www.ildirittoamministrativo.it Osservatorio di diritto civile al 31 dicembre 2014 a cura di Giovanna Nalis 1. Corte di Cassazione, sezioni unite, sentenza n. 16379 del 17 luglio 2014, la convivenza “come coniugi”. Le Sezioni Unite pongono fine a una lunga diatriba giurisprudenziale in tema di delibazione delle sentenze ecclesiastiche di nullità matrimoniale. La rilevanza del citato contrasto è testimoniata dalla scelta della Cassazione di intervenire con le sentenze gemelle n. 16379 e n. 16380 del 17 luglio 20141. Va premesso che la fattispecie qui esaminata riguarda un matrimonio “concordatario” ultradecennale e caratterizzato dalla nascita di una figlia, dichiarato nullo dal Tribunale ecclesiastico regionale Triveneto con sentenza del 22 gennaio 2009, confermata con decreto del Tribunale ecclesiastico regionale Lombardo di appello del 3 settembre 2009 e resa esecutiva con decreto del Supremo Tribunale della Segnatura apostolica del 9 dicembre 2009, “per esclusione della indissolubilità del vincolo da parte della donna”. Della pronuncia canonica di nullità del matrimonio la donna ha ottenuto la dichiarazione di efficacia nella Repubblica italiana da parte della Corte d’Appello di Venezia con la sentenza impugnata dal ricorrente. L’ordinanza di rimessione presentata alle Sezioni Unite ha chiesto in particolare di pronunziarsi sulla seguente questione di diritto: se la sentenza canonica di nullità del matrimonio, pronunciata dal tribunale ecclesiastico, possa essere dichiarata efficace nella Repubblica italiana - oppure no, per violazione dell’ordine pubblico interno - , nel caso di convivenza tra i coniugi protrattasi per un certo periodo di tempo (che nell’ordinanza di rimessione viene individuato in un periodo superiore all’anno), e quali siano i vizi del “matrimonio-atto”, posti a base della pronunciata nullità canonica, eventualmente ostativi a detta dichiarazione d’efficacia; - se, in particolare, “il limite dell’ordine pubblico si riferisca alla convivenza da intendersi quale coabitazione materiale, cui fanno riferimento gli artt. 120 e 122 c.c., in caso di vizi del consenso, ovvero sia “significativa di un’instaurata affectio familiae, nel naturale rispetto dei diritti ed obblighi reciproci, per l’appunto, come tra (veri) coniugi (art. 143 c.c.), tale da dimostrare l’instaurazione di un matrimonio-rapporto duraturo e radicato nonostante il vizio genetico del matrimonio-atto” (Cass. 1 Esse hanno tratto origine rispettivamente dalle ordinanze interlocutorie della I sezione civile n. 712 e n. 4647 del 2013. 1 www.ildirittoamministrativo.it n. 1780/2012), dovendo in tal senso intendersi la locuzione “abbiano convissuto come coniugi” di cui all’art. 123 c.c., comma 2, in caso di simulazione”. In primo luogo la Cassazione ritiene opportuno ricostruire il quadro normativo di riferimento, in particolare le pertinenti disposizioni dell’Accordo tra la Repubblica italiana e la Santa Sede (art. 8)2 e le specificazioni del Protocollo addizionale del 1984, le norme di diritto interno ivi richiamate (art. 797, comma 1, n. 7 c.p.c.)3, e due pronunce della Corte costituzionale ritenute importanti per i principi affermati in tema di difesa dei propri diritti e tutela dell’ordine pubblico italiano (sentenze n. 18 del 1982) e laicità dello Stato (sentenza n. 203 del 1989). Indi la Corte si interroga sulla distinzione matrimonio-atto e matrimonio-rapporto e sulle conseguenze da essa derivanti, analizzando due opposti filoni giurisprudenziali. Secondo il primo (v. S.U. n. 4700 del 2008, confermata da Cass., I sez., n. 9826 del 2012) la convivenza fra i coniugi intervenuta successivamente alla celebrazione del matrimonio e ostativa all’impugnazione del matrimonio civile ai sensi dell’art. 123 c.c., comma 2, seppure norma imperativa interna, non costituisce espressione di principi o di regole fondamentali con le quali la Costituzione e le leggi dello Stato delineano l’istituto del matrimonio. Non si riscontra, dunque, nelle norme costituzionali