Esami di stato es. prova8_giornalismo

Prova 8
Il giornalismo televisivo
A Il candidato svolga la seguente traccia, con riferimenti alle sue conoscenze in ambito
sociologico, antropologico e pedagogico.
«Il giornalismo televisivo è dunque un genere preciso e facilmente identificabile dello spettacolo
televisivo. Ne segue che le regole di selezione e di trattamento delle notizie, i ritmi e i modi di ogni
discorso che vi compare non sono sottoposti solo alle leggi dell’informazione ma anche a quelli del
divertimento, cioè della strutturazione piacevole del tempo libero: un’attività che è poco
considerata dalla teoria ma che certamente è la più diffusa nella nostra società ed è senza dubbio
quella per cui i nostri contemporanei si impegnano di più. Essa ha le sue regole assai precise – la
prima delle quali, vogliamo ripeterlo, è il rifiuto della noia, vale a dire dell’eccesso o del vuoto di
informazione, della ripetizione, dell’uniformità. Poiché in genere il mondo ha proprio queste ultime
caratteristiche – cioè è ripetitivo, fatto di situazioni quasi uniformi e di fenomeni che si ripetono
all’infinito con pochissime varianti, pieno di minuzie che devono essere faticosamente decifrate per
estrarne un quadro significativo –, i telegiornali hanno, ancor più dei giornali scritti, un forte bisogno
di filtrare i dati, di montarli secondo criteri di interesse, di valorizzarne cioè il “lato umano”, più che
quello politico o economico, di corredarli di immagini interessanti, di “venderli” sempre come nuovi,
inediti, eclatanti, “storici”. […]
Il telegiornale tende a riproporre sistematicamente questa operazione su tutta la realtà. Con la
globalizzazione degli interessi e delle immagini caratteristica del nostro tempo, è tutto il mondo a
essere filtrato e spettacolarizzato in tale maniera. Al di là delle singole tendenze ideologiche o delle
volontà propagandistiche, questa continua e necessaria spettacolarizzazione della realtà ha senza
dubbio effetti di lunga durata sul pubblico, instilla un modo caratteristico di guardare il mondo, che
merita di essere considerato attentamente. I rischi inerenti a questo stile comunicativo sono
evidenti: un atteggiamento passivo e deresponsabilizzante da parte di chi assiste allo spettacolo
del mondo, una certa facilità di manipolazione, l’inflazione di “fattoidi”, vale a dire di notizie
inventate più o meno costruite, oppure autoriferite, caratterizzate da un incerto rapporto con la
realtà, o ancora di “fattoidi ingiuntivi” che fingono di informare ma in realtà tentano di prescrivere
una moda. D’altro canto la spinta verso la spettacolarizzazione sembra irresistibile, investe anche
l’informazione scritta e quella radiofonica».
O. Calabrese - U. Volli, I telegiornali. Istruzioni per l’uso, Laterza, Roma-Bari 2001
Alla luce delle sue conoscenze teoriche dei mass media, il candidato spieghi:
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come l’informazione televisiva deformi e manipoli la realtà per il modo stesso in cui è
costruita;
come essa influenzi il pubblico con effetti a breve e a lungo termine;
come una buona istruzione e un’educazione al senso critico possano aiutare i più giovani a
decodificare in modo corretto i messaggi giornalistici, senza lasciarsi irretire dall’“effetto di
realtà” della finzione televisiva.
B. Il candidato risponda in modo chiaro e sintetico a tre dei seguenti quesiti.
a. Quale significato didattico ed educativo ha il giornale scolastico di Célestin Freinet?
b. La teoria degli effetti limitati dei media di Paul F. Lazarsfeld.
Patrizia Scanu © Pearson Italia S.p.A.
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c. Che cos’è l’antropologia visiva (visual anthropology)? Qual è il significato metodologico
della documentazione filmica in antropologia culturale?
d. Che cosa intende il sociologo Erving Goffman con la nozione di “istituzione totale”?
e. Che cos’è l’“andragogia” di Malcolm Knowles?
f. Che cosa sono e quale significato hanno la dote e il prezzo della sposa in antropologia?
