GUIDO ALPA Responsabilità sociale dell’impresa, enti non profit, etica degli affari 1. Una premessa E’ variegato lo scenario nel quale sta evolvendo la “responsabilità sociale dell’ impresa”, un’idea, poi trasformatasi in corrente intellettuale e in iniziative di natura culturale ed istituzionale, che vede protagonisti le imprese, le categorie professionali, le Amministrazioni pubbliche, larghi strati della società civile nonché Governi e Parlamenti. La responsabilità sociale impegna gli operatori economici a valutare – nell’ambito di uno “sviluppo sostenibile” – gli effetti dell’attività economica sui suoi destinatari e sull’ambiente, e a contribuire alla formazione di un’etica sociale: l’ente organizzato in forma collettiva – corporate, come suona la formula importata dal mondo anglo-americano – è chiamato a prender consapevolezza della dimensione sociale dello sviluppo in cui si confrontano e si contemperano esigenze economiche ed esigenze della collettività e a recare il proprio contributo alla tutela di diritti e interessi individuali e collettivi sui quali si ripercuotono le scelte, i comportamenti, le strategie dell’agire economico. E’ una delle risposte – tra le molte che si potrebbero dare – al progressivo sgretolamento dello Stato sociale, alle aggressioni all’ambiente, alla creazione dei bisogni consumistici, alla precarietà del lavoro, alla opacità dei rapporti negoziali, alla ingovernabilità della globalizzazione dei mercati. Questa risposta riposa sul contributo volontario degli operatori e si colloca dunque in uno spazio che va al di là di ciò che ad essi è richiesto dagli obblighi imposti dalla legge [1]. In linea parallela si registra l’ evoluzione sul versante internazionale e sul versante interno degli enti non-proft, gli enti che non hanno, istituzionalmente, la vocazione allo svolgimento di una attività economica, ma piuttosto scopi di natura assistenziale, benefica, culturale, religiosa, filosofica, artistica, e così via,e tuttavia, non potendo sopperire con le proprie risorse alle esigenze dettate dal compiuto perseguimento degli scopi istituzionali, si avvalgono di iniziative economiche, svolte anche mediante la creazione di imprese strumentali, dirette a realizzare profitti destinati a sostenere gli scopi istituzionali. Sono due processi che appaiono accomunati da valori convergenti. Il primo processo è volto a consentire agli enti non profit l’esercizio di attività economiche lucrative a sostegno dei propri fini, e quindi coniuga l’assistenza sociale, il mecenatismo, la beneficenza, la promozione della ricerca scientifica e della cultura con il profitto economico, e quest’ultimo è considerato in modo strumentale; la finalità di lucro assume contorni positivi, perché produce risorse rimanendo ferma la loro destinazione a fini in senso lato “sociali”. Il secondo processo coniuga il profitto economico alla solidarietà sociale, all’ etica degli affari su cui riposa la corporate social responsibility nei modelli, già 1 Innumerevoli sono i siti web che promuovono la responsabilità sociale delle imprese, testimoniano le iniziative via via promosse, raccolgono documenti, mozioni, intenzioni: per qualche riferimento v. Fabrica Ethica, www.fabricaethica.it; RESInwes, www.rsinews.it; WWW.BilancioSociale.it; CSRwire, www.csrwire.com; si segnalano inoltre le iniziative della Banca Nazionale del Lavoro, della Compagnia di S.Paolo, delle Fondazioni delle Casse di Risparmio, oltre che, ovviamente, del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e dell’ Unione Europea, DG Lavoro e Affari sociali; i programmi del Ministero sono pubblicati nel denso Progetto CRS-SC. Il contributo italiano alla campagna di diffusione della CSR in Europa; i programmi dell’ Unione europea sono esposti nel Libro verde e nella Comunicazione, di cui dirò ( comunque già esposti nella relazione introduttiva di Giuseppe Conte) nonché, sinteticamente, nel discorso del Commissario responsabile della DG menzionata, tenuto il 13.12.2002, e pubblicato sul sito dell’ Unione europea. Ulteriori documenti sono offerti da N.E.F., il Network of European Foundations for Innovative Cooperation (Research Report by Fondazione Fitzcarraldo); dall’ ICCSR, International Centre for Corporate Social Responsibility (v. il Bulletin-Autum/Winter, 2004) e dal Corporate Social Responsbility Forum,,, www.pwblf.org. Un particolare impegno nel settore è profuso dal Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti, di cui si v. in particolare l’attività della Commissione Aziende Non-Profit. Sul versante dlle fondazioni di orgine bancaria v. il periodico Fondazioni, a cura dell’ A.C.R.I.(in particolare i nn.3-4 maggio/agosto 2004), reperibile sul sito web dell’ ACRI. sperimentati, di derivazione americana e nei modelli, ancora in fase di definizione, di derivazione comunitaria; considera pertanto prioritaria la redditività economica ma aggiunge ad essa regole comportamentali rispettose degli interessi degli stakeholders e dei beni della collettività ed introduce la possibilità di devoluzione a fini sociali di una percentuale dei profitti, che sono riflessi nei “bilanci sociali”. Questi due fenomeni paralleli si intersecano dunque nei valori di riferimento; anzi, vi sono autori che tendono ad unificare questi fenomeni, a non considerarli distinti tra loro, ma piuttosto ad assimilarli nella concezione istituzionale dell’impresa: sì che sul primo versante si registrerebbe sul piano concettuale e sul piano pratico una prossimità notevole tra enti non profit ed imprese lucrative, l’unica differenza tra queste categorie rimanendo la destinazione degli utili, nei primi a favore della collettività, nelle seconde a favore dei “soci”; sul secondo versante si registrerebbe una formula moderna del “capitalismo solidale” [2]. Considerare i due fenomeni come due facce della stessa medaglia oppure due immagini simmetriche ma capovolte non è solo un’opzione concettuale, ma ben di più: corrisponde a due visioni - politiche, economiche, sociali ed etiche - tra loro contrapposte. Esse quindi incidono sia sulla valutazione della normativa destinata agli enti non profit, sia sulla valutazione della normativa concernente la responsabilità sociale dell’impresa. In senso positivo si esprimono quanti postulano la formazione di un diritto orientato ai valori [3]; in senso negativo quanti dubitano che il mercato debba perseguire la tutela dei diritti fondamentali [4] e la tutela di interessi comunque estranei alla realizzazione del profitto e anche quanti ritengono fumosa e mistificante la concezione stessa di una responsabilità “sociale” dell’impresa [5]. Tuttavia, se si procede sulla base dei postulati del realismo giuridico - tendenti a considerare il modo concreto in cui evolve un ordinamento - i valori in gioco appaiono coessenziali sia agli scopi del legislatore, sia alle manifestazioni dell’ attività giurisdizionale, e quindi intrinseci alla norma, piuttosto che non appartenenti all’area del meta-diritto. Il fatto che questi valori siano modellati, proposti, adattati, prendendo corpo in atti ottativi, in direttive, persino in norme – essendo un dato oggettivo e indiscutibile, come dimostrano il Libro verde elaborato dalla Commissione delle Comunità europee nel 2001 [6] e la Comunicazione della stessa Commissione del 2002 [7] - esime i giuristi da ogni valutazione di merito, concentrando piuttosto la loro riflessione sull’incidenza dispiegata da questi fenomeni sul dato positivo e sui progetti di intervento legislativo in corso di elaborazione, al fine di tradurre in normative moderne e adeguate le nuove esigenze del “terzo settore” e dell’ “economia solidale”. Vorrei dunque esaminare, nella prospettiva aperta dai due fenomeni accennati, tre modelli normativi, che, proprio nell’unità di indagine, mostrano aspetti tra loro strettamente correlati: (i) le proposte di riforma del Libro I del codice civile; (ii) la disciplina degli enti lirici; (iii) la disciplina delle fondazioni bancarie. Per l’appunto questi modelli normativi si uniformano alla concezione che coniuga i valori del profitto con i valori solidali, esprimendola in forme giuridiche destinate a disciplinare o in via generale tutti gli enti non lucrativi, o in via speciale gli enti dotati di una particolare fisionomia. Nell’esperienza italiana l’ iter normativo non ha proceduto (come la logica 2 Nell’ambito dei cultori del diritto commerciale la contrapposizione è netta tra gli Autori che escludono la finalità lucrativa tra gli elementi essenziali dell’impresa (ad es., Oppo, Realtà giuridica globale dell’impresa nell’ordinamento italiano, in Riv.dir.civ., 1976,I, p. 591 ss. ) e gli Autori che all’opposto ne sottolineano l’indefettibilità (ad es., Bonfante e Cottino, L’imprenditore con una Introduzione al Trattato di Gastone Cottino, Padova, 2001, pp. 373, 404,437 ss. ). Ovviamente, il discorso coinvolge la natura delle società consortili, le cooperative, e, in generale, la stessa concezione di “impresa”. 3 Per tutti v. Mengoni, Diritto e valori, Bologna, 1985; Lipari, Diritto e valori sociali.Legalità condivisa e dignità della persona, Roma, 2004 4 Irti, L’ordine giuridico del mercato, Roma-Bari, 1998; Ferrarese, Le istituzioni della globalizzazione.Diritto e diritti nella società transnazionale, Bologna, 2000; più in generale, P.Grossi, Prima lezione di diritto, Roma-Bari, 2003 5 Cottino, op.cit.,p. 373 ss. 6 COM (2001) 366 def. 7 COM (2002) 347 def. sistematica avrebbe richiesto) dal generale al particolare, ma ha seguito il senso inverso, muovendo dai presupposti e dalle regole di natura speciale per ampliarne ( e generalizzarne) la portata fino a ricomprendere, nel modo più esteso possibile, gli enti esistenti e futuri che operano nell’ambito del “terzo settore”. 