l’esistenza di un principio chiaramente evincibile circa la prevalenza del matrimonio-rapporto sul matrimonio-atto, anche se viziato: ciò impedisce la praticabilità di un’interpretazione adeguatrice, per cui in ogni caso di matrimonio nullo per vizi del consenso l’impugnazione dell’atto sarebbe comunque impedita da detta convivenza come coniugi. Per un diverso orientamento (v. quanto espresso, sia pure incidentalmente, da S.U. n. 19809 del 2008) assume speciale rilievo il “rapporto” coniugale, che, nato dall’atto, incide con la sua realizzazione tipica costituita dalla convivenza o coabitazione spesso per un certo periodo di tempo, come fatto convalidante la volontà espressa all’atto della celebrazione e ostativo, per l’ordine pubblico italiano, a far rilevare l’invalidità del consenso del matrimonio in sede giurisdizionale. Ad avviso delle Sezioni Unite la distinzione tra “matrimonio-atto” e “matrimonio-rapporto” e la situazione giuridica “convivenza tra i coniugi” o “come coniugi” sono da ricondurre con certezza al 2 Cfr. n. 1 “Sono riconosciuti gli effetti civili ai matrimoni contratti secondo le norme del diritto canonico, a condizione che l’atto relativo sia trascritto nei registri dello stato civile, previe pubblicazioni nella casa comunale”; n. 2, lett. c) “2. Le sentenze di nullità di matrimonio pronunciate dai tribunali ecclesiastici, che siano munite del decreto di esecutività del superiore organo ecclesiastico di controllo, sono, su domanda delle parti o di una di esse, dichiarate efficaci nella Repubblica italiana con sentenza della corte d’appello competente, quando questa accerti:(...) c) che ricorrono le altre condizioni richieste dalla legislazione italiana per la dichiarazione di efficacia delle sentenze straniere”. 3 L’art. 797 c.p.c., comma 1, n. 7 dispone (va): “La corte d’appello dichiara con sentenza l’efficacia nella Repubblica della sentenza straniera quando accerta: (...) 7) che la sentenza non contiene disposizioni contrarie all’ordine pubblico italiano”. Il presente articolo è stato abrogato, con decorrenza dal 31.12.96, dall’ art. 73 della L. 31.05.1995, n. 218. 2 www.ildirittoamministrativo.it “matrimonio-rapporto”. Quanto affermato ha un chiaro e solido fondamento nella Costituzione, nelle Carte Europee dei diritti, nella legislazione italiana e radici nell’esperienza umana e giuridica universale. Devono essere citati in particolare l’art. 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York il 10 dicembre 1948, ed espressamente richiamata nei preamboli sia della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, adottata a Roma il 4 novembre 1950 e resa esecutiva in Italia dalla L. 4 agosto 1955, n. 848, sia del Patto internazionale sui diritti civili e politici, adottato a New York il 16 dicembre 1966 e reso esecutivo in Italia dalla L. 25 ottobre 1977, n. 881; l’art. 23, paragrafo 4, del citato Patto internazionale sui diritti civili e politici; l’art. 5, primo periodo, del Protocollo n. 7 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali; l’art. 29 della nostra Costituzione; molteplici disposizioni del Codice civile quali gli artt. 143, 144, 147 e 315 bis (inserito dall’art. 1, comma 8 della l. 10 dicembre 2012, n. 219). Tutte le norme richiamate vanno inoltre interpretate in conformità con i principi fondamentali affermati dall’art. 2 della Costituzione. Dal quadro descritto emerge che il “matrimonio-rapporto”, il quale ha certamente origine nel “matrimonio-atto”, può ritenersi un’espressione sintetica comprensiva di molteplici aspetti e dimensioni dello svolgimento della vita matrimoniale e familiare - che si traducono, sul piano rilevante per il diritto, in diritti, doveri, responsabilità, caratterizzandosi così, secondo il paradigma dell’art. 2 Cost., come il “contenitore”, per così dire, di una pluralità di “diritti inviolabili”, di “doveri inderogabili”, di “responsabilità”, di aspettative legittime e di legittimi affidamenti dei componenti della famiglia, sia come individui sia