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A
Analisi della traccia
Il brano proposto proviene da un saggio critico sul linguaggio del giornalismo televisivo, scritto da
Omar Calabrese, esperto di tecniche della comunicazione di massa, e Ugo Volli, filosofo del
linguaggio. Al centro della riflessione dei due autori è il rapporto fra la realtà degli avvenimenti e la
narrazione giornalistica in televisione. Anche se il resoconto giornalistico sembra trasparente,
simile a una “finestra sul mondo”, perché accompagnato dalle immagini, in realtà segue le regole
comunicative di un preciso genere televisivo, orientato all’intrattenimento come la maggior parte
dei programmi, ed è il risultato di sistematiche operazioni di filtro e di rielaborazione delle
informazioni. Una delle regole che sottostanno alla costruzione di un notiziario è evitare la noia e la
ripetitività, con il risultato di spettacolarizzare gli eventi narrati per renderli accattivanti e
coinvolgenti. Gli autori mettono in guardia contro gli effetti a lungo termine di questa continua
estrapolazione e ricontestualizzazione dei fatti, che individuano in un atteggiamento passivo e
deresponsabilizzante del pubblico e in una scarsa resistenza alla manipolazione televisiva.
Le parole-chiave sono dunque genere dello spettacolo televisivo, selezione e trattamento delle
notizie, leggi del divertimento, rifiuto della noia, filtrare i dati, rimontare, effetti di lunga durata,
spettacolarizzazione, atteggiamento passivo e deresponsabilizzante, manipolazione, fattoidi,
effetto di realtà.
La consegna richiede una riflessione critica sul giornalismo televisivo, che prenda spunto dalle
osservazioni proposte. In particolare, lo studente deve:
1. esporre (ma anche argomentare) come viene costruita l’informazione televisiva e attraverso
quali meccanismi deformi e manipoli la realtà;
2. esporre quali sono gli effetti a breve e a lungo termine dell’esposizione ai media;
3. argomentare come si possa educare i più giovani a decodificare in modo critico i messaggi
dei media.
Il tema è dunque espositivo-argomentativo. Le conoscenze richieste sono soprattutto sociologiche
e pedagogiche, ma potrebbero essere utili anche alcuni riferimenti alla psicologia (alla teoria
dell’apprendimento per imitazione di Albert Bandura, per esempio, o al paradigma di Yale negli
studi sulla persuasione dei media).
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Brainstorming
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Scaletta
1 Come viene prodotto l’effetto di realtà
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2 La ricerca sul newsmaking
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3 Effetti a breve e a lungo termine
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4 Istruzione e media education come
antidoto
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Prevalenza della vista (Sartori, Homo videns)
Meccanismi organizzativi, sociali, comunicativi del
giornalismo televisivo
Manipolazione dell’immagine (regia, montaggio, angolo
di ripresa, zoom)
Selezione delle informazioni da comunicare (NoelleNeumann: spirale del silenzio)
Pressioni dall’esterno sul giornalista
Routines organizzative (standardizzazione del
prodotto)
Selezione delle notizie non in base alla rilevanza, ma a
fattori organizzativi o contingenti
Autoreferenzialità del giornalista
Dipendenza dalle fonti informative abituali
Controllo politico dell’informazione (classifica di
Reporter senza frontiere sulla libertà di stampa in
Italia)
Linguaggio veloce e iconico della TV che costringe alla
superficialità (logiche interpretative profonde)
Spettacolarizzazione delle notizie; ricerca della novità
Effetti a breve termine: studi sulla persuasione della
Scuola di Yale, imitazione dei modelli di Bandura e di
Phillips, il Two-Step Flow of Communication di
Lazarsfeld
Effetti a lungo termine: teorie della spirale del silenzio
(Noelle-Neumann), teoria dell’agenda setting
(McCombs e Shaw), i knowledge gap
Elaborazione del messaggio per via centrale o
periferica (Petty e Cacioppo: Modello della probabilità
di elaborazione)
Media education a casa e a scuola, per bambini,
adolescenti e adulti: favorire l’elaborazione per via
