élisabeth rousset - Edizioni Helicon

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Rolando Perri
ÉLISABETH ROUSSET
Boule de suif
SALVIFICA PROSTITUTA
Saggio letterario
Edizioni
Helicon
ÉLISABETH ROUSSET
Nel 2015, questo saggio letterario - ancora inedito - è risultato vincitore
del Premio Internazionale Poesia e Narrativa Cinque Terre - Golfo dei
Poeti “Sirio Guerrieri” e del Concorso Letterario Nazionale “Scriviamo
insieme”.
1. L’ossessione della disfatta di Sédan
La guerra franco-prussiana del 1870-71 fu segnata a
lungo sulla pelle dei francesi. Non soltanto su coloro che
l’avevano vissuta direttamente nelle vesti di sconfitti sul
campo di battaglia ma, anche, sull’intera popolazione coeva al grande conflitto e sulle generazioni successive.
L’atteggiamento dei transalpini fu sempre variegato e articolato rispetto a quella débâcle, purtuttavia sempre connotato da un senso elevato di sciovinismo, e di revanscismo
appena i tempi storici lo avrebbero permesso, così come
effettivamente avvenne.
La disfatta di Sédan, con un tributo enorme di vite umane
e l’umiliazione toccata a Napoleone III, fatto persino prigioniero, portava alla caduta del secondo Impero e alla nascita
della terza Repubblica con l’intermezzo dell’esperienza politica della Comune di Parigi. A nulla valse la lunga resistenza
del popolo francese, rimasto solo a difendersi, nel confronto impari numericamente e in equipaggiamenti bellici con
l’attrezzatissimo e preparato esercito teutonico.
Il vincitore morale e materiale era il cancelliere prussiano, l’inossidabile Otto von Bismarck, che volle umiliare oltre misura la Francia con dure condizioni poste nemmeno
dopo un anno di guerra, quali la cessione dell’Alsazia e di
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una parte della Lorena, oltre a far sfilare le truppe vittoriose germaniche addirittura lungo Les Champs Elysées, cosa
che voleva significare l’ottenimento dello scalpo del vinto.
Così l’acredine verso i tedeschi fu sempre forte nell’animo dei francesi. La gente comune parigina e dei dintorni,
durante il conflitto e nella fase della resistenza, apparentemente e opportunisticamente aveva familiarizzato con
l’esercito occupante.
Non poche volte i prussiani venivano ospitati nelle case
degli abitanti del posto per rendere meno oppressiva la
loro presenza, quasi a edulcorarla, però, guardando più in
là lungo le rive della Senna, si scoprivano all’alba del nuovo
giorno i corpi di soldati sgozzati nottetempo.
I militari teutonici, per loro conto, specialmente nelle periferie, approfittavano della supremazia militare e del loro
ruolo di vincitori certi per perpetrare ogni tipo di abuso nei
confronti dei francesi.
Non poche furono le violenze e gli stupri consumati su
donne francesi indifese e, su altre, che non si volevano piegare alle voglie sessuali di soldati rozzi e portati ad affermare una sorta di superomismo, che affondava le radici più
nascoste in una concezione filosofica male interpretata e,
ancor peggio, messa in atto nella quotidianità di una guerra
in corso.
Il comune sentire del popolo francese era quello di opporre una resistenza che, in ogni caso, potesse assicurare
l’integrità fisica, scendendo in qualche maniera a necessari
compromessi e patti salvifici.
Tutto questo montava l’onda lunga di odio nei confronti
dell’esercito prussiano, che doveva fare i conti con il particulare di ciascuna donna e di ogni singolo cittadino, nel contesto in cui essi si trovavano a vivere quei giorni terribili di
disagio morale e di privazioni materiali, di limitazione delle
libertà individuali.
