UNIVERSITÀ TELEMATICA INTERNAZIONALE UNINETTUNO FACOLTÀ DI PSICOLOGIA Corso di Laurea in Discipline Psicosociali Elaborato finale in Antropologia Culturale L’INFLUENZA DELLA CULTURA SULLA FORMAZIONE DELLA PERSONALITA’ Relatore Candidato Prof. Massimo Squillacciotti Assunta D’Onofrio Tutor Matricola Dr. Adriano Cirulli 2045HHHCLDIPSI Anno Accademico 2015/2016 INDICE Introduzione 1 Capitolo 1. La personalità: cultura o biologia? 2 1. Che cos’è la personalità? 3 2. Il costrutto di personalità secondo le maggiori teorie della personalità 4 2.1 Le teorie psicodinamiche 4 2.2 Le teorie umanistiche 6 2.3 Le teorie sociocognitive 7 2.4 Le teorie dei tratti 8 2.5 Le teorie interazioniste 10 2.6 Riepilogando 12 2. La personalità di un individuo lungo l’arco di vita 13 2.1 L’infanzia 14 2.2 L’adolescenza 16 2.3 L’età adulta 17 2.4 La mezza età e la vecchiaia 18 3. Le emozioni 20 4. Concludendo 23 Capitolo 2. Un tentativo di accordo. La scuola di cultura-personalità 25 1. L’Evoluzionismo 26 2. Franz Boas 28 3. La scuola di cultura-personalità 30 3.1 Ruth F. Benedict 30 3.2 Abram Kardiner 32 3.3 Ralph Linton 33 I 3.4 Gregory Bateson 34 3.5 Margaret Mead 35 4. L’inculturazione 36 Capitolo 3. L’adolescenza in Samoa. Come la cultura influenza 40 la personalità degli adolescenti 1. La ricerca 40 2. La ragazza samoana 42 3. Nascita, morte e sesso 45 4. Le giovani samoane e le giovani americane a confronto 47 5. Conclusioni 49 Conclusioni 51 Bibliografia 53 II Introduzione Il senso comune indirizza i nostri giudizi sulle popolazioni nel mondo definendole all’interno di grandi categorie caratteriali. Per cui, ci sembrerà abbastanza evidente che uno svizzero sarà molto preciso nei suoi affari, oppure che uno statunitense possa assumere atteggiamenti megalomani. Le popolazioni mediterranee vengono definite calde e solari, confusionarie e accoglienti, mentre le popolazioni scandinave vengono considerate più fredde e distanzianti. C’è da chiedersi, allora, quanto ci sia del vero in simili affermazioni. È possibile che la personalità di un individuo, e addirittura di un intero popolo, possa avere delle caratteristiche che lo contraddistinguono? Se è così, a cosa è dovuto? La personalità di un individuo è qualcosa di innato o va ricercato nella propria cultura di appartenenza? Ecco alcuni quesiti che mi hanno spinto a intraprendere un simile progetto. Consapevole della mole di lavoro in cui mi sarei andata ad impelagare, inizialmente ho cercato di definire il concetto di personalità e come questa vada costituendosi in un individuo, tra aspetti di carattere biologico e aspetti culturali. Nel secondo capitolo, volendo ampliare lo sguardo dal singolo individuo a interi popoli, ho provato a trovare nella scuola antropologica di cultura- personalità un tentativo di risposta. In conclusione, ho ritenuto opportuno presentare una ricerca empirica, e nello specifico quella di Margaret Mead, sulla personalità di giovani Samoane. 1 Capitolo 1 La personalità: cultura o biologia? Cultura e biologia: compagne o antagoniste? Sembra una domanda di altri tempi, una domanda la cui risposta sembra così scontata che chiederselo risulterebbe una perdita di tempo. Se ci dovessimo trovare a chiedere alle persone se secondo loro essi sono frutto del loro patrimonio genetico o di ciò che hanno appreso nel loro ambiente, di sicuro non stenterebbero a rispondere che entrambe, natura e ambiente, hanno un’importante componente nella formazione di un individuo. Se però coppie di genitori si trovano a confrontare i propri figli notando che un bambino ha cominciato a parlare più tardi di un altro, o che due fratelli si dimostrano caratterialmente diversi, magari uno più irrequieto e l’altro più timido e introverso, improvvisamente ciò che sembrava così scontato diventa un mistero imperscrutabile. Genitori con sensi di colpa se un figlio tarda a parlare rispetto a un gruppo di coetanei, genitori che davanti alle differenze comportamentali di due fratelli si giustificano dicendo “è carattere”. Gli studi, negli anni, hanno adottato l’indirizzo biologico piuttosto che quello culturale e viceversa. Anche oggi si trovano correnti, più o meno esplicite, che adottano chi più la strada dell’ambiente chi più quella della natura. Diamo un’occhiata ai maggiori filoni che si sono susseguiti negli ultimi decenni. 2 1. Che cos’è la personalità? La parola personalità è diventata molto usuale, molto spesso si sentono affermazioni del tipo: avere una doppia personalità, avere un disturbo di personalità, essere di una determinata personalità. Ma che cos’è la personalità? Per poter rispondere a questa domanda mi sono affidata a testi specifici: Nell’accezione in cui è usato in psicologia, il termine personalità (…) indica lo stile generale di una persona nel suo interagire col mondo e in particolare con le altre persone: per esempio, se è chiusa in sé o aperta verso gli altri, facilmente eccitabile oppure calma, ordinata o disordinata, generosa o avara. Alla base del concetto di personalità vi è l’assunto che le persone differiscono l’una dall’altra nello stile generale del comportamento secondo modalità che restano costanti, per lo meno relativamente, nello spazio e nel tempo. (Gray, 692) La personalità, in quanto strategia di rapporto con il mondo sociale, è dunque determinata, oltre che biologicamente, storicamente e socialmente attraverso i ruoli che le sono imposti o resi accessibili, attraverso le norme e i valori che prescrivono le mete da raggiungere e le sanzioni da temere, attraverso le soglie che discriminano ciò che è accettabile e desiderabile da ciò che è rischioso e riprovevole. (Caprara, 434) Nel termine personalità sono racchiusi diversi aspetti che caratterizzano l’individuo dandogli quell’unicità che lo differisce dagli altri. Tali aspetti rappresentano quel nucleo specifico presente in diverse situazioni e persistente col passare degli anni. Una persona può cambiare taglio di capelli o abbigliamento, ma la sua personalità lo accompagnerà, come un vestito cucitogli addosso. Volendo dare un’occhiata veloce alle teorie psicologiche sulla personalità, si noterà come non tutti gli studiosi hanno adottato approcci comuni, mettendo in risalto degli aspetti piuttosto che altri. Quasi tutte le teorie della personalità affrontano, con un’ottica peculiare, ciascuno dei seguenti quattro punti: (1) le forza o le pulsioni motivanti che sottostanno al comportamento; (2) le strutture psichiche, ovvero le componenti della mente che interpretano l’ambiente e formulano le decisioni che guidano il comportamento; (3) le differenze tra personalità, legate alle motivazioni o alla struttura mentale dei singoli individui; (4) le modalità con cui tali differenze si sviluppano, dalla nascita all’età adulta. Quindi ogni teoria della personalità tiene conto di vari aspetti (la motivazione, la cognizione, le differenze individuali e il loro sviluppo) e li organizza in un unico quadro interpretativo. (Gray, 692) 3 2. Il costrutto di personalità secondo le maggiori teorie della personalità Le teorie della personalità sono dei tentativi di definire il concetto di personalità e di offrire strumenti necessari per indagare sulle problematiche ad esso inerenti. E’ possibile raggruppare i diversi filoni in cinque macrocategorie: le teorie psicodinamiche, basate su dati clinici; le teorie umanistiche, basate su dati clinici; le teorie sociocognitive, basate su dati sperimentali; le teorie dei tratti, basate su dati psicometrici le teorie interazioniste, basate su ricerche trasversali e longitudinali. 2.1 Le teorie psicodinamiche Nelle teorie psicodinamiche rientrano l’approccio freudiano e quello degli ultimi sviluppi meno ortodossi. Nella teoria freudiana, la personalità consiste nell’insieme peculiare delle modalità con cui ogni persona canalizza la sua energia psichica innata, in particolare la sua libido. Tali modalità sono plasmate dall’interazione fra i comportamenti del bambino, tesi alla soddisfazione immediata dei propri desideri, e le risposte che tali comportamenti ricevono, fin dai suoi primi mesi di vita, dalle altre persone, in particolare dai genitori. (Gray, 699) Secondo Freud lo sviluppo della personalità avviene attraverso le cinque fasi psicosessuali: fase orale, fase anale, fase fallica, il periodo di latenza e la fase genitale. Importanti sono le prime tre fasi che hanno luogo nei primi cinque anni di vita, poiché, secondo Freud, è in quel periodo che si fissano i caratteri fondamentali di una personalità. Dopo i cinque anni il comportamento continua a modificarsi a causa della maturazione biologica e dei nuovi apprendimenti, ma tali cambiamenti non avvengono nei caratteri fondamentali della personalità, bensì nelle espressioni della personalità già costituita. 4 Tra gli studiosi che hanno continuato il lavoro di Freud, discostandosi dalla sua teoria si annoverano teorici come: Adler, Horney, Erikson.e Bowlby. Sia Adler che Horney svilupparono, in termini differenti, una teoria basata sull’autopercezione della competenza/incompetenza personale. Nella concezione di Adler, i primi anni di vita sono segnati da un forte senso d’inferiorità, derivante dalla sensazione del bambino di essere totalmente indifeso e dipendente. Secondo la teoria adleriana, il modo in cui il bambino apprende a sostenere, o a superare, questo senso d’inferiorità costituisce la base della personalità che manifesterà per tutta l’esistenza. (Gray, 704) Karen Horney ha proposto che le persone abbiano di sé due immagini, il sé ideale e il sé reale, e che per liberarsi dall’angoscia si sforzino di portare l’immagine del sé reale a coincidere sempre meglio con quella del sé ideale. (Gray, 704) Secondo la Horney, i genitori, con il loro comportamento, nella misura di quanto infondano sicurezza nei propri figli, influenzano la loro personalità per tutta la vita. La teoria sviluppata da Erik Erikson si basa sul concetto di pulsioni sociali, innate, dalle quali partono le motivazioni a stabilire dei legami sociali e a definire il proprio ruolo all’interno della società di appartenenza. Erikson sosteneva che lo sviluppo di un individuo perdura per tutta la vita e che può subire influenze da ogni nuova esperienza. Erikson ha suddiviso tale sviluppo in otto stadi psicosociali: stadio 1 (o-1 anno). Fiducia o sfiducia di base; stadio 2 (1-3 anni). Autonomia o vergogna e dubbio; stadio 3 (3-5 anni). Iniziativa o colpa; stadio 4 (5-12 anni). Industriosità o inferiorità; stadio 5 (adolescenza). Identità o confusione di ruoli; stadio 6 (inizio dell’età adulta): Intimità o isolamento; stadio 7 (fase intermedia dell’età adulta). Generatività o stagnazione; stadio 8 (fine età adulta-morte). Integrità o disperazione. 5 Il contributo offerto da John Bowlby è basato, principalmente, sul concetto di attaccamento. Secondo Bowlby, il legame madre-bambino ha un’origine biologica, è un bisogno innato regolato da fattori ambientali: «Esso svolge una funzione protettiva biologicamente essenziale». (Caprara, 183) In base alla modalità relazionale costituitasi tra madre e bambino, sarà possibile predire le future condotte del bambino che riveleranno diversi gradi di sicurezza, di ansia e di resistenza. 2.2 Le teorie umanistiche Le teorie umanistiche si fondano sui principi di fenomenologia, olismo e autorealizzazione. Le persone non reagiscono semplicemente alla realtà che li circonda, bensì all’interpretazione che danno di essa. Secondo i teorici umanisti, la personalità di un individuo è un’entità integrata che si muove nel mondo spinta al raggiungimento di obiettivi validi per la persona nella sua totalità. Infine, «lo scopo ultimo, olistico, degli individui, è l’autorealizzazione, ovvero diventare quello che potenzialmente sono in grado di diventare». (Gray, 711) Tra i vari esponenti di tale filone troviamo Carl Rogers e Abraham Maslow. Secondo la teoria del Sé, sviluppata da Rogers, l’individuo realizza le proprie potenzialità grazie a una forza direzionata propria di ciascuno. La «tendenza attualizzante», di cui l’organismo è portatore, (…) imprime selettivamente una direzione costruttiva allo sviluppo, verso la differenziazione, l’integrazione, l’espansione, l’arricchimento, la piena realizzazione degli aspetti sani e creativi (Caprara, 289) Quindi il bambino sa cosa sia buono per lui, in maniera del tutto autonoma, e tende a realizzarlo. I condizionamenti provenienti dall’ambiente potrebbero arrecare discrepanze tra il Sé (frutto della percezione di sé e dell’ambiente) e la tendenza attualizzante. «Quando sentono di non essere se stesse, le persone sperimentano un’incongruenza (una discrepanza) tra il concetto che hanno di sé e i pensieri o i comportamenti del momento presente» (Gray, 713) 6 Anche Maslow era fermamente convinto che l’autorealizzazione di ciascun individuo trovava la spinta da «una incondizionata fiducia nelle potenzialità della natura umana e di una grande carica di ottimismo» (Caprara, 293). Secondo Maslow la persona necessita del soddisfacimento di cinque tipi di bisogni, ordinati gerarchicamente secondo il principio di priorità biologica: bisogni fisiologici (es. fame e sete); bisogni di sicurezza (es. necessità di protezione e di stabilità); bisogni di appartenenza e di amore (es. bisogno di legami con le persone); bisogni di stima (es. desiderio di autostima e di rispetto altrui); bisogni di autorealizzazione (voglia di una completa autoespressione e creatività) 2.3 Le teorie sociocognitive Le teorie