Rosuvastatina vs atorvastatina, la sfida eterna! Risultati dal LUNAR Study La RSV (Rosuvastatina) 40mg riduce più efficacemente il colesterolo LDL, aumenta il colesterolo HDL e determina anche un miglioramento di altri parametri lipidici ematici rispetto all’ATV (atorvastatina) 80mg nei pazienti con SCA (sindrome coronarica acuta). Questi sono i risultati ottenuti nel LUNAR Study in cui il dott. Betram Pitt (Department of medicine Brigham and Women’s Hospital, Harvard Medical School, Boston, Massachusetts) ed i suoi colleghi si sono proposti di confrontare l'efficacia della RSV con quella dell'ATV nel ridurre il colesterolo LDL nei pazienti con SCA. Nello studio sono stati inclusi tutti i pazienti adulti con malattia coronarica che sono stati ricoverati per una SCA entro 48 h dall’insorgenza dei primi sintomi (n=825). I partecipanti sono stati randomizzati, open-label, a trattamento giornaliero con RSV 20 mg, RSV 40 mg oppure ATV 80 mg per un periodo di 12 settimane e sono stati valutati a 2, 6 e 12 settimane. L'end point primario considerato era l'efficacia del trattamento nel ridurre il colesterolo LDL in media dalle 6 alle 12 settimane. Durante lo studio sono anche stati valutati altri parametri come le variazioni delle altre lipoproteine, tra cui HDL (lipoproteine ad alta densità), e la sicurezza. Dai risultati dello studio è emerso che l'efficacia della RSV 40 mg nel ridurre il colesterolo LDL era significativamente superiore a quello della ATV 80 mg (diminuzione del 46,8% vs 42,7%, p=0,02) e che la riduzione del colesterolo LDL con RSV 20 mg era simile a quello ottenuto con ATV 80 mg. Inoltre, l’aumento del colesterolo HDL era significativamente maggiore con RSV 40 mg (11,9%, p<0,001) e RSV 20 mg (9,7%, p<0.01) rispetto al ATV 80 mg (5,6%) e la RSV 40 mg era anche significativamente più efficace dell’ATV 80mg nel migliorare la maggior parte delle altre variabili secondarie di efficacia, mentre gli effetti di RSV 20 mg su questi parametri sono stati generalmente simili a quelle di ATV 80 mg. Tutti e 3 i trattamenti sono stati generalmente ben tollerati nell'arco di 12 settimane. I risultati dello studio supportano quindi l’ipotesi di una maggiore efficacia dell’RSV 40mg nella riduzione di colesterolo LDL, nell’aumento di colesterolo HDL e nel miglioramento di altri parametri lipidici rispetto ATV 80 mg nei pazienti ricoverati con SCA a 48h dai sintomi. (American Journal of Cardiology Volume 109, Issue 9 , Pages 1239-1246) La promessa di un incentivo, può migliorare la qualità delle cure? Questo studio ha valutato l’impatto di un incentivo sulla cura del diabete introdotto per i medici di base sulla qualità delle cure. Sono stati analizzati i dati di 757.928 soggetti diabetici ed è stata valutata la frequenza con cui venivano richiesti gli esami necessari per la valutazione del diabete prima e dopo il pagamento di questo incentivo. La proporzione di pazienti i cui medici avevano avuto l’incentivo che aveva controllato tre volte all’anno il valore di HbA1c e il colesterolo è aumentata da 16% a 27%. I soggetti più giovani, che vivevano in aree rurali o avevano problemi mentali, avevano una minore frequenza di controlli. I medici che avevano avuto il maggior numero di incentivi erano quelli che avevano prescritto più controlli, ma questo veniva fatto già prima dell’incentivo. Quindi, la promessa di un incentivo ha portato solo ad un minimo miglioramento nella qualità della gestione del diabete. (Diabetes Care 2012; 35(5):1038-1046) Sviluppo di cataratta associato a diabete di tipo 2 e uso di statine. Gli utilizzatori di statine hanno più del 50% di probabilità di sviluppare cataratta legata all'età rispetto ai non utilizzatori e i diabetici di tipo 2 in terapia con statine presentano un rischio ancora più elevato. Il diabete si è dimostrato un fattore di rischio per la cataratta correlata all'età (age-related cataract, ARC). Poiché le statine (inibitori della HMG-CoA reduttasi) sono ormai comunemente prescritte ai pazienti con diabete di tipo 2, dovrebbe essere