2. I progetti di riforma del Libro I del codice civile. In linea del discorso il quadro che si presenta agli occhi del giurista in materia di enti di diritto privato appare oggi complesso e frammentario. Come è noto, gli enti di diritto privato sono retti, oltre che da norme di tenore generale, previste nel codice civile del 1942, da una miriade di leggi speciali, di volta in volta introdotte per tutelare specifici interessi, ma anche per “liberare” questi enti dalla morsa in cui erano stati incapsulati nel codice civile, per effetto della concezione autoritaria e sospettosa che ne aveva contrassegnato l’ingresso nella nuova compilazione. Una morsa frutto al tempo stesso di due preoccupazioni che il legislatore del 1942 vedeva come prioritarie: evitare ogni ostacolo che di frapponesse tra il cittadino e lo Stato (come potevano essere gli enti “intermedi”), ed evitare la costituzione della manomorta (come accadeva per il patrimonio degli enti, riguardanti un complesso di beni sottratto alla circolazione giuridica). Il modello originario non poteva reggere alle istanze della società civile. Ma anziché modificare le regole di tenore generale, il legislatore ha preferito continuare ad alimentare una normazione farraginosa, frantumata e non coordinata, attraverso interventi di tipo settoriale. Con interventi successivi, destinati dapprima a consentire alle associazioni di volontariato di acquistare beni immobili e beni mobili registrati, senza chiedere il riconoscimento della personalità giuridica, alle Onlus, di poter svolgere attività economica, purché non unica o prevalente, alle associazioni di promozione sociale, di svolgere attività di natura commerciale, artigianale e agricola, si è venuta così modificando in modo sensibile sia l’originaria concezione delle associazioni e delle fondazioni, sia la legislazione di settore, perché ciascun intervento ha eroso i dogmi sui quali erano costruite le regole del codice, ed ha finito per rifluire addirittura in alcune modificazioni del codice civile e nella normativa riguardante le procedure di riconoscimento della personalità giuridica. Il legislatore infatti ha messo in cantiere e approvato altri provvedimenti destinati a istituire le procedure di riconoscimento della personalità giuridica su base regionale, a sopprimere anche nel codice civile l’obbligo di chiedere l’autorizzazione all’autorità tutoria per l’acquisto di immobili e l’accettazione di donazioni, eredità e legati, e a semplificare la procedura per richiedere la personalità giuridica di diritto statuale. Nel frattempo, la giurisprudenza ha ridisegnato la disciplina delle associazioni e delle fondazioni: quanto alle prime, ha ammesso l’esercizio di attività economiche purché non prevalenti su quelle istituzionali e destinate al perseguimento degli scopi di questi enti; quanto alle seconde, consentendo al fondatore di mantenere un rapporto con l’ente fondato, attraverso la gestione dell’ente, e definendo più precisamente le categorie delle fondazioni ( fondazioni di famiglia, fondazioni di erogazione, fondazioni di natura sociale, fino ad ammettere le c.d. fondazioni d’impresa). La materia è divenuta perciò sempre più complessa, affastellata e di difficile decifrazione. L’ampliamento e la liberalizzazione dei mercati ha nel contempo consentito di avviare un processo di privatizzazione che ha interessato gli enti pubblici economici, la RAI, e finanche le banche di natura pubblica e le casse di risparmio, trasformate in enti conferenti (ora denominati “fondazioni bancarie”) e in enti conferitari (ora denominati “banche”). Anche altri enti di natura pubblica sono stati trasformati in fondazioni di diritto privato, come, per es., le casse di previdenza dei professionisti. Per sussumere in un quadro sistematico questi fenomeni così eterogenei tra loro la dottrina ha proceduto su due direttrici. Da un alto, ha proposto di considerare i modelli originari come archetipi di forme giuridiche; pertanto, si è rivolta a questi enti con una terminologia che proviene dalla cultura anglo-americana, in cui essi sono designati come enti “non profit”. Il mutamento di denominazione non è di poco momento, perché – secondo il precetto medievale per il quale “nomina sunt omina” – l’uso di una diversa terminologia ha consentito di elaborare nuovi principi. Gli enti non profit infatti possono svolgere liberamente attività economica per realizzare gli scopi sociali, ma hanno solo l’obbligo di non distribuire gli utili tra fondatori, amministratori e associati, e di reinvestirli nella gestione della loro attività. Nell’ambito della categoria si distinguono poi enti che perseguono finalità per così dire “interne”, destinate ad avvantaggiare solo soggetti dotati di un particolare status, enti che perseguono finalità per così dire “esterne”,destinate ad intere collettività ( di varia dimensione), ed enti che perseguono finalità miste. Dall’altro lato, ha proceduto a progettare modelli alternativi, più consoni alle esigenze di una società dinamica e orientata al mercato, con ampi poteri di autonomia. In questo senso si sono mossi i programmi degli ultimi governi. Le proposte di riforma sono molteplici, ma in particolare si possono segnalare tre iniziative. Qualche anno fa, presso il Ministero degli Affari Sociali, retto in allora da Livia Turco, era stata costituita una commissione di giuristi ed economisti, presieduta da Pietro Rescigno ( a cui ho partecipato con Nicolò Lipari e Andrea Zoppini ), per la revisione del Libro I del codice civile. L’intendimento era innanzitutto di uniformare e chiarire la disciplina delle associazioni e delle fondazioni; poi di effettuare un inventario delle organizzazioni di tipo personale che negli anni si erano moltiplicate in modo impressionante in Italia, anche sotto l’influsso di mode culturali, parareligiose, etc., a cui si voleva assegnare una disciplina precisa e funzionale ai loro scopi; infine, di rendere più libera l’attività, riducendo e semplificando i controlli. Presso il Ministero della Giustizia, nel medesimo periodo, era stata costituita una commissione per la riforma del L.V del codice civile, sotto la presidenza del sottosegretario Antonino Mirone e il coordinamento di Luigi Rovelli. Si era avvertito infatti che non era possibile riformare la disciplina dell’impresa e delle società, senza provvedere anche al coordinamento di questa disciplina con quella prevista dal L.I; ed infatti, la perspicua relazione conclusiva predisposta da Luigi Rovelli reca un capitolo sugli enti-non profit. Molte delle idee espresse da quel gruppo di lavoro ( di cui facevo parte insieme con Bartolomeo Quatraro, Enzo Roppo, Giovanna Visintini, per la parte relativa al settore non profit) sono state poi riprese dalla commissione di riforma delle società, coordinata dal Sottosegretario Michele Vietti, e sfociata nel testo oggi vigente. Tra l’altro è da segnalare che anche nell’ambito dell’attività societaria si è dato spazio ai contatti con la disciplina degli enti non profit, quanto meno mediante la trasformazione eterogenea di società in fondazioni. Anche la disciplina delle fondazioni si è ammodernata, consentendo a questo tipo di enti di avvalersi di imprese. Insomma, l’idea di una “fondazione-impresa”, un tempo considerata quasi un ossimoro, oggi è accettata senza particolari preoccupazioni. E’ ovvio che se l’ente svolge attività economica e non gode di un regime speciale, sarà assoggettato al fallimento in caso di insolvenza. Ma non vi sono più preclusioni, né si possono nutrire avversioni, verso enti che, pur non avendo lo scopo di lucro come proprio fine istituzionale, possano liberamente svolgere attività economica lucrativa, purché i proventi non siano ripartiti tra coloro che hanno collaborato, in modo associato, alla loro produzione. Le proposte scaturite dai lavori delle due commissioni, tuttavia, non hanno avuto un esito concreto. Maggior fortuna potrebbe avere una nuova proposta, al momento non ancora fatta propria dal Governo in carica, elaborata da un gruppo di studiosi, di cui fanno parte Giovanni Iudica, Mario Nuzzo e Andrea Zoppini. La proposta, destinata a riformulare solo una sezione del L.I del codice civile, riguardante gli enti non profit, prevede tra l’altro l’esclusione di ogni intervento pubblico per tutti gli enti, anche quando perseguano scopi di pubblica utilità; assegna a questi enti piena capacità giuridica, libertà organizzativa e gestionale, senza quindi apporre limitazioni allo statuto e all’organizzazione interna, e al tempo stesso, impone doveri di trasparenza nella gestione e regole sulla responsabilità degli amministratori. Per gli enti di grandi dimensioni prevede anche la vigilanza di una autorità esterna, non più di natura governativa, ma autonoma, cioè una vera e propria “authority”. Il Governo, nel corso della passata legislatura, aveva progettato una disciplina unitaria di tutte le formazioni (associative o di natura patrimoniale) che svolgono attività di natura sociale e per imprimere loro un carattere più efficiente, le sta ridisegnando come “imprese sociali”, ma non è prevista la redazione di un testo unico che raccolga e coordini la frammentaria normativa. In ambito comunitario si possono rinvenire linee di tendenza, progetti e iniziative che riguardano in generale le fondazioni. Sinteticamente, va la pena di richiamare alcuni documenti comunitari e fare cenno alle iniziative delle organizzazione delle fondazioni a livello europeo. Nella Comunicazione della Commissione sulla “promozione del ruolo delle associazioni e delle fondazioni” (COM 97, 241 def.) si prende atto che le fondazioni, rispetto alle associazioni, costituiscono un gruppo più omogeneo, perché possono essere ripartite in due categorie, a seconda che esse abbiano scopi privati oppure scopi pubblici. Si considerano poi solo le fondazioni che pur svolgendo finalità pubbliche, sono indipendenti dallo Stato o da altri poteri pubblici, e sono gestite da consigli di amministrazione indipendenti o da amministratori fiduciari. La Comunicazione prende atto della varietà notevole dei modelli giuridici a cui sono assoggettate le fondazioni nei diversi ordinamenti nazionali – tanto è vero che in sede comunitaria si è proposto uno statuto uniforme per le associazioni, ma non per le fondazioni. E prende atto altresì dell’importanza nella vita economica ormai rivestita da questi enti: per esempio, all’epoca della pubblicazione del documento (1999) in Italia risultava impiegato nel settore quasi il 2% degli occupati, in Francia e nel Regno Unito la percentuale saliva al 4, ma il trend era in crescita.La Commissione sottolinea il ruolo sociale e politico di questi enti, ma anche il fatto che la loro attività comincia ad avere un raggio transnazionale. Di qui l’invito a richiedere i finanziamenti europei, a presentare progetti, ad incentivare la rete informativa e i collegamenti interni, insomma a rafforzare l’attività di tipo “orizzontale”. Per parte sua il Comitato economico e sociale, in un parere reso alla Commissione sul tema ( 98/C95/20) sottolinea come questi enti debbano avere una struttura democratica, e svolgere attività di pubblica utilità, operando comunque senza fini di lucro; sottolinea come le 100.000 fondazioni esistenti ( nel 1997, secondo