sociocognitive dette anche dell’apprendimento sociale si pongono l’obiettivo di prevedere il comportamento delle persone, quantificato in stime oggettive. Tali teorie pongono la base su tre concetti fondamentali: alla base della personalità vi sono i costrutti cognitivi; questi costrutti si sviluppano e si modificano grazie all’apprendimento nell’ambiente sociale; questi costrutti sono specifici di determinate situazioni. Secondo tali teorie, il comportamento di una persona è data dall’interazione fra la situazione ambientale specifica e i costrutti cognitivi (aspettative, scopi e valori) acquisiti dall’ambiente mediante l’osservazione e i rinforzi. Tra i maggiori esponenti di tale filone troviamo Albert Bandura. Questi poneva grande rilievo sui processi e sulle strutture cognitive, considerate come ciò che modula l’esperienza e regola la condotta assicurando unità e coerenza al funzionamento dell’individuo. La personalità, in larga parte, si identifica con l’insieme di strutture psichiche che provvedono alla regolazione della condotta, in conformità con gli standard fatti propri 7 dell’individuo. (…) La persona osserva, valuta, si dà obbiettivi, si rappresenta le diverse possibilità del loro conseguimento, anticipa le conseguenze del loro raggiungimento, reagisce alle condotte che vengono poste in atto, in relazione a come esse soddisfano certi criteri o aspettative e come risultano coerenti con un determinato piano volto al perseguimento di certi fini, al mantenimento di una certa concezione di sé, alla difesa di un certo equilibrio. (…) Sono sostanzialmente processi e strutture cognitive che regolano il nostro agire nelle diverse situazioni, che selezionano le informazioni rilevanti dell’ambiente, che portano al suo riconoscimento e che determinano le reazioni plausibili tra quelle accessibili, sulla base di aspettative e previsioni in larga misura derivate da quanto interiorizzato delle precedenti esperienze. (Caprara, 450-451) Bandura riteneva importante quanto un individuo riuscisse ad apprendere, soprattutto con l’imitazione, dal contesto ambientale in cui si trova. L’individuo apprende dall’ambiente e agisce sull’ambiente: Bandura (1986) ha descritto l’interazione fra variabili interne (cognitive) ed esterne (ambientali) col termine determinismo reciproco: la persona agisce sull’ambiente e l’ambiente sulla persona, in un continuo processo che si protrae per tutto l’arco dell’esistenza. Quindi, la personalità non è mai fissata in modo definitivo. (Gray, 718) 2.4 Le teorie dei tratti Una teoria dei tratti può essere definita come un sistema formalizzato che cerca di descrivere e di misurare le differenze esistenti tra le personalità degli individui. (…) Le teorie dei tratti si fondano principalmente sui metodi della psicometria. (…) Gli psicologi che adottano questo approccio allo studio della personalità si propongono di identificare le dimensioni fondamentali lungo le quali le personalità degli individui si differenziano, servendosi a questo scopo di metodi quantificativi, psicometrici, non viziati (almeno in linea di principio) da alcuna pregiudiziale teoria. (Gray, 725) Secondo tale teoria, il tratto è un aspetto specifico e innato di una persona, non dell’ambiente. Quindi un individuo manterrà inalterato un proprio tratto nonostante si rapporti ad ambienti diversi. Sarà, invece, il comportamento, manifestazione oggettiva di un tratto, a risentire dell’influenza data dall’interazione tratto-ambiente. I tratti sono dimensioni che seguono un continuum (ad es. volendo misurare l’aggressività in un numero grande di persone, i risultati indicheranno che la maggior parte delle persone si raggruppa intorno al valore centrale, mentre un numero ridotto si ritroverà agli estremi). I tratti non sono direttamente osservabili, bensì sono inferiti dai comportamenti e dalle risposte a questionari. La teoria dei tratti individua i tratti superficiali 8 (inferendoli direttamente dai comportamenti specifici), dai quali identifica quelli originari ottenuti da più tratti superficiali convergenti. Cattell raccolse un numero elevato di dati relativi a una grande quantità di tratti superficiali su un campione molto ampio. Attraverso dei metodi statistici identificò i tratti superficiali altamente correlati tra loro, capaci, quindi di indicare un tratto originario comune. Cattell si propose di identificare i tratti originari (o nella sua terminologia, i fattori della personalità) che meglio erano in grado di spiegare le differenze tra persone, e cercò di sviluppare un metodo per misurarla. (Gray 727) Cattell individuò 16 tratti originari e sviluppò un questionario per misurarli: 16 PF Questionnaire, dove per PF sta per fattori della personalità. Il questionario è composto da circa 200 affermazioni alle quali il soggetto può rispondere: sì, a volte, no. Ecco i sedici tratti originari identificati da Cattell: socievole - non socievole; intelligente - ottuso; emotivamente stabile – instabile; dominante – sottomesso; allegro – malinconico; coscienzioso – inaffidabile; spavaldo – timido; sensibile – insensibile; sospettoso – fiducioso; fantasioso – pratico; scaltro – ingenuo; incline al senso di colpa – rigetta il senso di colpa; radicalismo – conservatorismo; autosufficienza – adesione al gruppo; autodisciplina – mancanza di volontà; teso – rilassato 9 Anche Eysenck sviluppò una teoria dei tratti simile a quella di Cattell, individuando, però, un numero di tratti originari decisamente inferiore a quelli identificati da quest’ultimo. Il questionario Eysenck Personality Inventory, permetteva di stabilire dove i singoli soggetti si collocavano lungo le dimensioni introverso-estroverso e nevrotico-stabile. I più recenti psicologi della personalità con approccio psicometrico trovano la teoria di Cattell tropo complessa con tratti che si ripetono, e quella di Eysenck troppo riduttiva. Sono giunti, quindi, all’identificazione di cinque fattori della personalità, i Big Five: estroversione - introversione nevroticismo – stabilità; disposizione alla concordia – all’antagonismo; coscienziosità – mancanza di principi; apertura - chiusura 2.5 Le teorie interazioniste Focus delle teorie interazioniste della personalità è l’interazione personaambiente; secondo tali teorie la personalità è il frutto delle influenze esercitate dall’ambiente sull’individuo e viceversa. L’individuo, quindi, non è un soggetto passivo, puro ricettacolo delle influenze ambientali, bensì si adopera per confrontarsi con le situazioni e crearne di nuove. Le tesi che qualificano il programma interazionista sostengono che: a) il comportamento è funzione di un processo interattivo continuo e multidireazionale tra l’individuo e la situazione; b) l’individuo è protagonista attivo di tale processo interattivo; c) benché i fattori emotivi non siano irrilevanti, sono soprattutto i fattori cognitivi che svolgono una parte determinante in tale interazione; d) è soprattutto determinare il significato psicologico che la situazione assume per l’individuo. La persona e la situazione corrispondono a due sistemi in interazione e la comprensione delle loro relazioni è essenziale per la piena comprensione delle proprietà dell’uno e dell’altro (Caprara, 464-465) 10 Gli interazionisti credono sia necessario considerare il complesso sistema fisico, sociale e culturale dell’individuo, il quale interagisce con esso e da esso è influenzato. La personalità è concepita come un sistema aperto che si sviluppa sui e tramite i rapporti tra l’organismo e l’ambiente in virtù di processi di adattamento largamente regolati. (…) L’ambiente di cui è necessario tenere conto è un ambiente enormemente differenziato in rapporto alle limitazioni che esso comporta, alle opportunità che esso offre, alle trasformazioni che di esso sembrano possibili. (…) La personalità è dunque intesa al tempo stesso come risultato di processi e come processo, come esito di trasformazioni e al tempo stesso come agente di trasformazioni, come sistema aperto interagente con altri sistemi a sua volta costituito da sottosistemi tra loro interagenti. (Caprara, 484-485) Secondo Hettema, la personalità funziona a tre livelli: livello cognitivo-simbolico (permette che la personalità rappresenti le situazioni e sviluppi le strategie per le loro trasformazioni); livello di controllo (fa da tramite tra il livello cognitivo-simbolico e quello senso-motorio operazionale attraverso le elaborazioni cognitive e le reazioni biologiche, assicurando «alla personalità un equilibrio tra cognizioni e comportamenti e corrispondenza tra finalità strategiche e riscontri ambientali»(Caprara, 485); livello senso-motorio (permette che la personalità recepisca dall’ambiente e agisca su di esso secondo le indicazioni date dagli altri livelli). 11 2.6 Riepilogando Offrire una nozione chiara e definita di personalità non è un’impresa semplice considerando che molti teorici, negli anni, hanno dato risalto ad alcuni aspetti piuttosto che ad altri. I motivi di tale varietà è dettata dai principi di base delle varie teorie: principi dinamici e di conflitto nelle teorie psicodinamiche, come principi legati agli aspetti cognitivi nelle teorie sociocognitive. Altro motivo di varietà è dettato dalle fonti da cui provengono i dati forniti: vi sono le teorie umanistiche che fanno riferimento a dati raccolti dalle sedute di psicoterapia, mentre vi sono le teorie dei tratti che fanno riferimento a materiale psicometrico. Sta di fatto che orientamenti come quello psicodinamico, ad eccezione di Erikson, affermano che la personalità di un individuo è dettata dalle prime importanti relazioni che il bambino costruisce con le figure importanti, quindi nulla serviranno interventi successivi, il bambino è ormai segnato. Alle teorie umanistiche nulla interessa l’ambiente se non come luogo fertile dove l’individuo possa crescere e autorealizzarsi; dove indirizzare la propria crescita è dettato dal singolo individuo. Differente è l’approccio socio-cognitivo, il quale considera l’ambiente un fattore importante nella formazione della personalità. Importanza conferita anche dall’approccio più recente dell’interazionismo, il quale prova a dare dignità all’ambiente come all’individuo nella costituzione della propria personalità, convinto che questa si formi in continuo lungo tutto l’arco della vita. La teoria dei tratti, invece, ritiene che la personalità sia innata e che l’ambiente non faccia altro che apportare delle modifiche ai comportamenti portatori di determinati tratti. 12 3. La personalità di un individuo lungo l’arco di vita Anche Erikson considerò lo sviluppo come una progressione attraverso stadi, ma si differenziò dagli altri nel porre in rilievo l’importanza delle interazioni sociali e nell’estendere il concetto di sviluppo entro ed oltre la vita adulta. Egli si concentrò soprattutto sulle fasi di passaggio psicosociali, individuando stadi caratterizzati da compiti sociali definiti secondo l’età e momenti di crisi che coinvolgono aspetti come l’identità, la vita intima e la capacità di generare. (Rutter 1995, 10) In passato il pensiero secondo il quale le prime esperienze di vita fossero determinanti per la formazione della personalità di un individuo è andato sviluppandosi dando degna nota anche alle altre fasi dello sviluppo lungo l’arco della vita. Se quindi i modi in cui un bambino è accudito già dai primi mesi di vita risultano fondamentali, non è detto che la vita di quel bambino sia necessariamente già segnata. Vari studi hanno notato che le prime esperienze sono significative non perché hanno un potere a lungo termine, ma perché l’individuo fa esperienza di situazioni simili anche durante il corso della propria vita. Ma andiamo per ordine. In passato si distinguevano due tipi di variabili in grado di influenzare lo sviluppo: quelle genetiche e quelle ambientali. Per anni si è discusso animatamente sull’importanza di natura e cultura. Negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta molti sociologi cercarono di sostenere che le influenze ambientali erano di gran lunga più importanti di quelle genetiche. (Rutter 1995, 24) Probabilmente un simile accanimento contro le ipotesi di tipo genetico erano dettate dal desiderio di prospettare per il nuovo nascituro la possibilità di un riscatto e non limitarlo a una predestinazione biologica. I risultati di ricerche effettuate su bambini adottati hanno rilevato somiglianze con i genitori biologici, con i quali non avevano alcun tipo di rapporto, e somiglianze con i genitori adottivi. Tali risultati hanno fatto supporre influenze sia genetiche che ambientali. Le numerosi varianti presenti nei programmi di ricerca aiutano a verificare ipotesi genetiche e ambientali. (…) Sembra che il fattore genetico giustifichi il 30-60% delle differenze individuali della popolazione generale. (…) l’individuazione delle componenti genetiche costituisce uno degli strumenti più efficaci per dimostrare l’importanza di quelle ambientali e per fornire informazioni dettagliate sugli influssi dell’ambiente. (Rutter 1995, 26) 13 Bambini caratterialmente più socievoli suscitano, negli altri, reazioni di accettazione e accoglienza maggiori rispetto a bambini più schivi e timidi. Questo è un esempio nel quale ciò che risulta non appreso dall’ambiente, tenda ad agire con e su di esso. Diamo un’occhiata ai momenti che caratterizzano la vita di un individuo e le fasi di passaggio che li contraddistinguono. 