Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia
Facoltà di Scienze della Comunicazione e dell’Economia
Corso di Laurea Specialistica in Economia e Gestione delle Reti e dell’Innovazione
The Global Saving Glut
the Bernanke’s point of view about the U.S. current account
deficit and the most important critics he received
Economia Internazionale
Anno Accademico 2005/06
Prof. Andrea Ginzburg
Relazione a cura di:
Fabio Ruini
Matricola nr. 7496
1
2
Introduzione
Sotto molti punti di vista, l’economia statunitense sembra in questo momento godere di buona
salute. La crescita della produzione è tornata su buoni livelli, il mercato del lavoro si sta rafforzando
e l’inflazione sembra essere sotto controllo. Ma vi è un aspetto che preoccupa molti economisti:
l’ampio deficit delle partite correnti, che negli ultimi anni è cresciuto a dismisura1 e che i previsori
si aspettano confermi anche nel futuro questo trend2.
Vi sono almeno due approcci diversi allo studio del deficit delle partite correnti. Uno che collega il
deficit al modello di commercio; un altro che si focalizza su risparmi, investimenti e flussi
finanziari internazionali. A prima vista, considerando inoltre che queste due prospettive derivano
dalle medesime identità contabili di base, sembrerebbe ragionevole ipotizzare che il saldo delle
partite correnti di un Paese sia influenzato da entrambe queste famiglie di variabili. Come vedremo
nel dettaglio in seguito, non tutti gli economisti sono però propensi ad un’analisi incrociata del
fenomeno e preferiscono concentrarsi su uno dei due lati della medaglia.
Il primo punto di vista, che si basa sui flussi commerciali internazionali e sui relativi flussi contrari
di pagamento, è piuttosto intuitivo. Da diversi anni a questa parte, gli Stati Uniti hanno fatto
registrare un ampio e crescente disavanzo della propria bilancia commerciale. Riflettendo questo
squilibrio, i pagamenti indirizzati da cittadini statunitensi verso cittadini stranieri (principalmente i
corrispettivi per le importazioni, ma anche interessi, dividendi e spese varie correlate alle
transazioni) hanno di gran lunga superato i pagamenti rivolti dall’estero verso i cittadini
nordamericani. Questa differenza è uguale, per definizione, al deficit delle partite correnti3. Quando
vi è un deficit di partite correnti, gli attori economici coinvolti4 devono “finanziarlo”, attingendo la
parte mancante (appunto il deficit) dai mercati internazionali di capitali. In un dato periodo di
tempo, l’indebitamento netto con l’estero di un Paese è quindi uguale al suo deficit di partite
correnti, a sua volta strettamente correlato ad un disavanzo nel commercio internazionale.
Un’analisi che si focalizzi sugli aspetti commerciali del problema richiederebbe un’ampia base di
dati sulla quale lavorare alla ricerca di trend e correlazioni di vario genere tra le migliaia di
variabili, prevalentemente socio e microeconomiche, esistenti. E’ comprensibile, dunque, che gli
economisti “puri” tendano ad osservare il problema dal punto di vista a loro più consono, ossia
quello delle variabili finanziarie macroeconomiche.
Proprio su questo apparato di base si instaurano le tesi che andremo ad analizzare nel cuore di
questa breve relazione. Innanzitutto vedremo l’idea che del problema delle partite correnti USA si è
fatto il neo-governatore della Federal Reserve americana, Ben Bernanke; dopodiché passeremo ad
analizzare due articoli che mettono in discussione proprio l’idea di fondo espressa da “Helicopter
Ben”. Verrà infine proposto un modello previsionale, basato su algoritmi genetici e reti neurali, il
1
Si è infatti passati dai 120 miliardi di dollari di deficit del 1996 (quando ciò corrispondeva all’1,5% del PIL), ai 414
miliardi del 2000 (corrispondenti al 4,2% del Prodotto Interno Lordo).
2
I dati, usciti da pochi giorni, relativi al terzo trimestre del 2005 evidenziano una leggera diminuzione del deficit di
parte corrente. Si tenga però in considerazione l’enorme flusso di denaro arrivato negli USA, sotto forma di donazioni e
pagamenti assicurativi, dopo la tragedia dell’uragano Kathrina. La posizione finanziaria internazionale degli USA
sembra destinata ancora a peggiorare, come suggerisce il nuovo record negativo registrato nel saldo della bilancia
commerciale (-68,9 miliardi di dollari).
3
In realtà, nella definizione dell’OCSE, le partite correnti sono calcolate come: “the sum of the balance of goods, nonfactor services, investment income and current transfers (which consist of all transfers that are not transfers of
capital)”.
4
Possiamo identificare questi attori economici come le famiglie, lo Stato e le imprese che fanno riferimento al Paese
che accusa un deficit di partite correnti.
3
cui obiettivo è stimare, da un punto di vista puramente statistico, quale potrebbe essere l’evoluzione
nel breve-medio periodo del saldo delle partite correnti statunitensi.
4
Il punto di vista del governatore Ben S. Bernanke
Come accennato nell’introduzione, diversi osservatori si sono focalizzati sugli aspetti
“commerciali” della questione del deficit delle partite correnti americane, ascrivendo l’andamento
fortemente crescente a fattori quali un cambiamento nella qualità o nella composizione dei prodotti
statunitensi e di quelli fatti all’estero, una modificazione delle politiche commerciali oppure un
aumento delle pratiche di concorrenza sleale all’estero.
Bernanke chiarisce fin dalle prime righe del suo articolo come non ritenga plausibile il fatto che il
deficit commerciale degli Stati Uniti possa da solo giustificare l’impennata del deficit di parte
corrente fatta registrare negli ultimi anni: “la bilancia commerciale non è altro che la coda del
cane: per la maggior parte, essa è determinata passivamente dagli introiti domestici ed esteri, dai
prezzi dei beni, dai tassi d’interesse e da quelli di cambio, che sono a loro volta il prodotto di forze
economiche trainanti ad un livello più basilare”. Prima di andare ad approfondire il suo discorso,
l’economista intende spazzare via le teorie “made in USA” avanzate da diversi suoi colleghi per
spiegare il deficit. La sua idea è che le vere cause debbano essere ricercate all’esterno degli Stati
Uniti, pertanto sostenere che le partite correnti siano in deficit perché vi è poco risparmio nazionale5
è tautologico. Coloro che invece focalizzano l’attenzione sul problema dei “twin-deficits”,
sostenendo che il deficit pubblico alimenti quello di parte corrente, semplicemente non sono buoni
osservatori: tra il 1996 ed il 2000 il budget federale americano è stato in avanzo, ma nonostante
questo il saldo delle partite correnti è crollato di 300 miliardi di dollari.
Qual è dunque, per Bernanke, il motivo che sta alla base di questa impennata del deficit di parte
corrente? L’economista americano sostiene che, nonostante le politiche economiche interne degli
Stati Uniti abbiano certamente avuto un ruolo nell’esplosione del fenomeno, una spiegazione
soddisfacente di quest’ultimo necessita di essere contestualizzata all’interno di una prospettiva
globale. In particolar modo, il nuovo governatore della Federal Reserve punta il dito contro
l’aumento del risparmio nel mondo, ipotizzando che vi sia stata negli ultimi 8-10 anni la formazione
di una vera e propria “global saving glut”, capace di spiegare non solo il deficit delle partite correnti
americane (fenomeno comune, come vedremo più avanti, alla maggior parte dei Paesi
industrializzati), ma anche il basso tasso d’interesse reale a lungo termine diffuso oggi nel mondo.
Vediamo allora come Bernanke spiega la formazione di questa bolla globale di risparmio. In primo
luogo, la prospettiva di un deciso aumento nel rapporto pensionati-lavoratori attivi, che accomuna la
quasi totalità dei Paesi industrializzati, è una delle principali ragioni dell’alto livello mondiale di
risparmio. Popolazioni progressivamente più anziane coincidono infatti con una sempre decrescente
proporzione della forza lavoro attiva, dalla quale conseguono minori opportunità di investimento
domestico. Ma vi è anche un altro aspetto rilevante, ossia il recente rovesciamento che ha avuto
luogo nei tradizionali flussi di credito che avevano come destinazione i Paesi in via di sviluppo.
Questi ultimi si sono paradossalmente trasformati, nel contesto dei mercati dei capitali, da debitori a
finanziatori netti. La trasformazione è testimoniata dai dati: tra il 1996 ed il 2003, le partite correnti
degli USA sono crollate di 410 miliardi di dollari. E siccome la somma delle posizioni di tutti i
Paesi del mondo deve essere zero, dove si sono spostati tutti questi dollari? Considerando anche le
eccezioni costituite da Germania e Giappone6, che hanno visto migliorare la propria posizione di
parte corrente, i Paesi industriali nel loro complesso hanno incamerato soltanto 22 dei 410 miliardi
persi dagli Stati Uniti, imitando il trend negativo americano. Il bilanciamento si è infatti ottenuto
con i Paesi in via di sviluppo, che sono passati da un deficit complessivo di 88 miliardi ad un
surplus di 205.
5
Oltre ad essere basso, il risparmio nazionale americano tende a diminuire negli anni. Se nel 1985 corrispondeva al
18% del PIL, nel 1995 era sceso al 16% e nel 2004 è arrivato a toccare quota 14%.
6
Paesi sui quali Bernanke, neppure troppo velatamente, punta il suo dito accusatorio.
5
Il governatore della FED indica tra le cause di questo rovesciamento dei ruoli le varie crisi
finanziarie7 che si sono succedete nel recente passato, attraversando i Paesi in via di sviluppo nel
momento in cui essi erano importatori netti di capitali. In risposta a queste crisi, le cui radici sono
molteplici8, i Paesi coinvolti “hanno scelto o sono stati costretti” ad adottare nuove strategie di
gestione dei flussi di capitale internazionali. Strategie che, in generale, implicavano la
trasformazione del proprio status, da quello di importatori netti di capitali finanziari a quello di
esportatori netti, talvolta per quantità anche molto ingenti. Korea del Sud e Tailandia, ad esempio,
sono state costrette ad acquistare ampie riserve costituite da moneta di scambio straniera, generando
un surplus nel loro saldo delle partite correnti. Anche i Paesi che non sono stati coinvolti
direttamente nelle crisi, come la Cina, hanno preso spunto dagli accadimenti in corso per costituire
“war chests” di valuta-riserva straniera. L’utilità di questa mossa è indubbia: le riserve possono
infatti essere utilizzate come tampone in caso di potenziali fuoriuscite di capitali, ma anche ai fini di
promuovere una crescita guidata dalle esportazioni, evitando così i rischi derivanti da una
rivalutazione monetaria. Quello che i governi dei Paesi in via di sviluppo hanno fatto, in sostanza, è
stato agire da intermediari finanziari, “veicolando” i risparmi dei privati (con l’espediente di
istituire titoli di debito per i propri cittadini) verso Buoni del Tesoro ed altri assets statunitensi.
Infine, altro fattore da tenere in considerazione per spiegare il mutamento della posizione debitoria
dei Paesi in via di sviluppo, è l’incremento del prezzo del petrolio, che è andato a favorire
direttamente i Paesi “petroliferi” (non solo quelli mediorientali, ma anche Russia, Nigeria e
Venezuela), aumentandone i ricavi che essendo espressi in valuta straniera (dollari) si riflettono
immediatamente sulle partite correnti.
Abbiamo dunque visto quali potrebbero essere stati i motivi che hanno portato i Paesi in via di
sviluppo a trasformarsi in esportatori netti di capitali. Ma qual è il motivo per cui la quantità di
risparmio nei Paesi industrializzati, invece che aumentare come dovrebbe per via di fattori
demografici, è drasticamente diminuita? Bernanke non ritiene soddisfacente esaurire il discorso con
una spiegazione esclusivamente “anagrafica”, ma bensì identifica come forze trainanti aggiuntive
dello spostamento dei risparmi, il tasso di cambio del dollaro e gli aggiustamenti negli “assets
prices”.
Nel periodo compreso tra il 1996 ed il 2000, i prezzi dei titoli azionari hanno giocato un ruolo
“equilibrativo” chiave nel contesto dei mercati finanziari internazionali. L’adozione di nuove
tecnologie e la conseguente produttività crescente degli USA, unitamente a rilevanti vantaggi
sociali (forti diritti della proprietà, basso rischio politico, ecc…) ha reso gli Stati Uniti un Paese
estremamente attraente per gli investitori internazionali. I capitali sono quindi affluiti in maniera
copiosa nel sistema americano9, alimentando un ampio apprezzamento dei titoli borsistici e del
tasso di cambio del dollaro. Da una prospettiva commerciale interna, gli alti valori dei titoli
azionistici statunitensi hanno fatto aumentare la propensione al consumo dei cittadini USA, ivi
compresa la propensione al consumo di beni d’importazione. I profitti realizzati sui mercati azionari
hanno indotto inoltre un aumento degli investimenti in beni capitali, migliorando le aspettative di
guadagni futuri e riducendo la necessità percepita di risparmiare nel breve periodo.
Dopo lo scoppio della bolla borsistica, iniziato nel marzo 2000, gli investimenti in beni capitali e le
richieste di finanziamento sono crollate in tutto il mondo ed il livello globale di risparmio
desiderato è tornato ad essere forte. Ci si sarebbe aspettati che, con un livello di risparmio
7
Messico 1994, Sud-Est Asiatico 1997-98, Russia 1998, Brasile 1999, Argentina 2002.