le stime del European Foundation Centre) dispongono di cospicue risorse da destinare agli scopi sociali e ad impiegare forza lavoro; per questo, da un lato il Comitato invita gli enti a promuovere la loro attività economica in modo efficiente, e dall’altro a profittare dei finanziamenti acquisibili dalla Commissione e impegna la Commissione stessa a creare un fondo speciale per sostenere le fondazioni che operano a livello transnazionale. A sua volta la Corte di Giustizia, in alcune sentenze, ha accentuato il profilo imprenditoriale delle associazioni e delle fondazioni. Ad es., nel caso Hoefner (23.4.1991, C-41/90) ha stabilito che un ufficio pubblico per l’occupazione che svolge attività di collocamento è considerato un’impresa; nel caso Balthuis-Griffioen (11.8.1995, C-453/93) ha stabilito che un imprenditore persona fisica che aveva istituito un asilo nido non può considerarsi ente pubblico; nel caso Sodemare (17.6.1997) ha considerato impresa assoggettata alle regole di concorrenza una residenza per anziani; nel caso Pavel Pavlov (12.9.2000) anche un fondo pensionistico costituito in forma di fondazione è stato considerato impresa. L’attenzione riservata alle fondazioni in ambito comunitario è giustificata dal fatto che le indagini degli economisti registrano una crescita costante di questo settore in ogni Paese, che si accompagna ad una presenza sempre più insidiosa e concorrenziale sul mercato a fianco delle imprese rivolte al profitto. Ma ormai occorre guardare a questo fenomeno in un quadro più vasto, dal momento che esso è investito dalla globalizzazione dei mercati. E’ stato questo il tema discusso alla assemblea e alla conferenza annuali del Eurpean Foundation Centre, tenutesi a Lisbona nel giugno del 2003. Non a caso si è trattato di responsabilità sociale dell’impresa, di diritti umani, di ruolo delle fondazioni nella promozione della cultura, nella alimentazione della filantropia e nella diffusione del benessere. Insomma, le comunità intermedie stanno recuperando un ruolo essenziale nell’attività sociale e nell’attività economica, ma esse appaiono sempre più rilevanti anche per preservare i valori della democrazia nell’Occidente. Il che postula un rapido adeguamento della loro disciplina, possibilmente in ambito comunitario, ma, già fin d’ora in ambito nazionale. Gli stereotipi del codice civile debbono ormai essere abbandonati, perché la realtà richiede una svolta radicale, procedendo spedita verso modelli diametralmente opposti a quello accolto nel 1942. I dati emergenti dalle ricerche indicano infatti che negli Stati Uniti prevalgono le organizzazioni che perseguono il public benefit (75%) rispetto a quelle che perseguono il mutual benefit; che il numero delle organizzazioni non proft erano 1.600.000, con un fatturato di 600 miliardi di dollari; che i finanziamenti derivavano per il 36% da erogazioni statali, per il 64% da erogazioni di privati ( di cui il 54% per prestazioni di servizi); che il tasso di crescita (del 107%) superava il PIL (del 64%). Mentre nell’esperienza italiana i modelli associativi prevalevano su quelli fondazionali, che il numero degli enti non profit ammontava a circa 221.000 unità, di cui l’ 88,5 % costituite negli ultimi venti anni, e il 55,2% negli ultimi dieci anni, con un fatturato di 34 miliardi di euro, che i finanziamenti si dovevano prevalentemente ai privati (per l’84%) [8]. 3. Le fondazioni bancarie Un discorso più articolato meritano le fondazioni di origine bancaria, che, nel contesto qui considerato, offrono, se possibile, un esempio ancor più significativo degli enti lirici, perché appaiono modellate, oggi, sull’archetipo dell’ ente non proft, e tuttavia operano in un ambito economico, come quello bancario, che costituisce uno dei pilastri del sistema imprenditoriale di mode culturali, parareligiose, etc., a cui si voleva assegnare una disciplina precisa e funzionale ai loro scopi; infine, di rendere più libera l’attività, riducendo e semplificando i controlli. Come è noto, le c.d. fondazioni bancarie sono state oggetto di ripetuti interventi normativi, di vicende giudiziarie celebrate dinanzi ai giudici amministrativi e dinanzi alla Corte costituzione inerenti la loro natura e l’ambito della loro autonomia, nonché di una ripetuta regolamentazione di ambito amministrativo [9]. Il complesso di queste regole, articolate secondo la gerarchia delle fonti, non è tuttavia sufficiente a completare un modello organico di disciplina. Ricorrendo alla tecnica dell’interpretazione estensiva e della interpretazione analogica, e cercando di “colmare le lacune” delle regole ad esse destinate, è necessario ricorrere alle disposizioni del Libro I del codice civile. La sintetica ricostruzione della disciplina in esame [10] prescinde da un esame dettagliato dei 8 Maggio, Non profi, l’esempio USA, ne Il Sole 24 Ore, 5.11.2001 n. 305, p. 7 Ex multis,v. P. RESCIGNO, La fondazione ed i gruppi bancari, in Banca, impr. soc, 1992, II, pag. 389 e ss.; COSTI, La riforma delle fondazioni bancarie, in Studi in onore di Pietro Rescigno, vol II, Milano 1998, II, pag. 227 e ss.; GENTILI, La riforma delle fondazioni di origine bancaria, in Riv. dir. civ. 1999, II, pag. 399 e ss.; AA.VV., Le «Fondazioni» bancarie, dalla legge n. 218/90 al D.Lgs. n. 153/1999, a cura di Sandro Amorosino e Francesco Capriglione, Cedam, 1999. 10 L’annosa vicenda prende le mosse dalla c.d. «legge Amato» (L. 30 luglio 1990, n. 218) che ha avviato la disciplina di riforma delle casse di risparmio e dal decreto legislativo di attuazione (D.Lgs. 20 novembre 1990, n. 356) in cui si sono configurati due enti: gli enti conferenti e gli enti conferitari dell’azienda bancaria; gli enti conferenti sono definiti dal d.lgs.cit. «persone giuridiche private senza fini di lucro dotate di piena autonomia statutaria e gestionale» riconoscendo, quindi, ad essi soggettività giuridica. Con il d.l. 1994, n. 332 e, in particolare, con la «direttiva Dini» del 18 novembre 1994 si è auspicata la promozione e l’accelerazione del processo di dismissione della proprietà delle banche da parte degli enti conferenti, ribadendosi, tra l’altro, il vincolo di destinazione dei proventi a fini di “interesse pubblico e di utilità sociale”. Di poi, la l. n. 461/1998 (c.d. «legge Ciampi») ed il d.lgs. n. 153/1999, nel disegnare un insieme di incentivi e di disincentivi per indurre la graduale uscita degli enti conferenti dagli assetti proprietari delle banche, hanno delineato l’attività degli enti conferenti, considerati come enti di diritto privato, operanti nel settore non profit. La l. finanziaria per il 2003 (n. 289 del 2002) ha introdotto la distinzione tra fondazioni con patrimonio non superiore a duecento milioni di euro e le altre fondazioni, incidendo tale distinzione sugli obblighi di dismissione del controllo degli enti conferitari. Il d.l. 24.6.2003 e la l. di conversione n. 212 del 2003 sono ulteriormente intervenuti sugli obblighi di dismissione. Il d.l. 30.9.2003 n. 269, coordinato con la l.di conversione n. 326 del 2003 sono intervenuti sui settori rilevanti. Infine, la l.finanziaria per il 2004 ( n. 350 del 2003) ha introdotto nuove norme sulle incompatibilità dei componenti degli organi delle fondazioni bancarie e il d.m. 18.4.2004,n. 150 ha riformulato la disciplina attuativa dell’art. 11 della l. n. 448 del 2001. 9 contenuti dei provvedimenti citati, atteso che i problemi oggi rimasti aperti discendono proprio dalla incompleta e inesatta formulazione delle disposizioni. In ogni caso si è in presenza di una disciplina che ha natura speciale. Dal momento in cui gli enti conferenti hanno ricevuto la denominazione di fondazioni (ancorché di origine bancaria, e a diritto speciale) – e cioè ben dieci anni dopo l’avvio della vicenda - si è aperto il problema se tale denominazione volesse anche alludere alla inclusione di tali enti nella categoria delle fondazioni, e quindi indicarne anche l’assoggettamento alla disciplina generale dettata per le fondazioni nel Libro I del codice civile. Dapprima gli orientamenti dottrinali sono stati tutt’altro che univoci, propendendo un indirizzo per l’esclusione delle fondazioni bancarie dal novero delle fondazioni tout court, e altro indirizzo per la loro inclusione, derivandone quindi l’applicazione, in forma residuale, delle regole di tenore generale rispetto alle regole di tenore speciale. Per risolvere la questione, inerente dunque, alle regole applicabili secondo un ordine sistematico, alle “fondazioni bancarie”, è necessario ripercorrere l’iter (normativo e giurisprudenziale) proprio con riguardo alle denominazioni utilizzate, che sono strettamente connesse con la qualificazione di questi enti e quindi con la disciplina ad essi oggi applicabile. Fin dal loro ingresso nel mondo del diritto (con la l.n.218 del 1990 e relativo d.lgs. n.356 del 1990) gli enti residuati dallo scorporo delle aziende o dei rami di azienda bancari dagli enti pubblici creditizi o dalle casse di risparmio hanno posto problemi di nomenclatura: in modo formale, il legislatore li ha denominati “enti conferenti”, in quanto a tali enti si faceva obbligo di trasferire l’azienda bancaria alle società per azioni create ad hoc; si pone cioè attenzione all’operazione più significativa che consiste per l’appunto nello scorporo; come si è detto, già dall’epoca in cui la riforma “Amato” è stata introdotta, parte della dottrina, tenendo conto del fatto che tali enti svolgevano anche attività di natura solidaristica e che amministravano un patrimonio (ancorché singolare, essendo costituito da un’azienda bancaria) da cui traevano alimento per raggiungere anche i loro fini sociali istituzionali, ha impiegato l’espressione di “fondazione”. Ma non si è trattato di un orientamento uniforme: a quanti facevano impiego del termine senza frapporre dubbi, si sono contrapposti coloro che premevano sulla distinzione, nel genere fondazione, della specie di fondazione bancaria, e quindi denominavano questi enti “fondazioni di origine bancaria”, e altri ancora che hanno usato l’espressione sottolineandone l’improprietà semantica, e quindi si sono riferiti a questi enti come alle “c.d. fondazioni bancarie”. Con la l. n. 461 del 1998 (c.d. legge “Ciampi”) e il d. lgs. n. 153 del 1999 gli enti conferenti hanno assunto la denominazione di fondazioni; hanno continuato per un verso a conservare la loro denominazione originaria, ma per altro verso, specie nella formulazione dei titoli della legge, hanno cominciato ad essere denominate fondazioni