3.1 L’infanzia Il neonato, già dalle prime ore, vive, in maniera esclusiva, una vicinanza corporea e relazionale con la madre. Tale rapporto, che va sempre più rafforzandosi nel tempo, può offrire un bagaglio emotivo e cognitivo che il bambino porterà con sé anche negli anni a venire. Non tutte le mamme e non tutti i bambini sono uguali. Di conseguenza le diversità comportamentali, a lungo andare, proporranno ai soggetti della relazione (madre-bambino), modalità di interazione diversificate. Bowlby, nei suoi studi, definì l’attaccamento come una caratteristica innata di qualsiasi individuo. I tipi di attaccamento variano, però da individuo a individuo. Il comportamento indicativo di un attaccamento “sicuro” (tipo B) è dato dalla tendenza a cercare vicinanza e contatto con la madre, specie nel ricongiungimento, unitamente ad una chiara preferenza per lei rispetto all’estraneo e ad un turbamento minimo prima della separazione e dopo il ricongiungimento, unitamente ad una chiara preferenza per lei rispetto all’estraneo e ad un turbamento minimo prima della separazione e dopo il ricongiungimento. L’attaccamento “insicuro ansioso-evitante” (tipo A) è dato dalla difficoltà ad attaccarsi quando è tenuto in braccio, dall’evitamento della madre durante il ricongiungimento e dalla tendenza a reagire all’estraneo e alla figura nota in modo simile.(…) L’attaccamento “insicuro-ansiosoresistente” (tipo C) è mostrato dalla tendenza ad opporre resistenza all’interazione con la madre (associata a un comportamento di ricerca di contatto e di vicinanza) e a manifestare uno stress abbastanza forte dopo il ricongiungimento e, in alcuni casi, anche prima della separazione. (Rutter 1995, 113-114) 14 Studi longitudinali hanno mostrato come bambini con attaccamento sicuro tendevano ad avere rapporti selettivi e più profondi rispetto a bambini con attaccamenti di tipo insicuro. Inoltre, mostravano di essere anche quelli più aperti a nuove esperienze e nuove conoscenze. I rapporti che un bambino instaura con i propri genitori o qualsiasi altro caregiver, hanno capacità predittive se sono prolungate nel tempo. Un ambiente accogliente che permette al bambino di poter esplorare, di potersi cimentare in situazioni nuove, lo aiuterà a formare una propria personalità capace di far fronte alle future difficoltà e ad avere maggiori competenze decisionali. Il risultato generale è che bambini dotati di un attaccamento sicuro sono più socievoli con gli adulti, mostrano una maggiore competenza con i pari, stabiliscono relazioni affettive più positive e manifestano maggiore autostima. Inoltre è stato in parte verificato che un’insicurezza nell’attaccamento può talvolta aumentare il rischio di successivi problemi emotivocomportamentali. (Rutter 1995, 114) Alcuni studi su bambini istituzionalizzati, carenti di figure specifiche di riferimento, hanno mostrato difficoltà nelle relazioni future. Sembrano legarsi indistintamente a tutti e mostrano un’incapacità di rapporti profondi e continuativi. È anche vero che, simili bambini, allontanati da tali situazioni, possono, in futuro, sulla base di esperienze positive, modificare il proprio comportamento. Per i bambini, sono importanti, quindi, le prime esperienze con i propri caregiver, non solo inizialmente, ma per tutta la durata del periodo infantile. Infatti, è grazie a queste che il bambino assimila e fa propria l’educazione trasmessagli. I bambini non solo apprendono dai genitori e dagli altri adulti comportamenti specifici, ma acquisiscono anche valori e mezzi di autocontrollo in grado di regolare comportamenti nuovi in nuove situazioni (Maccoby, Martin e Hartup in Hetherington, 1983). Sembra quindi che i bambini in un primo tempo acconsentano alle richieste dei genitori, poi si identifichino con alcuni loro attributi e comportamenti particolari ed infine interiorizzino alcuni dei loro valori. E’ così che i bambini giungono a sviluppare un controllo interno che opera anche in assenza dei genitori, al di fuori della loro sorveglianza del loro controllo esterno ( Rutter1995, 91) 15 3.2 L’adolescenza In seguito a una serie di cambiamenti fisici e psicologici, l’individuo si trova a vivere un passaggio che lo catapulta in una fase, considerata di per sé, transitoria. Non si è più bambini, ma non si è ancora adulti. Sarebbe bene, però, definire l’adolescenza non come un periodo di passaggio, ma un periodo come tutti gli altri. Negli anni questa fase è andata dilatandosi. Si sono registrati aumenti di casi di pubertà precoce e al tempo stesso la società offre agli adolescenti l’opportunità di rimandare la presa in carico di responsabilità tipiche dell’età adulta. I cambiamenti fisici sono accettati dagli adolescenti in vari modi, molto dipende da quelle che sono le aspettative e quella che è la realtà davanti alla quale si trovano. Desiderare di essere magra e ritrovarsi con i fianchi lievitati e l’acne giovanile, oppure pensare di restare della stessa altezza e ritrovarsi, piacevolmente, allungati di 10 centimetri, fa dell’adolescenza un periodo ben accetto o maledetto. I cambiamenti ormonali e quello che la società si aspetta, permette che gli adolescenti sentano la necessità di approcciarsi all’altro sesso . Le prime esperienze con l’altro vissute nell’infanzia faranno da premonizione. Essersi sentiti ben accetti durante i primi anni scolastici, renderà l’adolescente più sicuro nel nuovo ambiente scolastico e nell’intraprendere una relazione sentimentale. All’inizio del secolo, G. Stanley Hall affermò che era un periodo di “tempesta e di stress”; gli psicoanalisti (Ellis, 1982) si convinsero che implicava necessariamente un’alterazione della crescita normale, per cui il mantenimento dell’equilibrio durante quegli anni significava ipso facto un’anormalità. Erikson (1968) considerò l’adolescenza un periodo di “crisi normativa”, in cui i giovani dovevano attraversare un periodo di disorientamento per acquisire un’identità adulta. (…) Tuttavia, ricerche epidemiologiche sulla popolazione complessiva hanno fornito prove consistenti che sconfermano l’idea secondo cui tutti gli adolescenti normali sperimentano una situazione di tumulto e di alienazione dalla propria famiglia. (Rutter 1995, 222) È chiaro che molto, nella vita di un adolescente, è dettato dalle influenze ambientali. È il caso di una serie di ricerche avvenute in Svezia: «le ricerche di 16 Magnusson, Stattin e Allen (1986) e di Satin e Magnusson (1990) dimostrano che le ragazze svedesi con una pubertà precoce (menarca prima degli 11 anni) presentavano, verso i 14 anni, manifestazioni di disadattamento (ubriacarsi, far tardi la notte, drogarsi,…) di gran lunga maggiori di quella di ragazze con pubertà tardiva o normale (…) un’analisi approfondita dimostrò che il meccanismo causale era di tipo sociale, anche se aveva alla base un fattore fisiologico. Il disadattamento era fondamentalmente connesso al fatto che molte di queste ragazze precoci frequentavano ragazze più grandi. Quelle che continuavano ad avere amiche della stessa età, infatti, non mostravano nessun comportamento di rottura delle norme di convivenza». (Rutter 1995, 23) 3.3 L’età adulta I passaggi che l’individuo si trova a vivere durante la fase dell’età adulta sono legati a una serie di responsabilità che vanno dal lavoro all’accudimento della prole. Tali contesti possono essere vissuti in maniera differente in base ad eventi specifici: ad esempio essere impiegato in un lavoro che piace, privo di pressioni sarà vissuto diversamente da chi vive continui litigi con i colleghi, competizioni o addirittura sperimenta il licenziamento. Le modalità di risposta a situazioni stressanti di questo tipo saranno dettate dalle capacità di problem solving acquisite negli anni, grazie anche a esperienze difficili vissute in passato. Il matrimonio, come anche l’avere figli o la sterilità, rappresenta un altro momento di passaggio per l’individuo adulto. I matrimoni tra adolescenti, a seguito di gravidanze inattese, sono differenti dai matrimoni decisi, consapevolmente, all’interno di relazioni adulte. Il matrimonio, solitamente dopo un periodo di fidanzamento, porta con se una serie di fattori stressanti (questione economica, libertà personali ridotte, educazione dei figli…): Il quadro complessivo sembrava indicare chiaramente che lo stress non era provocato dal realizzare il matrimonio; ma, piuttosto dalla decisione di assumersene la responsabilità. (Rutter 1995, 258) 17 La scelta del partner e se e quando sposarsi riflettono la propria personalità: I giovani che hanno fretta di sposarsi dimostrano una tendenza generale a non programmare la propria vita, cui si accompagna (…) la convinzione che ci sia ben poco da fare per influenzare gli eventi. (…) Una tendenza generale (anche se modesta) è che i matrimoni avvengono tra persone abbastanza simili in termini di bellezza fisica, intelligenza e interessi. (…) si è spesso ritenuto che desiderare di sposare uno simile a sé rappresenti una preferenza. È certamente così nei casi in cui si cerca un partner con cui condividere interessi, attività e valori. (…) Nondimeno è probabile che l’influenza maggiore stia nel fatto che siamo “portati” a scegliere un partner fra le persone che conosciamo. (Rutter 1995, 259) Infine, per quel che riguarda l’educazione dei figli, i neo-genitori saranno influenzati dalle loro precedenti esperienze nel ruolo di figli e dalle condizioni ambientali (uno, due figli, presenza dei nonni, presenza di aiuti territoriali). La relazione non si sviluppa improvvisamente come risultato di una qualche esperienza particolare; cresce piuttosto nel tempo come risultato di molte esperienze diverse. (…) Il rapporto col figlio è inoltre influenzato dall’esperienza di avere già allevato altri bambini. (Rutter, 1981a). Madri e padri rispondono in maniera diversa al primogenito rispetto a quanto fanno nei confronti dei figli successivi. In genere la relazione col primo figlio è più intensa e il comportamento è più affettuoso. (…) Il comportamento dei genitori è influenzato, ad esempio, sia del sesso che dalle qualità temperamentali del bambino. (Rutter 1995, 282-283) 3.4 La mezza età e la vecchiaia Durante l’inizio della terza età l’individuo può ritrovarsi a fare i conti con quella che è stata la propria vita fino a quel momento. Si guarda indietro, mette a fuoco ciò che è riuscito a fare, i rapporti che ha costruito, dall’altro si guarda avanti nell’ottica di porsi nuovi obiettivi. Tali obiettivi possono mettere completamente in discussione i risultati già raggiunti: desiderio di un nuovo partner, cambiamento dell’atteggiamento 18 nei confronti del lavoro … «Indipendentemente dalla presenza o assenza di eventi esterni, l’età di mezzo costituisce un periodo di ripensamento, in cui si fanno i conti con ciò che si è già ottenuto e con quel che si vuole portare a termine. (…) Senza dubbio, molti attraversano periodi di incertezza e si pongono interrogativi su di sé». (Rutter 1995, 292) Esperienze importanti che caratterizzano questo periodo sono l’allontanamento dei figli, il diventare nonni, l’accudimento dei genitori anziani, la menopausa e l’andropausa. In passato era uso comune pensare al sentimento di tristezza nel vedere i propri figli andare via di casa, la cosiddetta “sindrome del nido vuoto”. Gli studi hanno invece evidenziato che poche sono le persone a vivere in questo modo simile distacco. Molto dipende dai rapporti che i genitori hanno instaurato con i propri figli. Probabilmente una cattiva relazione, caratterizzata da continui litigi, non può che far desiderare ai genitori che i figli vadano via. Oppure relazioni soddisfacenti fanno si che genitori e figli vedano una simile separazione del tutto normale. L’allontanamento di un figlio da casa non significa né la perdita, né la fine di una relazione. (…) genitori e figli hanno bisogno di incontrarsi, piuttosto che essere costretti a farlo dalla convivenza. (Rutter 1995, 295) Coppie di genitori, che hanno vissuto tra di loro relazioni armoniose, all’andare via dei propri figli, possono riscoprire il bello dello stare insieme. Diventare nonni, solitamente, offre agli individui un’occasione per rimettersi in gioco, sperimentare un nuovo modo di relazionarsi all’altro. La rigidità e la severità che una persona può aver sperimentato nella relazione con un proprio figlio, può far spazio a un atteggiamento di tenerezza e comprensione nei confronti di un nipote. Molti nonni dichiarano di sperimentare nel rapporto coi nipoti un senso di “pienezza emotiva”, un senso di soddisfazione e di comunanza. Il contatto con un bimbo piccolo risveglia 19 spesso una tenerezza e un trasporto fisico che, in qualche adulto, si era no un po’ assopiti. (Rutter 1995, 299) Accudire invece un genitore anziano può comportare una serie di fattori stressanti. Il peso di occuparsi dell’assistenza di un genitore, magari portatore di una serie di patologie fisiche e psichiche, e doversi interfacciare con un individuo che fino a pochi anni prima era lui ad occuparsi di noi, crea una serie di difficoltà nell’accettare il tempo che passa e che porta via le persone a noi più care. È la difficoltà che si vive soprattutto durante la vecchiaia, soprattutto quando si fa esperienza di forti lutti (come nel caso del proprio partner). La vecchiaia è un periodo durante il quale, l’esperienza del pensionamento e del deterioramento fisico, possono portare all’idea di inutilità, di inefficienza. Sicuramente sentimenti simili possono essere attenuati se si continua a mantenere vivo l’interesse nei confronti di qualche attività e nel cercare di prendersi cura del proprio fisico. 