Bernanke identifica: mancanza del necessario consolidamento fiscale, sistemi bancari governati in maniera non
appropriata, mancanza di abitudine al prestito, tassi di cambio sopravvalutati, debiti spesso a breve termine e
denominati in valuta straniera. Schulmeister, come vedremo nel paragrafo dedicato al suo articolo, si soffermerà
soprattutto sul tasso di cambio del dollaro.
9
E, in misura minore, nei sistemi borsistici di altri Paesi industrializzati.
8
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desiderato superiore rispetto a quello degli investimenti desiderati, il tasso d’interesse reale
diminuisse per riequilibrare la situazione. Ma i tassi reali di interesse erano attestati su livelli
assoluti piuttosto bassi già da diversi anni, non solo negli USA ma anche all’estero. Ecco dunque
che emerge un’altra possibile spiegazione del basso livello di risparmio statunitense: osservando il
mercato degli investimenti residenziali, dove i bassi tassi ipotecari hanno supportato un livello
record di nuove costruzioni residenziali e forti aumenti nei prezzi delle abitazioni, è infatti possibile
trovare un notevole incentivo al consumo ed ai conseguenti “non-risparmio” e dipendenza degli
USA dai flussi di capitali esteri.
Per quando detto sinora, dunque, eventi accaduti all’esterno dei confini statunitensi, come le crisi
finanziarie che hanno colpito i Paesi emergenti, hanno giocato un ruolo importante nel deficit delle
partite correnti americane, interagendovi in maniera “endogena” con modifiche dei valori dei titoli
azionari, dei prezzi delle case, dei tassi d’interesse reali e del tasso di cambio del dollaro. Ma
perché, tra tutti i Paesi industrializzati, sono stati proprio gli USA a subire maggiormente gli effetti
dell’aumento del livello di risparmio globale desiderato? Innanzitutto Bernanke onora il suo nuovo
ruolo governativo, attribuendo la “colpa” all’attrattività degli Stati Uniti per gli investitori stranieri,
dovuta anche al boom tecnologico degli anni ’90 ed al livello di sofisticazione raggiunto dai mercati
finanziari. Inoltre vi è da considerare il ruolo del dollaro quale “moneta internazionale”, spesso
utilizzato dai Paesi in via di sviluppo sia come moneta di riserva, sia come parametro per fissare il
valore della valuta locale. Il prestigio di cui gode la moneta americana fa dunque sì che gli
investitori dei Paesi emergenti si orientino verso assets emessi in dollari, come ad esempio i buoni
del tesoro USA. Questo ha effetti sia sul tasso di cambio del dollaro, sia sul tasso d’interesse
americano ed ha probabilmente causato la sopravalutazione del dollaro sul finire degli anni ’90, che
ha a sua volta peggiorato il saldo delle partite correnti USA.
Bernanke arriva dunque alle conclusioni della sua analisi, provando a tracciare un bilancio dei
fenomeni cui ha fatto riferimento.
Nel breve periodo, sostiene, gli effetti sono stati senz’altro positivi per i Paesi in via di sviluppo,
che sono riusciti a rafforzare i propri saldi di parte corrente e ridurre i rischi di crisi finanziarie,
saldando una parte dei propri debiti internazionali e stabilizzando il tasso di cambio delle loro
valute. Ma per i Paesi emergenti non dovrebbe essere desiderabile mantenere nel lungo periodo
questa posizione di finanziatori internazionali. La popolazione dei Paesi industrializzati sta
progressivamente invecchiando e ciò implica, per questi Stati, opportunità di investimento
domestico sempre più ridotte unitamente ad una crescente propensione al risparmio (necessaria per
garantire la pensione alla ex-forza lavoro). Situazione radicalmente diversa quella dei Paesi in via di
sviluppo, dove la forza lavoro è molto più giovane ed il costo del lavoro decisamente inferiore. Ne
consegue che il ritorno garantito dagli investimenti effettuati in Paesi emergenti è sicuramente
maggiore rispetto a quello che può offrire un Paese industrializzato10. La logica, dunque,
sembrerebbe suggerire che prima o poi i capitali dovranno ristabilire il loro flusso naturale dai Paesi
ricchi verso quelli più poveri.
Una seconda questione riguarda poi l’utilizzo di questo credito internazionale da parte degli Stati
Uniti e dagli altri Paesi industriali vittime di deficit esterni. Data la natura ciclica degli investimenti
in beni capitali, attestati negli ultimi anni su di un livello piuttosto basso, i flussi di capitali verso i
Paesi industrializzati si sono concentrati nella direzione dell’edilizia residenziale, con l’aumento dei
tassi di crescita del settore e dei prezzi delle abitazioni. Gli alti prezzi delle abitazioni hanno
incoraggiato l’aumento dei consumi; tassi crescenti di proprietà residenziale e consumi sono
sicuramente dati positivi per un’economia, ma nel lungo periodo i miglioramenti di produttività
dovranno presumibilmente essere guidati da investimenti non residenziali, quali gli acquisti di
10
Sebbene il livello di rischiosità sia comunque molto differente, cosa che Bernanke non sottolinea.
7
macchine industriali. Più aumentano i consumi e gli investimenti residenziale, tuttavia, tanto più
sarà probabile che in futuro si riescano a saldare i debiti contratti oggi.
Se è vero che la situazione USA è destinata a mantenersi nel medio e magari anche nel lungo
periodo, prima di tornare verso un certo equilibrio, il rischio che si corre è di un brusco e
disordinato aggiustamento dei mercati finanziari, che potrebbe avere effetti devastanti, non solo
sull’economia statunitense, ma anche su quella globale. Il risanamento del deficit delle partite
correnti statunitensi richiede infatti flussi di capitali stranieri in ingresso piuttosto consistenti, che
immancabilmente creerebbero enormi squilibri nel caso iniziassero copiosamente ad affluire. Quali
politiche intraprendere, allora, per gestire il deficit delle partite correnti statunitense? Bernanke
distoglie nuovamente l’attenzione dal deficit governativo, riferendosi ad analisi
economico/statistiche le quali sembrerebbero mostrare l’inesistenza di un rapporto significativo tra
deficit del governo e deficit delle partite correnti. Un primo passo, sicuramente non risolutivo, ma
comunque nella giusta direzione, potrebbe essere quello di promuovere politiche che disincentivino
globalmente il risparmio privato. Ma, secondo il governatore della FED, le possibilità di manovra
degli Stati Uniti sono limitate, in quanto la maggior parte delle ragioni chiave dell’ampio deficit
delle partite correnti risiede all’estero. A suo dire occorre dunque intervenire direttamente nei
confronti dei Paesi in via di sviluppo, facendo rientrare i capitali nei Paesi di origine e ristabilendo
la loro posizione “originaria” di debitori netti. Fornendo assistenza a questi Paesi emergenti, in
maniera tale da rafforzare le loro istituzioni finanziarie (più rigide regolamentazioni dei sistemi
bancari, maggiore trasparenza, ecc…), si potrebbero ridurre al minimo i rischi di crisi finanziarie,
stimolando così gli investitori stranieri a concentrare i propri capitali su questi Paesi. Altri
cambiamenti arriveranno in maniera naturale col passare del tempo, come ad esempio la futura
flessibilità dei tassi di cambio delle monete dei Paesi in via di sviluppo, una volta che i loro governi
si saranno resi conto di possedere sufficienti riserve in moneta internazionale per garantirsi un
regime di tassi di cambio flessibili.
Il discorso di Bernanke appare ragionevole, ma risulta troppo benevolo nei confronti degli enti
monetari statunitensi, esentati di fatto da qualsiasi responsabilità diretta per l’attuale situazione
finanziaria. Come diversi esperti gli faranno notare, però, questa posizione che tende a minimizzare
il ruolo degli Stati Uniti (e soprattutto del dollaro americano) è suscettibile di una moltitudine di
critiche.
8
Le considerazioni di Zanny Minton Beddoes
A pochi mesi dal discorso tenuto in Virginia, nel quale il futuro governatore della Federal Reserve
annunciava per la prima volta la sua teoria della “global saving glut”, sulle colonne dell’Economist
appariva un accurato commento a firma di Zanny Minton Beddoes, direttrice della sezione
economica della prestigiosa rivista.
L’idea della “global saving glut” quale causa del perdurare del deficit americano di parte corrente, è
affascinante, sosteneva la Beddoes, in particolar modo poiché in grado di legare insieme due
particolari caratteristiche dell’odierno panorama economico statunitense: il basso livello dei tassi
d’interesse e la straordinaria crescita dei flussi di capitali diretti verso gli USA. L’economia
mondiale, nel corso dell’ultimo anno, è infatti cresciuta del 4,3%: un risultato inferiore rispetto a
quello registrato nel 2004, ma comunque molto positivo. La forte crescita economica è solitamente
accompagnata da alti tassi d’interesse, ma i tassi a lungo termine sono attestati sui loro livelli più
bassi dagli anni ’60 ad oggi. Se da qualche parte nel mondo i risparmi sono estremamente
abbondanti, l’abituale relazione tra economia forte ed alti tassi d’interesse non può reggere. E se il
risparmio eccessivo è localizzato principalmente all’estero, questo permette di finanziare il deficit
di un Paese in maniera piuttosto semplice: invece che evidenziare uno sperpero da parte americana,
il deficit delle partite correnti può dunque essere visto semplicemente come la controparte del
risparmio estero. Uno “sperpero” che comunque c’è, almeno nei dati. I cittadini americani, infatti,
spendono annualmente 700 miliardi di dollari11 in più di quanto la loro economia produca. E’
lampante come questo livello di spesa possa essere coperto esclusivamente mediante l’afflusso di
capitali dall’estero.
Questa dunque la visione di Bernanke, riassunta in maniera sintetica ed efficace dalla Beddoes. Ma
la giornalista dell’Economist si permette di criticare proprio l’assunto di partenza del neogovernatore, basandosi su di un’analisi condotta dalla IMF, la quale mostra come non sia affatto
vero che vi sia stato nel mondo un aumento del livello di risparmio. Al contrario, il risparmio
globale è oggi molto vicino al suo valore medio registrato nel corso degli ultimi 20 anni:
semplicemente è cambiata la sua distribuzione geografica. Secondo la Beddoes, tuttavia,
l’argomentazione di Bernanke è molto più sottile e questa sua osservazione statistica non inficia la
bontà generale del discorso. La sua idea infatti non è tanto quella che il risparmio sia alto in valore
assoluto, ma bensì che i bassi tassi d’interesse implichino una quantità di risparmio desiderato
maggiore rispetto a quelli che sono gli investimenti desiderati. Il crescente disavanzo tra USA e
resto del mondo suggerisce che questa discrepanza sia localizzata al di fuori dei confini americani,
alimentando così il problema del deficit di parte corrente degli Stati Uniti.
Da un lato abbiamo dunque uno scostamento del desiderio di investimento, dall’altro un mutamento
di dove è geograficamente localizzato il risparmio. Per quanto concerne il primo punto, si può
facilmente ed efficacemente argomentare che il mondo sta subendo profondi cambiamenti, tra i
quali la nuova posizione generale di molte imprese relativa alla gestione dei profitti, che le sta
trasformando in risparmiatrici nette12. Inoltre, dopo la crisi del sud-est asiatico del 1997 e lo scoppio
della bolla borsistica nel 2000, il livello degli investimenti è bruscamente diminuito sia negli Stati
Uniti che in Asia ed Europa. Un limitato appetito per gli investimenti può facilmente spiegare i
bassi tassi d’interesse diffusi un po’ ovunque13, ma non il crescente squilibrio tra i risparmi degli
Stati Uniti rispetto a quelli del resto del mondo. Per spiegare questo secondo aspetto, occorre
prendere in considerazione altri due fattori, ossia le differenze nelle strutture economiche dei vari
11
Un ammontare pari a circa il 6% del Prodotto Interno Lordo statunitense.
Profitti distribuiti maggiori rispetto ai nuovi investimenti.
13
Questo, poichè la manovra di politica economica “tradizionale” cui si ricorre per rilanciare gli investimenti è
tipicamente il taglio del tasso d’interesse.
12
9
Paesi e le differenti reazioni intraprese dai policymakers per fronteggiare il crollo degli
investimenti. Negli USA, nonostante lo scoppio della bolla investitiva fosse stato, sì marcato, ma di
dimensioni non eccessivamente preoccupanti, la reazione dei governanti è stata molto decisa. Tra il
2001 ed il 2003 sono stati tagliati i tassi a breve termine, innescando un boom nei prezzi delle
abitazioni. Tale aumento dei prezzi ha incoraggiato le ipoteche, sostenendo così i consumi e la
crescita economica nel suo insieme, ma alimentando il deficit delle partite correnti statunitensi.
Situazione ben più difficile quella che si è verificata all’altro estremo, l’Asia, dove le crisi
finanziarie del 1997/98 hanno fatto mediamente crollare gli investimenti di una misura pari al 10%
del PIL. L’impossibilità di tagliare i tassi d’interesse per il rischio di ulteriori drammatiche fughe di
capitali, ha fatto sprofondare le economie asiatiche nella recessione. Le esportazioni rimangono la
principale fonte di crescita di questi Paesi e per questo le loro valute devono essere mantenute il più
possibile “economiche”14. Per rimanere all’interno del continente asiatico, il Giappone, già grande
esportare di risparmio, alle prese con il problema della deflazione ha enormemente rafforzato la sua
posizione.