ed hanno cambiato natura: il legislatore ha attribuito loro la natura di persone giuridiche private senza fine di lucro (art.2 c.1). La terminologia oggi usata, di fondazioni di origine bancaria, originariamente era solo di natura dottrinale e giurisprudenziale; e non era neutra, anzi perché preludeva dapprima con assonanze, poi con assimilazioni, infine con classificazioni alla sottrazione di questi enti dall’ambito del diritto pubblico per collocarli nell’ambito del diritto privato, e, all’interno di questo, neil lla categoria degli enti non profit del genere “fondazioni”. Pertanto il settore giuridico entro il quale si collocano questi enti non può che essere il diritto comune: lo sottolineano anche il titolo I che allude al “regime civilistico delle fondazioni”, e il titolo II, sul regime fiscale delle fondazioni, risolvendosi così la diatriba sulla natura pubblicistica o privatistica di questi enti dotati di una doppia personalità (v. l’art.11 c.2 del d.lgs. n.356 del 1990) nei confronti della quale si era scagliata la dottrina, bollando la soluzione legislativa come una finzione. Per la denominazione, invece, l’espressione usata dal legislatore non è vincolante, anche se può essere orientativa. Non mancano esempi eclatanti della libertà dell’interprete con riguardo alle qualificazioni ex lege di atti o di enti: basti pensare all’autorizzazione all’edificazione che con la l. n.10 del 1977 aveva assunto la denominazione di “concessione” e che la giurisprudenza amministrativa ben presto ha riconvertito nella vecchia licenza edilizia. Sulla base di queste premesse, si è sviluppata la vicenda normativa e il dibattito dottrinale maturati negli ultimi anni, perché da questi due percorsi, che spesso si intrecciano, si possono desumere elementi per chiarire se si sia in presenza di enti appartenenti al genus fondazione oppure ad enti che, denominati “fondazioni” presentino una disciplina così peculiare da essere per la quasi totalità incompatibile con la disciplina generale contenuta nel codice civile (o ricostruita da dottrina e giurisprudenza sulla base del codice civile). Per un verso, come si è anticipato, si è attratta nell’area semantica, normativa e operativa delle fondazioni la categoria degli enti conferenti: il legislatore aveva evitato la specifica terminologia e sono stati gli interpreti ad usare il termine tecnicamente più esatto per definire un fenomeno in cui l’esistenza di un fondo di dotazione e la mancanza di struttura associativa riconducono (e l’esito del discorso è pienamente giustificato) allo schema della fondazione [discorso che vale anche per le fondazioni a struttura “associativa”, con le peculiarità che comporta tale forma giuridica]. E per l’appunto nella fondazione-impresa (meglio, nella fondazione titolare di una o più imprese strumentali) si è ravvisata la forma giuridica più consona o adeguata a quella degli enti conferenti. Per altro verso, proprio perché tali enti conservavano originariamente, accanto alla personalità di diritto privato, la personalità di diritto pubblico, ed erano dai più considerati enti pubblici, si sono prese le distanze dalla qualificazione in termini di fondazione; fondazione peraltro titolare della totalità delle azioni di una s.p.a., e quindi, non meritevole - per altri autorevoli studiosi di questo appellativo, ma piuttosto di quello di “pseudofondazione”. La storia della legislazione in materia documentava, secondo la dottrina di diritto pubblico e di diritto bancario, la natura pubblicistica degli enti in esame. Ma ad essa si faceva osservare che l’ente pubblico è tale in quanto ha potestà d’imperio, capacità che faceva certamente difetto a quegli enti. La reticenza del legislatore ad utilizzare l’espressione “fondazione” era giustificata con il fatto che non tutti gli enti di quell’universo variegato che racchiudeva antichi monti di pietà, casse agricole, associazioni di beneficenza, e così via aveva tratto origine dalla entificazione di un patrimonio, ma molti avevano una origine nell’aggregazione di persone fisiche tra loro associate. Lo scrupolo terminologico che aveva fatto rifugiare il legislatore in una dizione neutra come quella di enti conferenti è stato fugato dalla osservazione che l’ascrizione al tipo ideale della fondazione non è condizionata dall’aggregazione di persone, quanto piuttosto da un altro carattere, che si intravedeva negli enti originari, cioè nello scopo sociale inderogabile e indisponibile rispetto al potere decisionale delle persone che comparivano come associate. In altri termini, secondo le categorie generali, l’autonomia privata che si affidi alle forme giuridiche della fondazione soffre di limitazioni “che non hanno, per contro, ragion d’essere in rapporto alle organizzazioni di tipo associativo, caratterizzate dagli opposti principi della modificabilità, per deliberazione degli associati, dello scopo originario e della risolubilità, ad arbitrio degli stessi associati, del vincolo associativo” e l’ammissibilità nell’ordinamento della fondazione è dovuta “solo in presenza di uno scopo di pubblica utilità”. Si è poi aggiunto che i soci (o associati) non erano i destinatari dei risultati dell’attività dell’ente, come normalmente accade per le associazioni. Stante quindi la binarietà delle categorie (istituzioni/corporazioni, fondazioni/associazioni) se gli enti non ricadevano nella categoria delle corporazioni-associazioni, dovevano necessariamente rifluire in quella delle istituzioni-fondazioni. Senonché, la reticenza del legislatore non ha impedito che autorevoli fonti avessero anticipato la qualificazione di fondazione ( v. l’obiter dictum contenuto nella sentenza della Corte cost. 16.12.1993,n.440). Termine poi effettivamente entrato nel linguaggio normativo “di soppiatto”, nel contesto delle misure di razionalizzazione della finanza pubblica (art. 3 c.189 lett.a) della l. 23.12.1996, n.662). Ora, il testo dei provvedimenti del 1998 e del 1999 hanno proceduto in un modo per così dire compromissorio: hanno fatto impiego dell’espressione “fondazione” ma hanno mantenuto del modello tradizionale o, come si dice, del tipo ideale ben poche caratteristiche, in quanto al nomen iuris non corrispondono tutti i contenuti sostanziali che esso evoca. Ciò perché: gli scopi istituzionali previsti negli statuti non sono espressione della libera autonomia privata, ma debbono essere ricondotti ai settori espressamente tipizzati, anche se in modo generico, dalle disposizioni di apertura del d.lgs.cit. (art.1, lett.d) e art.2 c.2); l’assetto organizzativo è imposto per legge ed è integrato da un organo di indirizzo e da un organo di controllo (art.4); la composizione del patrimonio e la destinazione del reddito, oltre che i criteri di amministrazione e gestione, sono definiti ex lege (artt.59); per non parlare poi della vigilanza (art.11) e delle altre disposizioni che riguardano materie più specifiche (artt.12-29). Tutte previsioni che risultano estranee alla disciplina di diritto comune delle fondazioni e che confliggono con una autonomia statutaria e gestionale di cui le fondazioni ordinarie sono dotate. Il fatto che il d.lgs.cit. riconosca agli enti conferenti una autonomia statutaria e gestionale “piena” (art.2 c.1) non deve trarre in inganno: queste limitazioni danno luogo ad una conformazione che attribuisce agli enti una fisionomia loro propria che li allontana di molto dalla figura tradizionale di fondazione. Pertanto, ancora nel 1999 la dottrina era incerta sulla configurazione giuridica di tali enti. Tanto è vero che, secondo taluno, “la legge ha creato un fatto, le fondazioni bancarie, ma ha sostanzialmente mancato di fissarne un modello”, enunciazione rafforzata dall’esame della nuova normativa che, “anziché realizzare, ha tradito la nozione tradizionale di fondazione”. La compatibilità degli scopi legislativi (prima ancora che delle disposizioni ora introdotte) con il modello ideale di fondazione appare essere, allora, un falso problema: si tratta certo di enti di natura privata, ma a statuto normativo rigido. Una prima giustificazione potrebbe esser tratta dalla storia complessiva di questi enti. Nel nostro caso, gli enti conferenti derivano da altri enti (e ne costituiscono la trasformazione) che assolvevano un ruolo rilevante nel settore bancario. Nella disciplina transitoria questi enti possono ancor orbitare nell’ambito bancario, ma de futuro ne saranno completamente estromessi. In ogni caso, non possono più esercitare direttamente l’attività bancaria né alcuna attività di finanziamento a imprese, tranne le eccezioni fissate dall’art.3 c.2 del decreto. Possono però mantenere rilevanti partecipazioni in imprese bancarie (sempre però minoritarie). Il legislatore dunque ha voluto disciplinare questa presenza controllando sia gli scopi, sia gli statuti, sia gli organi, sia l'amministrazione e la gestione di questi enti, attesa la loro rilevanza economico-sociale. Il legislatore ha voluto inoltre introdurre le limitazioni all’autonomia privata che si sono enumerate per rafforzare l’osservanza degli scopi statutari. In questo senso, le regole sulla organizzazione interna, in particolare con la introduzione dell'organo di indirizzo, le regole sulla amministrazione e gestione, le regole sulle dismissioni e sui reinvestimenti, le regole sulla contabilità e sulla vigilanza sono funzionali al controllo sul perseguimento degli scopi istituzionali. L’applicazione delle regole di diritto comune non avrebbero assicurato di per sé la realizzazione puntuale degli scopi istituzionali, né la destinazione del patrimonio agli scopi istituzionali. Sul piano della legittimità costituzionale queste regole “dirigistiche” non trovano fondamento nell’art.41 c.2 Cost., perché le fondazioni bancarie non fanno parte del sistema bancario, perché non svolgono esclusivamente attività economica privata, perché possono essere titolari di imprese strumentali e partecipare a cooperative sociali ma solo nei limiti fissati, perché la loro attività è orientata a fini di utilità sociale. Possono però trovare fondamento nell’art. 42 c.2 Cost., in quanto la titolarità di ingenti patrimoni aventi l’origine storica e bancaria di cui si è detto giustificano l’intervento del legislatore sulla base della clausola della funzione sociale della proprietà privata. La funzione sociale della proprietà - cioè della titolarità del patrimonio (inteso in senso dinamico) avrebbe una duplice giustificazione: la destinazione originaria dei bei (o cespiti) e la destinazione a