centrale delle informazioni
Rischio di confusione fra realtà e finzione (Popper e
Condry)
Strategie con i bambini: fruizione assistita della TV per
i bambini, scelta dei programmi, niente zapping,
riflessione sul palinsesto, lettura di libri, smontaggio e
analisi delle immagini (Guido Petter)
Strategie possibili per tutte le età:
o conoscenza del linguaggio della TV e dei
meccanismi del montaggio, delle strategie
utilizzate per convincere o per suscitare
adesione nello spettatore, dei “trucchi del
mestiere” del giornalista
o riconoscimento delle fallacie argomentative
o consapevolezza dell’uso delle inquadrature e
degli zoom per definire il rapporto
dell’immagine con lo sguardo dello spettatore
o conoscenza delle modalità di costruzione del
notiziario, con l’ordine di priorità delle notizie
o comprensione dell’uso di non-notizie per
distogliere l’attenzione da fatti gravi e dei
fattoidi ingiuntivi
o abitudine a farsi domande, a chiedersi quali
siano i fatti e quali le opinioni, a discutere, a
verificare l’attendibilità delle notizie più
importanti, risalendo alle fonti
o riflessione sul contesto sociale ed economico
della produzione televisiva invitarli e sul
funzionamento delle agenzie di stampa
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Svolgimento
L’effetto di realtà prodotto dal giornalismo televisivo sembra dipendere da una complessa serie di
meccanismi organizzativi, sociali, comunicativi da un lato e dal fatto che gli esseri umani
privilegiano la vista come organo di conoscenza empirica della realtà dall’altro (il politologo
Giovanni Sartori ha chiamato il nuovo tipo umano prodotto dalla televisione Homo videns).
Assistere con i nostri occhi a un evento ci fa sentire testimoni dei fatti, come se lo avessimo visto
direttamente. Questo senso di coinvolgimento diretto nelle vicende che scorrono davanti a noi è
accresciuto dalla particolare facilità con la quale la regia riesce a sostituirsi al nostro sguardo e a
imitarne l’angolatura prospettica sulla realtà. Nelle immagini televisive, il montaggio è in grado di
selezionare, di disporre in un ordine arbitrario, di decontestualizzare le immagini, di suggerire una
chiave interpretativa degli eventi, addirittura di falsificare o di creare dal nulla un evento, utilizzando
immagini di repertorio. Il comizio di un politico importante a cui partecipa uno sparuto gruppo di
sostenitori può apparire molto più affollato della realtà semplicemente restringendo il campo visivo
della telecamera, mentre una manifestazione di protesta di migliaia di cittadini può essere mostrata
parzialmente, per sminuirne l’entità, può essere messa in secondo piano dall’attenzione riservata a
qualche facinoroso o addirittura ignorata, scalzata da qualche altro fatto della giornata che
consente di metterla ai margini. Un fatto di interesse politico o sociale può essere raccontato non
direttamente, ma attraverso i commenti di un potente di turno oppure relegato verso il fondo del
notiziario, senza alcun commento. Un’opinione scomoda per il potere può essere riferita
indirettamente, magari presentando solo la critica fatta da un esponente politico. L’inquadratura
che riprende una bella ragazza durante una partita di calcio o un concerto, l’espressione sorridente
o stanca o rabbiosa di un leader, la postura più o meno servile del giornalista che intervista un
ministro senza fargli nessuna domanda scomoda, sono tutte modalità con cui la notizia viene
confezionata appositamente per influenzare il pubblico in qualche modo: per distrarlo, per
divertirlo, per suggerire un’interpretazione dei fatti, per non scontentare un personaggio potente
mettendolo in cattiva luce. Lo sguardo della telecamera non è affatto lo sguardo dello spettatore; fa
vedere dettagli impossibili da notare ad occhio nudo e soprattutto decide che cosa lo spettatore
non deve vedere. La sociologa tedesca Elisabeth Noelle-Neumann ha parlato del modo in cui i
media e soprattutto la televisione influenzano la gente attraverso la spirale del silenzio, cioè
ignorando le opinioni scomode e critiche che circolano nella società e dando voce solo a quelle più
conformiste, che sembrano così illusoriamente maggioritarie.