nelle relazioni reciproche. La “convivenza” dei coniugi o “come coniugi” costituisce dunque elemento essenziale del matrimonio-rapporto. Tuttavia per comprendere l’attuale significato giuridico della nozione di “convivenza” dei coniugi e di quella di “coabitazione” non è sufficiente riferirsi alla sola disciplina del codice civile. In esso si fa riferimento sia alla “coabitazione” dei coniugi (cfr., ad esempio, l’art. 143, comma 2, art. 119, comma 2, art. 120, comma 2) - termine presente fin dal codice civile del 1865 e che, letteralmente inteso, rimanda al fatto di abitare insieme nella stessa casa familiare - sia alla “convivenza” degli stessi (cfr., ad esempio, l’art. 120, comma 2, art. 151 comma 1, art. 232, comma 2). Quanto all’espressione “coabitazione” si specifica che se si tiene conto del diritto di ciascuno dei coniugi, in forza dell’art. 45 c.c., comma 1, di stabilire il proprio domicilio nel luogo corrispondente alla sede principale dei propri affari o interessi e del fatto che tale luogo può anche non coincidere, per vari motivi fra i quali si annoverano ad esempio le esigenze di lavoro, con quello ove è stata stabilita la “residenza della famiglia” (art. 144 e art. 146, commi 1 e 2), non può sicuramente escludersi il 3 www.ildirittoamministrativo.it diritto dei coniugi di concordare liberamente forme non tradizionali di rapporto matrimoniale non caratterizzate, cioè, (anche) dalla mera “coabitazione”, letteralmente intesa -, dalle quali sia tuttavia possibile inferire, secondo le concrete circostanze, una effettiva convivenza degli stessi (cfr. la significativa affermazione della Corte EDU, Grande Camera, sentenza 7 novembre 2013, Vallianatos ed altri contro Grecia, n. 84, secondo cui “non vi è solo un modo o una scelta per condurre la propria vita familiare o privata”, garantite dall'art. 8, paragrafo 1, della CEDU). La Corte afferma quindi che per individuare più precisamente il significato e i contenuti attuali della nozione di “convivenza” - da preferire rispetto a quella di “coabitazione”, per la sua indiscutibile, maggiore comprensività semantica -, è allora indispensabile fare riferimento innanzitutto alla Costituzione, ed anche alle carte Europee dei diritti che, com’è noto, vincolano, sia pure con diversa intensità, l’interprete: in particolare, all’art. 8, paragrafo 1, della CEDU secondo cui “Ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare(...)” - ed all’art. 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, secondo cui “Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare(...)” (cosiddetta “Carta di Nizza” che, com’è noto, “ha lo stesso valore giuridico dei trattati”: art. 6, paragrafo 1, TUE). Occorre inoltre affidarsi anche alla giurisprudenza costituzionale, della Corte EDU e della Corte di Giustizia UE. Così per la Corte Costituzionale la garanzia della “convivenza del nucleo familiare” si radica nelle norme costituzionali che assicurano protezione alla famiglia e in particolare, nell’ambito di questa, ai figli minori; il diritto e il dovere di mantenere, istruire ed educare i figli, e perciò di tenerli con sé, e il diritto dei genitori e dei figli minori ad una vita comune nel segno dell’unità della famiglia sono diritti fondamentali della persona ( sentenza n. 28 del 1995; sentenza n. 203 del 1997; sentenza n. 376 del 2000). Il Giudice delle leggi ha anche dichiarato l’illegittimità costituzionale di norme che arrecano un irragionevole pregiudizio ai rapporti familiari, che dovrebbero ricevere una protezione privilegiata ai sensi degli artt. 29, 30 e 31 Cost., e che la Repubblica è vincolata a sostenere, anche con specifiche agevolazioni e provvidenze, in base alle suddette previsioni costituzionali (sentenza n. 202 del 2013: in essa la Corte ha istituito un raffronto tra la tutela garantita dalle su menzionate norme della Costituzione e quella garantita dall’art. 8, paragrafo 1, della CEDU e dall’art. 7 della Carta di Nizza). E ancora si chiarisce che l’istituto del matrimonio civile, come previsto nel vigente ordinamento italiano, si riferisce soltanto all’unione stabile tra un uomo e una donna, mentre nella nozione di “formazione sociale”, di cui all’art. 2 Cost., è da annoverare anche l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso (sentenza n. 138 del 2010; sentenza n. 170 del 2014). 