fini sociali conseguenti alla antica origine pubblicistica degli enti. Si tratta anche per questo di una disciplina speciale, che contraddistingue questi enti speciali. E la specificità – se si vuole – l’eccezionalità che contrassegna l’odierna disciplina è ulteriormente confermata dal fatto che per il futuro non si potranno costituire nuove fondazioni bancarie. I problemi di conformità al dettato costituzionale sono sorti allora per altro verso. La conformazione degli enti con imposizioni eccessivamente costrittive della autonomia privata incidono sui diritti soggettivi riconosciuti agli enti privati. Poiché il legislatore ha mantenuto ferma la disposizione secondo la quale le fondazioni bancarie sono “persone giuridiche private senza fine di lucro, dotate di piena autonomia statutaria e gestionale” (art.2 c.1 d.lgs. 17.5.1999,n. 153; e che questo assunto non è stato modificato dai successive interventi modificativi ed è stato confermato dalle sentenze della Corte cost. del 29.9.2003,nn. 300 e 301, è ormai orientamento consolidato della dottrina ritenere che, nella parte residuale, siano applicabili le disposizioni del codice civile. Questa conclusione è avvalorata dalle sentenze della Corte cost. più volte richiamate. Ed infatti con la sentenza n. 300 del 2003 la Corte ha indicato come settore dell’ordinamento a cui pertengono le fondazioni bancarie quello definito in termini di ordinamento civile, settore riservato alla disciplina statuale e sottratto alla disciplina regionale (ex art. 117 Cost.); inoltre ha stabilito che le fondazioni di origine bancaria non appartengono più all’ordinamento creditizio ( modificando quindi le proprie precedenti statuizioni, fondate sulla disciplina abrogata, di cui alle sentenze nn. 341 e 342 del 2001); ed ha chiarito come debba essere inteso l’art.2 del d.lgs. n. 153 del 1999, nel senso che questi enti sono “fondazioni-persone giuridiche private (…) indipendentemente dall’eventuale perdurare di loro coinvolgimenti in partecipazioni bancarie che la legge ancora consenta per ragioni particolari, accanto all’esercizio prioritario delle proprie funzioni finalizzate al perseguimento degli scopi di utilità sociale e di sviluppo economico, secondo le previsioni dei loro statuti”. Ancora. Con la sentenza n. 301 del 2003 la Corte cost.ha ribadito quanto sopra ed in più ha precisato che “deve escludersi il riconoscimento alle fondazioni di pubbliche funzioni”. In conclusione, si è in presenza di enti di natura privata, a regime speciale, a cui si applicano, là dove la disciplina speciale sia lacunosa, le regole che l’ordinamento destina agli enti di diritto privato, primieramente nel codice civile, al Libro I. Ma si deve comunque sottolineare che, stando così le cose, questi enti conservano una natura ibrida e la complessa ricostruzione del quadro normativo sopra richiamato presuppone una attenzione particolare dell’interprete, che ne attenua la responsabilità dal punto di vista della conoscenza approfondita del precetto normativo [11]. I ripetuti interventi della Corte costituzionale in materia denunciano anche la non perfetta configurazione della normativa e la sua sostanziale precarietà, che mina il principio della certezza del diritto. La dottrina si è espressa al riguardo con osservazioni critiche, definendo la vicenda come “una strana vicenda legislativa” [12]. L’autonomia della gestione, che deve essere effettuata secondo principi di economicità, risponde anche alla logica della responsabilità: se l’organo di indirizzo si ingerisse della gestione, o i suoi indirizzi fossero così specifici da ordinare all’organo amministrativo i singoli atti da compiere, non sarebbe poi in grado di verificare i risultati della gestione, sindacare l’operato dell’organo di indirizzo, promuovere l’azione di responsabilità nei confronti di esso i di taluni suoi membri, nominare e revocare i componenti dell’organo di amministrazione. Ecco perché, pur con termini generici, la normativa parla di programmi, di obiettivi, di definizione delle linee generali della gestione e della politica degli investimenti. Tuttavia, il d.lgs. del 1999 contiene i poteri dell’Autorità di Vigilanza che invece le sono attribuiti dall’art. 25 cod.civ. L’art.10 c.1 lett.j) dispone che – fino al momento in cui non entrerà in vigore la nuova disciplina dell’autorità di controllo di cui al tit.II del Libro I del cod.civ., la vigilanza è attribuita al Ministero del Tesoro. E i poteri del Ministero risultato ridotti rispetto a quelli fissati dall’art. 25 cod.civ. Essendo prevista una specifica normazione al riguardo, è difficile poter sostenere che, al di là dei casi previsti dal d.lgs. cit., il Ministero (quale Autorità di vigilanza) possa attribuirsi ed esercitare i poteri attributi all’autorità di vigilanza dall’art. 25 cod.civ. La legge speciale - cioè l’art. 10 c.1 lett.j) prevede solo poteri sostitutivi (anche su segnalazione dell’organo di controllo, inteso nella sua totalità deliberativa, anche se a sola maggioranza) per il compimento degli atti previsti dall’art. 4 c.1 lett.j). 11 12 v. Gentili, La riforma delle fondazioni di origine bancaria, in Riv.dir.civ., 1999, II, p. 399 ss Oppo, Ancora sulle fondazioni (ex)bancarie, in Riv.dir.civ., 1999, II, p. 561. II Il labirinto giudiziario del caso Parmalat 1. Un quadro complesso di informazioni e una bussola per orientare i giuristi. I mezzi di comunicazione di massa, i quotidiani economici e i siti Internet delle associazioni dei consumatori e dei risparmiatori nonché i siti di contenuto giuridico hanno provveduto ad informare il pubblico delle vicende riguardanti il “caso Parmalat”. Un pubblico attento, costituito non solo dai risparmiatori che avevano investito in titoli emessi dalle società del gruppo, ma anche da coloro che – presa coscienza dei rischi offerti dal mercato finanziario – intendono fare del “caso Parmalat” un fenomeno da studiare per prevenire quanto più è possibile i rischi degli investimenti finanziari. Per quanto mi riguarda, mi colloco in quest’ultima categoria, non avendo assunto professionalmente né le difese dei risparmiatori, né le difese del gruppo, né le difese dei singoli operatori all’interno del gruppo, né le difese del commissario straordinario nominato per la gestione del gruppo. Ho avuto modo però di seguire le procedure conciliative tra risparmiatori e banche per altri titoli in default, ed ho potuto così comprendere meglio sia alcune dinamiche del mercato finanziario, sia alcune situazioni in cui si sono trovati gli investitori non professionali, cioè i risparmiatori. Mi preme allora subito precisare che – con riguardo ai titoli relativi al “gruppo Parmalat” – i risparmiatori (non istituzionali) si possono distinguere almeno in tre diverse categorie, a seconda della situazione in cui versavano al momento del “crack”. Coloro che avevano acquistato titoli Parmalat molto tempo prima che si diffondessero notizie sulle difficoltà economiche in cui cominciava a trovarsi il gruppo; questa categoria di risparmiatori a sua volta si distingue in soggetti che avevano dichiarato all’ intermediario una propensione al rischio, oppure soggetti che nulla avevano dichiarato; in soggetti che davano ordini diretti per l’acquisto dei titoli e soggetti che si rimettevano alla professionalità dell’intermediario per la gestione del proprio patrimonio. Coloro che hanno acquistato dopo la diffusione di queste notizie, e che quindi hanno voluto speculare sul titolo. Coloro che non hanno acquistato volontariamente, ma hanno trovato sul proprio conto l’acquisto di titoli Parmalat, in virtù di operazioni effettuate dalla banca o dalla società di investimenti di cui erano clienti. Ciascuna di queste categorie riceve una tutela differenziata, a seconda che si possa dimostrare il grado di conoscenza della situazione in cui versava il titolo e l’intenzionalità del suo acquisto. A loro volta gli operatori finanziari hanno provveduto a collocare titoli Parmalat per tutto il periodo in cui sul titolo non si erano ancora diffuse notizie allarmanti; qualche operatore però ha continuato a trattare il titolo anche nel periodo successivo, acquistandolo per i clienti, previo loro ordine o senza ordine, perché la mediazione era vantaggiosa, o, peggio, vendendo ai clienti titoli del proprio patrimonio,al fine di sottrarsi alla perdita di valore del titolo “scaricandolo” sul patrimonio altrui. Anche per gli intermediari dunque occorre fare distinzioni, in ordine alla loro responsabilità. Ciò per quanto riguarda il rapporto tra il risparmiatore e l’intermediario. Ma, ovviamente, vi sono rapporti che stanno “a monte” e “a valle” di questi. A monte sta il “labirinto delle finanziarie di Collecchio”, come si è espresso il giornale finanziario italiano più letto e prestigioso, “Il Sole 24 Ore”, che ha pubblicato un organigramma del gruppo al momento del crollo finanziario, in cui campeggiano le società off shore. In collegamento con il gruppo si debbono poi segnalare le banche finanziatrici, italiane e straniere, delle quali si sta indagando il grado di consapevolezza della instabilità del gruppo, e le società di revisione che si sono succedute nel controllo delle società del gruppo. A valle si collocano: le vicende giudiziarie di natura penale, a carico degli amministratori del gruppo, dei revisori e delle banche finanziatrici, in cui si sono costituiti come “parte civile” i risparmiatori danneggiati e le loro associazioni; le vicende che riguardano il gruppo in sé, assoggettato alla disciplina del risanamento delle grandi imprese in crisi, affidata ad un “commissario straordinario”; il fallimento di alcune società operative del gruppo e l’insinuazione nel passivo dei creditori (compresi i risparmiatori); la sorte dei dipendenti, che pone questioni sociali di non poco momento; la sorte dei titoli della “nuova Parmalat”, la società costituita come risultato del risanamento del gruppo; la responsabilità civile delle banche finanziatrici del gruppo, italiane e straniere; la eventuale responsabilità della Consob, l’Autorità amministrativa di vigilanza del mercato finanziario, per omesso controllo dei bilanci e dei prospetti del gruppo; la sorte dei procedimenti pendenti negli U.S.A., promossi in forma di class action, da parte degli investitori colà residenti; la sorte delle altre società del gruppo sparse in altri continenti. Al labirinto finanziario costruito da una società originariamente a conduzione familiare, operativa nel settore lattiero, stimata per l’eccellenza dei prodotti