Da decenni la deformazione dei fatti ad opera dei mass media è oggetto di discussione fra gli
esperti. In particolare, la ricerca sociale si è concentrata sul newsmaking, cioè sull’attività di
confezionamento delle notizie. Il quadro che emerge dalla ricerca è ampio e complesso: il
giornalista è un professionista che agisce in un contesto socio-politico e riceve molte pressioni
dall’esterno, soprattutto dall’alto (editori più o meno indipendenti, personaggi potenti, lobbies di
varia natura), oltre che dal pubblico degli spettatori o dei lettori, e cerca spesso di districarsi fra
interessi contrapposti per evitare conseguenze spiacevoli; i tempi della produzione di notizie sono
spesso ridotti e le modalità organizzative della rete televisiva o della testata tendono a diventare
abituali e routinarie per ridurre al minimo gli imprevisti, rendendo però il prodotto finale piuttosto
ripetitivo e standardizzato; le notizie vengono selezionate sistematicamente sulla base di criteri
organizzativi, come la lunghezza e la qualità del pezzo, la sua “notiziabilità”, cioè il grado di
interesse o di curiosità che può suscitare, la presenza di notizie analoghe, l’assenza di notizie in
aree importanti della testata, la presenza di un inviato o di un esperto in grado di “coprire” la
notizia, anziché sul’effettivo rilievo dell’evento. La routine produttiva del giornalista lo rende anche
autoreferenziale rispetto al pubblico e lo costringe a dipendere dalle sue fonti informative abituali;
inoltre, la sua carriera non di rado dipende da quanto risulta gradito al potere politico che controlla
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più o meno direttamente la stampa e la televisione, specie in un paese come l’Italia che, nelle
classifiche internazionali indipendenti sulla libertà di stampa, si trova agli ultimi posti in Europa (nel
2015 l’organizzazione non governativa Reporter senza frontiere colloca la penisola al 73° posto nel
mondo per libertà di stampa).
Il risultato è che il prodotto giornalistico televisivo appare artificioso e sempre uguale, come già
osservavano i sociologi della Scuola di Francoforte, Max Horkheimer e Theodor Adorno; e anche
se oggi si tende a non condividere del tutto il loro pessimismo, l’effetto più probabile della routine
produttiva delle testate giornalistiche appare l’istupidimento delle masse, come veniva da loro
definito, anziché un reale contributo alla conoscenza del mondo. La televisione, come agenzia di
socializzazione pervasiva, infatti, oltre a veicolare contenuti conoscitivi (stili di vita, script, opinioni,
modi di comportarsi in determinati contesti, informazioni su ambienti sociali sconosciuti, stereotipi,
rappresentazioni sociali ecc.), presenta un limite cognitivo pressoché invalicabile, che dipende
dalle peculiarità del suo linguaggio veloce e iconico: non permette di comprendere le cause remote
degli eventi e la concatenazione delle vicende che ha condotto all’esito narrato; essa, cioè,
influisce sulle logiche interpretative profonde dei fatti, presentandoli in modo decontestualizzato,
superficiale, banale, senza considerazione per la complessità e per il senso di storicità dei
fenomeni. Non c’è da meravigliarsi, perciò, se il giornalismo televisivo sembra più orientato a
stupire, a intrattenere, a incuriosire, a colpire emotivamente che a informare. Tutto si riduce a un
caleidoscopio di eventi che compaiono e scompaiono nell’arco di ore o giorni, preda dell’oblio,
rimpiazzati da altri eventi analoghi ma nuovi. Questo non sarebbe un limite insormontabile del
mezzo, se il telespettatore medio avesse anche altre risorse informative in forma scritta o
dialogica. Il problema è che per molti cittadini la televisione è l’unica fonte di informazione e questo
costituisce senza dubbio un grave rischio.
Gli effetti a breve e a lungo termine che ne derivano sono stati lungamente studiati. La Scuola di
Yale, con Carl Hovland, ha dimostrato che i media producono un effetto persuasivo a breve
termine quando la fonte dell’informazione è percepita come autorevole, credibile, attraente e usa
argomenti più emotivi che razionali. Lo psicologo comportamentista Albert Bandura ha
documentato con impressionante chiarezza come la visione di comportamenti violenti generi
l’imitazione dei modelli, attraverso il meccanismo del rinforzo vicario (l’azione viene rinforzata in via
sostitutiva dal fatto stesso che il modello ha avuto successo) e dell’autorinforzo (grazie al quale
un’azione che altri hanno compiuto ci fa sentire legittimati a imitarla). Molte ricerche (per esempio,
quella del sociologo Davis Phillips sull’effetto di imitazione prodotto da un servizio giornalistico sul
suicidio di un gruppo di adolescenti) hanno confermato che i modelli di comportamento esercitano
una grande influenza sul pubblico: come sanno bene i pubblicitari quando vogliono convincere ad
acquistare un prodotto, la strategia migliore è quella di offrire modelli da imitare e ricompense
psicologiche agli spettatori. La ricerca sociologica di Lazarsfeld negli anni Quaranta e Cinquanta
del Novecento ha invece ridimensionato l’idea che i media possano influenzare in modo massiccio
le opinioni della gente, perché le informazioni giornalistiche vengono filtrate nella comunicazione
faccia a faccia dagli opinion leaders, i membri informati della comunità (teoria del flusso di
comunicazione a due stadi, Two-Step Flow of Communication). Tuttavia, oggi la tesi dei media
deboli appare superata, perché rispecchia una realtà sociale diversa da quella attuale.