In pratica, buona parte del crescente sbilanciamento degli ultimi anni può essere spiegato dallo
scoppio di una serie di bolle di investimento, seguite a periodi di sovra-investimento, e dalle
conseguenti reazioni dei policymakers dei diversi Paesi. Ma altri due fattori sono altrettanto
importanti: l’aumento del risparmio in Cina15 ed il crescente prezzo del petrolio. Se il cambiamento
avvenuto in Cina non ha bisogno di spiegazioni, l’alto prezzo del petrolio ha influenza sul risparmio
se consideriamo che ha provocato una caduta finanziaria per i Paesi OPEC, che sembrano ora aver
scelto la strada del risparmio piuttosto che quella degli investimenti. Presi nel loro complesso, i
Paesi esportatori di petrolio sono oggi la principale controparte del deficit di parte corrente degli
Stati Uniti.
Tutti questi scostamenti hanno portato ad importanti ed inusuali conseguenze. Prima di tutto i
capitali viaggiano ora dai Paesi più poveri verso quelli più ricchi e non in direzione contraria, come
la logica del ROI dovrebbe invece suggerire. In secondo luogo, al di là della Cina, in tutti i Paesi i
risparmi delle famiglie (e non gli investimenti industriali) sono diventati il motore trainante della
crescita economica. I consumatori sembrano sempre più disposti ad indebitarsi e questa tendenza
può trovare conferma nella rapida crescita dei prezzi delle abitazioni in giro per il mondo.
Bernanke e la Beddoes concordano sul fatto che questi patterns siano lontani anni luce dalle “regole
classiche” dell’economia e che dunque non potranno reggere nel lungo periodo. La domanda da
porsi è quindi quando questo andamento inizierà a rovesciarsi. Una parte degli economisti
argomenta che il “global saving glut” teorizzato da Bernanke e supportato dalle considerazioni della
Beddoes sia un fenomeno ciclico e temporaneo: appena gli investimenti in Giappone ed Europa si
riprenderanno, i tassi d’interesse torneranno a salire e con loro il livello di risparmio desiderato. Se
la ripresa avrà luogo solo esternamente agli Stati Uniti, il surplus di risparmio lì destinato diminuirà
rapidamente, ma gli effetti negativi si rifletterebbero pesantemente sul dollaro, che presumibilmente
vedrebbe crollare il proprio valore. Altri economisti, tuttavia, sostengono che la bolla di risparmio
sia frutto di modificazioni strutturali di lungo periodo e potrebbe così durare per anni o addirittura
per decenni, prima di invertire la propria tendenza. Questo anche a causa delle politiche
“mercantiliste” dei Paesi asiatici, che esporteranno capitali per poter mantenere “economiche” le
proprie valute e non danneggiare di conseguenza le proprie esportazioni. Accettando questo
secondo punto di vista, più che confermato dai dati riguardanti la bilancia commerciale statunitense,
14
Il che implica l’accumulo, da parte di questi Paesi, di moneta-riserva straniera (soprattutto dollaro USA) e si riflette
immediatamente ed in maniera multi-laterale sui saldi di parte corrente dei Paesi coinvolti nelle transazioni monetarie.
15
Sebbene la Cina sia il Paese al mondo dove il tasso d’investimento è in assoluto il più alto (le ultime statistiche
parlano addirittura del 46%), data la sua popolosità, un aumento anche minimo della propensione al risparmio ha effetti
che in valore assoluto possono risultare decisamente rilevanti anche su scala globale.
10
vi sono due possibili scenari all’orizzonte. Il primo è che i consumatori americani continueranno ad
alimentare il disavanzo delle partite correnti anche in futuro, mantenendo gli attuali patterns di
consumo, risparmio ed investimento. Il secondo è che i cittadini statunitensi riprenderanno a
risparmiare16, ma ciò è possibile soltanto a patto che i prezzi delle abitazioni e del petrolio
diminuiscano.
Secondo il punto di vista della Beddoes, le recenti modificazioni del risparmio globale e dei
patterns di investimento non sono permanenti, ma neppure reversibili da un giorno all’altro. Se
Giappone e Cina possono “migliorare”, il surplus di risparmio proveniente dagli altri Paesi asiatici e
da quelli esportatori di petrolio difficilmente subirà una battuta d’arresto nel futuro prossimo. Allo
stesso modo, le banche centrali abituate ad investire in assets denominati in dollaro non muteranno
da un momento all’altro questa loro abitudine. Tutto ciò induce dunque a pensare che i creditori
degli USA saranno disposti ad accettare ancora per un po’ di tempo la persistenza di questo
“sbilanciamento globale”. Tuttavia l’attuale squilibrio indebolisce l’America: esso non può crescere
in maniera indefinita ed è difficile risistemare il problema senza trascinare l’economia mondiale in
una fase recessiva. Per riuscire a riportare su livelli salutari la quantità di risparmio globale ed i
patterns di investimento servono nuove idee, all’interno ed all’esterno degli USA: i policymakers
statunitensi hanno sulle loro spalle più responsabilità di quanto pensi Bernanke.
16
Sebbene questa condizione, se unita ad una ripresa del risparmio europea, potrebbe avere ripercussioni molto gravi
sull’intera economia mondiale, facendola sprofondare in un vortice recessivo di ampie proporzioni.
11
Stephan Schulmeister sul doppio ruolo del dollaro
Nelle loro analisi, Ben Bernanke e Zanny Minton Beddoes fanno riferimento in maniera piuttosto
decisa all’importanza per l’economia mondiale del livello di prezzo del petrolio ed alle crisi
finanziarie che si sono verificate negli ultimi anni in diverse parti del mondo. Nelle analisi di
entrambi gli economisti, questi accadimenti non sono messi in stretta correlazione con il
comportamento delle autorità economico-monetarie statunitensi, ma vengono piuttosto visti come
elementi endogeni al sistema USA.
In un saggio dall’esplicativo titolo “Globalization without global money”, pubblicato nel 2000,
Stephan Schulmeister fornisce però una spiegazione decisamente convincente di come ogni
modifica subita dalle variabili monetarie dell’economia statunitense abbia ripercussioni a livello
globale. Le succitate crisi finanziarie e gli shock petroliferi possono essere dunque ricondotti a
particolari movimenti del tasso di cambio del dollaro e dei tassi d’interesse statunitensi. Tutto ciò
per il semplice fatto che, come evidenziato nel sottotitolo del suo articolo, il dollaro ricopre, dal
secondo dopoguerra ad oggi, il doppio ruolo di “national currency and world currency”.
L’analisi di Schulmeister parte da lontano. Per la precisione dalla considerazione che lo sviluppo
economico post-bellico è stato caratterizzato da una fenomeno di globalizzazione che ha coinvolto
principalmente imprese e mercati. Un processo parallelo non ha invece avuto luogo nel contesto del
sistema monetario, nel quale il dollaro continua a rivestire il duplice ruolo di moneta nazionale
degli Stati Uniti d’America e moneta chiave dell’economia mondiale. Questa doppia vita della
moneta USA ha consentito in passato agli Stati Uniti di finanziare i crescenti deficit esterni
attraverso una “esportazione di dollari”, che ha progressivamente minato alle fondamenta, fino a
farlo crollare, il dollar-gold standard instaurato con gli accordi di Bretton Woods. Anche dopo
questo capolinea il dollaro ha comunque continuato a giocare il ruolo di moneta chiave
dell’economia mondiale, sebbene la sua stabilità sia decisamente minore rispetto al passato.
“L’instabilità del tasso di cambio del dollaro, così come quella dei tassi d’interesse, è dovuta alle
politiche economico/monetarie interne degli Stati Uniti” taglia corto Schulmeister. Essendo il
dollaro la “world currency” di riferimento, tuttavia, ogni manovra monetaria interna all’economia
americana ha ripercussioni anche sull’intero sistema economico mondiale nel suo complesso.
L’attuale sistema finanziario internazionale, infatti, è caratterizzato da alcune peculiarità:
•
•
•
praticamente tutte le commodities standard, incluso il petrolio grezzo, sono commerciate in
dollari (e proprio per questo, sono spesso chiamate “dollar goods”);
la maggior parte degli assets e delle liabilities sono tenuti in dollari (da cui deriva il nome di
“dollar stocks”);
il dollaro rappresenta la “moneta veicolo” nel mercato sopranazionale del commercio estero.
Appare immediatamente chiaro che una qualsiasi modifica del tasso d’interesse o del tasso di
cambio della moneta americana abbia un impatto profondo sulle relazioni economiche tra gli Stati
Uniti ed il resto del mondo. Né più né meno di quanto accada a tutti i Paesi emettitori di valuta. In
quanto moneta mondiale, la variazione di questi tassi riferiti al dollaro è in grado però di influenzare
i prezzi relativi tra commodities e manifatture nel commercio mondiale, le ragioni di scambio tra i
Paesi industriali e quelli in via di sviluppo, la velocità di inflazione/deflazione del commercio
mondiale ed il livello degli interessi reali sui debiti internazionali. Nonostante la sua importanza,
questa veste del dollaro quale moneta mondiale, argomenta Schulmeister, è stata spesso
sottovalutato nelle analisi di sviluppo del sistema finanziario internazionale.
12
Per analizzare in quale modo di come le variazioni dei tassi di cambio e d’interesse del dollaro si
riflettano sulle ragioni di scambio degli Stati Uniti e delle altre economie, Schulmeister specifica
innanzitutto una suddivisione dei Paesi del mondo in tre tipi distinti di economie:
•
•
•
Paesi industrializzati;
Paesi in via di sviluppo esportatori di petrolio;
Paesi in via di sviluppo non-esportatori di petrolio.
Queste economie producono rispettivamente tre tipi di prodotti, schematizzati nell’elenco qui sotto:
•
•
•
manifatture (“non-dollar goods”): i cui prezzi sono principalmente determinati dai costi di
produzione nei loro Paesi d’origine e vengono conseguentemente denominate nelle valute
dei rispettivi Paesi. Ovviamente non si può parlare di non-dollar goods per quelle
manifatture prodotte all’interno degli Stati Uniti;
petrolio: la cui quotazione, espressa in dollari, è decisa principalmente da accordi di cartello
tra i Paesi estrattori;
commodities non-petrolio (“standard commodities” o “dollar goods”): il cui prezzo è
determinato dal gioco dell’offerta e della domanda in un “giusto” mercato sopranazionale.
Le standard commodities sono denominate nella valuta mondiale, ossia il dollaro.
Nel periodo compreso tra il 1965 ed il 1990, le commodities hanno costituito mediamente il 35%
del commercio mondiale.
Supponendo “ceteris paribus” che sia il prezzo delle commodities espresso in dollari, sia i prezzi in
valuta-nazionale delle manifatture rimangano costanti, in una situazione del genere ogni variazione
del tasso di cambio del dollaro avrebbe due effetti distinti:
•
•
da un lato modificherebbe le ragioni di scambio tra gli Stati Uniti e gli altri Paesi (effetto
dovuto al ruolo del dollaro quale moneta nazionale);
dall’altro varierebbe le ragioni di scambio tra una qualsiasi coppia di Paesi, di una
proporzione variabile in funzione della proporzione di “dollar goods” rispetto ai “nondollar
goods” presenti nelle loro strutture commerciali (effetto dovuto al ruolo del dollaro quale
moneta mondiale)17.
Tra tutti i Paesi del mondo, la forbice tra quote di esportazione e di importazione di dollar goods è
di gran lunga la più ampia per quanto riguarda i Paesi esportatori di petrolio. La loro posizione è
dunque la più suscettibile a modifiche del tasso di cambio del dollaro; questo fa sì che sia forte
l’incentivo a reagire ad un deprezzamento del dollaro con l’aumento dei prezzi delle esportazioni
petrolifere18. Come in qualsiasi “lotta per la distribuzione del reddito”, di fronte ad una svalutazione
del dollaro, i Paesi produttori di petrolio non si limiteranno a ristabilire il loro precedente potere
d’acquisto, ma cercheranno di aumentare quanto più possibile i prezzi, per migliorare il vecchio
margine di profitto. Questo meccanismo, tuttavia, ha origine soltanto se i Paesi produttori operano
17
Ad esempio, con un deprezzamento del dollaro, le standard commodities (dollar goods) prodotte all’estero
aumenterebbero il proprio valore, modificando: da un lato, le ragioni di scambio tra gli Stati Uniti ed i Paesi produttori
di dollar goods, che si ritroveranno in possesso di merci più costose; dall’altro, le ragioni di scambio tra un Paese
produttore di standard commodities ed uno esportatore di petrolio: il prezzo delle standard commodities aumenta,
mentre non accade altrettanto per il prezzo del greggio: i Paesi estrattori si trovano dunque penalizzati dall’avvenuto
mutamento del tasso di cambio del dollaro. Lo stesso ammontare di standard commodities vendute, per dirla in maniera
diversa, consente, dopo il deprezzamento del dollaro, di acquistare un maggiore quantitativo di petrolio rispetto a prima.