alimentari, poi travolta dalle spericolate operazioni finanziarie, si è dunque aggiunto il labirinto giudiziario. Il quadro complesso che qui ho riassunto è esposto con ammirevole chiarezza da Guido Ferrarini e Paolo Giudici in un working paper preparato per l’ European Corporate Governance Institute [13], e la questione è stata discussa sotto il profilo dell’ analisi economica del diritto da Francesco Denozza [14]. Osservato dall’esterno, questo labirinto sembra un vero e proprio laboratorio per il giurista, perché diversi sono i rimedi a cui si è fatto ricorso e a cui si è pensato, per risolvere le complesse questioni aperte dal caso. 2. L’intervento del legislatore Il legislatore è intervenuto con la disciplina di attuazione della direttiva sul “market abuse” ( 2003/6/CE) inserendo le relative disposizioni nel testo della legge comunitaria del 18.4.2005,n. 62. Queste disposizioni, tuttavia, non risolvono in radice il problema della tutela del risparmiatore in quanto si riferiscono solo all’abuso di informazioni privilegiate e rafforzano i poteri della Consob. Il Parlamento ha approvato il progetto di legge in materia di “disposizioni per la tutela del risparmio e la disciplina dei mercati finanziari” con legge262/2005. A questo testo erano affidate le speranze dei risparmiatori, ma la complessità della vicenda Parmalat e la complessità della normativa avevano frenato i lavori parlamentari. Si tenga anche conto del fatto che in questo testo si sono intrecciate vicende estranee, in certo qual modo, agli scandali finanziari che si sono registrati in questo periodo in Italia ( oltre al “caso Parmalat”, abbiamo anche il “caso Giacomelli”, il “caso Cirio” e il caso dei bonds argentini, che non hano afflitto solo l’Italia): si tratta delle competenze della Banca d’Italia, rispetto alla Consob, quanto alla vigilanza sulla concorrenza delle banche, dei poteri del Governatore della Banda d’Italia, e, in particolare, della introduzione nel nostro ordinamento di regole processuali sulle class actions, che spaventano le imprese, le quali si sono mosse attraverso il loro organo associativo, la Confindustria, per ostacolare questo progetto. La suddettaleggeha introdotto: (i) nuove regole sulla corporate governance, già integralmente modificata con la riforma del 2003 (d.lgs.17-1-2003,n.6), modificata con due decreti correttivi (d.lgs.6.2.2004,n.37 e d.lgs.28.12.2004,n.310) e introdotta nel codice civile; sul collegio sindacale nei modelli di società per azioni diversi da quello tradizionale, l’azione di responsabilità, la trasparenza delle società estere; (ii) nuove regole sul conflitto di interessi nella gestione dei patrimoni mobiliari, e sui conflitti di interesse nella prestazione dei servizi di investimento; (iii ) le regole di attuazione della direttiva comunitaria 2003/71/CE sul prospetto da pubblicare per l’offerta pubblica o l’ammissione alla negoziazione di strumenti finanziari; modifiche alla disciplina dell’intermediazione finanziaria e alla responsabilità dei dirigenti, e (iv) regole di natura amministrativa sul coordinamento delle competenze delle diverse Autorità che si occupano della vigilanza del mercato finanziario. 13 G.Ferrarini e P.Giudici, Financial Scandal and the Role of Private Enforcement: The Parmalat Case, Law Working Paper N0. 40/2005, May 2005, in http://ssrn.com/abstract=7304003 14 F. Denozza, Il danno risarcibile tra benessere ed equità: dai massimi sistemi ai casi “Cirio” e “Parmalat”, in Giur. comm., 2005, I, 111 ss. 3. L’intervento dei giudici In attesa che il legislatore promuova l’intervento diretto a introdurre maggiori poteri di controllo degli organi di vigilanza dei mercati finanziari, regole processuali sulle class actions e regole sulla corporate governance, la gestione del caso Parmalat è affidata al Commissario straordinario e ai giudici che si occupano delle procedure fallimentari e del risarcimento dei danni risentiti dai risparmiatori. In attesa di conoscere l’esito delle procedure fallimentari, la cui durata si annuncia lunghissima, si può dare qualche indicazione sulla case law riguardanti casi analoghi – certo non di questa dimensione – o profili di responsabilità registrati in altre vicende in cui sono stati coinvolti soggetti operanti nel mercato finanziario. E’ appena il caso di precisare che il complesso delle forme di protezione del risparmiatori è, nel nostro Paese, ancora in via di costruzione e che esso ha avuto un notevole impulso per l’appartenenza dell’ Italia alla Unione europea. Pertanto i risparmiatori, come già i semplici consumatori, si sono molto giovati della applicazione del diritto comunitario nel diritto interno [15]. A chi possono si possono rivolgere i risparmiatori per chiedere il risarcimento del danno subìto? Innanzitutto agli emittenti, per responsabilità da prospetto. In un primo tempo i giudici non avevano ritenuto ammissibile l’azione di responsabilità in quanto pensavano che la lettura del prospetto non avrebbe potuto influenzare la volontà del risparmiatore che si era determinato a sottoscrivere i titoli offerti al pubblico tramite il prospetto informativo [16]. Successivamente l’orientamento è mutato, e, insieme con la responsabilità dell’emittente, si è affermata anche la responsabilità degli intermediari che abbiano partecipato al collocamento dei titoli [17]. E’ ancora dubbio se si tratti di responsabilità che inerisce alla fase della trattativa (ex art. 1337 cod.civ.), oppure al rapporto contrattuale, oppure al semplice contatto sociale che si è formato al di fuori di un rapporto contrattuale; quest’ultima è la soluzione preferita dalla giurisprudenza, che applica al caso le regole del codice civile in materia di illecito, equivalenti ai principi applicati in common law per i torts (art. 2043 ss.). Nei confronti dell’emittente oggi, tuttavia, i giudici ritengono che i risparmiatori possano avvalersi anche di altri rimedi: ad esempio, dall’azione di nullità del contratto sottoscritto dal risparmiatore per effetto della violazione da parte dell’emittente delle disposizioni inerenti le informazioni da fornire ai sottoscrittori [18], oppure per non aver comunicato al risparmiatore la natura del prodotto finanziario offertogli [19];oppure addirittura per aver consentito ad un settlement privo di “causa”, che corrisponde latu sensu alla consideration [20]. La dottrina sta ora valutando la fondatezza di questi rimedi, che incidono sulla disciplina del contratto. Per quanto riguarda specificamente gli intermediari che propongono ai propri clienti i prodotti delle emittenti, oltre alla responsabilità da prospetto, si sta ora configurando un’altra ipotesi di responsabilità (che ha natura contrattuale, perché discende dal contratto concluso con il risparmiatore): la responsabilità per omesso controllo dell’ adeguatezza dell’ investimento, tenuto conto della propensione al rischio del cliente. Si tratta in questo caso di un obbligo di acquisizione di informazioni e di valutazione dei rischi, che l’intermediario deve osservare sulla base dei regolamenti della Consob ( dei principi posti dalla direttiva n.22 del 1993) e del principio di diligenza professionale desumibile dal codice civile, ex art. 1176 c.2, a cui la giurisprudenza aggiunge il principio generale di correttezza, di cui all’art. 1175 cod.civ. [21] Ma si sta facendo strada anche un’altra ipotesi di illecito: la responsabilità per la concessione 15[15] G.Alpa, Il diritto dei consumatori, Roma-Bari, 2003; G.Alpa-M.Andenas, Fondamenti del diritto privato europeo, Milano, 2005 16[16] Cass. 22.6.1978, in Giur.comm., 1979, II, 631 Trib.Trieste, 13.7.1994, in Società, 1995,539; Trib.Milano, 6.11.1987, in Giur.it., 1988, I, 499 18[18] Trib.Firenze, 21.3.2005 (data della decisione) 19[19] Trib.Brindisi, 21.6.2005 (data della decisione) 20[20] Trib.Roma, 23.3.2005 (data della decisione) 21[21] Trib. Mantova, 12.11.2004 (data della decisione) 17[17] abusiva di credito da parte delle banche ai debitori insolventi. Risolto il problema – in senso negativo - sulla ammissibilità della legittimazione ad agire del curatore nei confronti della banca creditrice [22], la giurisprudenza si è chiesta quali soggetti siano legittimati a ottenere il risarcimento per aver sofferto un danno derivante dalla maggior esposizione debitoria del cliente a seguito della concessione di credito da parte della banca, consapevole delle difficoltà in cui versava il debitore. Il dissesto economico dell’impresa ovviamente si aggrava con la concessione di credito, e i creditori diversi dalle banche, se non sono assistiti da idonee garanzie, come normalmente lo sono le banche, rischiano di non acquisire alcunché in sede di riparto delle attività. Trattandosi di atto illecito, la competenza spetta al giudice del luogo in cui l’atto illecito è stato commesso [23]. Dell’illecito rispondono gli amministratori e l’azione – essendo fondata sulla responsabilità extracontrattuale – ha una prescrizione quinquennale [24]. I soggetti tutelati sono dunque: i depositanti, i fornitori della merce all’imprenditore fallito, gli azionisti della banca, i creditori diversi da quelli bancari se danneggiati dalla alterazione del principio della par condicio creditorum [25]. Per l’appunto a questa categoria appartengono i risparmiatori che abbiano subito danno per il dissesto provocato dalla concessione abusiva (dolosa o colposa) della banca alla società emittente i titoli in default. Tra i soggetti responsabili occorre annoverare anche i soggetti responsabilit del controllo interno e della revisione dei bilanci Qui ci stiamo però spostando dall’area di chi, per cosi’ dire, ha “fabbricato” il titolo, o ha costruito un impero di carta, e da chi ha collaborato a costruire questo processo criminoso, a chi doveva controllare perché questo disegno non potesse essere progettato e portato a termine. Si tratta del collegio sindacale, dei revisori interni, e delle società di revisione che esternamente controllano la contabilità e i bilanci delle società. Il problema del nesso causale tra il danno risentito dal risparmiatore e il comportamento illecito si attenua via via che ci si allontana da chi ha “fabbricato” il titolo o da chi lo ha negoziato o da chi ha violato le regole di corporate governance. La giurisprudenza tuttavia non si pone particolari problemi a questo riguardo, e considera il nesso causale in modo piuttosto elastico. La responsabilità della società di revisione è prevista per legge, dal testo unico sull’intermediazione finanziaria (d.lgs.n. 98 