4 www.ildirittoamministrativo.it La Corte EDU ha affermato più volte che se l’art. 8 ha essenzialmente per oggetto la tutela dell’individuo dalle ingerenze arbitrarie dei poteri pubblici, esso non si limita ad ordinare allo Stato di astenersi da tali ingerenze (ex plurimis, sentenza, Seconda Sezione, 29 gennaio 2013, Lombardo contro Italia, n. 80, e sentenza della Grande Camera 3 novembre 2011, S. H. ed altri contro Austria, n. 87). Inoltre, la nozione di famiglia in base all’art. 8 non è limitata alle relazioni basate sul matrimonio e può comprendere altri legami “familiari” di fatto, se le parti convivono fuori dal vincolo del matrimonio con una “stabile relazione di fatto” idonea ad instaurare una “relazione durevole” fra i conviventi (ex plurimis, sentenza della Grande Camera 24 giugno 2010, Schalk e Kopf contro Austria, n. 91 e segg.) Ancora, la questione dell’esistenza o dell’assenza di una “vita familiare” è anzitutto una questione di fatto, che dipende dall’esistenza di legami personali stretti (ex plurimis, sentenza 27 aprile 2010 Moretti e Benedetti contro Italia, n. 44). Inoltre, con riferimento alla coppia sposata, l’espressione vita familiare implica normalmente la coabitazione ( Grande Camera, sentenza 28 maggio 1985, Abdulaziz, Cabales et Balkandali contro Regno Unito, n. 62), ma non vi è solo un modo o una scelta per condurre la propria vita familiare o privata, garantite dall’art. 8, par. 1 CEDU, non potendosi escludere il diritto dei coniugi di concordare liberamente forme non tradizionali di rapporto matrimoniale, non caratterizzate cioè dalla mera “coabitazione” letteralmente intesa (sentenza della Grande Camera 7 novembre 2013, Vallianatos ed altri contro Grecia, n. 84). Infine, secondo il suo consolidato orientamento, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea afferma che l’art. 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, relativo al diritto al rispetto alla vita privata e familiare, contiene diritti corrispondenti a quelli garantiti dall’art. 8, n. 1, della CEDU e che pertanto occorre attribuire all’art. 7 della Carta lo stesso significato e la stessa portata attribuiti all’art. 8, n. 1, della CEDU, nell’interpretazione fornita dalla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo (ex plurimis, sentenza della Grande Sezione 15 novembre 2011, causa C- 256/11). Da quanto esposto deriva, anche alla luce della giurisprudenza citata, che non la mera coabitazione ma la convivenza “come coniugi”, intesa come vivere insieme e con continuità nel corso del tempo e per un tempo significativo tale da costituire “legami familiari”, integra un aspetto essenziale o costitutivo del “matrimonio rapporto”. Essa si caratterizza al pari di quest’ultimo, secondo il paradigma dell’art. 2 Cost., come manifestazione di una pluralità di “diritti inviolabili”, di “doveri inderogabili”, di “responsabilità” anche genitoriali in presenza di figli, di “aspettative legittime” e di “legittimi affidamenti” degli stessi coniugi e dei figli, sia come singoli sia nelle reciproche relazioni familiari. Tale situazione giuridica, in quanto regolata da disposizioni costituzionali, 5 www.ildirittoamministrativo.it convenzionali ed ordinarie, è tutelata da norme di “ordine pubblico italiano”, secondo il disposto dell’art. 797 c.p.c., comma 1 n. 74. La locuzione “convivenza coniugale”, nel caso affrontato, necessita tuttavia di una duplice specificazione per la sua corretta individuazione, dovendo essa presentare i caratteri dell’esteriorità e della stabilità. La prima coincide con fatti e comportamenti che corrispondono alla convivenza coniugale in modo non equivoco. La seconda non è in vero temporalmente