considerato il loro impatto sulla prevalenza di ARC. Questo studio ha determina le associazioni tra ARC, diabete di tipo 2 e uso di statine in un’ampia popolazione reclutata presso una clinica optometrica. In totale, sono state riviste 6397 cartelle cliniche di pazienti con età fino a 93 anni. E’ stata calcolata la prevalenza complessiva della terapia con statine per i pazienti con diabete di tipo 2 (n=452) o senza diabete (n=5884). E’ stata condotta una analisi di regressione logistica multivariata per ARC, controllando per sesso del paziente, fumo, ipertensione, diabete di tipo 2 e uso di statine. La prevalenza del consumo di statine (in pazienti di età >38 anni) era del 56% per quelli con diabete di tipo 2 e del 16% per quelli senza diabete. Il diabete di tipo 2 era significativamente associato a sclerosi nucleare (OR 1,62; IC 95% 1,14-2,29) e a cataratta corticale (OR 1,37; 1,02-1,83). L'uso di statine era associato a sclerosi nucleare (OR 1,48; 1,09-2,00) e a cataratta sottocapsulare posteriore (OR 1,48; 1,07-2,04). La probabilità del 50% di sviluppare cataratta negli utilizzatori di statine si verificava all'età di 51,7 e 54,9 anni rispettivamente nei pazienti con diabete di tipo 2 e senza diabete. Nei non utilizzatori di statine si verificava significativamente più tardi, all'età di 55,1 e 57,3 anni per i pazienti con diabete di tipo 2 e senza diabete (p<0,001). (Machan CM, Hrynchak PK, Irving EL Optom Vis Sci 2012; 89:1165-71) Statine e rischio di diabete incidente nella popolazione generale. È stata rilevata un'associazione significativa tra diabete di nuova insorgenza e la terapia con statine, in particolare con trattamenti di maggiore durata e dosi biologicamente efficaci. Saranno necessari ulteriori studi prospettici per esaminare questa associazione, al fine di dimostrare una possibile relazione causale. SCOPO 1) Esaminare l'incidenza di diabete di nuova insorgenza nei pazienti trattati con diversi tipi di statine e 2) determinare la relazione tra durata e dose del trattamento con statine e il successivo sviluppo di diabete di nuova insorgenza. È stato condotto uno studio retrospettivo di coorte utilizzando il database nazionale delle prescrizioni farmaceutiche Irish Health Services Executive Primary Care Reimbursement Services. Sono stati identificati gli individui che avevano assunto un qualsiasi farmaco da gennaio 2001 a gennaio 2009 (n=1.235.671). Sono stati individuati i pazienti trattati per la prima volta con con statine dall’1 gennaio 2002 al 31 dicembre 2007 (n=239.628). I casi sono stati identificati come individui con un trattamento incidente con farmaci antidiabetici (n=38.503) nel periodo di osservazione. Sono stati calcolati gli hazard ratio aggiustati (HR) con intervalli di confidenza al 95% per esaminare l'associazione tra statine (qualsiasi vs nessuna) e il tempo di insorgenza del diabete utilizzando la regressione a rischi proporzionali di Cox. La relazione tra dose e durata d'uso delle statine e il diabete di nuova insorgenza è stata esaminata usando funzioni spline ristrette per valutare la linearità dell'associazione. L’uso di statine era associato ad un aumento del rischio di diabete di nuova insorgenza (HR 1,18; 1,15-1,22). Questo rischio aumentato è stato osservato con l’uso di rosuvastatina (HR 1,41; 1,311,52), atorvastatina (HR 1,23; 1,19-1,27) e simvastatina (HR 1,15; 1,05-1,25). Sono stati rilevati effetti complessivamente significativi della dose e della durata del trattamento per tutte le statine, ad eccezione di fluvastatina per la quale è stato dimostrato solo l’effetto della durata d'uso. Nei pazienti trattati con statine è stato rilevato un aumento del rischio di diabete di nuova insorgenza correlato anche alla durata e alla dose della terapia. Sono necessari ulteriori studi per confermare questa associazione. (Zaharan NL, Williams D, Bennett K Br J Clin Pharmacol, pubblicato on line il 30 luglio 2012) Statine in prevenzione primaria: benefici cardiovascolari e rischio di diabete. Nel trial JUPITER, randomizzato e controllato