4. Le emozioni Altro elemento costruttivo della personalità è l’emozione che è la reazione irrazionale ad eventi o incontri, spesso inaspettati, che può esprimersi attraverso una modifica del corpo a livello fisiologico, come aumento dei battiti cardiaci o alterazioni respiratorie, ma anche attraverso una modifica della mimica facciale in risposta all’evento inaspettato. Ad uno stimolo scatenante segue pertanto un comportamento di risposta messo in atto dal cervello per permettere all’individuo una migliore sopravvivenza, e può esprimersi secondo tre livelli. Il primo è detto psicologico, cioè l’espressione verbale in risposta alla sensazione provata. Il secondo livello è nominato comportamentale, in quanto riguarda manifestazioni motorie dell’emozione, come la fuga e l’attacco. Il terzo livello è quello fisiologico, che riguarda modificazioni fisiche quali alterazioni della frequenza cardiaca, aumento della sudorazione, o modifiche del ritmo respiratorio. Ma l’emozione esprime 20 anche uno stato d’animo: tristezza, gioia, dolore, che è culturalmente modellata, ovvero manifestata in modo diverso nelle varie Charles Darwin è considerato il precursore dell’universalità delle espressioni emotive, ritenendo anche che la capacità di riconoscerle e manifestarle è innata. Nell’opera L’espressione delle emozioni negli uomini e negli animali del 1872, lo studioso incentra la sua attenzione sul comportamento espressivo quale la postura, i gesti, le espressioni facciali, e riscontra una continuità tra il modo di esprimere le emozioni dagli animali a quello degli uomini. Considera, infatti, che anche le scimmie, al pari degli uomini, manifestano rabbia con il rossore della cute, e paura urinando. La teoria di Darwin è stata molto criticata perché carente di scientificità per cui, per diversi decenni, si è ritenuto che l’espressione delle emozioni fosse culturalmente determinata. Nella seconda metà del secolo scorso si è riproposto il tema sull’universalità delle emozioni e P. Elkman si è dedicato ad un’analisi transculturale delle posture facciali che stabilisce l’universalità di almeno sei emozioni: allegria, tristezza, paura, disgusto, rabbia, rafforzando così la teoria darwiniana. Nel 1967 Elkman intraprese un viaggio in Nuova Guinea per verificare l’ipotesi che tutte le popolazioni di culture diverse esprimano e comprendano le emozioni attraverso una mimica facciale comune. Le differenze culturali sono però riscontrabili non tanto nell’esprimere l’emozione in sé, quanto piuttosto dalle regole che guidano l’espressione nelle diverse situazioni sociali. Nasce pertanto la teoria neuro-culturale, dove il termine “neuro” indica la relazione tra una determinata emozione e l’espressione specifica alla stessa. Un esempio è la sorpresa, che si manifesta universalmente spalancando gli occhi, o la paura espressa attraverso il sollevamento delle palpebre superiori e le labbra semichiuse e tirate. Il termine culturale indica invece, che aldilà della base universale, il contesto in cui l’individuo è inserito detta delle regole per l’espressione delle emozioni. Erikson formula quindi il concetto di “Regole di esibizione” (display rules) che vanno a specificare chi può manifestare emozioni, in quale occasione, tenendo conto della differenza tra i sessi, i ceti sociali e le varie etnie. Attraverso le display rules l’intensità dell’emozione può essere modulata attraverso processi di intensificazione, de intensificazione, neutralizzazione o mascheramento, per cui 21 può aumentare, diminuire o può essere resa neutra mediante una risposta emotiva d’indifferenza. Sono regole che dipendono dal contesto socio-culturale in cui l’individuo è inserito e vengono apprese, molto spesso, nelle prime fasi di sviluppo sociale. Nella nostra società si possono osservare regole di esibizione nella consuetudine consentita alle donne di piangere in pubblico, mentre agli uomini questa possibilità viene negata. Altre società, come quella giapponese, impongono un controllo sulle emozioni negative consentendone l’espressione solo in una sfera privata. Nella cultura polacca le emozioni vengono manifestate apertamente e il mostrarsi in atteggiamento freddo e distaccato viene considerato un segno d’indifferenza e apatia. Nella cultura inglese, invece, prevale in generale un autocontrollo emotivo, per cui non viene manifestato un particolare coinvolgimento di fronte agli eventi. Secondo la teoria differenziale, la corrispondenza tra mimica facciale ed espressione emotiva è presente in ogni individuo, fin dalla nascita, anche se in forma stereotipata e automatica. Con l'avanzare della fase dell'apprendimento coniugata alle peculiarità del contesto sociale, l'individuo impara a sconnettere espressione ed esperienza emotiva e quindi riesce a porre in essere anche comportamenti dissimulativi, impara cioè a simulare emozioni. Secondo Anolli, è bene tener presente che la teoria differenziale presenta due limiti: - la previsione del primato dell'emotivo sul cognitivo. - la mancanza di elementi che spiegano quanto l'influenza sociale può essere incisiva nel legame tra espressione ed emozione. Riguardo alle emozioni negative, mettendo a confronto la cultura americana e quella giapponese, si possono individuare significative diversità che rispecchiano le differenze culturali tra il mondo occidentale e quello orientale. La morte, ad esempio, è considerata dagli Americani l’evento antecedente alla tristezza in quanto rappresenta la separazione permanente, mentre i Giapponesi, davanti ad un evento luttuoso, ostentano indifferenza poiché percepiscono la perdita in maniera meno estrema. Infatti, secondo la loro religione, le anime dei defunti non migrano verso uno sconosciuto mondo dei morti, ma continuano a essere presenti presso le abitazioni 22 dei parenti rimasti in vita perché questi possano onorarli secondo specifiche cerimonie. La conoscenza e la gestione delle emozioni, proprie e altrui, hanno una funzione sociale molto importante, in quanto permettono all’individuo di creare rapporti interpersonali e di costruire quindi relazioni sociali in ogni ambito. Dunque, la società, l’ambiente culturale e familiare in cui si nasce e cresce, influiscono sulla formazione della personalità dell’individuo. Le regole comportamentali si acquisiscono già nella prima infanzia, per poi svilupparsi durante l’età adulta. Durante questa fase di inculturazione l’individuo forma la propria identità ma, in quanto membro di un gruppo, acquisisce anche un senso di appartenenza al gruppo stesso perché si conforma a regole comportamentali dettate dal contesto culturale in cui è inserito. 5. Concludendo Questo breve excursus della vita di un individuo per poter riflettere su quanto essa sia ricca e quante situazioni si trova a fronteggiare. Biologia e cultura sono in continua relazione, già dal grembo materno fino alla vecchiaia, ed è chiaro che per quanto la personalità di un individuo possa ricevere molte influenze nei primi anni di vita, continua ad avere scossoni anche negli anni a venire. Ci sono poi caratteristiche psicologiche in cui sottotipi diversi seguono un andamento diverso rispetto all’età. Ad esempio, stati d’animo negativi si verificano ad ogni età, ma sentimenti e disturbi depressivi aumentano in modo marcato durante l’adolescenza. I tentativi di suicidio hanno un picco all’inizio dell’età adulta, sebbene i suicidi aumentino di frequente negli anziani (…). Rispetto alla continuità, il messaggio generale per i tratti di comportamento e che la qualità di una persona nella prima infanzia mostrano un collegamento molto debole con quelle dell’adolescenza o della vita adulta (…). Varie ricerche hanno dimostrato che la persistenza di un disturbo psicologico o di un comportamento problematico è abbastanza forte. Se a tre anni sono presenti disturbi psicologici, è tre volte più probabile che essi si presenteranno anche a otto anni (Richman, Stevenson, Graham, 1982); la continuità è ancora più forte tra l’età scolare e la vita adulta, anche se, in alcuni individui, si verificano ancora cambiamenti notevoli. (Rutter 1995, 78-80) 23 Non tutti gli individui rispondono in modo similare alla vita e questo di certo lo si deve ricercare nella personalità specifica dell’individuo. «Per capire le ragioni per cui ogni persona è diversa dall’altra, è utile iniziare dalla nozione di maturazione biologica, che in senso stretto, costituisce la base della crescita (…) la maturazione biologica è influenzata dall’esperienza. Tra soma e psiche il flusso è bidirezionale. Questo vale non solo per la prima fase della maturazione, ma anche per tutta la vita» (Rutter 1995, 20-21) Se il patrimonio genetico opera nel senso di aumentare la vulnerabilità agli stress ambientali, gli individui a maggiore rischio genetico sono anche quelli più suscettibili al danno psicologico connesso al rischio ambientale. (Rutter 1995, 27) 24 Capitolo 2 Un tentativo di accordo. La scuola di personalità e cultura Fino a questo momento il nostro interesse si è limitato al singolo individuo. Varie ricerche sperimentali sono state possibili poiché circoscritte in determinati ambienti ed effettuate con un numero ridotto di soggetti. Nel voler estendere tale discorso a intere popolazioni è necessario approcciarsi diversamente. Di fatto, pretendere di effettuare studi sperimentali su intere popolazioni sarebbe stato impossibile data la mole di lavoro, ma soprattutto perché troppe varianti da tenere sotto controllo che altrimenti avrebbero inficiato i risultati. Ecco, quindi, l’apporto proficuo dell’antropologia. L’antropologia culturale è considerata da molti autori una delle tre scienze sociali di base e precisamente, quella di esse che si propone la conoscenza teorica dei fenomeni culturali e lo studio del concreto manifestarsi di questi negli individui e nei gruppi umani. Per cultura s’intende quella concezione della realtà e quella sensibilità ad essa, socialmente acquisita o indotta, che orienta gli individui nelle diverse situazioni che si offrono loro nel corso dell’esistenza. Esse si costituiscono nei gruppi sia per effetto delle esperienze da ciascuno realizzate e delle possibilità di cui ciascuno dispone per affrontare i problemi esistenziali, sia per effetto della tradizione. L’individuo ne partecipa in quanto membro del gruppo ed è in vario modo sollecitato a interiorizzarle e ad assumerle come dati di riferimento di scelte per l’azione e la valutazione della realtà. Il gruppo ottiene tale partecipazione a livello consapevole o inconsapevole. (Tentori, 9) Di fatto l’interesse della ricerca antropologica verte sullo studio delle differenze e somiglianze culturali avvalendosi di due metodologie: l’etnografia e la comparazione. L’etnografia è la descrizione dei comportamenti e idee di un gruppo ovvero della sua cultura, mentre la comparazione è il confronto tra diverse culture descritte. Con l’avvento della psicoanalisi l’antropologia ha cominciato a porre sempre maggiore interesse a temi come la formazione della personalità individuale, i processi di conflitto e di adattamento degli individui all’ambiente socio-culturale di appartenenza. 25 La scuola di personalità e cultura, frutto della collaborazione di antropologia e psicologia, diventa un tentativo di risposta al quesito che tale lavoro si pone: si può parlare di personalità comuni tra gli abitanti di una comunità? Se si, la cultura può esserne la causa? Prima di esporre i concetti chiave dei fautori di tale corrente antropologica, credo sia necessario illustrare brevemente i due filoni di pensiero grazie ai quali (con uno prendendone distanza e con l’altro accogliendo innovative intuizioni), si sono andate definendo i principi che la caratterizzano. 