del 1993). La società di revisione risponde a titolo contrattuale per il danno risentito dalla società assoggettata alla revisione e a titolo di responsabilità civile per i danni risentiti dai terzi danneggiati, che possono essere gli acquirenti delle quote societarie che avevano confidato nei risultati della revisione per effettuare l’acquisto [26]. Si discute se sia possibile affermare anche la responsabilità degli organi di vigilanza, gli “administrative bodies” che nel nostro sistema, in quanto “autorità amministrative indipendenti”, potrebbero essere esonerate per il fatto che la disciplina che le istituisce e ne governa l’attività non è diretta alla tutela dei risparmiatori bensì della trasparenza del mercato in generale. L’omissione nel controllo del prospetto può comportare responsabilità della Consob? E l’omissione di controllo dei bilanci delle società quotate in borsa può comportare responsabilità della Consob? Le questioni che si affollano a questo riguardo sono molteplici, riguardando innanzitutto lo scopo della norma violata, poi il tipo di danno subito dai risparmiatori, poi il nesso causale tra il danno e l’omissione. In senso affermativo si è pronunciata una sentenza della corte di Cassazione, che tuttavia non può essere considerata un leading precedent perché fondata su una fattispecie in cui l’omissione di controllo dipendeva dalla intenzionale negligenza di alcuni componenti dell’organo di controllo [27]. In applicazione del principio di responsabilità sancito dalla Suprema Corte, la Corte d’ Appello di Milano, nel giudizio di rinvio, ha precisato che “la responsabilità della pubblica 22 Cass. 19.9.2003,n. 13934, in Dir.banca e mercato fin., 2004, p. 291 Cass. 19.9.2003,n. 13934 24 App.Bari, 17.6.2002, in Dir.fall., 2002,II, 951 25 Trib.Foggia, 6.5.2002, in Dir.comm.int., 2003, p. 561, con nota di Franchi. 26 Cass. 18.7.2002,n. 10403, in Giur.comm., 2003,II 441 Trib.Milano, 21.10.1999, in Giur.it. 2000, 554; App:Milano, 7.7.1998, in Giur.comm., 2000,II, 425 27 Cass. 3.3.2001,n. 3132 23 amministrazione per omissione colposa è configurabile allorché la legge obblighi la stessa a un comportamento attivo, nella fattispecie, di vigilanza, desumibile dalla normativa (…) che configura (….) un vero e proprio dovere di agire della Consob per impedire l’evento che si è concretizzato a danno dei risparmiatori a causa dell’omissione di vigilanza dello stesso organismo di vigilanza”. Anche se non esiste un incondizionato dovere della Consob di attivarsi sempre a protezione delle posizioni giuridiche vantate da terzi, la corte ha precisato che la responsabilità di quest’organo è fondata ove emergano, ictu oculi, elementi di sospetto sulla veridicità dei dati forniti dai proponenti l’operazione finanziaria, alla luce di evidenti falsità rilevabili dai documenti depositati dall’emittente. [28] A questo punto entrano in gioco non solo le regole di diritto, ma anche le considerazioni di analisi economica del diritto: in altri termini, come ripartire in modo razionale, ottimale, le risorse, i danni e le sanzioni? Dobbiamo tener conto non solo dei danni risentiti dai risparmiatori – distinguendoli comunque sempre nelle categorie di cui si accennava all’inizio – ma anche delle risorse che, nel caso fossero attinte dalle casse pubbliche (come nel caso della responsabilità della Consob), sarebbero sottratte agli altri risparmiatori e ad altri utilizzi. Ho molti dubbi che i rimedi di diritto privato, e, in particolare i rimedi giudiziali, riescano da soli a risolvere i problemi esposti, che hanno il loro versante di natura macroeconomica. Così come ho molti dubbi che una giurisprudenza erratica, che ora ammette ora nega il risarcimento, possa costituire la risposta adeguata ai crack finanziari. Così come ho molti dubbi che le sole regole affidate al mercato siano in grado di prevenire i crack finanziari ( i casi sopra citati propenderebbero per la certezza del market failure). Diritto privato e diritto pubblico, autodisciplina e controllo dei comportamenti e dei prodotti finanziari da parte degli organi di vigilanza potrebbero continuare a costituire un adeguato quadro di misure per prevenire o per curare queste evenienze. Ecco perché tanto ci aspettiamo dal legislatore, il cui ritardo non può che aumentare la nostra inquietudine. III L’etica della professione forense 1. L’etica professionale Sul piano teoretico si è accreditata l’idea che l’ etica professionale debba essere distinta dall’ etica generale. In questo senso i problemi enunciati sono sinteticamente riassunti in tre diversi momenti: (i) i doveri additivi; (ii) le deroghe ammesse dalla condizione professionale; (iii) gli imperativi morali dettati dalla coscienza professionale (Jackson, Duties and Conscience in Professional Practices, in Matter of Breath.Foundations for Professional Ethics, a cura di De Stexhe e Verstraeten, Leuven, 2000, p. 241 ss.; nello stesso senso v.Boon e Levin, The Ethics and Conduct of Lawyers in England and Wales,Oxford e Portland, 1999, p. 195 ss.). Ciascuna di queste dimensioni pone interrogativi a cui si deve dare risposta. E la risposta, per il professionista, si rinviene nella legge e nei codici deontologici. In questa prospettiva, appare corretto ritenere che il professionista debba osservare regole etiche additive rispetto alla persona comune, che il professionista possa essere sollevato – in casi di eccezione – dall’osservanza delle regole comuni, che il professionista non sia tenuto ad operare in conflitto con la propria coscienza. In ogni caso, il professionista deve essere affidabile e quindi deve agire secondo correttezza. Le regole etiche – come peraltro le regole giuridiche – non sono scolpite sulla pietra, non sono immutabili, sono sempre oggetto di interpretazione; insomma, come non si può ipostatizzare il valore della “certezza del diritto”, così non si può mitizzare la “certezza dell’etica”. E’ in questa ansia di ricerca e di tensione verso una morale professionale che siamo impegnati diuturnamente nello 28 App.Milano, 21.10.2003 svolgimento della nostra attività. In altri termini, le regole etiche sono proprie di un sistema culturale e di un sistema giuridico in cui maturano e di consolidano. E’ rilevante sottolineare che i principi che regolano il comportamento dell’avvocato affondano nella storia le loro radici. John Baker, nel descrivere la storia del diritto inglese si riferisce alla prassi forense come ad un “corpo di regole” parallelo a quello creato dal Parlamento e dalle corti, separato da questo e osservato con continuità in Inghilterra dal Medio Evo ad oggi (Hazard e Dondi, Legal Ethics. A Comparative Study, Stanford, 2004, p. 3; Brooks, Lawyers, Litigation and English Society since 1450, Londra, 1998). La costruzione di queste regole concerne sia la formazione, sia l’accesso all’esercizio della professione, sia i campi di intervento, sia i rapporti con il cliente e con il giudice: ovviamente si tratta di un percorso segnato dalla tipicità degli ambienti culturali e sociali in cui esso si dipana (Padoa Schioppa, Italia ed Europea nella storia del diritto, Bologna, 2003, p. 310 ss.). Anche le categorie di avvocati – e quindi le regole di appartenenza – cambiano a seconda degli ambienti: come avviene per la distinzione tra barrister e solicitor, avocat e avoué, avvocato e procuratore. Si può riscontrare tuttavia nell’ Europa occidentale una certa omogeneità di regole di comportamento che si ispira ai principi di indipendenza, autonomia, correttezza e lealtà, rapporto fiduciario con il cliente, segretezza, specchiatezza di costumi (Hazard e Dondi, op.cit., p. 43 ss.) mentre negli Stati Uniti d’America già dall’ Ottocento si accredita l’idea che il rapporto abbia eminentemente natura economica, sicché è ammesso il patto di quota lite (Friedman, Storia del diritto americano, Milano, 1995). Queste regole appartengono ad un settore delle scienze sociali la cui denominazione di “deontologia” sembra ascrivibile a Bentham, figurando nel titolo della sua opera postuma Deonthology or the science of morality apparsa nel 1834. E dal punto di vista sociologico, esse appartengono all’autodisciplina dei corpi professionali, in quanto conferiscono stabilità e organizzazione al gruppo (Durkheim, Professional Etthics and Civic Morals, trad. ingl., Londra, 1957, p.9). 2. La sorte delle regole deontologiche Essendo nei tempi moderni queste regole collocate nell’ambito di sistemi giuridici che sono organizzati mediante una gerarchia delle fonti, in ciascun sistema si è data risposta a tre interrogativi fondamentali: (i) se queste regole rimangano sul piano etico, cioè metagiuridico o se siano inglobate nel sistema giuridico, e, in questo caso, (ii) quale posto occupino nell’ambito della gerarchia, e (iii) esse abbiano la medesima natura qualunque sia la professione esercitata, oppure le regole concernenti la professione forense abbiano una loro specificità che incide sulla loro stessa natura giuridica. Nell’esperienza inglese le regole riguardanti le professioni hanno una natura più ampia rispetto alle regole giuridiche, esse variano a seconda delle professioni considerate, prescrivono standard di comportamento. In ogni caso, sono norme che vincolano gli appartenenti alla categoria professionale (Boon e Levin, op.cit., p. 9), ma le regole professionali che riguardano gli avvocati hanno una loro propria specificità, che emerge sopratutto con l’emergere del capitalismo e dei sistemi giuridici moderni incentrati sullo Stato (Boon e Levin, op.cit., p. 43). Il ruolo dell’avvocato è associato alla amministrazione della giustizia e alla difesa dei diritti e quindi assurge ad un ruolo avente valore costituzionale (op.cit.,p. 63 ss.). Nell’Europa continentale, in molte esperienze Stato ha inglobato le regole deontologiche, formulate con principi molto ampi ed elastici, nel suo proprio ordinamento. In Francia, ad es., questa operazione è avvenuta molto in ritardo rispetto all’esperienza italiana, con la l. n. 71-1130 del 31.12. 