17 FOCUS ON Dall'artrodesi alla non fusione I SETTE STADI DEGENERATIVI DISCALI NEI QUALI LA STABILIZZAZIONE DINAMICA È CONSIDERATA OTTIMALE L'evoluzione dell'approccio chirurgico all'instabilità della colonna vertebrale La degenerazione discale è un processo fisiologico silente che causa un continuo e progressivo lento dolore. Creare una stabilizzazione dinamica a livello vertebrale significa restituire e, se vogliamo, ridistribuire in modo più corretto i carichi che la colonna deve sopportare. L’origine del dolore, l’abnorme motilità delle vertebre, restano così controllate e limitate anche se non completamente “eliminate”. Patologie come l’instabilità della colonna vertebrale sono oggi materia di interesse, non solamente per i problemi sociali, economici e sanitari che questa può causare, ma anche e soprattutto per una migliore attenzione verso il paziente e la sua sintomatologia. Partendo da principi noti che considerano l’artrodesi un sistema efficace per poter “guarire” da sintomi e dolori soprattutto a livello lombare e che trovano un’origine oramai datata a quasi un secolo, l’attenzione attuale si è spostata verso una questione di sottile ma di assoluto e indiscusso interesse. È più utile una “classica artrodesi”, seguendo le orme iniziate nel 1911 da Hibbs, o forse meglio una stabilizzazione dinamica grazie alla quale non si sacrificano più le articolazioni? Un po' di storia sulla colonna Se seguiamo l’evoluzione storica nella cura della patologia dorso-lombare troviamo un fisiologico sviluppo chirurgico che si attua attraverso l’ampliamento della superficie articolare da sacrificare (includendo quindi anche le apofisi articolari e quelle trasverse) verso la fine degli anni Sessanta, compromettendo tuttavia in tal modo la funzionalità motoria della colonna vertebrale. La tecnica era semplice quanto geniale: immobilizzare la sezione di colonna vertebrale che generava dolore voleva dire evitare la causa principale della sintomatologia stessa: l’instabilità. Immobilizzazione chirurgica attraverso l’artrodesi e immobilizzazione di contenimento attraverso busti gessati da dover portare anche per 6 mesi. Oggi parlare di queste tecniche sembra quasi di risalire all’era preistorica: pazienti e chirurghi sono ormai del tutto orientati verso altri tipi di approcci alla problematica e quindi tutt’altra tipologia di ripresa nel post-operatorio. Incredibile passo in avanti fu fatto quando l’americano Harrington introdusse l’idea di distrarre e stabilizzare la colonna vertebrale attraverso l’impianto di uncini sotto laminari ancorati a barre di stabilizzazione. Questa nuova dottrina segnò un punto di confine tra quella che era la semplice e pura artrodesi con i moderni concetti di stabilizzazione. Base di partenza per successivi approcci chirurgici, la tecnica con i distrattori di Harrington fu il principio moderno sul quale si fonda ancora oggi buona parte della chirurgia vertebrale. Si devono aspettare gli anni Settanta, nello specifico sotto il nome di Camille, per vedere concretizzato quello che in Harrington era solo un’ipotesi: fissazione attraverso viti transpeduncolari. Combinando quindi la procedura dell’artrodesi con quella della stabilizzazione si è potuto giungere ad un risultato che ha dell’eccellente. Non solo si garantiva una corretta distrazione e stabilizzazione al tratto di colonna vertebrale interessato, ma si evitavano al paziente fastidiosi periodi ingabbiato in busti gessati. La definizione di tutta quest’opera fu poi fatta dalla scuola francese nei nomi di Debousset e Cotrel con la teorizzazione che la deformità scoliotica si sviluppa lungo tutti e tre i piani dello spazio e che quindi per una correzione completa era necessario non solo traslare e distrarre ma anche eseguire una correzione in de-rotazione. Come è facile intuire e come si conviene ad ogni nuova tecnica impiegata in chirurgia non furono tutti e solo successi, ma questo spinse medici ed esperti del settore a ricercare nuove soluzioni. Negli anni Ottanta si giunse quindi a pensare che era possibile dare un certo grado di stabilità elastica controllata: ovvero garantire una stabilizzazione ma che non fosse così rigida come attraverso l’utilizzo di viti peduncolosomatiche e sbarre. Controllare quindi il movimento della colonna evitando di bloccare le articolazioni. L’evoluzione: il controllo senza bloccaggio I primi tentativi furono seguiti da una serie di insuccessi e complicazioni derivanti dal difficilissimo equilibrio che si doveva ricercare tra stabilità ed elasticità. Garantire infatti un movimento controllato che potesse supportare la colonna in alcuni casi lasciandola comunque “libera” su più piani dello spazio, si rivelò un’impresa molto più semplice nella teoria piuttosto che nella pratica. Accanto quindi alle com- spondiloartrosi + discopatie primarie A+ protrusioni e/o ernie discali A+ ipomobilità discale A+ ipermobilità discale e instabilità D+ stenosi monosegmentaria D+ stenosi plurisegmentaria deformità strutturali della colonna provate tecniche di artrodesi e stabilizzazione, si stava facendo strada una nuova tipologia di chirurgia basata sulla non fusione. Oggi, insieme agli approcci mininvasivi alla possibilità di eseguire portali toracoscopici per selezionati casi chirurgici, la metodica della non fusione è sicuramente una procedura in grande via di sviluppo. La stabilizzazione dinamica rappresenta oggi una valida ed efficace alternativa alla tradizionale artrodesi, se ricercata ed applicata in casi clinici accuratamente selezionati (vedi box qui sopra). Lorenzo Castellani Matteo Laccisaglia