Negli ultimi anni si è insistito piuttosto sugli effetti a lungo termine della fruizione televisiva, assai
più gravi e insidiosi; oltre alla spirale del silenzio della Noelle-Neumann, è stato rilevato come i
media organizzino la conoscenza della realtà sociale, dando un ordine di priorità agli eventi e
indicando come strutturare mentalmente la realtà (teoria dell’agenda setting di McCombs e Shaw).
Inoltre, invece di colmare le differenze nel livello delle conoscenze fra gli individui del pubblico e fra
i gruppi sociali, finisce con l’accentuarle, producendo un knowledge gap: chi sa ed è più istruito
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riesce ad approvvigionarsi meglio di informazioni e a comprenderle in modo critico, mentre chi è
meno istruito è maggiormente penalizzato sia rispetto ai contenuti sia rispetto alla capacità di
analizzarli criticamente, restando esposto maggiormente al rischio di passività,
deresponsabilizzazione e manipolazione di cui parlano Calabrese e Volli. Petty e Cacioppo, con il
modello della probabilità di elaborazione, hanno sostenuto che noi tendiamo a elaborare i
messaggi dei media per via centrale (elaborazione analitica, approfondita, controllata e sistematica
delle informazioni) quando il messaggio lo richiede (magari perché è scritto oppure
concettualmente complesso e non particolarmente “estetico”) e noi abbiamo motivazione, capacità
e possibilità di approfondire; altrimenti seguiamo la via periferica (elaborazione superficiale,
emotiva, automatica e non sistematica). Il fatto che riusciamo a elaborare in modo approfondito e
critico un messaggio, concentrandoci sui contenuti e non sulla forma, dipende da un lato da fattori
individuali stabili o contingenti, come l’intelligenza, lo stile cognitivo, i bisogni cognitivi, le
motivazioni intrinseche, la disponibilità e il tempo; e dall’altro a fattori esterni, relativi al messaggio,
come il mezzo usato (scritto, iconico, verbale…) e la presentazione (più o meno emotiva e
accattivante). Insomma, noi tenderemmo a seguire la via centrale se una serie di fattori sfavorevoli
non intervenissero a bloccarci e a spingerci verso la via periferica.
Da queste ricerche emerge dunque l’importanza del filtro cognitivo e sociale dell’informazione, che
può venire da un’istruzione solida e approfondita e dall’educazione all’uso consapevole dei media
(media education). Il filosofo Karl Popper, nel suo famoso pamphlet Cattiva maestra televisione,
scritto con lo psicologo John Condry, afferma che uno degli effetti più pericolosi della televisione,
oltre ai modelli violenti che presenta continuamente, è la confusione fra realtà e finzione che
genera negli spettatori, soprattutto nei bambini, maggiormente esposti a questo rischio perché
ancora in fase di crescita. La soluzione da lui proposta passa attraverso una regolamentazione
della produzione televisiva e una “patente per fare TV”; tuttavia, concretamente, dati gli enormi
interessi in gioco e le resistenze degli apparati produttivi della televisione a seguire una modalità di
realizzazione dei programmi più orientata alla crescita dei cittadini che agli interessi commerciali o
politici, si possono almeno applicare a casa e a scuola una serie di strategie educative che aiutino
l’elaborazione per via centrale dei messaggi televisivi. L’educazione all’uso consapevole dei media
non riguarda solo i bambini, ma anche gli adolescenti e gli adulti, e coinvolge tutti i tipi di
programmi.