con placebo, di rosuvastatina 20 mg in prevenzione primaria, è stato osservato che un rischio lieve di sviluppare diabete in corso di terapia con statine era limitato ai partecipanti che avevano un'evidenza biochimica di alterata glicemia a digiuno o più componenti della sindrome metabolica. Inoltre, in entrambi i gruppi di partecipanti con e senza fattori di rischio per diabete, il beneficio assoluto della terapia con statine sugli eventi vascolari era superiore al rischio di sviluppare la patologia diabetica. Alla luce dell’evidenza relativa all’aumento del rischio di diabete causato dall’uso di statine, risulta controverso il rapporto beneficio-rischio di questi farmaci nella prevenzione cardiovascolare primaria. È stata effettuata un’analisi sui partecipanti al trial JUPITER per esaminare il rapporto benefici vascolari-rischio di diabete in terapia con statine. Nel trial randomizzato JUPITER in doppio cieco, 17.603 uomini e donne, senza precedenti malattie cardiovascolari o diabete, sono stati assegnati in modo casuale a rosuvastatina 20 mg o a placebo, con un follow up fino a 5 anni per l'endpoint primario (infarto miocardico, ictus, ricovero ospedaliero per angina instabile, rivascolarizzazione arteriosa o morte cardiovascolare) e per l'endpoint secondario definito in protocollo ex ante (tromboembolismo venoso, mortalità per tutte le cause e diabete incidente segnalato dal medico). In questa analisi, i partecipanti sono stati stratificati sulla base di almeno uno dei quattro principali fattori di rischio per lo sviluppo di diabete o sull’assenza di essi, come di seguito riportati: sindrome metabolica, alterata glicemia a digiuno, indice di massa corporea >=30 kg/m2, o emoglobina glicata A1c > 6%. I soggetti con almeno uno dei principali fattori di rischio per diabete (n=11.508) presentavano un rischio maggiore di sviluppare la malattia rispetto a quelli che non ne avevano (n=6095). Nei soggetti con uno o più fattori di rischio, l’uso delle statine era associato a una riduzione del 39% dell'end-point primario (hazard ratio [HR] 0,61; intervallo di confidenza al 95% [IC] 0,47-0,79; p=0,0001), a una riduzione del 36% del tromboembolismo venoso (HR 0,64; 0,39-1,06; p=0,08), a una riduzione del 17% del tasso di mortalità totale (HR 0,83; 0,64-1,07; p=0;15) e a un aumento del 28% del diabete (HR 1,28; 1,07-1,54; p=0,01). Così, per gli individui con fattori di rischio di diabete, sono stati evitati 134 eventi vascolari o decessi per ognuno dei 54 nuovi casi di diabete diagnosticati. Per i partecipanti al trial senza alcun fattore di rischio maggiore per il diabete, l’uso di statine era associato a una riduzione del 52% dell'end-point primario (HR 0,48; 0,33-0,68; p=0,0001), a una riduzione del 53% della tromboembolia venosa (HR 0,47; 0,21-1,03; p=0;05), al 22% in meno della mortalità totale (HR 0,78; 0,59-1,03; p=0;08) e a nessun aumento del diabete (HR 0,99; 0,45-2,21, p=0,99). Per tali individui, sono stati evitati 86 eventi vascolari o decessi senza alcun nuovo caso di diabete. Nell'analisi limitata ai 486 partecipanti che hanno sviluppato il diabete durante il follow-up (270 in terapia con rosuvastatina vs 216 con placebo; HR 1,25; 1,051,49; p=0,01), il risultato relativo alla riduzione del rischio cardiovascolare associato alla terapia con statine (HR 0,63; 0,25-1,60) era coerente con quello del trial (HR 0,56; 0,46-0,69). A confronto con placebo, le statine acceleravano il tempo medio alla diagnosi di diabete di 5,4 settimane (84,3 [SD 47,8] settimane di terapia con rosuvastatina vs 89,7 [50,4] settimane con placebo). Nel trial di prevenzione primaria JUPITER, i benefici cardiovascolari e di mortalità della terapia con statine superavano il rischio di diabete, anche nei partecipanti ad alto rischio di sviluppare tale malattia. (Ridker PM, Pradhan A, MacFadyen JG, et al. The Lancet 2012; 380:565-571) Clopidogrel e interazione con gli inibitori di pompa. I risultati di questo studio suggeriscono che l'interazione tra farmaci inibitori della pompa protonica e