delimitata, anche se concordemente evocata dalla giurisprudenza costituzionale e dalle Corti Europee. Tuttavia, ai fini della composizione del contrasto in questione, appare indispensabile individuare il periodo di tempo dalla celebrazione del matrimonio che determini la sopravvenuta irrilevanza giuridica dei vizi genetici eventualmente inficianti “l’atto” del matrimonio e che si considerano sanati dall’accettazione del rapporto. Proprio al favor matrimonii si ispira la ratio di quelle norme del codice civile che sanciscono la decadenza delle azioni di annullamento del matrimonio. Si tratta degli artt. 119 comma 2; 120, comma 2; 122 comma 4. Ed una medesima ratio si riscontra anche nell’art. 123 comma 2, relativo agli accordi simulatori. Per individuare la ragionevole durata della convivenza coniugale, il Collegio ritiene di poter far riferimento per le strette connessioni analogiche tra le fattispecie5 alla L. 4 maggio 1983, n. 184, art. 6, commi 1 e 4, (Diritto del minore ad una famiglia), nel testo sostituito dalla L. 28 marzo 2001, n. 149, art. 6, comma 1, (Modifiche alla L. 4 maggio 1983, n. 184, recante “Disciplina dell’adozione e dell'affidamento dei minori”, nonchè al titolo VIII del libro primo del codice civile), secondo i quali: 1. L’adozione è consentita a coniugi uniti in matrimonio da almeno tre anni. Tra i coniugi non deve sussistere e non deve avere avuto luogo negli ultimi tre anni separazione personale neppure di fatto(....). 4. Il requisito della stabilità del rapporto di cui al comma 1 può ritenersi realizzato anche quando i coniugi abbiano convissuto in modo stabile e continuativo prima del matrimonio per un periodo di tre anni, nel caso in cui il tribunale per i minorenni accerti la continuità e la stabilità della convivenza, avuto riguardo a tutte le circostanze del caso concreto (cfr. anche la stessa L. n. 184 del 1983, art. 29 - bis, comma 1, che richiede per gli adottanti, ai fini dell'adozione internazionale, le medesime condizioni soggettive di cui all'art. 6). 4 Le norme d’ordine pubblico si individuano nelle regole fondamentali poste dalla Costituzione e dalle leggi a base degli istituti giuridici in cui si articola l’ordinamento positivo nel suo perenne adeguarsi all’evoluzione della società. Si ritiene che la inderogabile tutela dell’ordine pubblico sia imposta soprattutto a presidio della sovranità dello Stato. 5 Si utilizza il canone ermeneutico previsto dall’art. 12, comma 2, primo periodo, delle disposizioni sulla legge in generale, ossia l’analogia legis. 6 www.ildirittoamministrativo.it Alla luce di quanto esposto, tre anni di convivenza dopo la celebrazione del matrimonio costituiscono una situazione giuridica tutelata da norme di “ordine pubblico italiano”. Per la prima volta si stabilisce dunque quale sia il periodo di durata minimo della convivenza dopo le nozze, rilevante ai fini dell’ordine pubblico italiano. La Corte si chiede, quindi, se il giudice della delibazione debba distinguere tra i vizi genetici comportanti la nullità del matrimonio, accertati e dichiarati secondo il diritto canonico. A tale interrogativo dà risposta negativa, proprio in considerazione dei citati limiti di ordine pubblico. Le Sezioni Unite esprimono inoltre altre osservazioni sul principio di laicità dello Stato, sull’interpretazione di disposizioni contenute nell’Accordo di Villa Madama e sul limite dell’ordine pubblico, da intendersi quale ordine pubblico italiano e non internazionale. Ne deriva che, fatte salve alcune eccezioni relative a profili di competenza, giudicato e divieto di riesame nel merito della sentenza canonica, sussiste pieno ed effettivo esercizio della giurisdizione da parte del giudice della delibazione, quanto in particolare all’esercizio del potere di controllo della sentenza canonica di nullità del matrimonio sotto il profilo della sua eventuale contrarietà con l’ordine pubblico italiano. Si enunzia quindi il seguente principio di diritto. La convivenza “come coniugi” deve intendersi