Lo psicologo Guido Petter propone di non lasciare soli i bambini davanti alla TV, perché questo
diminuisce la loro capacità di filtrare criticamente i messaggi: la presenza di un adulto che
commenta e discute aiuta il distacco da ciò che si vede. Inoltre, occorre evitare che i bambini
guardino la TV senza selezione dei programmi e facendo zapping: inquadrare il programma in un
contesto di scelta aiuta a non essere passivi. Leggere libri e discutere dei palinsesti sono altre
modalità per conseguire un certo grado di autonomia e di distanza critica rispetto ai programmi.
Tra le strategie più efficaci, però, applicabili a soggetti di tutte le età va senz’altro annoverata la
conoscenza del linguaggio della TV e dei meccanismi del montaggio, accompagnata dall’utilizzo
dei software digitali per fermare, smontare, tagliare e rimontare le immagini filmate.
A essa si possono aggiungere, a diversi gradi di profondità, la conoscenza delle strategie utilizzate
per convincere o per suscitare adesione nello spettatore e dei “trucchi del mestiere” del giornalista,
il riconoscimento delle fallacie argomentative utilizzate per suggerire in modo manipolativo una
certa interpretazione dei fatti, la consapevolezza dell’uso delle inquadrature e degli zoom per
definire il rapporto dell’immagine con lo sguardo dello spettatore, delle modalità di costruzione del
notiziario, con l’ordine di priorità delle notizie (che non è mai casuale), l’attenzione all’uso di non
notizie (relative ad argomenti futili: come mantenere lucido il pelo del proprio cane, come curare il
raffreddore d’inverno, come difendersi dal caldo in estate) per distogliere l’attenzione da fatti gravi
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o all’uso di fattoidi ingiuntivi, che sembrano informare, mentre in realtà prescrivono. Abituare i
ragazzi di ogni età a farsi domande, a chiedersi quali siano i fatti e quali le opinioni, a verificare
l’attendibilità delle notizie più importanti, risalendo alle fonti; aiutarli a riflettere sul contesto sociale
ed economico della produzione televisiva e sulle forti pressioni esterne che essa riceve; stimolarli a
discutere e a confrontarsi fra di loro e con gli esperti; invitarli a conoscere il funzionamento delle
agenzie di stampa e il fenomeno della “tirannia del rifornimento”, secondo la definizione di Golding
ed Elliott (le agenzie sono un vero e proprio imbuto informativo e possono influenzare
notevolmente la selezione e la qualità dell’informazione) sono tutte attività che favorirebbero un
utilizzo maturo e critico della televisione e del giornalismo televisivo.
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B Analisi e svolgimento dei quesiti
Tra i quesiti proposti, decidiamo di scartare quello che si riferisce alla teoria di Lazarsfeld, perché
già discussa nel tema, e quelli relativi a Freinet e a dote e prezzo della sposa, perché sicuramente
più semplici. Gli altri – uno per materia – risultano abbastanza specifici e riguardano argomenti che
lo studente potrebbe conoscere poco, per quanto siano presenti sui manuali. All’esame, però,
meglio scegliere gli argomenti che si conoscono più a fondo.
Quesito 3
ANALISI
In antropologia, la documentazione visiva e filmica costituisce una risorsa fondamentale per il
lavoro dell’antropologo e consente una comprensione più ampia e profonda della cultura che si
studia. Proviamo a delinearne gli ambiti di applicazione, con qualche riferimento agli autori studiati.
SVOLGIMENTO
L’utilizzo di immagini e fotografie, e in seguito di film e di media digitali, per documentare aspetti
della cultura studiata risale all’Ottocento (Darwin raccolse una grande quantità di foto di
espressioni facciali delle emozioni) ed è ricorrente in antropologia a partire da Boas, Bateson e
Mead. La documentazione visiva nel clima positivistico viene considerata oggettiva e scientifica e
utilizzata come sostegno probatorio alle teorie antropologiche, come materiale da raccogliere per
conservare memoria di società in via di estinzione e come raccolta di reperti utili per studiare nei
musei le culture come se fossero in vitro. A partire da Malinowski e poi con Gregory Bateson,
Margaret Mead e l’antropologia interpretativa, viene invece compreso l’aspetto di costruzione
soggettiva ed estetica dell’immagine fotografica o filmica e la sua utilità per cogliere aspetti
altrimenti imponderabili della realtà osservata. Nasce l’antropologia visiva, ovvero quell’area
dell’antropologia che si occupa di tutti gli aspetti visuali di una cultura, sia prodotti dai nativi nel loro
ambiente (paesaggi, architetture, giardini, abbigliamento, prodotti artistici e artigianali, tatuaggi e
pitture corporee, oggetti quotidiani, segni grafici ecc.) sia prodotti dall’antropologo che ritrae
l’ambiente dei nativi (fotografia o film etnografico, come quelli dell’antropologo e regista francese
Jean Rouch, per esempio) sia prodotti dai nativi con i mezzi tecnologici dell’antropologo
(coproduzione di film e analisi delle produzioni filmiche delle società studiate).