18
Ovviamente, almeno in linea teorica, vale anche il contrario: i Paesi produttori di petrolio possono facilmente
accettare una diminuzione dei prezzi del greggio durante un periodo di forte apprezzamento del dollaro.
13
con un alto grado di oligopolio/monopolio sul mercato. In mancanza di questo presupposto, ogni
variazione del tasso di cambio del dollaro dovrebbe influire semplicemente sull’ammontare
dell’offerta19.
Queste considerazioni generali, secondo Schulmeister, aiutano a chiarire le origini dei due “shock”
petroliferi che hanno sconvolto negli anni scorsi l’economia mondiale. Tra il 1971 ed il 1973 il
dollaro ha perso il 25% del suo valore20, provocando un aumento del prezzo in dollari delle
manifatture commerciate internazionalmente che, nello stesso periodo di tempo, è cresciuto del
30,4%. Allo stesso modo i prezzi delle “commodities non petrolio” sono raddoppiati. Ne è
conseguito un drastico tracollo della ragione di scambio dei Paesi petroliferi, che nell’ultimo
trimestre del 1973 hanno replicato con una triplicazione dei prezzi del petrolio. Cio è stato reso
possibile sia dal potere di cartello costituito dall’OPEC, sia da contemporanee turbolenze militari e
politiche in Medio Oriente (nello specifico, la guerra dello Yom Kippur e l’erroneo annuncio di un
boicottaggio petrolifero da parte dei produttori arabi). La seconda turbolenza ha luogo tra il 1977 ed
il 1978, quando il dollaro subisce un nuovo forte deprezzamento ed innesca ancora una volta gli
stessi meccanismi visti in azione in occasione del precedente shock petrolifero. I prezzi delle
manifatture crescono del 21,6% nel triennio 1976-78, mentre le standard commodities incrementano
il proprio valore del 27,4% nei primi sei mesi del 1978. I prezzi del petrolio rimangono invece fissi
tra il 1976 ed i primi mesi del 1979. Giustificando l’operazione con le nuove turbolenze
mediorientali in atto (la rivoluzione iraniana e la conseguente guerra Iran-Irak), l’OPEC fa lievitare
i prezzi del greggio nella seconda metà del 197921.
In generale, i principali indicatori macroeconomici relativi agli ultimi 40 anni mettono in evidenza
una relazione significativa tra i maggiori deprezzamenti subiti dal dollaro e le impennate
dell’inflazione mondiale. Il meccanismo descritto da Schulmeister che abbiamo appena analizzato,
secondo il quale un deprezzamento della valuta mondiale innesca automaticamente un aumento del
prezzo del petrolio è un ottimo supporto teorico per spiegare queste rilevazioni.
Alimentando o contraendo il livello mondiale di inflazione, una variazione del tasso di cambio del
dollaro ha effetti concreti anche per quanto riguarda il tasso d’interesse reale sul debito
internazionale. La maggior parte degli stocks finanziari internazionali sono infatti detenuti in dollari
e questo è vero in particolar modo per i crediti forniti ai Paesi in via di sviluppo. Il meccanismo di
interazione tra tasso di cambio del dollaro e prodotti stranieri da esportazione è anche in questo caso
estremamente semplice: in un Paese debitore, quanto più è alta la sua proporzione di “nondollar
goods” rispetto alle esportazioni complessive, tanto è più grande l’effetto “deprezzante” sul debito
risultante da un deprezzamento del dollaro22. Allo stesso modo, un apprezzamento del dollaro
innesta un aumento del valore reale del debito. Ne consegue come un paese debitore possa
permettersi di mantenere un deficit primario esterno23 senza subire un aumento nel rapporto
debito/esportazioni se, e solo se, il tasso reale di interesse sul debito è minore rispetto al tasso di
19
Un apprezzamento del dollaro, che aumenterebbe il prezzo reale del petrolio, dovrebbe portare ad un ampliamento
della quantità offerta dai Paesi produttori e viceversa in caso di deprezzamento.
20
In riferimento alle altre quattro monete SDR (Marco tedesco, Yen, Franco francese e Sterlina inglese).
21
Il fatto che il prezzo delle standard commodities reagisca più velocemente e gradualmente ad un declino del prezzo
del dollaro rispetto a quanto faccia il petrolio, può essere attribuito ad un differente meccanismo di formazione del
prezzo. Se per le standard commodities esso è determinato con il gioco dell’offerta e della domanda, nel caso del
petrolio il prezzo è deciso a tavolino, come abbiamo già detto, dal cartello dei produttori appartenenti all’OPEC, ma le
procedure decisionali adottate richiedono un certo tempo perché sia possibile arrivare ad una strategia di prezzo comune
tra i delegati di tutti i Paesi membri.
22
Questo perché le esportazioni espresse in valuta locale, con un migliore tasso di cambio nei confronti del dollaro,
vengono pagate con un maggior quantitativo di dollari. Il debito, espresso nominalmente, risulta così più “lieve” da
sopportare.
23
Il deficit primario esterno è dato dal deficit delle partite correnti, meno gli interessi netti sui pagamenti.
14
crescita delle esportazioni di quel Paese. Se la situazione fosse contraria (tasso reale di interesse
maggiore rispetto al tasso di crescita delle esportazioni), il Paese si troverebbe costretto a ricercare
un surplus primario esterno per scongiurare il rischio di un aumento del rapporto
debito/esportazioni.
L’instabilità della moneta chiave che modella il sistema economico mondiale fa sì che nel corso
degli anni si alternino in maniera più o meno regolare due regimi di valuta: un regime di valuta
mondiale economica, caratterizzato da bassi tassi di interesse nominale del dollaro, basso tasso di
cambio della valuta statunitense ed alta inflazione dei prezzi espressi in dollari, fa emergere un
tasso d’interesse reale sui debiti espressi in dollari solitamente negativo; un regime di valuta
mondiale cara, caratterizzato per contrasto da alti tassi interessi nominali, tassi di cambio crescenti e
deflazione sui prezzi espressi in dollari, fa invece venire alle luce un tasso reale sui debiti espressi
in dollari è solitamente molto elevato. Questi cambiamenti da un regime di valuta mondiale
economica ad uno di valuta cara sono per la maggior parte provocati da cambiamenti nel tasso di
cambio del dollaro e dalle relative modificazioni dell’inflazione mondiale, piuttosto che da
variazioni del tasso d’interesse nominale del dollaro.
Dopo aver spiegato in maniera abbastanza plausibile le origini dei due shock petroliferi,
Schulmeister passa ad analizzare le più gravi crisi finanziarie degli ultimi anni, partendo dagli anni
’70, quando una configurazione di bassi tassi d’interesse del dollaro ed alta inflazione dei prezzi
espressi in valuta statunitense hanno portato il tasso reale del debito internazionale su valori
mediamente negativi. Il costo estremamente basso del credito ha fatto sì che molti Paesi in via di
sviluppo mantenessero alto il livello di crescita delle proprie importazioni, senza che a ciò
corrispondesse un parallelo aumento dell’export, finanziando il deficit così risultante con
l’accumulo di debito internazionale.24 Tra il 1980 ed il 1981 gli interessi reali sul debito
internazionale dell’America Latina crescono del 30%, a causa dell’aumento dei tassi di interesse,
dell’apprezzamento del dollaro e della conseguente deflazione mondiale. La recessione dei Paesi
industriali fa sì che le esportazioni sudamericane crollino: la differenza tra il tasso d’interesse ed il
tasso di crescita delle esportazioni passa dal -11,3% al +14,2%, mentre il rapporto
debito/esportazioni
aumenta
del
50%
tra
il
1980
ed
il
1982.
Spaventati dalla situazione, i creditori internazionali riducono i flussi di fondi addizionali destinati
all’area, innescando la crisi del debito del 1982. Africa ed America Latina corrono ai ripari
riuscendo ad ottenere un surplus di bilancia commerciale, ma il rapporto debito/esportazioni
continua a deteriorarsi, soprattutto a causa del tasso d’interesse sempre maggiore rispetto a quello di
crescita dell’export. Nel 1985, con il passaggio delle condizioni finanziarie mondiali da un regime
di moneta costosa ad uno di valuta economica, il tasso d’interesse del dollaro scende e l’inflazione
torna a sostenere il livello dei prezzi, provocando una diminuzione del tasso reale d’interesse sul
debito di circa il 15%. La situazione torna favorevole per i Paesi dell’America Latina, che possono
risollevarsi dalla crisi, aiutati anche dall’immediato rifluire degli investimenti stranieri.
Cambiano gli attori coinvolti, ma i meccanismi sono sempre gli stessi. Dopo la crisi del debito del
1982, che non li colpisce direttamente, i Paesi orientali iniziano a far registrare un incredibile
espansione delle importazioni dei settori reali, in particolar modo beni di investimento. Il bilancio
24
Esemplare il caso dell’America Latina dove da questo comportamento derivarono di fatto tre conseguenze:
• una crescita economica senza precedenti dalla fine della seconda guerra mondiale in poi (crescita media del
PIL nell’area del 3,5% annuo);
• una trasformazione dei Paesi sud americani in “spenditori di ultima istanza”, complici le recessioni dei Paesi
industriali nei periodi 1974-75 e 1979-82;
• un’estensione del debito di quei Paesi (in media di un +20% annuo), nonostante il rapporto debito/esportazioni
rimanesse stabile. Ciò era possibile grazie al fatto che mediamente il tasso di interesse era di 11,3 punti
percentuali minore del tasso medio di crescita delle esportazioni.
15
esterno dei Paesi asiatici in via di sviluppo si aggrava fortemente ed in maniera costante tra il 1986
ed il 1996, ma emergono comunque le cosiddette “tigri asiatiche”. Si tratta di quei Paesi, esemplare
il caso della Korea del Sud, che sono stati in grado di industrializzarsi ed aumentare il livello delle
proprie esportazioni fino a tener testa alla smisurata crescita dell’import. La crisi però è dietro
l’angolo. Il deficit di partite correnti, che dopo il 1993-94 è comune a tutte le tigri, viene finanziato
con prestiti in dollari operati dalle banche occidentali (specie da quelle localizzate in Giappone ed
in Germania). Questa crescita del deficit esterno è dovuta per la maggior parte al crescente gap di
sviluppo registrato dai Paesi asiatici in confronto ad Europa e Giappone: la domanda di beni di
importazione provenienti da Unione Europea e Giappone cresce infatti in misura decisamente
superiore rispetto a quanto non faccia il suo reciproco. Il debito delle tigri è espresso in dollari:
quando nel 1994 la FED decide di operare un brusco innalzamento dei tassi d’interesse, gli effetti
sono quelli consueti, ossia un apprezzamento del dollaro ed un conseguente impulso alla deflazione
nell’economia mondiale. Oltre all’altra conseguenza logica, che è l’aumento del tasso reale
d’interesse sul debito, l’apprezzamento del dollaro si traduce in un calo di profitti per l’industria
esportatrice asiatica. Nel caso della già citata Korea del Sud, ad esempio, il won perde terreno
rispetto al dollaro ed i prezzi delle esportazioni coreane si riducono, facendo ulteriormente
aumentare il tasso d’interesse reale sul debito. Inizia a scarseggiare la liquidità in dollari nei Paesi
debitori e le difficoltà nel far fronte ai debiti a breve termine fa scemare la fiducia delle banche
prestatrici, che bruscamente decidono di ritirare i capitali investiti. Il panico finanziario che ne
consegue porta i Paesi debitori a cercare una ristrutturazione cooordinata del deficit commerciale,
attraverso un taglio delle importazioni e della produzione.
L’instabilità del dollaro, secondo Schulmeister, è dunque alla radice delle più importanti crisi
finanziarie degli ultimi anni. Sono state sviluppate varie tesi, ma a tutt’oggi non è ancora ben
chiaro, ammette candidamente l’economista, quale sia esattamente il motivo per cui il dollaro, la
moneta che ricopre il cruciale ruolo di valuta chiave dell’economia mondiale, sia allo stesso tempo
la più instabile tra tutte le monete-riserva esistenti. Certo è che, osservando il periodo in cui il
sistema di Bretton Woods è rimasto in vigore, la stabilità dei tassi di cambio ha sostenuto la crescita
del commercio internazionale, nonostante gli USA, per tutti gli anni ’50 e ’60 fossero
fondamentalmente un’economia chiusa. Allo stesso tempo, l’ampia sopravvalutazione del dollaro
ha consentito agli altri Paesi di crescere in proporzione maggiore rispetto agli Stati Uniti. Se i settori
reali dell’economia USA erano infatti soffocati dal tasso di cambio, le condizioni erano comunque
favorevoli per l’economia mondiale nel suo complesso. La stabilità del tasso di cambio ha
contribuito alla stabilità dei prezzi relativi tra commodities e manifatture, nonché a quella
conseguente tra le ragioni di scambio incrociate dei Paesi industriali, di quelli esportatori di petrolio
e dei Paesi in via di sviluppo “non-petroliferi”. Le stesse condizioni di stabilità hanno fatto sì che
non emergessero dei persistenti squilibri commerciali e che nessun Paese si trovasse di conseguenza
costretto a tagliare il livello delle importazioni per ristabilire un surplus esterno primario. Infine, la
stabilità si è riflessa sul tasso d’interesse nominale del dollaro e di conseguenza sui livelli globali
dell’inflazione e del tasso d’interesse reale sul debito internazionale espresso in valuta statunitense
(sempre assestato su livelli più bassi rispetto al tasso di crescita del commercio mondiale).