1. L’Evoluzionismo L’Evoluzionismo è una corrente antropologica che ha preso piede, inizialmente in Gran Bretagna e successivamente in tutta Europa, nella seconda metà dell’Ottocento. I principi su cui si basa l’Evoluzionismo sono il carattere lineare dello sviluppo dell’umanità (quindi tutte le società si sarebbero formate attraverso stadi evolutivi simili) e l’affermazione di una fondamentale unità psichica del genere umano. Sembra chiaro che, secondo questa teoria, non esistono diverse civiltà, ma una sola grande civiltà umana il cui sviluppo è scandito da stadi. Vi saranno, quindi, civiltà diverse tra di loro solo perché hanno già raggiunto o ancora non hanno raggiunto determinate tappe. Tra i maggiori esponenti vi è Edward B. Tylor (1832-1917). Attraverso l’osservazione di singole culture cercò di costruire un sistema di classificazione universale dei fenomeni culturali basandosi su somiglianze tra tratti delle diverse culture. Pensava che esistessero popoli «inferiori» e popoli «superiori». Ciò significava che il genere umano potesse essere rappresentato da una linea ascendente che partendo da forme di organizzazione sociale semplici, portava a forme organizzative più complesse e meglio organizzate. (Fabietti 2001, 18) 26 Tylor e i suoi contemporanei condividevano l’idea che i popoli “selvaggi” presenti in tutto il mondo rappresentassero gli stadi precedenti della storia umana e che questi illustrassero le condizioni di vita degli uomini della preistoria. Confrontando i vari stadi della civiltà tra le razze storicamente note, con l’aiuto dell’inferenza archeologica dagli avanzi delle tribù preistoriche, sembra possibile stabilire in modo approssimativo la prima condizione generale dell’uomo, che dal nostro punto di vista dev’essere considerata come una condizione primitiva, qualsiasi stato più remoto possa averla in realtà preceduta. Questa ipotetica condizione primitiva corrisponde in misura considerevole a quella delle tribù selvagge dei nostri giorni, le quali, nonostante la loro differenza a la distanza che le separa, hanno in comune certi elementi di civiltà che sembrano essere le vestigia di uno stato iniziale della razza umana in generale. (Taylor 1970, 26) Col concetto di sopravvivenza Tylor intendeva qualunque cosa (un’idea, una credenza, un rito) la cui origine andasse ricercata in uno stato culturale precedente. Rilevare una sopravvivenza voleva dire poter risalire all’epoca in cui una determinata pratica (oggi ancora presente) aveva un significato. Tra le prove che ci aiutano a tracciare il corso che la civiltà ha effettivamente seguito c’è quella grande classe di fatti che abbiamo trovato conveniente designare col termine di «sopravvivenze». Essa consta di processi, di costumi, di opinioni ecc., che sono stati conservati per la forza dell’abitudine in uno stato della società diverso da quello in cui avevano la loro sede d’origine; essi rimangono così prove ed esempi di una condizione precedente della cultura da cui se n’è sviluppata una nuova. (Taylor 1970, 20) A differenza di molti evoluzionisti, i quali non ebbero esperienza diretta delle popolazioni «primitive», William Robertson Smith (1846-1894) effettuò diversi viaggi e ricognizioni sul campo. Visitò paesi come l’Egitto e la Palestina alla ricerca di elementi della vita locale. Riprendendo i temi dell’antropologia evoluzionista quali: l’unità psichica del genere umano, lo studio delle sopravvivenze come strumento di conoscenza dello sviluppo culturale, la comparazione, Smith cercò di elaborare – grazie all’utilizzo di materiale dell’area delle civiltà semitiche – una teoria generale riguardante i rapporti tra società e religione. James George Frazer (1854-1941), professore di antropologia sociale, scrisse Il ramo d’oro Studio sulla magia e la religione, un’opera contenente una teoria fondata su una vasta raccolta di dati pervenuti dalla raccolta etnografica e 27 letteraria classica. Nella sua opera, Frazer, riprendeva i fondamenti dell’evoluzionismo: la storia come una successione di fasi o stadi; la lenta risoluzione di una fase precedente in quella successiva; l’idea di un “progresso” da una fase all’altra, per cui elementi culturali appartenenti a una fase anteriore sopravvivono in una fase successiva. 2. Franz Boas Franz Boas (1858-1942) antropologo e linguista tedesco, fu tra i primi a condurre delle ricerche sul campo osservando alcune culture primitive. Pur riprendendo gli spunti proposti da Tylor, se ne discostò. Secondo Boas teorie e leggi riguardanti una comunità erano possibili solo dopo aver raccolto informazione mediante l’osservazione diretta. Provò a porre l’accento su quanto fosse importante definire le società in base i loro aspetti culturali e rifiutandosi di ricercare spiegazioni di tipo razziale. Il fatto di concentrare l’attenzione su un contesto culturale o areale specifico doveva in effetti costituire il prologo di quel “particolarismo” che nelle intenzioni di Boas era, a sua volta, condizione preliminare di ogni progetto di tipo comparativo. (Fabietti 2001, 44) Nel suo libro L’uomo primitivo sostenne l’assenza di relazioni tra cultura e razza, cercando di dimostrare come gli aspetti culturali di un popolo non avessero alcun rapporto con l’aspetto fisico dei suoi membri. Secondo Boas, le differenze culturali tra i popoli non erano differenze tra diversi stadi evolutivi, ma aspetti specifici di culture diverse perché appartenenti a popoli diversi; per Boas queste differenze erano oggetto di uno studio minuzioso e attento ad ogni più piccolo aspetto della vita sociale di un gruppo. Boas non aderì all’idea evoluzionista seconda la quale aspetti culturali simili osservabili presso popoli distanti tra loro sarebbero apparsi indipendentemente senza alcuna origine 28 storica comune. Boas sosteneva che la comunanza di tratti culturali affini tra società distanti geograficamente, fosse possibile grazie alla comunicazione e alla diffusione. Era convinto che l’etnologia dovesse porsi come obiettivo fondamentale la ricerca delle cause storiche determinanti quegli aspetti culturali specifici di una data popolazione. Desideriamo conoscere le ragioni per cui tali costumi e credenze esistono; in altre parole desideriamo scoprire la storia del loro sviluppo. (…) Abbiamo a disposizione un altro metodo, che per certi riguardi è molto più sicuro. Uno studio dettagliato dei costumi nella loro relazione con la cultura complessiva della tribù che li pratica, in correlazione con una ricerca della distribuzione geografica fra le tribù limitrofe, ci offre quasi sempre un mezzo per determinare con considerevole accuratezza le cause storiche le quali hanno portato alla formazione dei costumi in questione ed ai processi psicologici che operavano durante lo sviluppo. I risultati di ricerche condotte con questo metodo possono essere triplici. Essi possono rivelare le condizioni ambientali che hanno creato o modificato elementi culturali; possono chiarire fattori psicologici che contribuiscono alla formazione della cultura; o possono metterci innanzi agli occhi gli effetti che le relazioni storiche hanno avuto sullo sviluppo della cultura. (Boas 1970, 133) Nel 1938, Boas definì la cultura come «la totalità delle reazioni e delle attività intellettuali e fisiche che caratterizzano il comportamento degli individui i quali compongono un gruppo sociale». (Giaccardi 2005, 22) Nella definizione di Boas all’individuo veniva assegnato un ruolo attivo e centrale nel processo culturale, che l’individuo stesso contribuisce a modificare con attività e reazioni. In definitiva l’individuo di Boas, diversamente da quello di Tylor, si inseriva nella società in maniera tutt’altro che passiva, ma piuttosto come portatore di cultura; l’individuo, infatti, reagendo alla propria cultura, apportava significativi cambiamenti nei modelli sociali. 29 3. La scuola di personalità-cultura Proprio allo scadere del XIX secolo, un nuovo sapere, la psicoanalisi aveva rivelato l’esistenza di una vita psichica inconscia che (…) si presentava come il risultato di uno scontro tra le pulsioni e gli istinti dell’individuo da un lato, e le forze della cultura dall’altro. (U. Fabietti 2001, 110) La scuola etnologica nata in America intorno agli anni 30, risentendo dell’influenza psicoanalitica, si interessò della personalità degli individui di singole comunità. Secondo tale scuola, la personalità era il prodotto e l’espressione di una data cultura. Ciascuna cultura ha come nucleo fondamentale le idee, i principi, i costumi e le reazioni comune a tutti i suoi membri: i cosiddetti «universali » della cultura. Il processo di «inculturazione» permette l’acquisizione della cultura da parte dell’individuo. I principali esponenti furono Ruth F. Benedict, Abram Kardiner, Ralph Linton, Gregory Bateson e Margaret Mead. 3.1 Ruth F. Benedict Ruth Benedict (1887-1948), antropologa statunitense, fu allieva di Boas e di Kroeber e insegnò alla Columbia University di New York. Condusse una serie di ricerche fra gli Indiani della California e gli zuni. Una delle sue maggiori opere fu Modelli di cultura (1934). Secondo Modelli di cultura è necessario che l’antropologia tenda a conoscere il temperamento dei popoli, vale a dire il sostrato affettivo e ideologico che modella la fisionomia, le istituzioni e i comportamenti di una determinata società. In Modelli di cultura, Benedict si concentra sulla comparazione di quattro tipi di società indiane desumendo come la cultura vada a costituire quasi una personalità “comune” che caratterizza tutti gli individui che fanno parte di quella determinata etnia. Ella contrapponeva agli “apollinei” indiani zuni 30 caratterizzati da un controllo delle emozioni e interiorizzazione dei sentimenti, i “dionisiaci” indiani delle Pianure che invece estremizzavano i sentimenti e le passioni specialmente nella competizione. I “paranoici” dobu della Malesia erano sospettosi e invidiosi mentre i “megalomani” della costa settentrionale del Pacifico, convinti della loro potenza, ricercavano un sempre maggiore prestigio sociale. “Modelli di cultura” sottolineava l’irriducibilità di una configurazione culturale ad un’altra e quindi negava la possibilità di classificare le culture per “tipi”. Alla base di questa irriducibilità stava lo stesso processo di integrazione dei tratti prodotto dal modello. (Fabietti 2001, 140). Secondo Ruth Benedict un tratto culturale era da considerare come conseguenza del modo in cui si collegava agli altri tratti appartenenti a una stessa configurazione. Ogni cultura è formata da un insieme di tratti culturali che possono essere presenti anche in altre culture, ma ciò che rende le culture diverse è la particolare configurazione che il tratto assume all’interno di quella specifica cultura e ogni individuo cresciuto in una determinata configurazione culturale si forma e si comporta in base al modello che gli viene imposto. Le culture non sono semplicemente la somma dei loro elementi costitutivi. (…) una cultura sceglie, fra gli elementi offerti dalle civiltà delle regioni circostanti, quelli che può usare, scarta quelli di cui non può far uso, mentre altri ne riplasma secondo le proprie necessità. Naturalmente non è detto che questo processo sia sempre cosciente. (R.F. Benedict 1960, 53) La cultura, quindi, va al di là della somma delle sue singole parti. Se un aspetto è accolto o respinto dipende dall’esistenza di modelli preesistenti. Benedict sosteneva che ogni società esprimeva la propria modellizzazione. 31 3.2 Abram Kardiner Abram Kardiner (1891-1981), psicoanalista e antropologo statunitense, tentò di fornire una teoria psico-culturale dell’adattamento dell’individuo alla sua società sulla base del concetto di “personalità di base”. La personalià di base di Kardiner, costituisce una risultante psicologica “media” all’interno di una determinata cultura. Essa è una struttura, cioè un complesso di tratti tra loro correlati alla cui costituzione concorrono quelle che egli chiama istituzioni primarie e istituzioni secondarie. (Fabietti 2001, 143). Col termine istituzioni primarie, Kardiner intendeva tutto ciò che concorreva a costituire la personalità dell’individuo durante l’infanzia; i meccanismi di formazione di tale personalità riflettevano i valori specifici di una certa cultura, come quello della soddisfazione, della punizione e della inibizione. Col termine istituzioni secondarie, Kardiner intendeva quegli elementi culturali di una società al fine di attenuare, conciliare, spostare, le tensioni derivanti dall’azione delle istituzioni primarie sulla psiche di ciascun individuo, come la religione, le leggende, i tabù. Le istituzioni primarie sono ciò che contribuisce a plasmare la personalità degli individui nella fase infantile della loro esistenza. Le istituzioni secondarie, d’altra parte, sono per Kardiner quegli elementi culturali che una società elabora allo scopo di attenuare, conciliare, spostare, le tensioni derivanti dall’azione delle istituzioni primarie sulla psiche individuale. (Fabietti 2001, 143) Secondo Kardiner e l’antropologo R. Linton, la personalità di base si relaziona alla cultura di ciascuna società mediante i metodi educativi; ciascuna cultura trasmette ad ogni membro del gruppo una forma di comportamento comune. Questa scuola è stata innovatrice nel teorizzare le differenze culturali correlate ai diversi modi di allevare ed educare i bambini e nell’individuare in 32 queste modalità educative il principale sistema di trasmissione dei comportamenti e dei valori propri di ogni società. 