clopidogrel non si traduce in un rischio clinico. Le associazioni osservate tra l'uso di inibitori della pompa protonica e diversi outcome negativi sono probabilmente non causali e potrebbero essere spiegate da differenze esistenti tra gli individui. Obiettivo: Quantificare l’associazione tra utilizzo di inibitori di pompa protonica (PPI) e una serie di esiti negativi in pazienti che assumono clopidogrel e aspirina. Studio osservazionale di coorte e self-controlled case series. È stato effettuato un record-linkage tra il database United Kingdom General Practice e i dati del Myocardial Ischaemia National Audit Project (MINAP) e dell'Office for National Statistics (ricerca delle malattie cardiovascolari che connette studi personalizzati a record elettronici [CALIBER]) 24471 pazienti in terapia con aspirina e clopidogrel. Gli outcome primari erano rappresentati da morte o infarto del miocardio (IM) incidente. Gli outcome secondari erano morte, IM incidente e morte per cause vascolari e non vascolari. Sono stati effettuati confronti tra utilizzo e non utilizzo di PPI. Dei 24471 pazienti aventi prescrizioni di clopidogrel e aspirina, 12439 (50%) hanno ricevuto almeno una prescrizione di PPI durante il periodo di studio. Gli end point primari (morte o IM incidente) si sono verificati in 1419 pazienti (11%) che stavano assumendo un PPI e in 1341 pazienti (8%) che non avevano ricevuto un PPI. All'analisi multivariata, l'hazard ratio per l'associazione tra uso di PPI e morte o IM incidente era 1,37 (IC 95% 1,27-1,48). Risultati analoghi sono stati osservati per gli esiti secondari e anche per altri inibitori o non-inibitori del citocromo 2C19. Con il metodo self-controlled case series, utilizzato per rimuovere l'effetto delle differenze tra persone, non è stata osservata alcuna associazione tra uso di PPI e IM, con un rate ratio di 0,75 (0,55 a 1,01). Allo stesso modo, con questo tipo di analisi non vi era alcuna associazione tra IM e gli altri inibitori/non-inibitori del 2C19. La mancanza di una associazione specifica e la discrepanza tra i risultati delle analisi finalizzate ad escludere le differenze inter-individuali suggeriscono che l'interazione tra PPI e clopidogrel sia clinicamente irrilevante. (Douglas IJ, Evans SJW, Hingorani AD, et al. BMJ 2012; 345:e4388) Case report: emopericardio e tamponamento cardiaco da dabigatran. Descrive 2 casi di emopericardio a seguito del trattamento con dabigatran. Un uomo di 70 anni con una storia di uso di dabigatran si presentò con tosse, stanchezza e sangue nelle feci. Il paziente aveva un versamento pericardico iperdenso di entità rilevante, causato da accumulo di fluidi ematici, con conseguente ipotensione e shock. Dallo spazio pericardico vennero drenati circa un litro di liquido emorragico. Una donna di 77 anni fu ricoverata per il trattamento di polmonite e fibrillazione atriale. Fu intrapresa la terapia con dabigatran e dopo 6 dosi la paziente sviluppò dolore addominale, difficoltà respiratoria e shock. Fu diagnosticato il versamento pericardico con tamponamento cardiaco. Le procedure di pericardiocentesi e toracentesi rimossero complessivamente due litri di fluidi ematici. Dabigatran è un inibitore orale diretto della trombina, approvato per la riduzione del rischio di ictus e di embolia sistemica nei pazienti con fibrillazione atriale non valvolare. Nel mese di dicembre 2011 la Food and Drug Administration ha rilasciato un comunicato in cui descriveva episodi di sanguinamento gravi associati all'uso del farmaco. Secondo la scala di Naranjo, nei casi qui presentati l’associazione tra emopericardio e dabigatran era probabile. Anche se non esiste letteratura nota a sostegno di questa relazione, ci sono casi documentati di emopericardio warfarinindotto. Questi casi clinici evidenziano la possibilità che dabigatran causi emopericardio e tamponamento cardiaco. Altri report potranno meglio chiarire (o caratterizzare) il rischio di emopericardio e tamponamento cardiaco dabigatran-indotti. (Dy EA, Shiltz DL Ann Pharmacother 2012; 