Durante la seconda metà degli anni ’60, le nuove politiche espansive statunitensi hanno portato ad
un’infiammata dell’inflazione su scala globale. Al tempo stesso la guerra del Vietnam ha condotto
ad un progressivo peggioramento della bilancia dei pagamenti USA, finanziato sempre attraverso
un’esportazione di dollari. La credibilità del gold (dollar)-standard era ormai minata. Quando la
FED, nel 1970, per combattere la recessione in atto ha deciso di tagliare i tassi d’interesse, gli USA
sono stati costretti ad assistere impotenti ad una drammatica fuga di capitali dall’interno dei propri
confini. Nel 1971 il dollaro è stato costretto ad essere svalutato e, due anni più tardi, sarà l’intero
sistema di Bretton Woods a segnare il passo. Il regime affermatosi dopo il 1973, caratterizzato da
16
crisi finanziarie e shock petroliferi, ci lascia intendere Schulmeister, è frutto della ritrovata
instabilità della moneta mondiale.
Quali scenari ci attendono in futuro? Le oscillazioni del dollaro nel medio periodo, come dimostrato
da alcuni studi precedenti dello stesso Schulmeister, sono determinate prevalentemente dalle
quotidiane operazioni speculative. Tutti questi movimenti, come abbiamo visto, hanno forti
ripercussioni sull’intero sistema economico mondiale. L’avvento dell’Euro è dunque
un’innovazione monetaria da accogliere positivamente, in quanto contribuisce a togliere pressione
dal dollaro: il futuro sistema monetario mondiale potrà non basarsi più su di una moneta unica, ma
su di un paniere di queste, che comprenda ad esempio dollaro, Euro e Yen. Già Keynes, tra il 194344, si rese conto che i ruoli di moneta nazionale e moneta internazionale non erano conciliabili, se
non a prezzo di frequenti crisi finanziarie. La sua proposta di creare il “Bancor” non trovò
accoglienza durante l’incontro di Bretton Woods, per motivi prettamente politici. Secondo
Schulmeister sarebbe il caso di provare oggi un secondo tentativo.
17
Un semplice modello previsionale per il saldo delle partite correnti degli USA
Un modello previsionale è innanzitutto un modello di tipo statistico e, come tale, deve essere
costruito sulla base di valori numerici. Il mondo economico, dal canto suo, è un mondo altamente
complesso, dove risulta estremamente difficile (se non addirittura impossibile) riuscire a spiegare
un fenomeno economico sulla base di poche variabili di riferimento, se non ricorrendo a forti (e
spesso irrealistiche) assunzioni di base. Il problema che si trova ad affrontare chi, come in questo
caso il sottoscritto, tenti di costruire modelli statistici che trattino di argomenti economici è duplice.
Da un lato vi è infatti la necessità di individuare tutte quelle variabili che possano avere un qualche
ruolo effettivo nello spiegare il fenomeno sotto esame. Dall’altro vi è la conseguente necessità di
comprendere in quale modo queste variabili interagiscano tra loro, in un ambiente che di certo non
fa della linearità il suo punto di forza.
Il mondo economico, poi, presenta una difficoltà di comprensione aggiuntiva, in quanto le variabili
“macro” sono spesso legate in maniera reciproca tra loro. Per comprendere il significato di questa
frase un po’ ambigua, si consideri ad esempio il prodotto interno lordo di un Paese. Se questo
rimanesse stagnante, o addirittura peggiorasse, nel corso degli anni, l’economia di quel Paese si
ritroverebbe in uno stato che tecnicamente è definito di stagnazione o di recessione. Una manovra
di politica economica tipica, che i governi mettono in atto di fronte ad una crisi economica
(evidenziata, tra le altre variabili coinvolte, dal valore del PIL), è l’abbassamento del tasso
d’interesse. Rendendo più economici i prestiti (abbassando cioè il costo del denaro), i governanti
sperano che gli imprenditori possano essere maggiormente stimolati ad investire, contribuendo così
ad un rilancio dell’economia nazionale. La relazione in questo caso è abbastanza chiara: il tasso
d’interesse praticato dalla Banca Centrale di un Paese è (più o meno fortemente) dipendente dal
valore del PIL (o meglio, più che dal suo valore assoluto, dal suo differenziale rispetto
all’osservazione precedente) fatto registrare in precedenza. Questa relazione, però, potrebbe non
essere così lampante per uno statistico. Analizzando i dati, egli potrebbe infatti cogliere soltanto la
relazione inversa: il valore del PIL è determinato dal tasso d’interesse praticato in periodi
precedenti. Così, egli potrebbe pensare di aver trovato una ricetta perfetta per contrastare i mali
dell’economia: ogni volta che vi è recessione, tagliare i tassi di interesse di n punti percentuali.
L’idea, di per sé corretta, se venisse adottata in maniera indiscriminata potrebbe tradursi in un
disastro di proporzioni epiche. Questo perché lo statistico in questione ha trascurato una variabile
molto importante: l’inflazione. Abbassando a più riprese i tassi d’interesse, un Paese deve infatti
accettare il rischio di una vibrante inflazione, la quale potrebbe avere ripercussioni molto più
negative sul prodotto interno lordo reale del Paese, rispetto a quelle che deriverebbero da un “nontaglio” dei tassi.
Per quanto l’analisi statistica di fenomeni economici possa dunque essere pericolosa, le tecnologie e
l’infinita mole di informazioni di carattere economico di cui disponiamo ai giorni nostri possono
rivelarsi estremamente utili nel fare emergere nuove correlazioni tra variabili apparentemente
slegate tra di loro. Più relazioni si è in grado di comprendere, più informazioni si hanno a
disposizione per prevedere in maniera maggiormente precisa gli effetti derivanti dalle politiche
economiche adottate dai governi. Inutile sottolineare quanto tutto ciò possa rivelarsi incredibilmente
utile, non solo per i governi, ma anche per i singoli cittadini di tutto il mondo, effettivi bersagli di
qualsiasi politica economica.
Per quanto possa apparire utopico, si intravede già oggi la potenzialità di avere, in un futuro
neppure troppo lontano, una sorta di modello statistico economico globale.
18
Variabili utilizzate e modello statistico formale
Sulla base di quanto detto nel paragrafo precedente, si è scelto di prendere in considerazione
un’insieme il più ampio possibile di variabili. Tutti i valori relativi alle variabili scelte sono stati
raccolti su base mensile, in un arco di tempo che ha come estremo inferiore gennaio 1996 ed
estremo superiore settembre 2005.
Nel dettaglio, le variabili raccolte e prese in considerazione nel modello statistico sono le seguenti:
•
•
•
•
•
•
•
volume delle importazioni e delle esportazioni degli USA (espresso in dollari, al valore
corrente del mese preso in esame), per dieci settore merceologici e di servizi distinti
(classificazione SITC alla prima cifra decimale);
tasso d’interesse ufficiale della Federal Reserve e tassi d’interesse di vario genere ad esso
collegati, relativi a: certificates of deposit (ad 1, 3 e 6 mesi), eurodollar deposits (London)
(ad 1, 3 e 6 mesi), bank prime loans, conventional mortgages, treasury bills (secondary
market, a 3 e 6 mesi), treasury constant maturities (nominal, a 3, 6, 12, 24, 36, 60, 84, 120 e
240 mesi), corporate bonds (Moody’s seasoned, Aaa), corporate bonds (Moody’s seasoned,
Baa), State&Local bonds;
tasso di cambio del dollaro rispetto a: euro, yen, yuan, sterlina inglese, dollaro canadese,
EER-23 nominale e cpi-deflated, EER-42 nominale e cpi-deflated25;
volume degli investimenti diretti all’estero da/verso gli USA, sia nel loro valore
complessivo, sia suddivisi tra quelli inviati/provenienti da: Canada, Europa, America Latina,
Africa, Medio Oriente, area Asia e Pacifico, altre aree (valori espressi in dollari, al valore
corrente del mese preso in esame);
saldo delle partite correnti degli Stati Uniti (espresso in dollari, al valore corrente del mese
preso in esame);
prezzo del petrolio, mondiale e per i soli Paesi OCSE (espresso in dollari, al valore corrente
del mese preso in esame);
prodotto interno lordo (GDP) degli Stati Uniti (espresso in dollari, al valore corrente del
mese preso in esame o normalizzato prendendo come riferimento il valore del dollaro
dell’anno 2000).
Ciascuna di queste variabili è stata “ritardata” di 20 mesi. Ciò sta a significare che è stato preso in
considerazione non soltanto il valore della variabile al tempo t corrente, ma anche tutti quelli fatti
registrare nei mesi precedenti (fino, appunto, al tempo t-19).
Il modello statistico che ne deriva è dunque esprimibile nella forma:
t 1
t 2
t 19
y(t + 1) = f (x1t 1 , x1t 2 ,..., x1t 19 , x2t 1 , x2t 2 ,..., x2t 19 ,...x72
, x72
, x72
) + i
dove y(t) è il saldo delle partite correnti stimato al tempo t, mentre i pedici delle varie x identificano
il tipo di variabile cui si sta facendo riferimento (x1: volume delle importazioni USA, per il settore
identificato dal descrittore 0, nel mese di riferimento; x2: volume delle importazioni USA, per il
settore identificato dal descrittore 1, nel mese di riferimento; ecc…). L’ultima variabile è
semplicemente una misura dell’errore, sottoforma di distribuzione che si assume che abbia media
uguale a zero.
25
Il tasso di cambio è stato valutato il giorno 15 di ogni mese. Quando questo valore non era disponibile per quel
determinato giorno, si è preso il valore più immediatamente successivo.
19
Questa “struttura” del modello può essere estesa per previsioni a tempi t’>t. Ad esempio, per
stimare il valore della variabile y al tempo t+z, prendendo in considerazione le variabili ritardate ad
n mesi, il modello può essere riscritto nella forma:
t 1
t 2
t (n 1)
y(t + z) = f (x1t 1 , x1t 2 ,..., x1t (n 1) , x2t 1 , x2t 2 ,..., x2t (n 1) ,...x72
, x72
, x72
) + i
Lo sviluppo preliminare del modello
Come prima cosa, il valore di tutte le variabili prese in considerazione26 (compresi i valori
“ritardati”) è stato inserito, in ambiente Matlab, all’interno di un’unica matrice, dove la prima
colonna corrisponde al valore mensile della y (il saldo di parte corrente USA) e le restanti colonne
rappresentano invece le diverse variabili indipendenti x.
La matrice risultante è di dimensioni significative: 97 righe27 per 1440 colonne. Sulla base di questa
matrice sono stati calcolati coefficienti di correlazione e p-values di tutte le x rispetto alla variabile
dipendente y.
L’andamento del saldo di partite correnti degli Stati Uniti, sulla base dei dati raccolti, risulta essere
rappresentato dal grafico seguente:
Figura 1 - Grafico del saldo delle partite correnti USA, nel periodo gennaio 1996 - settembre 2005
La figura nella pagina seguente mostra invece, da un punto di vista grafico, su quali livelli si
attestino i coefficienti di correlazione tra la y e le diverse variabili x inserite all’interno della
matrice.
26
Il loro valore è stato raccolto da varie banche dati disponibili sul web e riorganizzato in alcuni file Excel, poi
convertiti in formato CSV per renderne possibile l’importazione in Matlab. Le fonti da cui sono stati attinti i dati sono
elencate in dettaglio nelle ultime pagine di questo testo.
27
Si tratta di un valore più basso rispetto a quello delle 117 osservazioni mensili a disposizione. Ciò è dovuto al fatto
che abbiamo ritardato ogni variabile di 20 mesi e, per non creare “scompensi” nella matrice, si è dovuto operare su una
sua sottomatrice di 117-20=97 righe.
20
Figura 2 - Partendo da sinistra possiamo osservare “fasce” di diversi colori: quella rossa, che contiene le
variabili “commerciali” (import ed export); quella verde, contenente i tassi di interesse; quella gialla, dedicata ai
tassi di cambio del dollaro; quella blu, che contiene gli investimenti diretti all’estero (sia in entrata che in uscita);
quella magenta, che delimita le 20 variabili riferite ai passati saldi di parte corrente USA; quella nera,
contenente i prezzi del petrolio; quella ciano, con al suo interno il PIL statunitense. Sono inoltre tracciate due
linee orizzontali, in corrispondenza dei punti di coordinate y=0,9 e y=-0,9, che rappresentano la soglia di
rilevanza impostata.