3.3 Ralph Linton Ralph Linton (1893-1953), antropologo statunitense, insegnò all’Università del Wisconsin e a Yale. Tra le sue maggiori opere vi è “Il substrato culturale della personalità”. Linton pone una serie di quesiti legati alla cultura e alla personalità: Il primo di questi problemi riguarda la formazione di personalità tipiche per ciascuna cultura. Perché è possibile individuare un carattere francese tipico, un carattere americano tipico, ecc.? Quali fattori fanno sì che un americano abbia in genere un tipo di personalità che non è quella francese? Il Linton ritiene di poter risolvere il problema ricorrendo (…) al concetto di «personalità di base». (Tentori 2000, 127) All’interno di una cultura è possibile quindi trovare individui con personalità simili che, secondo Linton, sarebbero plasmate già in tenera età grazie a determinate forme educative. Il secondo problema si propone la ricerca del perché in ogni cultura, partendo da una identità di personalità di base, vi sia una gamma di varianti di questa. (Tentori 2000, 127) Probabilmente le differenze sono da ricercarsi in cause biologiche e in tecniche educative tipiche di un determinato ambiente familiare. Il terzo problema sorge da una constatazione che gli antropologi hanno potuto fare indagando sui tipi di personalità in differenti culture: cioè quella che in tutte le società esistono dei tipi simili di personalità. A tale problema il Linton non offre una precisa risposta. (Tentori 2000, 127-128) Come già accennato precedentemente, Linton, insieme con Kardiner, elaborò il concetto di personalità di base, un concetto da non confondere con quello di personalità. Infatti, quest’ultimo comprende l’individuo nella sua 33 totalità, mentre con personalità di base si intende quella base sulla quale va costituendosi la personalità globale dell’individuo stesso. La personalità di base, precisa il Linton nella introduzione a The Psychological Frontiers 0f Society, non corrisponde alla personalità totale dell’individuo, ma piuttosto ai sistemi « valoriatteggiamenti» che sono fondamentali nella configurazione della personalità dell’individuo: sicché lo stesso tipo di personalità di base può riflettersi in molte differenti forme di comportamento e può ritrovarsi in molte differenti configurazioni totali di personalità. Per meglio precisare il concetto, ripetiamo che la personalità di base non costituisce esattamente una personalità, ma la base della personalità per i membri di una determinata società (o di un determinato gruppo sociale). E', insomma, la matrice dalla quale si sviluppano i tratti del carattere, quella matrice che, come abbiamo detto sopra, fa si che tutti i Comanches siano Comanches, tutti i francesi francesi e così via. (Tentori 2000, 129-130) 3.4 Gregory Bateson Gregory Bateson (1904-1980), antropologo, sociologo e psicologo britannico, fu allievo di Malinowski e di Radcliffe-Brown (aderendo alla sua teoria struttural-funzionalista). In seguito prese le distanze dai suoi maestri, trovando i loro approcci troppo riduttivi e trasse vantaggio dalla collaborazione nata con la Mead. Studiando la cerimonia del naven tra gli iatmul della Nuova Guinea, Bateson ne analizzò gli aspetti psicologici, economici, politici, magico-religiosi ed etici. La vita normale di una donna iatmul è quieta e schiva mentre quella di un uomo è chiassosa e piena di ostentazione. Quando partecipano alle cerimonie spettacolari le donne fanno qualcosa che esce dalle norme della loro esistenza e che è invece normale per gli uomini. Per queste occasioni speciali esse adottano elementi della cultura maschile, comportandosi come uomini e indossano ornamenti che solitamente spettano ad essi.(…) Gli uomini sono perfettamente abituati dalla loro irreale vita spettacolare alla “prova” della rappresentazione in pubblico ma non sono abituati ad esprimere liberamente le emozioni per qualcosa che riguarda gli altri. (…) La situazione naven contiene dunque due componenti, l’elemento di esibizione pubblica e l’elemento di emozione personale: ognuno dei due sessi, quando è posto dalla 34 cultura in questa situazione, si trova di fronte ad una componente che non ha difficoltà ad accettare, mentre l’altra componente è imbarazzante. (Bateson 1988, 188-189) Bateson individuò negli iatmul un modo di essere emotivo (ethos) e un modo di essere cognitivo (eidos) a seconda del sesso. Per cui identificò gli uomini esibizionisti e orgogliosi, mentre le donne docili e remissive. Questo modo di essere diversificato e complementare venne definito da Bateson col termine schismogenesi. Il naven é un rito che ha come obiettivo il mantenimento della coesione sociale qualora l’aumento di schismogenesi si dovesse rivelare pericoloso per la società. Col concetto di schismogenesi Bateson rifiutava l’idea che l’adattamento individuale potesse essere spiegato come reazione di un individuo a un ambiente a lui esterno (società/cultura). Con la dinamica della schismogenesi cercava di individuare i processi di azione e reazione cumulativa che riguardavano il livello emotivo per poter meglio comprendere il comportamento psichico ed emotivo dell’individuo, senza incasellarlo in modelli o configurazioni culturali (mere espressioni). 3.5 Margaret Mead Margaret Mead (1901-1978), antropologa statunitense, fu allieva di Boas e di Bendict. Si interessò fin dagli inizi della sua carriera a cercare di verificare l’ipotesi di Boas in merito alla relazione tra biologia, psicologia e cultura. Secondo l’antropologa statunitense, la formazione della personalità dipendeva dai modelli educativi e dalle tecniche di allevamento dei bambini. La Mead improntò il suo studio su tre società melanesiane della Papua Nuova Guinea distinguendo in ciascuna un tipo di personalità. Abbiamo visto che gli Arapesh, uomini e donne, presentano una personalità alla quale, nei limiti storici della nostra ricerca, si può riconoscere un carattere materno (se si considera il comportamento nei confronti della prole) e femminile (se si considera il comportamento sessuale). Abbiamo trovato che tanto gli uomini quanto le donne sono educati alla collaborazione, alla non aggressività, alla comprensione delle necessità e delle esigenze altrui. (…) In netto contrasto con queste caratteristiche, abbiamo constatato che fra i Mundugumor 35 tanto gli uomini quanto le donne si sviluppano in individui duri, crudeli, aggressivi, con una carica sessuale positiva e gli aspetti materni ridotti al minimo. Tanto gli uomini quanto le donne si avvicinano a un tipo di personalità che, nella nostra cultura, può apparire soltanto in un maschio indisciplinato e molto violento. (…) Nella terza tribù, i Ciambuli, abbiamo trovato il vero e proprio rovescio della nostra cultura, con la donna in veste di partner dominante, direttivo, impersonale, e l’uomo nella posizione di inore responsabilità e di soggezione sentimentale. (Mead 2009) Tra gli Arapesh, pacifici e solidali, e i Mundugomor, aggressivi e violenti, non furono evidenziati alcuna differenza sociale tra i due sessi. M. Mead evidenziò come lo stile educativo e le tecniche di cura nella prima infanzia fossero il vettore principale per la formazione della personalità: gli Arapesh si presentavano teneri ed affettuosi con i propri bambini, mentre modalità rigorose e distaccate caratterizzavano l’atteggiamento verso i piccoli dei Mundugomor. Lo studio sulla terza società, quella dei Ciambuli, lasciava emergere come la cultura differenziasse le donne dagli uomini. Le donne si mostravano audaci e risolutive, capaci di rispondere ai bisogni del gruppo di appartenenza, mentre gli uomini apparivano particolarmente sensibili interessati più che altro ai cerimoniali. Nei Ciambuli veniva riconosciuta la differenza tra i sessi, evidenziando l’elemento formativo della personalità sociale: la cultura assegnava arbitrariamente certe caratteristiche umane alla donna e altre all’uomo. 4. Il processo d’inculturazione Il concetto di inculturazione è tipicamente antropologico e deriva dalla parola inglese inculturation, proprio ad indicare che la cultura “entra dentro” attraverso un processo inconscio. Si tratta, dunque, di un metodo di trasmissione della cultura da una generazione all’altra attraverso un processo educativo, e si differenzia dalla socializzazione che è invece l’interazione tra più individui che hanno condiviso lo stesso metodo o processo di educazione. Il processo di inculturazione avviene secondo precise regole e grazie a figure particolari deputate a tale compito, come nel caso dei nonni, degli 36 insegnanti o degli anziani. L’obiettivo è quello di mantenere, nel tempo, nonostante delle modifiche adattive, l’eredità culturale e la conformazione sociale della comunità. L’inculturazione comincia da quando una persona nasce a quando muore. L’inculturazione «si sviluppa durante tutto il corso dell’esistenza dell’individuo, che arricchisce e trasforma continuamente il proprio patrimonio culturale in virtù delle esperienze e dell’impegno che deve porre nell'adempire i diversi ruoli che è chiamato a sostenere». (Tentori 2000, 142) Secondo Bock ogni persona, nel corso del proprio sviluppo, acquisisce un bagaglio di credenze condivise dalla maggior parte dei membri della sua società attraverso tre tipi di trasmissione culturale: verticale, orizzontale e trasversale. La trasmissione culturale verticale è quella sperimentata per prima dall’individuo in quanto avviene in ambito familiare e viene svolta dagli allevatori del bambino che normalmente sono i genitori naturali. Il processo d’inculturazione comincia già da quando il bambino è nel ventre materno. Il bambino nel grembo materno è in grado di riconoscere la voce della madre e, appena nato, sa distinguerla tra tutte le altre. La madre assume nei confronti del feto determinati comportamenti che sono frutto di credenze che variano a secondo del contesto culturale in cui è inserita. Ci sono, per esempio, credenze su come le gestanti debbano nutrirsi, su quale posizione debbano assumere durante il sonno, e anche se non sono molto noti gli effetti che questi comportamenti producono sul feto, si può desumere che ci sia qualche incidenza su di esso. Queste credenze sui comportamenti delle madri nella fase gestante non hanno, però, carattere normativo in quanto le prescrizioni culturali devono tener conto della varietà individuale. Il parto e la nascita sono un momento molto importante nel processo d’inculturazione e l’accudimento del nascituro da parte del caregiver varia da cultura a cultura. Mentre in alcuni contesti il bambino viene subito allevato e tenuto vicino alla madre, in altri casi può essere lasciato solo e senza cibo per ore, talvolta per giorni. In tutte le culture però il bambino apprende, già nelle prime fasi di vita, che determinati suoi comportamenti suscitano risposte consequenziali da parte della madre, e il modo in cui il bambino viene allevato costituisce il fulcro del processo d’inculturazione. Il bambino quindi interagisce con l’ambiente per soddisfare i propri bisogni e, attraverso queste interazioni, impara ad avere percezione del mondo e della realtà e a distinguersi dagli altri. Quando 37 l’interazione bambino/ambiente non avviene in maniera adeguata per povertà di risorse materiali e culturali, o per mancanza di cure, si avranno effetti negativi sulla formazione della personalità che possono sfociare anche in gravi patologie. La cultura influenza il comportamento di un bambino in primo luogo attraverso i modi in cui si va incontro ai suoi bisogni di cibo, affetto, sonno, secondo dei modelli culturali; gli adulti che rivestono un ruolo importante nel suo habitat di riferimento, plasmano il comportamento del bambino secondo le aspettative della società in cui vivono. Egli impara dove e quando ci si aspetti che mangi, dorma e in che modo può soddisfare il suo desiderio di attività muscolare e di esplorazione o la sua voglia di tepore o protezione. Come disse una volta William Condill: «all’età di tre/quattro mesi, i bimbi sono già esseri profondamente culturali». (Bock 1978, 67) Man mano che il bambino cresce, aumentano progressivamente anche le sue interazioni sociali in quanto comincia, soprattutto con l’ingresso nella scuola, a relazionarsi anche con i coetanei e nel confronto con essi impara nuove regole comportamentali che devono compiacere le aspettative della comunità, ma al contempo, differenziarsi a seconda del tipo di situazione che gli viene prospettata e alla quale deve, in qualche modo, rispondere. La trasmissione culturale in questo caso è detta orizzontale perché avviene nel gruppo dei pari, cioè tra individui che condividono lo stesso status sociale e l’educazione viene impartita dalle istituzioni scolastiche. Nella società contemporanea la trasmissione culturale orizzontale è ritenuta più rilevante di quella verticale, in quanto il bambino già nella scuola dell’infanzia comincia a relazionarsi con i propri coetanei, non avendo nella famiglia altri riferimenti al di fuori dei genitori. La maggior parte delle famiglie contemporanee è infatti costituita dai genitori e uno/due figli e in alcune culture è addirittura vietato avere una prole superiore ai due figli. La trasmissione trasversale, che determina invece il carattere sociale, viene fornita dai mass media che informano su altri modi di vita e dall’interazione con individui di etnie diverse. Dal 1987, con il progetto Erasmus, è stato istituito un programma di mobilità studentesca, per permettere a studenti universitari europei di seguire un periodo di studio in un paese diverso dal proprio. Quest’esperienza si rivela molto utile, non solo per conoscere usi e 38 costumi del popolo ospitante, ma è anche motivo di confronto tra studenti di etnie diverse, per favorirne gli scambi culturali e fornire occasione di crescita personale. L’antropologia culturale presenta il processo d’inculturazione anche attraverso i riti d’iniziazione mediante i quali l’individuo viene immesso nella società. L’iniziazione può essere definita come una fase del processo di inculturazione, dal momento che fornisce all’individuo gli elementi e le competenze pratiche che gli consentiranno l’ingresso in un gruppo sociale. Nelle società tribali, come nello stato africano di Zambia, i maschi erano sottoposti dagli anziani a riti di iniziazione legati ad attività produttive come la caccia, mentre le ragazze venivano preparate alla vita matrimoniale con riti legati all’attività riproduttiva. Nelle società moderne sono considerati riti di iniziazione il battesimo, nei paesi di cultura cristiana, e la circoncisione nei paesi islamici. 39 Capitolo 3 L’adolescenza in Samoa. Come la cultura influenza la personalità degli adolescenti La ricerca eseguita da Margaret Mead agli inizi del novecento ha offerto la possibilità di rilevare i fattori legati alla costituzione della personalità di adolescenti appartenenti a una cultura primitiva. Conoscere come va costituendosi una simile personalità ha permesso di mettere in dubbio l’idea che il periodo adolescenziale fosse un periodo caratterizzato da forti crisi interiori e che tali crisi fossero comuni a tutti gli adolescenti del mondo. Verrà illustrato, in maniera ridotta, il risultato di tale ricerca riassunta nel testo “Coming of age in Samoa” del 1928. 