secondo la Costituzione (artt. 2, 3, 29, 30 e 31), le Carte Europee dei diritti (art. 8, paragrafo 1, della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, art. 7 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea), come interpretate dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, ed il Codice civile - quale elemento essenziale del “matrimonio-rapporto”, che si manifesta come consuetudine di vita coniugale comune, stabile e continua nel tempo, ed esteriormente riconoscibile attraverso corrispondenti, specifici fatti e comportamenti dei coniugi, e quale fonte di una pluralità di diritti inviolabili, di doveri inderogabili, di responsabilità anche genitoriali in presenza di figli, di aspettative legittime e di legittimi affidamenti degli stessi coniugi e dei figli, sia come singoli sia nelle reciproche relazioni familiari. In tal modo intesa, la convivenza “come coniugi”, protrattasi per almeno tre anni dalla data di celebrazione del matrimonio “concordatario” regolarmente trascritto, connotando nell’essenziale l’istituto del matrimonio nell’ordinamento italiano, è costitutiva di una situazione giuridica disciplinata da norme costituzionali, convenzionali ed ordinarie, di “ordine pubblico italiano” e, pertanto, anche in applicazione dell’art. 7 Cost., comma 1, e del principio supremo di laicità dello Stato, è ostativa - ai sensi dell’Accordo, con Protocollo addizionale, firmato a Roma il 18 febbraio 1984, che apporta modificazioni al Concordato lateranense dell’11 febbraio 1929, tra la Repubblica italiana e la Santa Sede, reso esecutivo dalla l. 25 marzo 1985, n. 121, (in particolare, dell’art. 8, n. 2, lett. c, dell’Accordo e del punto 4, lett. b, del Protocollo addizionale), e dell’art. 797 c.p.c., comma 1, n. 7 www.ildirittoamministrativo.it 7, - alla dichiarazione di efficacia nella Repubblica Italiana delle sentenze definitive di nullità di matrimonio pronunciate dai tribunali ecclesiastici, per qualsiasi vizio genetico del matrimonio accertato e dichiarato dal giudice ecclesiastico nell’ “ordine canonico” nonostante la sussistenza di detta convivenza coniugale. Va infine segnalato, sotto il profilo processuale, che il ricorso presentato innanzi al Supremo Collegio è stato rigettato perché l’eccezione della sussistenza del matrimonio-rapporto, ostativo della delibazione in Italia della sentenza ecclesistica pronunziata, avrebbe dovuto essere tempestivamente eccepita dal coniuge interessato alla prosecuzione del matrimonio sin dalla comparsa di risposta nel processo di delibazione della sentenza ecclesiastica e non, per la prima volta, in Cassazione. Ciononostante, le Sezioni Unite hanno composto il citato contrasto giurisprudenziale e hanno affermato, anche d’ufficio, il principio di diritto nell’interesse della legge, ai sensi dell’art. 363 comma 3 c.p.c. 6. 2. Corte di Cassazione, terza sezione, sentenza n. 24473 del 23 settembre 2013, carattere unitario della liquidazione del danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c. e c.d. “personalizzazione”. In relazione alle poste risarcite a titolo di danno non patrimoniale, la Cassazione ribadisce “il principio secondo cui (Cass., n. 21716 del 23/09/2013) il carattere unitario della liquidazione del danno non patrimoniale ex art. 2059 cod. civ. preclude la possibilità di un separato ed autonomo risarcimento di specifiche fattispecie di sofferenza patite dalla persona (danno alla vita di relazione, danno estetico, danno esistenziale, ecc., che hanno solo funzione descrittiva dell’estensione dell’unico danno non patrimoniale nella fattispecie in esame), che costituirebbero vere e proprie duplicazioni risarcitorie, fermo restando, però, l’obbligo del giudice di tenere conto di tutte le peculiari modalità di atteggiarsi del danno non patrimoniale nel singolo caso, tramite l’incremento della somma dovuta a titolo risarcitorio in sede di personalizzazione della liquidazione”. In particolare le tabelle predisposte dal Tribunale di Milano sono ritenute un valido criterio di riferimento ai fini della valutazione equitativa ex art. 1226 c.c., salvo necessarie variazioni, in aumento o in diminuzione, riguardo al caso concreto. Rispetto agli aspetti relazionali del danno non patrimoniale, va verificato se le tabelle applicate tengano conto anche del c.d. danno esistenziale, dovendo in caso contrario procedere alla c.d. “personalizzazione” (Cass., n. 14402 del 30/06/2011). La Cassazione ritiene che nel caso esaminato siano stati correttamente applicati i suddetti principi. 