Quesito 4
ANALISI
La domanda riguarda un argomento che dovrebbe essere noto agli studenti. Goffman è il
principale esponente dell’approccio drammaturgico in sociologia; si tratta di inquadrare l’autore e di
definire bene il concetto di istituzione totale.
SVOLGIMENTO
Un’istituzione è totale, secondo il sociologo Erving Goffman, principale esponente dell’approccio
drammaturgico, quando costituisce il luogo di residenza e di lavoro di un gruppo di persone che
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vivono a lungo separate dal resto della società o per scelta (per esempio, un monastero di
clausura o una caserma) o per costrizione (carceri, manicomi, campi di prigionia) o per tutela dei
soggetti (case di riposo, orfanotrofi, residenze per disabili) o per necessità (navi, collegi,
piantagioni). È totale quando l’istituzione, che ha un’organizzazione formale, rappresenta l’unico
ambiente di vita dei membri del gruppo, che non possono quindi entrare liberamente in contatto
con numerose altre norme e istituzioni, come avviene nella vita quotidiana della maggior parte
delle persone. Il carattere alienante, umiliante e oppressivo dell’istituzione totale viene messo in
luce da Goffman attraverso un lungo soggiorno (un anno) a scopo osservativo all’interno
dell’ospedale psichiatrico Saint Elizabeth di Washington, il cui resoconto finale venne pubblicato
nel 1961 con il titolo Asylums. Goffman voleva comprendere il punto di vista soggettivo
dell’internato in manicomio, in conformità con il punto di vista microsociologico delle sociologie
comprendenti. Egli mise in luce come i pazienti tentassero tenacemente di resistere alla violenza
dell’istituzione attraverso strategie di recupero di piccoli spazi privati, in cui sottrarsi
temporaneamente al controllo totale della propria vita.
Quesito 5
ANALISI
L’andragogia di Malcolm Knowles rimanda al tema pedagogico dell’educazione degli adulti. Si
tratta di definire il termine, tutt’altro che comune, e di sintetizzare alcuni contenuti della riflessione
di Knowles.
SVOLGIMENTO
Il termine andragogia (“guida, educazione dell’adulto”) è costruito in analogia con pedagogia
(“guida, educazione del bambino”) e si riferisce alle peculiarità teoriche e didattiche
dell’educazione rivolta agli adulti, che si trovano in un punto diverso del percorso di sviluppo
rispetto ai ragazzi e sono inseriti in contesti lavorativi e professionali. Si deve a Malcolm Knowles
la definizione più accurata delle differenze fra le esigenze educative degli adulti, visti come soggetti
di apprendimento (learners), e quelle dei bambini; secondo lui, sono sei i punti fondamentali da
considerare: il bisogno di conoscenza, che negli adulti è collegato al senso di utilità del sapere; il
concetto di sé, che è autonomo e non dipendente; il ruolo dell’esperienza precedente, che è
maggiore in un adulto e va valorizzata; la disponibilità ad apprendere, che è per lo più limitata a ciò
di cui sente il bisogno nella sua vita personale e professionale; l’orientamento verso
l’apprendimento, che nell’adulto è più centrato sui problemi della vita reale; la motivazione, che
spesso consiste nel desiderio di maggiore soddisfazione nel lavoro e nella vita o dipende da una
buona autostima. Sulla base di questi principi, Knowles individua un nuovo modello di formazione,
basato sulla responsabilità del discente e sulla condivisione del progetto (contratto di
apprendimento), che richiede al docente una preparazione specifica.
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