1. La ricerca Agli inizi del novecento, secondo quanto illustra la Mead nel suo libro, in America si registrava un aumento del disagio adolescenziale. Sempre più ragazzi sembravano scostarsi dagli ideali e dalle tradizioni del passato. Probabilmente tali cambiamenti trovavano radici nei cambiamenti socio-cultuali del momento: l’arrivo di molti immigrati, il pullulare di un crescente numero di sette religiose, le variabili condizioni economiche. Le teorie psicologiche del tempo consideravano l’adolescenza un periodo critico e difficile, un periodo durante il quale si facevano strada forti conflitti interiori e con la società. Margaret Mead criticò tali affermazioni, considerandole riduttive. Tali considerazioni non erano altro che il frutto di osservazioni attuate tra gli adolescenti della società americana. Grazie al materiale raccolto dagli antropologi, si faceva sempre più strada l’idea che la cultura assumesse un ruolo importante nella vita degli individui. Per cui, caratteristiche tipiche di un popolo non necessariamente erano presenti presso un’altra popolazione. 40 Da un simile sfondo socio-culturale prese avvio la ricerca della Mead. Margaret Mead si chiese se l’adolescenza fosse un periodo di crisi di natura o non fosse altro che conseguenza di una determinata formazione culturale. Come vedremo più avanti, nelle ragazze samoane non era presente alcun tragico conflitto interiore. Si trattava di uno studio focalizzato sul periodo di vita adolescenziale della donna samoana. In esso venivano analizzati tanto il contesto sociale quanto il processo educativo che, presso questa società dei Mari del Sud, concorrevano alla formazione della personalità della donna durante quello che in America veniva considerato come un periodo estremamente critico e decisivo per il successo o meno col quale avveniva l’adattamento di un individuo ai valori riconosciuti come positivi della sua società (Fabietti 2001, 145). Poiché sarebbe stato impossibile costruire un ambiente di ricerca artificiale, come per altri esperimenti in laboratorio, la Mead ritenne opportuno utilizzare come metodo di studio quello dell’antropologo, andando a studiare i comportamenti, i modi di pensare e le organizzazioni sociali di una civiltà diversa da quella americana e da quella occidentale in generale. Ecco perché la scelta dell’isola di Samoa, un’isola dei mari del Sud abitata da una popolazione polinesiana. Le quattro isole della Samoa che furono acquistate dagli Stati Uniti nel 1899 comprendono circa ottomila abitanti. Da circa un secolo essi sono convertiti al cristianesimo, e aderiscono alla «Chiesa di Tahiti», derivazione della Società Missionaria di Londra (Mead 1954, V-VI). Le osservazioni fatte dalla Mead riguardavano un gruppo di 68 ragazze tra i 9 e i 20 anni che vivevano in tre villaggi vicini (Luma, Siufaga e Fitiuta) dell’isola di Tau nell’arcipelago Manu’a delle isole Samoa. Per nove mesi Margaret Mead visse a contatto continuo con i seicento abitanti di questi tre villaggi. Parlando la loro lingua, mangiando il loro cibo, sedendo scalza e con le gambe incrociate sulle pietruzze del pavimento, feci del mio meglio per ridurre al minimo la differenza tra noi e per imparare a conoscere e capire tutte le fanciulle di tre piccoli villaggi sulla costa della piccola isola Tau, nell’Arcipelago di Manu’a (Mead 1954, 8). Fu eseguito un tipo di studio a sezione trasversale su 28 bambine non ancora giunte alla pubertà, 14 giovinette prossime alla pubertà (nel giro di un anno e mezzo circa), 25 ragazze che avevano superato la pubertà. Le bambine molto 41 piccole e le giovani spose furono oggetto di osservazioni meno dettagliate. La descrizione dell’ambiente in generale fu ottenuta grazie a interviste poste a informatori scelti. Inoltre, fu studiato ciascun villaggio in maniera approfondita per poter meglio collocare la storia di ciascuna fanciulla. Le bambine furono sottoposte a test d’intelligenza strutturati ad hoc e in lingua samoana (nomi di colori opposti, sostituzioni, interpretazioni di figure ecc..). Infine un questionario inerente alle capacità di ciascuna ragazza, ai lavori ai quali erano sottoposte e le varie conoscenze acquisite offriva ulteriori informazioni. Le ragazze che frequentavano il collegio dei missionari fornì, in un certo modo, un gruppo di controllo. 2. La ragazza samoana In Samoa la nascita del primo figlio avviene presso il villaggio di origine della futura madre. Solo quando nasce un bambino di alto rango vi è gran festa. Dalla nascita alla pubertà i bambini non hanno alcuna importanza nella società samoana. Sono allattati fino all’età di circa 2-3 anni e sono accuditi da bambine poco più grandi. Fino all’età di 4 anni l’educazione di un bambino si limita agli usi e alle esigenze della casa. Ciascuna famiglia ha un matai, che è colui che si preoccupa e prende decisioni importanti per tutta la famiglia, che non sempre è limitata a quella biologica. Al matai sono previsti privilegi e reverenze. La moglie del matai acquista l’alto rango grazie al marito. Nella famiglia vi sono poi tutti coloro che appartengono al matai, sia in via diretta che indiretta. A ciascuno è affidato un compito preciso in base al sesso e all’età. Le bambine di circa 5-6 anni si prendono cura dei bambini più piccoli e rispondono delle loro disobbedienze. Per evitarsi delle punizioni, tendono a condurre i piccoli dove i grandi non possono udire i loro lamenti. Le bambine di questa età hanno acquisito piccole abilità e si occupano dei lavori domestici; per cui, fin da piccole, le bambine samoane vengono disciplinate e rese responsabili. 42 I bimbi sono allattati fino ai 2 anni e per questo periodo vengono nutriti ogni volta che si presenta il suono del pianto, fino ai 5 anni vengono educati in modo molto semplice fra le mura domestiche, ma non dalla madre bensì da una ragazzina o da una sorella maggiore 1. Intanto le bambine imparano a giocare in gruppo, a cantare e a intrecciare collane. Intorno ai sette anni le bambine cominciano a riunirsi in gruppi di coetanee. Viene rispettato rigorosamente il principio che porta a frequentare coetanee dello stesso sesso. Provano vergogna per i giovani di sesso opposto, fossero questi anche parenti. Parenti di sesso opposto devono osservare un codice di etichetta molto rigido in tutti i rapporti e giunti all’età della ragione, nove o dieci anni in questo caso, non possono più toccarsi, né sedersi vicino, né mangiare insieme, né parlarsi familiarmente, né toccare alcun argomento scabroso in presenza l’uno dell’altro. Non possono stare insieme in nessuna casa (…). Non possono passeggiare insieme, scambiarsi oggetti d’uso, ballare nello stesso posto, né partecipare insieme ad alcuna delle piccole attività di gruppo. Questa severa distanza deve essere tenuta con tutti gli individui del sesso opposto che siano entro cinque anni di età inferiore o superiore, o con i quali esista un rapporto di parentela per sangue o per matrimonio. (Mead 1954, 37). Inoltre, le attività in cui maschi e femmine sono impegnati sono così diverse da non permettere particolari occasioni di frequentazione. I gruppi sono costituiti da parenti e da bambine del vicinato, ma i rapporti che dureranno anche dopo la pubertà saranno limitati a pochi parenti dello stesso sesso. A quest’età non esiste alcun rapporto di amicizia profonda. Il passaggio dalla fanciullezza all’adolescenza non è segnato da alcuna cerimonia o da alcun evento particolare. La ragazza che si trova ad avere le sue prime mestruazioni le considererà un episodio naturale. Questo è dovuto soprattutto al fatto che fin da piccoli, i samoani sono coinvolti, o per meglio dire, non è vietato loro, assistere a eventi legati alla nascita, alla morte e al sesso. Inoltre, l’atteggiamento adottato dagli adulti davanti a situazioni simili, atteggiamento che considera tutto ciò normale, influenza l’atteggiamento delle più giovani. Col passaggio alla pubertà le ragazze saranno sollevate dal peso di accudire i bambini. Saranno soppiantate dalle più piccole della famiglia. Appena le ragazze sono abbastanza forti da portare carichi pesanti, conviene alla famiglia di passare la responsabilità dei bambini alle fanciulle più giovani e così le 1 http://www.scienzepostmoderne.org/DiversiAutori/MeadMargaret/IsoladiTau.html 43 adolescenti sono dispensate dalla funzione di bambinaie. (…) il periodo peggiore della loro vita è passato; mai più dovranno ubbidire così incessantemente ai cenni degli adulti, mai più saranno così tiranneggiate da piccoli prepotenti di due anni (Mead 1954, 23). Lavorare nelle piantagioni, portare provviste al villaggio, pescare sugli scogli, sono le nuove attività che devono svolgere le giovani samoane. Inoltre le saranno affidate altre mansioni legate alla cucina e imparerà a tessere da una donna anziana. Abbandonerà il gruppo di coetanee per legarsi a una o due ragazze del parentado, anche se una nuova residenza le allontanerà. Entrerà a far parte dell’Aulaluma, un’organizzazione di ragazze, donne non sposate, divorziate o vedove e mogli di uomini non titolati che si riunisce raramente in occasione di una ricorrenza festiva o per qualche lavoro pubblico. Non vi sono differenze di ruoli o di incombenze tra le ragazze, le donne nubili e le donne sposate con uomini di basso rango. Solo la fanciulla eletta dai capi come taupo, principessa, sarà tenuta a una serie di doveri, ma sarà oggetto anche di privilegi e godrà di un certo prestigio. Prestigio riconosciuto non solo nel proprio villaggio. Ora l’adolescente, privata delle limitazioni che il badare ai piccoli le erano imposte, e superato quel periodo di vergogna nei confronti dei coetanei di sesso opposto, può permettersi di allontanarsi da casa e cominciare a vivere le prime esperienze sessuali. Ma la ragazza diciassettenne non desidera di sposarsi; non ancora. E’ più bello vivere così, senza responsabilità e con una grande varietà di esperienze e di emozioni. Questo è il miglior periodo della sua vita. (…). Le lunghe spedizioni in cerca di pesce, di cibo e di materiale da tessere offrono molte occasioni per dolci convegni. (…). E il matrimonio è l’inevitabile, da differire più che si può (Mead 1954, 31). Fra i 15 e i 20 anni i samoani vivono il periodo più spensierato della loro vita e tentano di posporre il matrimonio, focalizzando le loro giornate sull’affinamento delle loro abilità lavorative (agricoltura, caccia, artigianato) e sulla ricerca di nuovi incontri (la frase Laititi A’U usata di frequente in quel periodo indica che la ragazza è ancora troppo giovane per impegnarsi)2. 2 http://www.scienzepostmoderne.org/DiversiAutori/MeadMargaret/IsoladiTau.html 44 Fig. 1 - Margaret Mead e due ragazze samoane, 1926 ca. 3. Nascita, morte e sesso La nascita e la morte sono eventi che nella cultura samoana rappresentano ciò che c’è di normale nella vita. Fin da piccoli, ai samoani non è negata la possibilità di essere presenti durante un parto, un aborto o la sezione di cadaveri. Tutte queste bambine avevano visto come si nasce e come si muore; avevano visto molti morti, avevano assistito ad aborti e ficcato il loro musino sotto le braccia delle vecchie che stavano lavandosi e facendo commenti sul feto non sviluppato. Non c’è l’abitudine di mandar via i bambini della famiglia in quelle circostanze. (…). Un’esperienza appena un poco più blanda, come carica emotiva, era l’operazione, spesso praticata in pubblico, di sezionare un cadavere per cercare la causa della morte (Mead 1954, 108-109). Sembra che l’atteggiamento assunto dagli adulti in queste occasioni influenzi i più piccoli nel loro modo di percepire la nascita e la morte. Tuttavia sembra che non abbiano cattivi effetti sulla formazione emotiva dei bambini. È possibile che ciò sia giustificato dal fatto che gli adulti mostrano di considerare questi avvenimenti come orribili, ma perfettamente naturali e non eccezionali, e come parte legittima dell’esperienza del fanciullo (Mead 1954, 109). Anche in materia di sesso, i samoani sono informati già da piccoli. Questi assistono, di nascosto, a quegli incontri serali che le coppie sono solite fare riservatamente. Infatti, ogni espressione di affetto è proibita in pubblico. Inoltre i bambini conoscono bene la natura del corpo umano, essendo usanza l’andar in giro nudi durante la fanciullezza e poco vestiti in età adulta, nonché l’uso dei 45 bagni in mare e l’utilizzo delle spiagge come gabinetti. Una così precoce conoscenza del corpo umano e del sesso non fa si che avvengano in maniera altrettanto precoce rapporti eterosessuali. Fino all’adolescenza può essere di uso frequente la masturbazione o temporanei rapporti omosessuali (vissuti come un gioco in sostituzione dei successivi rapporti eterosessuali). Probabilmente tale ritardo è dettato dalla forte demarcazione maschio-femmina presente nel periodo pre-adolescenziale. L’atteggiamento dei genitori verso le varie storie di sesso delle proprie figlie è caratterizzato da una tenera indulgenza, laddove non sfocino in un marcato numero di concessioni sessuali tali da riservare alla fanciulla una cattiva reputazione. I giovani apprendono cose di sesso non dai propri genitori, che preferiscono non farne argomento delle loro conversazioni, ma da giovani adulti. Le ragazze, solitamente, consumano i loro primi rapporti sessuali con uomini più grandi, essendo essi più esperti. Sola la taupo è tenuta alla verginità fino al matrimonio, un matrimonio combinato. È sorvegliata perché non sia tentata e si lasci andare a rapporti pre-matrimoniali. Ne andrebbe di mezzo l’onore di tutto il villaggio. Una ragazza samoana giunge al matrimonio, solitamente, il più tardi possibile e grazie alla corte spietata del soa, amico e ambasciatore, dell’aspirante marito. Oltre al matrimonio vero e proprio, vi sono due tipi di relazioni sessuali riconosciute, in certo modo, dalla comunità: l’amore tra giovani non sposati (compresi i vedovi) di età quasi uguale, (che può portare al matrimonio, o può costituire una distrazione passeggera) e l’adulterio. Fra i non sposati, vi sono tre forme di relazione: il ritrovo clandestino «sotto le palme»; la fuga resa pubblica, avaga, e il corteggiamento ufficiale, in cui il giovane «siede davanti alla ragazza». Vi è poi in margine, una curiosa forma di ratto subdolo, detto moetotolo, cioè l’insinuarsi nel sonno, al quale ricorrono i giovani che non hanno fortuna presso le ragazze (Mead 1954, 73-75). Il ritrovo clandestino «sotto le palme» è tipico delle coppie di basso rango, mentre la fuga è caratteristica delle giovani coppie le cui famiglie si oppongono al matrimonio e delle fanciulle di rango più alto. Le figlie dei capi sono sorvegliate e a loro sono negati gli incontri clandestini notturni. Col matrimonio, una normale donna samoana non è tenuta a una vita sessuale esclusiva col proprio marito e viceversa, e il divorzio è all’ordine del giorno. Profondi legami di fedeltà non sono contemplati nella civiltà samoana. 