6 La medesima vicenda processuale si è verificata nel caso esaminato nell’altra sentenza gemella citata. 8 www.ildirittoamministrativo.it In ordine alla sussistenza di un danno da “mala gestio”, si osserva che “in caso di incapienza del massimale, la responsabilità dell’assicuratore non può che correlarsi alle conseguenze negative che il ritardo nell’adempimento della sua obbligazione (che è, appunto, quella di pagamento del danno nei limiti del massimale) ha provocato e, dunque, agli interessi e al maggior danno (anche da svalutazione monetaria, per la parte non coperta dagli interessi) conseguito al ritardo nel pagamento del massimale, che solo entro tali precisi limiti può essere, pertanto, superato, restando a carico dell’assicurato il risarcimento del danno ulteriore (Cass., n. 22883 del 30/10/2007; Cass., n. 15397 del 28/06/2010). Nel caso in questione si è considerato che il danno da colpevole ritardo dell’assicuratore nel pagamento del massimale è coperto dagli interessi legali a cui lo stesso è stato condannato sulla somma già pagata a titolo di massimale, né parte attrice ha provato l’esistenza di un maggior danno oltre quanto coperto dagli interessi legali. 3. Corte di Cassazione, seconda sezione, sentenza n. 20854 del 2 ottobre 2014, condizione risolutiva o clausola risolutiva espressa? La Corte si pronunzia sulla distinzione fra condizione risolutiva e clausola risolutiva espressa, attribuendo valore dirimente alla corretta interpretazione della volontà delle parti. Il ricorrente denunzia sotto vari aspetti violazione degli artt. 1362 ss. del codice civile in relazione ad un preliminare. Al fine di decidere la controversia, la Cassazione rammenta che “in tema di contratti, si ha condizione risolutiva (art. 1353 c.c.), allorquando le parti subordinino la risoluzione del contratto o di un singolo patto a un evento futuro e incerto. Qualora si verifichi la condizione risolutiva, gli effetti del negozio si considerano come mai verificati. La clausola risolutiva espressa (art. 1456 c.c.), invece, è la clausola con la quale le parti prevedono che il contratto dovrà considerarsi risolto qualora una determinata obbligazione non venga adempiuta affatto o non venga adempiuta secondo le modalità stabilite. In tal caso, la risoluzione si verifica di diritto quando la parte non inadempiente (la quale ha diritto di scegliere tra il mantenimento del contratto e la sua risoluzione) dichiara all’altra che intende valersi della clausola risolutiva”. La clausola risolutiva espressa, pertanto, attribuisce al contraente il diritto potestativo di ottenere la risoluzione del contratto per l’inadempimento di controparte senza doverne provare l’importanza; la risoluzione del contratto per il verificarsi del fatto considerato non può essere dunque pronunziata d’ufficio, ma solo se la parte nel cui interesse la clausola è stata inserita nel contratto dichiara di volersene avvalere (Cass. 1-82007 n. 16993; Cass. 5-1-2005 n. 167). Si precisa inoltre che stabilire se nel caso concreto sussista una condizione risolutiva o una clausola risolutiva espressa dipende dall’interpretazione della volontà delle parti, rimessa al giudice di 9 www.ildirittoamministrativo.it merito e censurabile in sede di legittimità solo nella misura in cui sia informata ad erronei criteri giuridici o non sia sorretta da una motivazione logicamente adeguata. La Corte di Appello, nell’interpretare la volontà contrattuale nel caso di specie, ha affermato che una clausola