In generale, i valori del coefficiente di correlazione sono sempre compresi nell’intervallo [-1,+1],
con i due estremi che stanno ad indicare rispettivamente una perfetta correlazione negativa
(all’aumentare di valore di una variabile, decresce quello dell’altra variabile) o una perfetta
correlazione positiva (all’aumentare di valore di una variabile, aumenta anche quello dell’altra). Nel
nostro caso è immediatamente possibile notare che moltissime variabili sono caratterizzate da un
“buon” coefficiente di correlazione. Ciò è testimoniato dalla più semplice delle statistiche, vale a
dire la media, che tra i coefficienti di correlazione positivi risulta essere uguale a 0,5734 mentre è di
poco più bassa per quello che riguarda i coefficienti di correlazione negativi, dove essa vale -0,5243
Per quanto riguarda i p-values calcolati, la loro media è risultata essere piuttosto bassa, come ben
evidenziato dalla distribuzione rappresentata in figura 3. Più precisamente, dato un intervallo di
confidenza del 95%, ben 1191 delle 1440 variabili considerate (pari all’82,7% delle variabili) sono
risultate essere significative (p-value minore rispetto al valore 0.05).
Questa analisi preliminare è stata utile per poter effettuare una prima ampia scrematura delle 1440
variabili prese in esame, escludendo a priori quelle:
•
•
il cui coefficiente di correlazione con la Y fosse più basso rispetto ad un valore di soglia
arbitrario, fissato in 0,90;
il cui p-value fosse maggiore del valore 0,05 (per un intervallo di confidenza del 95%, ciò
sta ad indicare una non-significatività statistica della variabile alla quale fa riferimento il pvalue).
21
Figura 3 - Distribuzione del valore dei p-values relativi alle variabili x messe in relazione con la variabile
dipendente y. La retta verticale rossa è tracciata in corrispondenza del valore x=0.05, ossia il livello di
significatività impostato per in intervallo di confidenza del 95%. Alla sinistra di questa retta vi sono tutte le
variabili che, in base al p-value, risultano essere statisticamente significative.
Le variabili che sono riuscite ad attraversare indenni questo primo filtro sono state 102.
Nel dettaglio, si tratta di:
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
le importazioni per il settore identificato dal descrittore SITC 0 (food and live animals),
ritardate a 12, 13, 14 e 15 mesi rispetto al tempo della previsione;
le importazioni per il settore identificato dal descrittore SITC 2 (crude materials, inedible,
except fuels), ritardate a 20 mesi;
le importazioni per il settore identificato dal descrittore SITC 3 (mineral fuels, lubricants
and related materials), ritardate ad 1, 2 e 3 mesi;
le importazioni per il settore identificato dal descrittore SITC 4 (animal and vegetable oils,
fats and waxes), ritardate a 20 mesi;
le importazioni per il settore identificato dal descrittore SITC 5 (chemicals and related
products, n.e.s.), con tutti i ritardi da 1 a 20 mesi;
le importazioni per il settore identificato dal descrittore SITC 6 (manufactured goods
classified chiefly by material), ritardate ad 1 e 2 mesi;
le esportazioni per il settore identificato dal descrittore SITC 4, ritardate a 20 mesi;
le esportazioni per il settore identificato dal descrittore SITC 5, ritardate ad 1, 2, 3 e 4 mesi;
gli investimenti diretti all’estero, dagli USA verso “altre aree”, ritardati a 20 mesi;
il saldo di parte corrente USA, con tutti i ritardi da 1 a 20 mesi;
il prezzo d’importazione del petrolio per i Paesi OCSE, ritardato ad 1, 2 e 20 mesi;
il prezzo d’importazione del petrolio per gli altri Paesi, ritardato ad 1, 2 e 20 mesi;
il PIL statunitense, espresso nel valore nominale del dollaro dell’anno di riferimento, con
tutti i ritardi da 1 a 20 mesi;
il PIL statunitense, espresso in valori normalizzati con base il valore del dollaro nell’anno
2000, con tutti i ritardi da 1 a 19 mesi.
22
Salta immediatamente all’occhio come non vi sia alcuna traccia delle variabili relative ai tassi
d’interesse ed ai tassi di cambio. Osservando nuovamente la figura 1 si può infatti notare come
siano relativamente bassi i coefficienti di correlazione riferiti ai vari tassi di cambio (che toccano
una punta massima di circa 0,70), mentre siano decisamente più alti, ma non a sufficienza per
superare la soglia di 0,90, quelli relativi ai tassi d’interesse.
Vi sarebbe la tentazione di trarre le prime conclusioni a partire da queste operazioni preliminari
svolte sul modello, sostenenendo che il saldo di parte corrente non dipende dal valore del dollaro e
dai tassi d’interesse. Sarebbe però una conclusione decisamente affrettata. Anche l’intuito, infatti, ci
suggerisce che ciò molto difficilmente potrebbe essere vero. Se il saldo delle partite correnti può
essere visto, in prima approssimazione, come il saldo della bilancia commerciale a cui è sommata
algebricamente una, decisamente più piccola, componente relativa alle transizioni finanziarie, allora
risulta quanto meno “strano” sostenere che il tasso di cambio non abbia proprio alcuna influenza sul
parametro che stiamo stimando.
Non dimostreremo in questa sede come il tasso di cambio abbia un’influenza diretta sul commercio
internazionale. E’ palese, infatti, come una moneta debole costituisca un formidabile incentivo alle
esportazioni, mentre una moneta “forte” sia un disincentivo per le esportazioni, ma, al tempo stesso,
un incentivo all’import. I tassi di cambio, dunque, non influenzano direttamente il saldo di parte
corrente, ma lo fanno in maniera indiretta, attraverso modifiche sui volumi di import/export. Tra le
variabili che hanno superato il filtro che abbiamo imposto, ne troviamo infatti svariate di carattere
commerciale, con un deciso squilibrio a favore delle importazioni: 31 variabili riguardano il
commercio internazionale verso l’interno, mentre soltanto 5 riguardano quello rivolto verso altri
Paesi. Stranamente non compare alcun dato relativo al settore identificato dal descrittore SITC 7
(machinery and transport equipment), che costituisce circa la metà delle importazioni statunitensi ed
un buon 40% delle esportazioni, come mostrato dalle due figure proposte qui di seguito. La parte
del leone, nel nostro modello, è ricoperta dal settore SITC 5 e, in misura minore, dal settore SITC 6,
che nel complesso del commercio estero USA godono comunque di una posizione di assoluta
importanza. Esattamente il contrario del SITC 0, che sebbene conti per una percentuale minuscola
nel complesso delle importazioni USA, ha superato il test di significatività statistica per quanto
riguarda le importazioni.
Figura 4 - Composizione settoriale delle esportazioni statuinitensi
23
Figura 5 - Composizione settoriale delle importazioni statunitensi
L’inclusione di alcune variabili commerciali a dispetto di altre non è dunque una funzione
dell’importanza relativa che esse hanno nell’intera struttura del commercio statunitense. Quello che
fa la differenza è piuttosto l’andamento che esse hanno fatto registrare nel corso del periodo di
riferimento (gennaio 1996 – settembre 2005): più esso è simile a quello del saldo di parte corrente,
tanto più alto è il grado di correlazione tra queste due variabili.
Ha superato il test di significatività anche una variabile relativa agli investimenti diretti all’estero,
apparentemente povera di significato. Si tratta infatti degli investimenti fatti dagli USA, 20 mesi
prima del tempo che si sta stimando, verso “altre aree”, ossia in territori che non sono stati inseriti
in alcuna delle seguenti categorie: Canada, Europa, America Latina, Africa, Medio Oriente, area
Asia e Pacifico.
Con successo è stato processato anche il prezzo d’importazione del petrolio, ritardato ad 1, 2 e 20
mesi. Sono state prese in considerazione le medesime colonne, relative sia al prezzo del petrolio per
i Paesi OCSE, sia quello pagato dagli altri Paesi. La differenza tra queste due categorie di variabili
era d’altro canto talmente insignificante, che esse potevano soltanto essere “accettate” (o al
contrario “rifiutate”) assieme.
Infine, non stupisce certo il trovare, tra le variabili che non sono state filtrate, i saldi di parte
corrente degli ultimi 20 mesi, così come non stupisce ritrovare tutte le variabili relative al PIL
statunitense. L’unica “anomalia”, tra le variabili relative alla produzione interna, sta nel fatto che il
ritardo a 20 mesi del PIL, espresso in valore normalizzato all’anno 2000, non è stato considerato
significativo. Si potrebbe tuttavia supporre che, in un modello statistico di questo genere, il quale va
a stimare un saldo di parte corrente non-normalizzato, assuma un peso rilevante anche l’inflazione.
Dunque, appare motivato il fatto che una variabile x “ripulita” dall’inflazione sia meno significativa
rispetto ad una sua variabile analoga “arricchita” degli effetti inflazionistici.
Regressione sulle 102 variabili non-filtrate
Sulle 102 variabili individuate è stata effettuata una regressione lineare multipla. Senza una
suddivisione dell’insieme dei dati in sottoinsiemi di training e di validation, il modello generato è
24
stato in grado di rappresentare alla perfezione l’andamento dei dati, con un indice R2 pressoché
uguale ad 1.
Figura 6 - Regressione sul modello a 102 variabili
Un modello regressivo con 102 parametri è certamente in grado di ricostruire alla perfezione
l’andamento di una qualsiasi variabile, ma difficilmente sarà in grado di generalizzare il proprio
funzionamento, permettendo inoltre l’adozione di un processo di estrapolazione/previsione. Inoltre,
vi è il problema della significatività statistica di tale modello, assolutamente non garantita per un
così alto numero di variabili.
Sono stati dunque calcolati i p-values relativi ai singoli parametri stimati, in un processo iterativo
che provvedeva ad eliminare man mano dal modello tutte le variabili non significative (p-value del
rispettivo parametro maggiore di 0,05). Il modello si è così ridotto da 120 a 70 variabili; per la
precisione queste erano:
•
•
•
•
•
•
•
le esportazioni per il settore identificato dal descrittore SITC 6, ritardate ad 1, 2, 3 e 4 mesi;
il saldo di parte corrente USA, con tutti i ritardi da 1 a 20 mesi;
gli investimenti diretti all’estero, dagli USA verso “altre aree”, ritardati a 20 mesi;
il prezzo d’importazione del petrolio per i Paesi OCSE, ritardato ad 1, 2 e 20 mesi;
il prezzo d’importazione del petrolio per gli altri Paesi, ritardato ad 1, 2 e 20 mesi;
il PIL statunitense, espresso nel valore nominale del dollaro dell’anno di riferimento, con
tutti i ritardi da 1 a 20 mesi;
il PIL statunitense, espresso in valori normalizzati con base il valore del dollaro nell’anno
2000, con tutti i ritardi da 1 a 19 mesi.
L’approssimazione ottenuta è maggiore rispetto al modello precedente e ben visibile anche ad
occhio nel grafico riportato qui di seguito: l’indice R2 è passato da un valore praticamente uguale ad
1 ad un comunque ottimo valore di 0,9975. Tutte le variabili di tipo “commerciale” sono scomparse
dal modello, con la sola eccezione delle esportazioni del settore SITC 6 (manufactured goods
classified chiefly by material), ritardate ad 1, 2, 3 e 4 mesi che hanno continuato a farne parte.
25
Figura 7 - Regressione sul modello a 70 variabili
Ancora una volta, però, l’approssimazione è troppo buona perché si possa pensare che un modello
del genere sia in grado di generalizzare le sue previsioni in maniera accettabile. Per questo motivo
si rende necessario ridurre ulteriormente il numero delle variabili coinvolte, accettando un certo
trade-off tra l’accuratezza del modello e la sua parsimonia. Un ottimo strumento per individuare la
combinazione di variabili che garantisca il migliore di questi trade-off è quello dell’evoluzione
genetica. E’ esattamente questa la strada che si è deciso di percorrere: la vastità dello spazio delle
soluzioni28, d’altronde, impedisce una ricerca esaustiva del miglior modello possibile in un tempo
accettabile e rende necessario il ricorso a tecniche probabilistiche quali possono essere appunto gli
algoritmi genetici.
Caratteristiche dell’algoritmo genetico
Per ottenere risultati migliori, l’algoritmo genetico è stato impostato per lavorare su tutte le 1440
variabili indipendenti raccolte e non soltanto sul sottoinsieme (filtrato in base a p-values e
coefficiente di correlazione) visto nei paragrafi precedenti. Il funzionamento dell’algoritmo risulta
ovviamente più rallentato, ma ci si aspetta che a ciò corrisponda una sua miglior capacità selettiva
delle variabili da includere nel modello.
Per quanto riguarda gli aspetti tecnici, il genoma degli individui è stato impostato come essere
composto da 1440 cromosomi. A ciascun cromosoma corrisponde una delle 1440 variabili
indipendenti ed esso può assumere il valore 1 od 0, ad indicare rispettivamente l’inclusione o
l’esclusione di quella specifica variabile all’interno del modello che l’individuo in esame codifica.
Dovendo lavorare su di un numero di variabili piuttosto significativo, per il calcolo della fitness
degli individui si è preferito non utilizzare il “classico” indice AIC, quanto piuttosto il RIS. Questo,
al contrario dell’AIC, ha la tendenza a sottostimare il numero delle variabili e può consentirci
quindi la costruzione di un modello decisamente più parsimonioso rispetto a quello cui ci
condurrebbe il tradizionale indicatore di Akaike.
28
Con 102 variabili sarebbe possibile ottenere un numero incredibilmente alto di modelli diversi. Un genoma di
lunghezza 102, dove ogni gene può assumere il valore binario 0 od 1, può dare infatti origine a 2102 -1 modelli diversi (il
-1 poiché si esclude il modello che non include alcuna variabile), ossia circa 5,07 * 1030 modelli differenti.
