola proprie­
tà, rendita e capitale, arretratezza e svilup­
po, in modo da individuare all’interno di
queste stesse realtà la dinamica modificatri­
ce delle gerarchie sociali e spaziali; così, tra
l’altro, il ricercatore eviterà il rischio di per­
dere per strada i propri protagonisti per...
estinzione.
Solo scegliendo zone che permettono di co­
gliere l’intera prospettiva storica con uno
sguardo d’assieme lo studioso può enucleare
tutte le grandi possibilità euristiche della mi­
croanalisi, che altrimenti riposa meccanicamente sulla vicenda generale, oppure rischia
di avere un’eco culturale irreparabilmente
modesta. Se l’antropologia storica saprà co­
gliere questa fondamentale dimensione a ca­
vallo tra antico e moderno, il dialogo interdi­
sciplinare, ma soprattutto la nostra cono­
scenza della società meridionale, farà un de­
ciso passo avanti.
Salvatore Lupo
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