46:e18) Ictus ischemico acuto, bocciata Asa precoce. La precoce somministrazione di acido acetilsalicilico (Asa) per via endovenosa nei pazienti con ictus ischemico acuto, trattati con alteplase, non migliora l’outcome clinico a tre mesi e aumenta il rischio di emorragia intracranica sintomatica. Alla luce dei risultati di un trial condotto dall’università di Amsterdam, non appare dunque verificata la tesi in base alla quale la precoce somministrazione di Asa potrebbe ridurre i rischi di riocclusione da aumentata attivazione piastrinica, ma soprattutto non sembra opportuno modificare le attuali linee guida secondo cui la terapia antipiastrinica deve essere iniziata 24 ore dopo la somministrazione di alteplase. Endpoint primario raggiunto, ma con troppe emorragie Nella ricerca multicentrica e randomizzata sono stati coinvolti 642 pazienti colpiti da ictus ischemico acuto e trattati con alteplase: di questi, 322 sono stati assegnati alla somministrazione di 300 mg ev di Asa entro 90 minuti dall'avvio del trattamento con alteplase, 320 al trattamento standard senza aggiunta di Asa. In entrambi i gruppi la terapia antipiastrinica orale è iniziata 24 ore dopo il trattamento con alteplase. Come endpoint primario è stato considerato un outcome favorevole, definito da uno score 0-2 sulla scala Rankin modificata a 3 mesi. Tuttavia, il trial è stato sospeso anticipatamente per un eccesso di emorragie intracraniche sintomatiche senza evidenze di benefici nel gruppo trattato con Asa. A 3 mesi dall'evento, 174 pazienti del gruppo Asa (54,0%) rispetto a 183 del gruppo in trattamento standard (57,2%) hanno mostrato un outcome favorevole (odds ratio corretta: 0,91). Le emorragie intracraniche sintomatiche - occorse con maggiore frequenza nel gruppo Asa (4,3%) rispetto al gruppo in trattamento standard (1,6%) - sono state più spesso la causa di scarso outcome nei pazienti trattati con Asa rispetto agli altri. E’ promettente la ricerca sul tenecteplase Gli autori dello studio sottolineano che i loro risultati sono in linea con quelli di altri lavori, e in particolare con il registro osservazionale Sits-Istr (Safe implementation of thrombolysis in stroke international thrombolysis register) che mostra un incremento assoluto dell'1-4% di emorragie intracraniche sintomatiche nei pazienti con ictus che facevano uso in precedenza di antipiastrinici (Asa in primo luogo). In base allo stesso registro, peraltro, non sembrano esserci vantaggi combinando l'alteplase con altri antipiastrinici. Come comportarsi allora? La via più logica sembra quella di trovare nuovi metodi – testati su pazienti ad alto rischio di riocclusione studiati con tecniche di imaging avanzate - che aumentino in modo sicuro il tasso di riperfusione con una ricanalizzazione stabile del trombo. In tal senso si propone il tenecteplase, che ha dimostrato in fase 2B di ridurre il tasso di riperfusione e migliorare l'outcome rispetto ad alteplase. Su questa molecola, se ne verrà ribadita l'efficacia in fase 3, dovranno focalizzarsi gli studi per capire come l'uso pregresso di Asa e altri antipiastrinici ne influenzino l'attività. (Lancet, 2012; 380(9843):731-7) L'aumento di lipoproteine ad alta densità di colesterolo ed il progetto dal-HEART. L’incremento del livello di lipoproteine ad alta densità (HDL) è stata proposta come una potenziale strategia terapeutica per ridurre il rischio cardiovascolare, in gran parte sulla base degli studi epidemiologici che dimostrano che bassi livelli di colesterolo HDL sono associati ad un aumentato rischio di malattia coronarica e di eventi cardiovascolari. Ciò ha portato alla percezione di colesterolo HDL come 'colesterolo buono'. In particolare HDL è rimasto un marker di aumentato rischio cardiovascolare anche nei pazienti coronaropatici con bassi livelli di colesterolo LDL (<70 mg / dL) in terapia con statine. Studi più recenti evidenziato la funzione endoteliale protettiva di HDL, compresa la stimolazione di ossido nitrico endoteliale (NO), così come effetti antiinfiammatori, anti-apoptotici