26
Gli operatori genetici adottati sono quelli tradizionali: selezione, mutazione puntuale, crossover ed
elitismo. La selezione è proporzionale alla fitness e viene applicata secondo la modalità di
“stochastic universal sampling”29; la mutazione puntuale va a colpire ogni singolo gene con una
probabilità molto bassa, pari al rapporto 0,7/1440 (ca. 4*10-4); il crossover ha luogo con probabilità
0.7, dà origine ad individui non attualmente presenti all’interno della popolazione e, in maniera
casuale, opera con un punto di taglio singolo o duplice; l’elitismo, infine, è basato esclusivamente
sulla fitness.
Per la simulazione si è creata casualmente una popolazione iniziale di 100 individui, che è stata
fatta evolvere per 3000 generazioni. Ad ogni generazione, l’algoritmo effettua la regressione sul
modello codificato nel genoma di ogni individuo appartenente alla popolazione e su di esso calcola
il corrispondente valore dell’indice AIC, che diventa la fitness dell’individuo.
Per mitigare leggermente il problema dell’overfitting e cercare di generalizzare il più possibile i
risultati cui ci conduce l’analisi regressiva, a partire dalle 97 osservazioni presenti nel dataset sono
stati ricavati due sottoinsiemi di dati distinti:
•
•
un training set: comprendente il 75% delle osservazioni, scelte casualmente all’avvio
dell’algoritmo genetico;
un validation set: comprendente il rimanente 25% delle osservazioni, ricavato come
differenza rispetto al training set.
Ad ogni step evolutivo, l’algoritmo effettua la regressione sul training set, relativamente al quale
vengono stimati i parametri beta e le corrispondenti statistiche (intervalli di confidenza, p-values,
ecc…). L’indice di bontà del modello viene invece calcolato avendo come riferimento il validation
set, ossia un insieme dei dati che risultano “nuovi” al modello regressivo.
Risultati ricavati dell’algoritmo genetico
Dopo circa 6 ore di elaborazione30, le variabili che l’algoritmo genetico ci ha restituito in prima
approssimazione sono state ben 129. Una volta “ripulito” il modello risultante dalle variabili nonsignificative (con un controllo iterativo sui p-values dei singoli parametri, analogo a quello mostrato
in precedenza), queste si sono ridotte al sottoinsieme:
•
•
•
•
investimenti diretti all’estero, dagli USA verso “altre aree”, ritardati a 20 mesi;
saldo di parte corrente USA, ritardato a 5 e 14 mesi;
prezzo d’importazione del petrolio per i Paesi OCSE, ritardato a 5 mesi;
PIL statunitense, espresso in valori normalizzati con base il valore del dollaro nell’anno
2000, ritardato a 20 mesi.
La regressione, da un punto di vista grafico, è stata in grado di approssimare l’andamento temporale
della variabile indipendente in maniera abbastanza efficace, come evidenziato dal grafico riportato
qui di seguito. Nonostante un indice R2 pari a 0,9374, il modello compie alcuni errori previsivi,
soprattutto in quei due punti della funzione nei quali il trend decrescente della y rallenta in maniera
evidente. Il modello continua infatti a sottostimare il valore della y per alcuni periodi di tempo,
prima di aggiustare le sue previsioni nel momento in cui il trend originario torna ad instaurarsi.
29
Per una breve descrizione di questa modalità di selezione, si veda: http://www.systemtechnik.tuilmenau.de/~pohlheim/GA_Toolbox/algselct.html#nameselectionsus.
30
L’algoritmo genetico è stato eseguito su di un PC con processore Intel Pentium 4 a 3 GHz, 1 GB di memoria RAM e
sistema operativo Microsoft Windows XP Professional Edition (SP2).
27
Figura 8 - Regressione sul modello a 5 variabili identificato dal GA
Più in generale, soprattutto nella parte destra del grafico, le stime del modello danno l’impressione
di “seguire”, con un certo ritardo, l’andamento della variabile dipendente, piuttosto che di
anticiparlo. Questo effetto è dovuto probabilmente all’inclusione nel modello delle variabili
autoregressive (saldo di parte corrente ritardato a 5 e 14 mesi), cui é stata attribuita dal processo
regressivo un’importanza probabilmente eccessiva.
Se consideriamo che siamo passati da 70 a 5 variabili (una delle quali, il PIL statunitense ritardato a
20 mesi, con coefficiente beta pressoché uguale a zero), il livello di approssimazione cui siamo
giunti può comunque essere considerato molto buono.
La rete neurale
Come abbiamo appena visto, con poche variabili incluse al suo interno, per quanto riesca a giungere
a risultati apprezzabili, il modello di regressione lineare non è più in grado di stimare con
accuratezza l’andamento temporale della nostra variabile dipendente, ossia del saldo di parte
corrente USA. L’aspetto positivo, però, è che un modello così strutturato è più “generale” rispetto a
quelli abbozzati precedentemente ed è di conseguenza maggiormente flessibile nel processo di
estrapolazione: ciò consente di ottenere delle previsioni a tempi futuri più accurate, in quanto il
modello non risente del classico problema dell’overfitting sui dati di training.
Una rete neurale opportunamente strutturata ci permette a questo punto di preservare la parsimonia
“conquistata” del modello, nonché la sua capacità di generalizzazione, ed al tempo di stesso di
migliorare in maniera notevole le sue capacità previsive, permettendo l’inclusione all’interno dello
schema previsivo di relazioni di tipo non lineare.
La rete neurale che si è deciso di creare è di tipo feedforward ed è caratterizzata da due strati di
neuroni:
•
uno strato nascosto (hidden layer), composto da 10 neuroni, aventi funzione di trasferimento
tan-sigmoidale;
28
•
uno strato di output (output layer), composto da 1 neurone, avente funzione di trasferimento
puramente lineare.
Graficamente, questa rete può essere rappresentata attraverso lo schema seguente:
Figura 9 - Architettura della rete neurale utilizzata.
Da sinistra a destra: input layer, hidden layer ed output layer.
Per l’addestramento della rete si è utilizzata una modalità di “supervised learning”, implementata
mediante algoritmo di error backpropagation. Per la precisione, l’algoritmo di training utilizzato è
stato lo “steepest descent”, con learning rate adattivo (ovvero non fisso, ma variabile in riferimento
all’andamento della funzione di errore della rete).
Il training è stato eseguito con un tetto massimo impostato in 10000 epoche. La funzione obiettivo
utilizzata come riferimento è stata lo scarto quadratico medio dell’errore: l’addestramento, in
sostanza, doveva minimizzare ad ogni step questo indice, fino al raggiungimento del numero
massimo di epoche di training o di un “valore obiettivo” prefissato e che è stato impostato essere
uguale a 0.002.
Figura 10 - Andamento dello scarto quadratico medio della rete neurale durante le 10’000 epoche del training.
29
Nel tempo prefissato (inteso come numero di epoche), l’algoritmo di training non è stato in grado di
raggiungere il valore desiderato della funzione obiettivo, fermandosi ad uno scarto quadratico
medio pari a 0,00578648, comunque accettabile.
Figura 11 - Stima della variabile y operata dalla rete neurale, sulla base del modello selezionato dal GA.
La performance previsiva, grazie alla rete neurale, è migliorata in quelle due zone nelle quali il
modello regressivo aveva avuto delle incertezze: ciò è spiegabile con il fatto che la rete neurale
progettata, utilizzando funzioni di trasferimento tan-sigmoidali nello strato nascosto, permette di
esprimere legami di tipo non-lineare tra le variabili coinvolte.
L’utilizzo della rete neurale per le previsioni a tempi futuri
A questo punto è possibile “simulare” il funzionamento della rete ed effettuare la nostra previsione
del saldo di parte corrente USA al tempo t+1, corrispondente, in base ai dati di cui disponiamo
all’interno del dataset, al mese di ottobre 2005. Per farlo si è dovuto preparare un vettore di dati di
input, che risultano essere:
Variabile
Ritardo
investimenti diretti all’estero, dagli USA verso “altre
20 mesi (febbraio 2004)
aree”
saldo di parte corrente USA
5 mesi (maggio 2005)
saldo di parte corrente USA
14 mesi (agosto 2004)
prezzo d’importazione del petrolio per i Paesi OCSE
5 mesi (maggio 2005)
PIL statunitense, espresso in valori normalizzati con
20 mesi (febbraio 20004)
base il valore del dollaro nell’anno 2000
Valore
normalizzato
-0,9641
-1,0000
-0,9986
-0,9640
1,0000
Il valore che la rete ci ha restituito di fronte a questi input è stato -0,9430 che, una volta denormalizzato, è stato calcolato corrispondere alla cifra di -64'648 milioni di dollari, ossia -64,648
miliardi. Si tratta di un valore in linea con i più recenti risultati mensili registrati (giugno 2005:
65,9270 miliardi, settembre 2005: -65,2737 miliardi), ma leggermente migliore rispetto ad essi.
Questa previsione sembra dunque confermare l’andamento della nostra variabile dipendente
30
nell’ultimo periodo, intenta ad invertire, pur molto lentamente, il trend fondamentalmente
decrescente che si evidenzia lungo l’intero dataset.
Figura 12 - Andamento del saldo di partite correnti degli USA, con evidenziato il valore previsto dal modello per
il mese di ottobre 200531.
Le previsioni ottenute dalla rete
Il discorso sinora elaborato era rivolto alla previsione del saldo di parte corrente USA al tempo t+1,
avendo a disposizione tutte le osservazioni precedenti fino al tempo t. Per una variabile
macroeconomica quale il saldo di parte corrente, non è però tanto interessante una previsione a
breve termine, quanto una nel medio-lungo periodo. Se per il lungo periodo non è possibile
effettuare previsioni attendibili attraverso il nostro modello (i cui dati di input sono piuttosto limitati
temporalmente, ricoprendo mensilmente il solo lasso temporale 1996-2005) può avere senso
effettuarne per il medio periodo. Si è così scelto di analizzare le previsioni a 2, 6 e 12 mesi,
sviluppando gli adeguati modelli previsivi corrispondenti.
Orizzonte
previsivo
Nr. ritardi
considerati
1 mese
2 mesi
6 mesi
12 mesi
20
14
14
14
Nr. variabili
miglior
modello
5
7
6
5
R2 della
regressione
lineare
0,9374
0,9718
0,9489
0,8794
Previsione di
Y da parte
della rete NN
-64,648 mld
-63,258 mld
-56,112 mld
-49,836 mld
Nella tabella qui sopra sono riepilogati gli esperimenti svolti. Per velocizzare l’evoluzione genetica
dei modelli32 non si sono prese in considerazione le variabili ritardate a 20 mesi, come nei modelli
analizzati finora, ma ci si è “limitati” ai ritardi a 14 mesi. Anche il numero di generazioni è stato
ridotto e si è deciso di fermare l’algoritmo una volta raggiunta quota 2000.
31
Gli osservatori più attenti avranno notato che la scala dell’asse y è variata rispetto ai grafici mostrati in precedenza.
Questo è l’effetto di alcune modifiche “di scala” apportate al dataset durante la stesura di questa relazione, ma che non
hanno alcuna influenza sui risultati raggiunti.
32
L’algoritmo genetico utilizzato per le previsioni al tempo t (con dati di input fino a t-1) ha infatti impiegato oltre sei
ore per giungere a convergenza.
31
Occorre inoltre tenere in considerazione il fatto che, man mano che l’orizzonte previsivo si dilata, le
stime effettuate divengono meno accurate. Non si tratta di una debolezza insita nei modelli
utilizzati, quanto piuttosto di una deficitaria costruzione del dataset su cui si sta lavorando. I dati
raccolti, infatti, sono espressi su base mensile e coprono soltanto il periodo gennaio 1996 –
settembre 2005; si tratta dunque di 117 osservazioni. Se a queste ne togliamo 12 per costruire un
modello capace di effettuare previsioni ad un anno, non ci rimangono che un centinaio di variabili:
non molte per addestrare in maniera efficace una rete neurale33. In particolare, l’intuito ci
suggerisce di considerare attendibili le prime due previsioni (per ottobre e novembre 2005), mentre
le altre sembrano discostarsi troppo violentemente dal trend tracciato negli ultimi 10 anni,
probabilmente a causa del fatto di aver preso in considerazione soltanto le variabili ritardate ad un
massimo di 14 mesi.
Per quanto riguarda le variabili che sono state selezionate dai vari modelli, possiamo riepilogarle
qui di seguito34:
•
Modello previsivo a 2 mesi (previsione per novembre 2005):
o
o
o
o
o
•
Modello previsivo a 6 mesi (previsione per marzo 2005):
o
o
o
o
•
investimenti diretti all’estero, dagli USA verso “altre aree”, ritardati a 3 mesi;
saldo di parte corrente, ritardato a 6 e 9 mesi;
prezzo d’importazione del petrolio per tutti i Paesi, ritardato a 2 mesi;
PIL USA, espresso in valore corrente del dollaro, ritardato a 12 mesi;
PIL USA, espresso in riferimento al valore del dollaro nell’anno 2000, ritardato a 4
ed a 7 mesi.
saldo di parte corrente, ritardato a 14 mesi:
prezzo d’importazione del petrolio per i Paesi OCSE, ritardato a 7 e 18 mesi;
PIL USA, espresso in valore corrente del dollaro, ritardo a 7 mesi;
PIL USA, espresso in riferimento al valore del dollaro nell’anno 2000, ritardato ad 8
e 13 mesi.