46 L’amore romantico, come si riscontra nella nostra civiltà, strettamente unito all’idea di monogamia, di esclusivismo e di fedeltà assoluta, non esiste in Samoa. (…) il divorzio è una cosa molto semplice e senza formalità: il coniuge che non è in casa propria torna presso la sua famiglia e la relazione «cessa di esistere». Si tratta di una monogamia molto fragile, spesso incrinata, più spesso ancora rotta del tutto. (…) una piccola lite e la donna se ne va a casa della sua famiglia; se il marito non tiene a riconciliarsi, ognuno dei due cerca un altro compagno (Mead 1954, 86-87). I samoani contano la durata della fedeltà in amore, a giorni, o tutt’al più a settimane, e sono propensi ad accogliere con sarcasmi i racconti di amori che durano tutta la vita (Ivi, 126). Situazioni leggermente diverse vivevano le fanciulle che trascorrevano gran parte della giornata presso la casa del pastore. Queste ragazze, a contatto con la cultura occidentale, risultavano più istruite e ambiziose delle loro coetanee che invece vivevano il villaggio con le sue usanze. Nonostante i missionari predicassero la castità, tali ragazze tendevano solo a tardare i loro primi rapporti sessuali pre-matrimoniali. L’inefficacia della predicazione dei missionari era data dal fatto che questi erano i primi ad essere indulgenti verso le trasgressioni delle loro assistite e perché queste ragazze continuavano comunque a fare vita comunitaria presso il loro villaggio. 4. Le giovani samoane e le giovani americane a confronto In Samoa, quindi, la vita viene concepita in maniera leggera e superficiale. È un paese in cui nessuna azione è particolarmente grave per chi la compie; nessuno soffre per proprie convinzioni o si dimena per un particolare scopo. I disaccordi tra due uomini dello stesso villaggio si risolvono semplicemente con il trasferimento di uno al villaggio vicino. Non esistono divinità irose e castiganti che turbano il normale corso dei giorni. A Samoa tutto il percorso della vita viene accettato in termini naturali, non esiste né una rigidità dogmatica né una istituzionale, secondo Mead in questa cultura non esistono scelte così disastrose quali quelle che si ponevano dinnanzi ad un giovane occidentale che sentiva che il servizio di dio richiedeva la rinuncia definitiva al mondo3. 3 http://www.scienzepostmoderne.org/DiversiAutori/MeadMargaret/IsoladiTau.html 47 A differenza della ragazza americana posta davanti alla necessità di prendere saggiamente delle importanti decisioni che ne varranno per il futuro, la ragazza samoana non vive la pressione di dover fare delle scelte importanti. Le relazioni personali come amore, odio, gelosia, sono vissute in maniera leggera a Samoa, perché la bambina, già dai primi mesi di vita, passa indifferentemente tra le braccia di più donne. Ciò induce i samoani a non attaccarsi mai a una sola persona e a non riporre speranze in amici e parenti. La bambina americana vive e cresce in un contesto più limitato costituito dalla sua famiglia biologica, molto spesso poco numerosa. Vive un rapporto privilegiato con i propri genitori verso i quali, giunta all’adolescenza, vivrà una conflittualità dettata da un lato da un desiderio di separazione e differenziazione e dall’altro da una difficoltà a distaccarsi. A Samoa, quindi, fra genitori e figli non esiste un legame esclusivo e specifico, tutti sono oggetto di cure affettuose che poi riversano a loro volta; i fratelli maggiori non vedono i nuovi figli come motivo di conflitto, ma come sollievo in quanto in breve tempo diventeranno a loro volta dei badanti lasciando libero il giovane dai suoi impegni. A Samoa si impara presto a non ragionare in termini di individualità, ma di gruppo 4. A Samoa, i conflitti tra figlio e genitore sono risolvibili col trasferimento del figlio presso dei parenti che se ne prenderanno cura. Il trasferimento presso un’altra residenza non è vissuta in maniera tragica dal genitore, ma come una possibilità di vita del figlio. Tali decisioni, inoltre, non sono considerate irreversibili. Scegliere per la ragazza samoana diviene un atto molto semplice, considerando che non le si presentano alternative di vita. Le giovani americane si trovano a interfacciarsi con diversi modelli di vita, variegati gruppi portatori di propri ideali e il desiderio dei genitori di seguire un percorso già scelto per loro. La mancanza di drammaticità nelle decisioni delle adolescenti samoane è da attribuirsi al carattere di quella civiltà che scoraggia i forti sentimenti; ma la spiegazione della mancanza di conflitti va cercata principalmente nella differenza fra una civiltà primitiva semplice e omogenea, che cambia così lentamente da apparire immobile ad ogni generazione, e una civiltà variopinta, mutevole, eterogenea (Mead 1954, 167). Lo stesso vale per le questioni sessuali: alle ragazze americane si presentano varie soluzioni che vanno dalla castità a un’attività sessuale libera. Per la ragazza 4 ibidem 48 samoana il sesso è un atto naturale e piacevole. Inoltre, se per le prime è difficile che i genitori tollerino un comportamento sessuale libero, per le seconde sarà normale che i genitori non si immischino nelle casuali avventure amorose delle proprie figlie. Tra i samoani vi è un’assenza di nevrosi, a differenza dei molti casi di nevrosi in America. Probabilmente tale situazione è dovuta al fatto che in Samoa non vi sono situazioni difficili, scelte contrastanti, situazioni di forti competizioni. Tra i samoani è aborrita la precocità e si offre ai più lenti la possibilità di recuperare. Coloro che apprendono più velocemente trovano libero sfogo nella danza, dove l’individualità ne fa da padrona. Infine, alle bambine samoane non è negato di prendere parte alla vita della famiglia e della comunità già in tenera età. Assolvono compiti specifici alla loro età e godono del gioco nel tempo libero. Assistono ad avvenimenti legati alla nascita, alla morte e al sesso. Invece, alle bambine americane è vietato accedere in così tenere età a questioni considerate “dei grandi”. I compiti che saranno affidati loro solo in età più adulta, sono emulati nei loro giochi e tutto ciò che riguarda sesso, nascita e morte è da loro ignorata perché a loro negata di conoscere. 5. Conclusioni Con questo studio, la Mead mostrò le grandi differenze presenti nei metodi educativi utilizzati dai samoani e dagli americani e il grado di socializzazione da essi prodotto. Questo studio mostrava come l’adolescenza in una società «primitiva», cioè secondo la Mead in una società «semplice ed omogenea», fosse una fase della vita dell’individuo meno esposta a traumi di quanto non fosse nella società occidentale e nella società americana in particolare. All’origine di questa differenza, ella sosteneva, stavano due fattori importanti: la mancanza di «messaggi» concorrenziali e produttivistici inviati dalla cultura all’individuo, e il carattere sostanzialmente «monodimensionale», ossia privo di alternative rilevanti, nelle scelte che si parano dinanzi al giovane giunto all’età dell’adolescenza (Fabietti 2001, 145). La Mead ha dimostrato che il periodo difficile adolescenziale, non è prerogativa di tutte le ragazze di tutti i popoli ma è imputabile all’ambiente sociale in cui le adolescenti sono inserite. 49 L’adolescenza non è necessariamente un periodo di tensione e di turbamento, ma che diviene tale in conseguenza delle condizioni della civiltà (…). Le principali cause delle difficoltà dei nostri adolescenti sono la presenza di principi in conflitto e la convinzione che ogni individuo dovrebbe fare la propria scelta, unita alla sensazione che questa scelta è cosa molto importante (Mead 1954, 189). Un altro antropologo, Derek Freeman, si recò a Samoa per verificare le tesi della Mead. La sua conclusione fu che l’adolescenza a Samoa non è cosi felice. Tuttavia la ricerca della Mead riscosse un certo fascino. Ne parlò entusiasta anche l’antropologo Franz Boas: «noi siamo grati a Miss Mead di aver intrapreso di identificarsi così completamente colla goiventù di Samoa da darci un quadro tanto lucido e chiaro delle gioie e delle difficoltà che incontra l’individuo giovane in una cultura così interamente diversa dalla nostra» (Mead 1954, V) Studi della psicologia del ciclo di vita hanno parzialmente ridimensionato il mito della crisi adolescenziale che per alcuni è stata definita “una malattia fisiologica dello sviluppo”. Molti giovani vivono infatti l’adolescenza non come un brutto periodo ma come un’età relativamente serena. Probabilmente allora, la crisi adolescenziale ove si manifesti in maniera eclatante, può essere attribuibile a difficoltà relazionali e personali già presenti nell’infanzia. 50 Conclusioni Di fronte al dialogo continuo tra l’organismo e l’ambiente e all’intrecciarsi costante del patrimonio biologico col patrimonio sociale, una sorta di «principio di indeterminazione» raccomanda l’abbandono di dicotomie del tipo: eredità-ambiente, natura-cultura, innatoappreso, e con essi il superamento di un repertorio teorico concettuale logorato e inequivocabilmente compromesso con concezioni del funzionamento psichico preformistiche ed essenzialistiche. (Caprara 1999, 515) La dicotomia cultura e biologia, poste a mo’ di interrogativo nel titolo del primo capitolo, sottolinea come il costrutto di personalità sia complesso, tanto da dover ricercare oltre le singole spiegazioni di carattere innatiste o di carattere sociale. In ogni condotta vi sono elementi ascrivibili ad un patrimonio innato ed elementi ascrivibili invece ad un patrimonio appreso. E’ evidente che il comportamento non sorge dal nulla, come è evidente che l’azione dell’esperienza si innesta su un qualche cosa che da essa viene sollecitato, potenziato, modellato. (Crespi 2002, 6) Il secondo capitolo, desideroso di trovare una spiegazione ai comportamenti affini tra più persone appartenenti a uno stesso popolo, ha trovato negli studi e nelle ricerche avanzate dagli antropologi della personalità materiale per poter ipotizzare dei “tipi di personalità” specifici di una popolazione. L’idea che individui di una stessa società possano avere una personalità simile, sembra indirizzare la domanda iniziale verso una risposta di tipo culturale: la cultura influisce sulla personalità degli individui, tanto da determinarne aspetti comuni. Il terzo capitolo, con la presentazione della ricerca della Mead sulle giovani samoane, non fa altro che avallare l’ipotesi che la cultura influisca enormemente sulla formazione delle ragazze, offrendo a quelle dell’isola di Samoa opportunità di vivere serenamente la propria adolescenza, senza alcuna problematica crisi di crescita, a differenza delle ragazze americane. Volendo fare una sintesi di questo lavoro, potremmo affermare che la cultura ha una forte rilevanza sulla formazione della personalità dei singoli individui, e quindi di intere popolazioni. L’eredità biologica fa sì che ciascun 51 individuo espliciti aspetti peculiari, propri di sé, nonostante non dissimili troppo dagli altri appartenenti a una medesima comunità. 52 BIBLIOGRAFIA Anolli L. (2002), Le emozioni, Milano, Unicopli Bateson G. (1936), Naven, ( trad. it. Naven,1988) Torino, Einaudi Benedict R. (1960), Modelli di cultura, Milano, Feltrinelli Boas F. (1896), I limiti del metodo comparativo in antropologia, trd. It. In Laura Bock P K. (a cura di F.Remotti, 1978), Antropologia culturale moderna, Torino, Einaudi Bonin e Antonio Marazzi (1970), Antropologia Culturale, Milano, Hoepli Caprara G.V. Accursio G.(1999), Psicologia della personalità, Bologna, il Mulino, Crespi F.(2002), Manuale di sociologia della cultura, Bari, Editori Laterza Cattarinussi B.(2006),Sentimenti passioni emozioni. 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