del contratto preliminare in questione non attribuiva a una delle parti il diritto potestativo di ottenere la risoluzione dei contratto per inadempimento, ma prevedeva invece una condizione risolutiva, erroneamente qualificata “sospensiva”, derivante dall’omessa estinzione dei mutui bancari gravanti sull’appartamento in oggetto entro il termine di sei mesi dalla stipula del preliminare, facendo dipendere l’eventuale risoluzione del contratto da un evento futuro e incerto. La Cassazione ha ritenuto tuttavia che il giudice del gravame non abbia sufficientemente spiegato le ragioni del suo convincimento, tralasciando aspetti importanti relativi all’effettiva volontà delle parti. Alla Corte appare più plausibile ipotizzare, anche tenendo in considerazione l’entità della caparra versata, che in virtù di un concreto interesse all’esecuzione del preliminare una parte abbia inteso riservarsi la facoltà, nel caso in cui decorsi sei mesi la promittente venditrice fosse rimasta inadempiente, di valutare la convenienza o meno di avvalersi della clausola che gli attribuiva il diritto potestativo di ottenere la risoluzione del contratto. Quanto stabilito nel contratto appare infatti più coerente con la previsione di una clausola risolutiva espressa piuttosto che con la considerazione di un elemento accidentale rispetto alla vita del contratto7. 4. Corte di Cassazione, sezione terza, sentenza n. 21025 del 6 ottobre 2014, responsabilità medica e ripartizione dell’onere della prova. In tema di responsabilità derivante da attività medico-chirurgica la Corte asserisce, come già più volte affermato in precedenza, che “l’attore deve provare l’esistenza del contratto (o il contatto sociale) ed allegare l’insorgenza (o l’aggravamento) della patologia e l’inadempimento qualificato del debitore, astrattamente idoneo a provocare (quale causa o concausa efficiente) il danno lamentato, rimanendo a carico del medico convenuto e/o della struttura sanitaria dimostrare che tale inadempimento non vi sia stato, ovvero che, pur essendovi stato, lo stesso non abbia avuto alcuna incidenza causale sulla produzione del danno (Cass., sez. un., 11 gennaio 2008, n. 577; Cass. 12 settembre 2013 n. 20904 e Cass. 12 dicembre 2013, n. 27855)”. 7 Nel contratto le parti davano atto che l’immobile promesso in vendita era gravato da ipoteca a favore di due istituti di credito e che erano in corso, da parte del promittente alienante contatti per la definizione di tali rapporti. Esse stabilivano all’art. 3 che il contratto era condizionato alla “documentata sostanziale liberazione dell’appartamento promesso in vendita con dichiarazione proveniente dai due istituti bancari infra il termine di sei mesi dalla data del presente preliminare”. Si stabiliva inoltre con l’art. 5 che “nell’ipotesi in cui con il decorso del termine sopra indicato non si dovesse verificare la condizione sospensiva convenuta al punto 3, il presente preliminare sarà risoluto di diritto con il solo obbligo della promettente venditrice di restituire al promettente acquirente la caparra oggi versata”. 10 www.ildirittoamministrativo.it Nel caso di specie, il diritto al risarcimento era stato richiesto da un uomo che aveva riportato, dopo un intervento chirurgico di osteosintesi con placca a vite e scivolamento, un grave spostamento della zona fratturata. Poiché la Corte di merito non si è attenuta al principio sopra espresso, la sentenza è stata cassata con rinvio. La Cassazione ha chiarito, infatti, che era onere dell’azienda sanitaria provare che non vi fosse stato inadempimento, tenuto conto delle condizioni del paziente al momento dell’ingresso nella suddetta struttura e delle attività curative praticate. In tal modo è stata accolta la tesi del ricorrente che aveva ritenuto di aver assolto il proprio onere probatorio, provando soltanto l’aggravamento della patologia consistente nella pluriframmentazione del collo del femore e nell’accorciamento dell’arto con le difficoltà di deambulazione ad esso collegate. 11