Modello previsivo a 12 mesi (previsione per settembre 2005):
o
o
o
o
saldo di parte corrente, ritardato a 12 mesi;
prezzo d’importazione del petrolio per i Paesi OCSE, ritardato a 19 e 24 mesi;
prezzo d’importazione del petrolio per tutti i Paesi, ritardato a 15 mesi;
PIL USA, espresso in riferimento al valore del dollaro nell’anno 2000, ritardato ad
16 mesi.
Salta subito all’occhio come, tra le variabili ritenute significative dai diversi modelli, figurino
sempre quelle appartenenti alle medesime categorie. In particolare, ci troviamo sempre di fronte ad
una o più variabili relative al prodotto interno lordo, ad un saldo di parte corrente passato ed al
prezzo d’importazione del petrolio per i Paesi OCSE o per tutti i Paesi nel loro complesso. Gli
33
Si potrebbe obiettare che tra 117 e 105 osservazioni la differenza non è particolarmente significativa. Tale obiezione
sarebbe sicuramente da accogliere: anche 117 osservazioni sono poche per poter pensare di ottenere risultati veramente
attendibili da una rete neurale. La limitatezza del dataset utilizzato non è tuttavia voluta, ma bensì dettata dalle difficoltà
incontrate nel reperimento dei dati.
34
Si tenga presente che, per previsioni a 2 mesi, le variabili considerate avranno sempre un ritardo minimo di 2 mesi.
Questo poiché, com’è ovvio, si rende necessario ipotizzare che non siano disponibili i valori ritardati ad un mese.
32
investimenti diretti all’estero, provenienti dagli USA ed indirizzati verso “altre aree”, compaiono
soltanto in due dei quattro modelli elaborati, ma meritano comunque più di una menzione.
Procedendo con ordine, abbozziamo qualche considerazione accennando brevemente a prodotto
interno lordo e saldo di parte corrente passato. Queste due categorie di variabili, in valore assoluto,
sono quelle che più pesano all’interno del dataset utilizzato. Dovendo lavorare su di un enorme
numero di variabili, oltretutto di diversissimi ordini di grandezza (dalle centinaia di miliardi di
dollari del PIL ai rapporti a 4 cifre decimali tra le valute) non è stato possibile procedere ad una
normalizzazione efficiente dei dati mentre si operava la regressione35. Questo ha probabilmente
portato i nostri modelli a sottovalutare il contributo di altre variabili, quali i tassi di cambio ed i tassi
di interesse, che in effetti non ritroviamo in nessuno dei modelli selezionati geneticamente. Al
tempo stesso, questo ha accentuato l’importanza del PIL, che abbiamo ritrovato, ritardato in una
maniera o nell’altra, in tutti i modelli. La presenza di saldi di parte corrente passati, invece,
potrebbe non spiegarsi necessariamente con il problema della normalizzazione, quanto piuttosto con
il fatto che, dovendo stimare proprio questo saldo, un suo valore passato sia necessario ai nostri
modelli per “avere un’idea” della sua possibile dimensione in valore assoluto.
Se dunque era lecito aspettarsi che le due succitate tipologie di variabili comparissero all’interno dei
nostri modelli previsivi, era meno scontato trovarvi anche le altre due voci relative al prezzo del
petrolio ed agli investimenti diretti degli USA all’estero. Una loro spiegazione sulla base della
teoria econoima è tuttavia, almeno in prima approssimazione, estremamente semplice. La relazione
tra prezzo del petrolio e saldo di parte corrente di un Paese prevalentemente importatore è di tipo
inverso: un aumento del prezzo del greggio contribuisce ad un disavanzo del saldo del Paese che lo
importa. Gli investimenti diretti all’estero, che sono una fuoriuscita di capitali, dal canto loro
incidono sicuramente nel breve periodo, contribuendo ad un peggioramento del saldo corrente.
Interessante sarebbe studiare anche qual è la loro incidenza nel lungo periodo (che presumibilmente
potrebbe moltiplicarsi), ma il limitato numero di variabili “ritardate” utilizzato nei nostri modelli
non ci consente un’analisi così approfondita.
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La normalizzazione dei dati è stata effettuata con successo quando, dalle regressioni, si passava all’addestramento
delle reti neurali.
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Modifica del modello: previsione del tasso di cambio euro/dollaro
La versatilità delle tecniche statistiche utilizzate ci consente di mostrare come sarebbe possibile,
semplicemente invertendo di posto la variabile y con una delle variabili indipendenti x, effettuare
previsioni sull’andamento futuro di uno qualsiasi dei parametri inseriti all’interno dei modelli visti
finora. Tra poche righe diventerà chiaro il senso di quel condizionale usato in apertura di paragrafo.
Proviamo ad esempio ad impostare il nostro modello con variabile dipendente il tasso di cambio
dollaro/euro. Il suo andamento, in base ai dati raccolti, risulta essere quello rappresentato dal
grafico qui sotto:
Figura 13 - L'andamento del rapporto dollaro/euro nel periodo compreso tra gennaio 1996 e settembre 2005
Se il saldo di partite correnti è una grandezza macroeconomica che si può supporre dipenda
fortemente da variabili “strutturali” (e ciò è stato messo in evidenza dai modelli visti
precedentemente, che non hanno mai escluso il prodotto interno lordo), è lecito supporre invece che
il tasso di cambio di una moneta sia influenzato principalmente da componenti di breve periodo. Per
questo motivo, nel modello che analizziamo ora si sono prese in considerazione soltanto le variabili
“ritardate” fino ad un massimo di 6 mesi.
Per prima cosa, calcoliamo i vari coefficienti di correlazione tra il tasso di cambio e le altre variabili
presenti nel nostro modello. Quello che si ottiene è un istogramma come quello rappresentato nella
pagina seguente. E’ subito evidente come questi coefficienti siano molto inferiori rispetto a quelli
misurati nel modello sulle partite correnti. La soglia di 0,90 utilizzata nelle analisi preliminari dei
modelli precedenti non è qui applicabile, poiché escluderebbe la quasi totalità delle variabili
esistenti.
La soluzione più logica parrebbe dunque quella di utilizzare un algoritmo genetico per scegliere il
sottoinsieme di variabili maggiormente “rappresentativo”. Nonostante diversi tentativi, però, quello
che si è scoperto è che l’algoritmo non è in grado di invidiare un subset di variabili significative in
grado di spiegare l’andamento di questa variabile. Appare strano, considerato il largo numero di
variabili incluse nel modello, ma il risultato ottenuto è stato proprio questo.
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Figura 14 - Esattamente come nell’istogramma dei coefficienti di correlazione mostrato prima, partendo da
sinistra possiamo osservare “fasce” di diversi colori: quella rossa, che contiene le variabili “commerciali”
(import ed export); quella verde, contenente i tassi di interesse; quella gialla, dedicata ai tassi di cambio del
dollaro; quella blu, che contiene gli investimenti diretti all’estero (sia in entrata che in uscita); quella magenta,
che delimita le 20 variabili riferite ai passati saldi di parte corrente USA; quella nera, contenente i prezzi del
petrolio; quella ciano, con al suo interno il PIL statunitense.
Anche provando a fermare l’algoritmo dopo poche generazioni, quando il modello migliore
risultava ancora contenere un elevatissimo numero di variabili, la situazione non è cambiata. La
procedura iterativa descritta in precedenza, che provvede ad eliminare tutte le variabili con p-value
superiore alla soglia di 0.05 (corrispondente ad un intervallo di confidenza del 95%), non lascia
neppure una variabile all’interno del modello finale.
Il tentativo di utilizzare il nostro modello per la previsione del tasso di cambio dollaro/euro è
dunque fallito ancor prima di cominciare. Il buon senso ci suggerisce di non imputare le colpe
dell’insuccesso alle tecniche statistico-computazionali adottate, quanto piuttosto ad una scelta non
felice delle variabili presenti nel modello. Queste erano infatti state selezionate ipotizzando una loro
possibile correlazione con il saldo di parte corrente ed è legittimo il fatto che tali correlazioni non
siano presenti con una diversa variabile. A scagionare gli algoritmi genetici e, più in generale, i
modelli di regressione lineare, concorre inoltre il fatto che dei dati mensili relativi ad un tasso di
cambio non sono particolarmente significativi. Trattandosi di una variabile che presenta continue
oscillazioni giornaliere, il tentativo di fotografarla su base mensile va a toglierle quella discontinuità
che invece sarebbe interessante analizzare, soprattutto attraverso tecniche computazionali come
quelle viste all’opera in questo breve elaborato.
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Conclusioni e possibili miglioramenti del modello
Le previsioni effettuate e che, sulla base delle considerazioni esposte nei paragrafi precedenti,
possiamo ritenere attendibili, ci indicano un leggero miglioramento del saldo di parte corrente degli
Stati Uniti. Non essendovi in generale delle indicazioni di mutamenti strutturali nel modello del
commercio statunitense, possiamo ipotizzare che si tratti solo di una sorta di “aggiustamento” dei
dati, che non va comunque a ribaltare quel trend negativo che rende gli USA il Paese con il più
pesante deficit di parte corrente al mondo. Tuttavia, non possiamo neppure escludere l’ipotesi
secondo cui questo miglioramento del saldo potrebbe essere il primo passo verso una progressiva
riduzione del deficit.
Al di là dei valori che sono stati previsti, può comunque avere importanza osservare come sia stato
possibile costruire un modello in grado di approssimare, praticamente alla perfezione, il saldo delle
partite correnti, senza far ricorso, tra le decine di variabili indipendenti utilizzate, a quelle relative al
risparmio mondiale. Anche senza tenere in considerazione il presunto “global saving glut”
teorizzato da Bernanke, in sostanza, si è stati in grado di ricostruire in maniera più che accettabile
l’andamento del saldo di parte corrente USA nell’ultima decina di anni.
Questa è una chiara indicazione della possibile utilità derivante da modelli statistico/computazionali
come quello proposto in questo elaborato. Pur con tutti i suoi limiti, il nostro modello è stato in
grado di approssimare l’andamento temporale della variabile dipendente presa in esame e di
effettuare un paio di previsioni attendibili relative ai suoi valori nel futuro più prossimo. Inoltre, il
modello ci ha suggerito le future direzioni di ricerca. Il saldo di parte corrente sembra dipendere in
maniera rilevante, oltre che dalle variabili strutturali (PIL e saldi passati), anche dal prezzo del
petrolio e dagli investimenti all’estero. Raccogliendo quante più osservazioni possibili, a vari livelli
di disaggregazione, relative a queste ultime tipologie di variabili e costruendo modelli
strutturalmente simili a quelli appena visti, può essere possibile scoprire nuove ed interessanti
correlazioni del mondo macroeconomico.
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Riferimenti bibliografici ed indirizzi web:
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Ben S. Bernanke – “Remarks by Governor Ben S. Bernanke – At the Sandridge Lecture,
Virginia Association of Economics, Richmond, Virginia”
http://www.federalreserve.gov/boarddocs/speeches/2005/200503102/default.htm
OECD – “EO Sources – Notes to statistical annex tables 38-54: External trade and
payments”, Table 50:
http://www.oecd.org/document/7/0,2340,en_2649_34573_33702855_1_1_1_1,00.html#t_50
Yahoo! Italia – Finanza - “USA: Deficit Corrente terzo trimestre sceso a 195,8 mld dlr”
http://it.biz.yahoo.com/16122005/2/usa-deficit-corrente-trimestre-sceso-195-8-mld-dlr2.html
Zanny Minton Beddoes: “The great thrift shift. America is spending while the rest of the
world is saving. But for how long?”
http://www.economist.com/displaystory.cfm?story_id=4418328
Stephan Schulmeister – “Globalization without global money: the double role of the dollas
as national currency and world currency”
Jounal of Post Keynesian Economics, Vol.22, No.3, Spring, pp.365-95.
Fonti dei dati:
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Analysis - “U.S. International Transactions Accounts Data”:
http://www.bea.gov/bea/international/bp_web/simple.cfm?anon=320&table_id=1&area_id=
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Dati sul commercio estero, U.S. Census Bureau – “U.S. International Trade Statistics” (1digit aggregation):
http://censtats.census.gov/sitc/sitc.shtml
Dati sugli investimenti esteri, U.S. Department of Commerce – Bureau of Economic
Analysis – “U.S. Direct Investment Abroad: Country and Industry Detail for Capital Inflows
and Outflows”:
http://www.bea.gov/bea/di/usdiacap.htm
PIL, U.S. Deparment of Commerce – Bureau of Economic Analysis – “Gross Domestic
Production (GDP) – Current-dollar and ‘real’ GDP”:
http://www.bea.gov/bea/dn1.htm
Tassi di cambio del dollaro:
http://www.x-rates.com/cgi-bin/hlookup.cgi
Indicatore EER:
http://www.bundesbank.de/statistik/statistik_zeitreihen.en.php?func=list&tr=www_s332_b0
1013_3
Tassi d’interesse, U.S. Federal Reserve – “Federal Reserve Statistical Release”
http://www.federalreserve.gov/Releases/H15/data.htm
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