Il ruolo dell’intellighenzia francese lasciò alquanto a desiderare nell’immediatezza dei fatti e dello svolgimento stesso dell’evento bellico. La rapidità con la quale si era entrati
in conflitto, forse, non aveva dato agli intellettuali il tempo
di metabolizzare le cause e gli sviluppi continui di situazioni che si evolvevano a ogni piè sospinto sotto il profilo
politico, seppure con un esito pressappoco scontato, che
era quello della sconfitta, rispetto alla quale bisognava limitare i danni.
Certamente alcune voci di scrittori e di autorevoli artisti
si levarono a difesa dei valori della francesità, dell’orgoglio
nazionale e della tradizione culturale nella patria della Rivoluzione francese, ma furono, in prima istanza, timide, poco
incisive e non determinanti per una svolta decisa in quello
che si approntava militarmente e strategicamente.
Poco alla volta si prendeva maggiore consapevolezza di
quanto accaduto e si adeguavano le posizioni singole, i
punti di vista, le osservazioni e le conseguenti valutazioni.
Erano, maggiormente, considerazioni a posteriori che
entravano in un’analisi profonda e partecipata di quel coinvolgimento della Francia in una tenzone bellica sproporzionata e oltre le possibilità di una Nazione e di un Popolo.
Si contavano i danni materiali e morali precipitati sui destini singoli e si operava un feedback sui comportamenti tenuti
dall’esercito invasore e dalle donne, dagli uomini di Francia
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di fronte allo strapotere militare nemico.
Non pochi intellettuali, con i loro scritti e con circostanziate testimonianze dirette e indirette, facevano venire alla
luce una serie di fatti e di vicende deplorevoli, condannabili,
tutti legati alla brutalità di una guerra-lampo e di una resistenza
generosa, talvolta eroica, altresì inadeguata e perdente.
Venivano vivisezionati, innanzitutto dalla letteratura di
quel periodo e futura, episodi gravi nei quali, da una parte, erano mostrati, la tracotanza dei vincitori, dall’altra, la
sofferenza e il disagio personale sul piano etico di molte
donne e di non pochi uomini.
Tuttavia l’intellighenzia d’oltralpe faceva opera di verità,
allorquando sottolineava il comportamento censurabile di
una parte della borghesia, che non solo aveva avuto indiscutibili vantaggi economici nel tourbillon della guerra,
quanto si era defilata a detrimento delle classi subalterne,
e aveva svenduto quelli che apparivano i valori sui quali
fondare un’esistenza onorevole.
Non era esente da critiche, in quella disamina culturale,
l’atteggiamento assunto, lato sensu, dalla Chiesa, che avrebbe dovuto con più energia e con maggiore incisività stare
a fianco dei più deboli e di quelli che la congiuntura bellica
poneva ai margini della società in un momento difficile per
tutti.
Una querelle montante che vedeva in prima fila gli esponenti più rappresentativi del Naturalismo, notoriamente
ostili alle gerarchie ecclesiastiche per quel seme di anticlericalismo insito nella loro arte, la quale ostacolava ogni forma
di intermediazione etica imposta dall’alto, spesso codina,
bacchettona e distante dai bisogni reali della gente.
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2. Les Soirées de Médan
Émile Zola, in quegli anni, viveva una grande parentesi di notorietà con l’opera di recente pubblicazione, 1877,
dal titolo emblematico per un naturalista doc, L’assommoirL’ammazzatoio.
Il libro rientrava nel ciclo Les Rougon-Macquart, più romanzi che evidenziavano la vena ispiratrice e feconda del
teorico del Naturalismo francese.
Quella recente scrittura di un testo speculare del mondo studiato e indagato a lungo dallo scrittore francese di
origini italiane - per parte del padre, l’ingegnere veneziano
Francesco Zola - in quel lasso di tempo della sua parabola
letteraria gli aveva assicurato tanta celebrità, che andrà via
via consolidandosi nel tempo con una vasta e prolifica produzione sperimentale in più generi e con diverse modalità.