1971, poi modificata nel 1990 e ancora nel 2004. Presso di noi, la prima legge professionale dello Stato unitario risale, come è noto, al 1874 ( Cavagnari e Caldara, Avvocati e procuratori, voce del Dig.It., 1893-1896, rist. a cura di G.Alpa, Bologna, 2004) ed è stata riformulata con r.d.l. 27.11.1993,n. 1578 (“Ordinamento della professione di avvocato”, conv. In l. 22.1.1934,n. 36, c.d. legge professionale, e relativo reg. 22.1.1934,n.37). L’art.12 della l.p. dispone che gli avvocati “debbono adempiere al loro ministero con dignità e decoro, come si conviene all’altezza della funzione che essi sono chiamati ad esercitare nell’amministrazione della giustizia”; i Consigli dell’ordine “vigilano sul decoro dei professionisti” (art.14); “gli avvocati che si rendono colpevoli di abusi o mancanze nell’esercizio della loro professione o comunque di fatti non conformi alla dignità e al decoro professionale”. Il regolamento precisa le regole processuali concernenti il procedimento disciplinare presso gli Ordini e presso il Consiglio nazionale forense. Avverso le decisioni dei Consigli l’interessato e il p.m. presso la Corte d’Appello possono proporre ricorso al CNF (art. 50 l.p.), il quale si pronuncia sul ricorso ex art. 54 l.p.; la procedura dinanzi al CNF è disciplinata dal regolamento (art.47 ss.). Avvero le decisioni del CNF gli interessati e il p.m. possono proporre ricorso alle Sezioni unite della corte di Cassazione (ex art. 56 l.p. e art. 66 ss. del reg.) per: incompetenza, eccesso di potere, violazione di legge. La formula corrisponde grosso modo ai nn. 2 (“violazione delle norme sulla competenza”), 3 (“violazione o falsa applicazione di norme di diritto”) 5 ( “omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile d’ufficio”) di cui al c. 1 dell’art. 360 c.p.c. Quanto al vizio di “eccesso di potere” la Corte ha precisato che tale motivo deve essere interpretato alla luce della natura giurisdizionale – e non amministrativa – del CNF, e quindi deve essere inteso come “eccesso di potere giurisdizionale”, cioè l’attribuzione all’organo giudicante di un potere che spetta invece al altro organo (Cass.SS.UU., 24.8.1999,n. 598) Ma occorre considerare che il CNF ha competenza anche nel merito e che può riformulare i capi di incolpazione. In ogni caso, secondo la giurisprudenza della Suprema Corte, al di là dei motivi di ricorso di cui all’art. 360 c.p.c., è comunque proponibile ricorso alla Corte medesima sulla base dell’art. 111 Cost. (V. ad es., Cass. SS.UU. 23.3.2004,n. 5776). 3. La natura delle norme deontologiche Secondo l’orientamento più recente della Suprema Corte nell’ambito della espressione “violazione di legge” di cui al c.7 dell’innovato disposto dell’art. 111 Cost., deve essere ricompressa anche la “violazione delle norme di codici deontologici degli ordini professionali trattandosi di norme giuridiche obbligatorie valevoli per gli iscritti all’albo ma che integrano il diritto soggettivo ai fini della configurazione dell’illecito disciplinare” (Cass. SS.UU. n. 5576 del 2004, cit.). Le argomentazioni utilizzate dalla Suprema corte per pervenire a detto risultato sono molteplici. Si è ritenuto, per un verso, che le norme deontologiche discendono dall’ autonomia degli Ordini (Cass. SS.UU., 12.3.2004,n. 5164). A cui la legge demanda un potere disciplinare che è insindacabile dal giudice, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge (Cass. SS.UU. 11.3.2002,n. 3529); per altro verso, si è affermato che il controllo perviene alla ragionevolezza della decisione, che altrimenti sfugge alla cognizione del giudice (Cass.SS.UU. 10.12.2001,n. 15601). Non è pertanto possibile sindacare la sufficienza o la congruità della motivazione (Cass. SS.UU., 10.12.2001,n. 15600). Solo nel caso di decisione non sostenuta da alcuna “ratio” o di motivazione apparente, priva di ogni intrinseco fondamento, si giustifica il sindacato del giudice (Cass.SS.UU., n. 15660 del 2001, cit.). Altre pronunce hanno invece considerato le regole recepite nel codice forense come principi di natura consuetudinaria (Cass.SS.UU., 26.2.1999,n. 103). Ed altre ancora hanno qualificato le norme deontologiche ( nel caso, previste dal codice applicato ai medici) come “precetti extragiuridici”, regole interne alla categoria e non atti normativi (Cass.SS.UU., 10.2.2003,n. 1951, che riprende il dictum espresso nella sentenza n. 3239 del 1993). Diverse sono dunque le ragioni che fondano il valore delle regole deontologiche. Nella rassegna delle argomentazioni, si possono elencare: (i) l’argomentazione formale, che si affida alla legge professionale, in particolare agli artt. 54 e 56, che statuiscono il potere giurisdizionale del CNF; (ii) l’argomentazione formale che richiama il precetto generale concernente l’esercizio della professione forense, la quale deve conformarsi a dignità e decoro (art.12 l.p. cit.); in tal caso le decisioni degli Ordini e del CNF non fanno che specificare l’illecito disciplinare riportandolo a fatti e comportamenti che contravvengono la clausola generale; (iii) l’argomentazione ermeneutica che equipara le regole come previste nei codici a “principi generali”; (iv) l’argomentazione ermeneutica che individua nelle regole norme consuetudinarie; (v) l’argomentazione inerente al diritto privato di autodisciplina degli Ordini ( e del CNF) in base alla quale gli iscritti alla categoria debbono osservare le regole che la categoria si è data nell’ambito del proprio potere regolamentare (c.d. regolamenti privati). Tuttavia: - le argomentazioni sub (i) e (ii) potrebbero essere superate dalla modificazione legislativa delle disposizioni invocate; - l’argomentazione sub (iii) potrebbe essere superata dal disconoscimento del principio generale; - l’argomentazione sub (iv) potrebbe essere superata dal disconoscimento della norma consuetudinaria; - l’argomentazione sub (v) potrebbe essere superata da una legge che limitasse l’autonomia privata degli ordini di professionali. In più: - l’argomentazione sub (iii) cristallizza le norme in quanto desunte per via logico-induttiva dalle disposizioni che fondano i principi generali; - l’argomentazione sub (iv) cristallizza le norme impedendo la modificazione dei codici che non si limitassero a recepire la consuetudine, ma la innovassero. 4. Il fondamento del potere disciplinare. Il discorso conduce dunque ad individuare il fondamento del potere disciplinare. A questo riguardo si è puntualmente precisato che esso non è Extra-giuridico, ma tutt’al più extra-legislativo (D’Angelo, La deontologia dell’avvocato, ne Le fonti di autodisciplina.Tutela del consumatore, del risparmiatore, dell’utente, a cura di P.Zatti, Padova, 1996, p. 123), e conferito agli Ordini in ragione della tutela degli interessi del cliente. In altri termini, riconoscendo tra le fonti del diritto anche le regole che autonomamente si dànno le categorie professionali, il compito dell’organo disciplinare consiste nell’applicazione del precetto legislativo formulato in una clausola generale ( “dignità e decoro”) tipizzando il comportamento ritenuto illecito e sussumendolo nella clausola. E più di recente si è sostenuto che occorre distinguere il fondamento del potere disciplinare che trova riferimento in una disposizione di legge, dalla sua applicazione pratica a singole fattispecie, che invece è il risultato di un procedimento ermeneutico (Perfetti, Le fonti della deontologia professionale. I rapporto tra le norme dell’ordinamento professionale e quelle del codice deontologico, in corso di pubbl. su La nuova giur.civ.comm., 2005). Le argomentazioni inerenti la natura delle norme deontologiche si possono allora circoscrivere a tre diverse alternative: − la loro posizione in conformità al dettato legislativo, il che presuppone che la legge intesa in senso formale attribuisca all’organo disciplinare il compito di dettare regole deontologiche; e, se si vuole ampliare l’enunciato, in conformità a principi generali desumibili dal dettato legislativo; − la loro posizione in conformità a regole di comportamento osservate in via consuetudinaria; − la loro posizione in virtù dell’autonomia privata di categoria. Se queste premesse sono corrette, occorre inserire nel discorso una valutazione che inerisce alla specificità del codice deontologico considerato: ad es., appartiene alla prima categoria il codice dei notai, la cui legge professionale esplicitamente prevede il potere di dettare regole deontologiche; appartiene alla terza categoria il codice di autodisciplina pubblicitaria ed i codici che altre categorie si sono dati ( come Anasf e Assoreti); mentre alla categoria forense si applicano regole che la legge genericamente riassume in una clausola generale e quindi sono desunte indirettamente da questa (Perfetti, op.cit.). Con riguardo alla categoria forense si potrebbe riprendere un principio che si rifà alle regole consuetudinarie. In questo caso, la consuetudine appare doppiamente legittimante: del potere normativo degli Ordini ( e del CNF), in quanto esercitato dia primi fin dal 1874 e dal secondo dalla data della sua istituzione, nel 1926; dei singoli precetti enucleati e raccolti nel codice, in quanto osservati e fatti osservare. In questo senso, il CNF avrebbe potere modificativo del codice in quanto recepisce doveri deontologici di volta in volta emergenti dalla realtà sociale. La deontologia forense, come sopra si è sinteticamente riportato, obbedisce, in ambito europeo, a principi uniformi, salve le differenziazioni legate alla cultura e alle tradizioni delle singole esperienze. La “europeizzazione” delle regole deontologiche, promossa dal CCBE, amplia la prospettiva fin qui coltivata: le garanzie riconosciute in capo all’Avvocatura superano i confini nazionali, e diventano dunque oggetto di una fonte superiore all’ordinamento nazionale, derivante dal diritto comunitario. Le regole deontologiche debbono essere conformi al diritto comunitario, non possono costituire barriere nell’esercizio dell’attività professionale, ma al tempo stesso costituiscono un fattore di qualità della prestazione professionale. Occorre ancora rammentare che la giurisdizione esclusiva del CNF – anteriore alla normativa costituzionale – non è stata posta in dubbio dalla giurisprudenza costituzionale. E’ ovvio che questo discorso è circoscritto alla categoria forense, e alle funzioni dell’avvocato, che sono correlate al diritto di difesa, riconosciuto non solo dalla Carta costituzionale ma anche dalla Carta di Nizza incorporata nella Costituzione europea. Di qui dunque due considerazioni consequenziali: il codice deontologico forense non può essere abrogato da norme ( anche primarie) del legislatore nazionale, in quanto esso afferisce alla normativa ( se si vuole consuetudinaria) di fonte europea; né può essere “approvato” o sindacato da approvazioni ministeriali, dal momento che l’atto amministrativo di riconoscimento deriverebbe da fonte inferiore a quella su cui si fonda il codice, e non potrebbe che essere ricognitivo delle norme in esso contenute.