e anti-trombotici. L'inibizione della proteina di trasferimento degli esteri del colesterolo (CETP) offre un'opportunità senza precedenti per aumentare i livelli plasmatici di colesterolo HDL. Il grande studio randomizzato ILLUMINATE ha esaminato gli effetti del torcetrapib - inibitore della CETP - sugli esiti clinici in 15.067 pazienti ad alto rischio cardiovascolare. Dopo il fallimento di torcetrapib per la tossicità dimostrata, sono stati effettuati due studi di sicurezza nel contesto del progetto dal-HEART: dal-VESSEL e dal-PLAQUE, volti ad escludere effetti avversi vascolari del dalcetrapib. In effetti, a dispetto di un aumento marcato dei livelli plasmatici di colesterolo HDL del 30% e una mancanza di effetto sulla pressione sanguigna, la funzione endoteliale non è migliorata. Mentre con dalcetrapib si è verificato solo un modesto aumento del colesterolo HDL, sia anacetrapib e evacetrapib hanno ridotto anche il colesterolo LDL, le LDL piccole e dense, la lipoproteina (a), il colesterolo non-HDL e l’apolipoproteina B. Inoltre, le varianti del gene CETP erano associate ad attività CETP inferiori risultate associate ad una riduzione di eventi cardiovascolari. (Eur Heart J (2012) 33 (14): 1712-1715) Il livello di istruzione influenza il controllo della pressione arteriosa in età adulta. Il livello di istruzione è inversamente associato con il livello di pressione arteriosa sistolica (PAS) in età adulta. Questa associazione non era stata studiata in una coorte più anziana. Gli autori hanno ipotizzato che l'istruzione superiore è associata a bassi livelli di pressione sistolica (PAS) indipendentemente dai molti fattori di rischio per l'ipertensione. Questo studio prospettico osservazionale ha coinvolto un campione di 764 anziani valutando l'equilibrio, l'indipendenza nel quotidiano, le capacità inteletive (MOBILITARE) nello Studio Boston. Rispetto ai partecipanti con istruzione universitaria, l'analisi di regressione ha mostrato che quelli con un diploma di scuola superiore o meno avevano un valore di PAS 6,33 mmHg superiore [intervallo di confidenza 95% (CI): 2,55-10,10], e quelli che avevano frequentato un college avevano un valore di PAS 4,01 mmHg (95% CI: 0,77-7,25) indipendente da molti fattori confondenti ipotizzati. (Journal of Hypertension: August 2012 - Volume 30 - Issue 8 - p 1518–1525) Bere o non bere: questo è il problema. L'assunzione di liquidi durante l'esercizio fisico ha subito dettami differenti nel corso dei secoli. Lo studio ricerca le variazioni della massa corporea e l'eventuale miglioramento delle prestazioni dei maratoneti per l'impatto circolatorio dell'assunzione di liquidi e la successiva applicazione del modello sulla popolazione generale. La quota di assunzione di liquidi di 0,4-0,8 L/h porta ad una riduzione della massa magra nella quota del 3% ed impedisce un guadagno di massa corporeo in maratoneti con un peso corporeo dai 50-90 kg a 8,5-15,0 km/h in ambiente fresco e caldo, 18 º C e 28 º C rispettivamente. La assunzione di liquidi nei corridori migliori corrisponde a 0,55 ± 0,34 L/ora come da raccomandazioni della International Marathon Medical Director’s Association (IMMDA) e successivamente adottate dalla American College of Sports Medicine (ACSM). E' altrettanto importante la constatazione che gli atleti, che perdono più massa durante la maratona o ultra-maratona e gare di triathlon, sono di solito quelli di maggior successo. E' stato verificato che bere in seguitp allo stimolo della sete corrisponde ad una sostanziale perdita di massa corporea (in alcuni atleti fino al 9,8%) durante la maratona. Pare che questo sia vantaggioso e non abbia ripercussioni negative sul sistema cardiovascolare, anzi che possa conferire un vantaggio evitando di disperdere le energie rimaste nella gestione di un maggiore volume circolante. Pertanto, oltre alle indicazioni delle quote di assunzioni di liquidi, è necessaria una idratazione in seguito allo stimolo della sete, soprattutto in corso di attività fisica. (BMJ 2012; 345 doi: 10.1136/bmj.e4868)