Per uno come lui che aveva iniziato a lavorare da fattorino
in una casa editrice - Hachette - voleva dire cambiare quasi
radicalmente la propria vita sia dal lato economico, sia sul
piano del prestigio sociale in una Parigi dal fascino sempre
inconfondibile e irrinunciabile.
Egli viveva con la madre e come persona, sotto il profilo
somatico, non era immune da una certa propensione verso
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la pinguedine, con i segni di una balbuzie fastidiosa e di una
miopia incipiente.
Il successo arriso recentemente lo aveva spinto a trovare
un’abitazione più comoda e più elegante negli arredi, negli
addobbi interni, rispondente grandemente alle sue aspirazioni di letterato impegnato nella creazione di una scuola
di scrittori, tutti curvati al nuovo dogma del Naturalismo.
Da maître à penser doveva farsi promotore di iniziative per
l’aggregazione di un gruppo di artisti e di autori, che potessero al meglio interpretare il suo credo letterario in una fase
di stanca dell’orgoglio e della grandeur tipica dei francesi.
Da qui partoriva l’idea di una frequentazione periodica di
scrittori in erba in un preciso giorno settimanale.
Ogni settimana, infatti, si riunivano in casa di Zola alcuni
giovani autori che avevano prodotto, sino ad allora, pochi
scritti se non di scarso rilievo e di limitata considerazione. Essi si ritrovavano, ben accolti e quasi coccolati dalla
madre del maestro, madame Émilie Aubert, la sera di tutti i
giovedì. Discutevano e dibattevano a lungo fino alla mezzanotte e, alcune volte, oltre. Erano conversazioni produttive che avevano lo scopo - per Zola - di gettare un primo
germoglio nel terreno fertile di quelle menti propense a
seguirlo nella costruzione di una teoria in grado di rappresentare e di veicolare nuovi modelli di scrittura. Di rottura
rispetto al passatismo sempre imperante, in sintonia con
una concezione filosofica che affondava le sue derivazioni
nel Positivismo.
Tuttavia, come sovente succede, al primo entusiasmo caratteristico di chi s’incammina su una strada tutta intera da
esplorare con curiosità e coerenza, fa seguito un momento
di appannamento. Ovvero di ricerca di itinerari autonomi,
se non addirittura alternativi, rispetto a quelli indicati dall’iniziatore di una determinata corrente di pensiero, di un pacchetto ideologico, che finisce per non essere compatto e
coeso, bensì somigliante soltanto a quello confezionato inizialmente e offerto ai neofiti, che non sono più tali.
I frequentatori della maison parigina di Émile Zola, nel
corso del giovedì letterario appositamente creato per incontrarsi, rispondevano ai nomi di Paul Alexis, Henry Céard,
Léon Hennique, Joris Karl Huysmans, Guy de Maupassant.
Cinque esordienti, o suppergiù, che erano adusi a rinchiudersi nel retrobottega di locali popolari lungo la Senna,
laddove consumavano piatti prelibati, non preferiti da tutti
i palati per la mancanza di raffinatezza culinaria, pur sempre stuzzicanti e piegati a gusti particolari. Pietanze accompagnate da libagioni, talvolta abbondanti, di vino novello o
invecchiato, che serviva da intercalare al loro sermoneggiare passionale sullo stato di salute della letteratura nostrana
e su un’analisi delle condizioni sociali dei francesi, quale diretta conseguenza degli avvenimenti politici internazionali.
Non rare volte il quintetto di aspiranti scrittori era riuscito
nella spericolata impresa di condurre in quegli ambienti per
nulla selezionati, pure maleodoranti e punto di socializzazione di gente poco raccomandabile, finanche lo stesso
Zola, con Edmond de Goncourt e Gustave Flaubert.
Quest’ultimo, considerata la costanza degli incontri del
giovedì dell’intero gruppo in casa zoliana, aveva coniato
un’espressione efficace, che la sapeva lunga sullo stretto
rapporto intercorrente tra il caposcuola del Naturalismo
e i suoi discepoli acquisiti di recente: Flaubert chiamava i
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