1 Mathesis universalis Costruzionismo e metodo assoluto in Schelling Tonino Griffero (Apple Macintosh, Word 5.1a) E' un luogo comune della storiografia postidealistica accusare la Naturphilosophie schellinghiana di non aver prestato eccessiva attenzione al molteplice empirico sperimentalmente indagabile, e di aver per di più sottovalutato l'imporsi nella modernità del metodo matematico quale paradigma di qualsiasi sapere degno di questo nome. Si tratta di un'obiezione non solo generica e superficiale, ma soprattutto facilmente rettificabile sulla scorta di una più attenta e meno prevenuta analisi dei testi schellinghiani, tanto più quando si tenta di individuare il nucleo di un certo periodo di questa filosofia nel metodo della «costruzione», al quale tutto si può imputare, ma non di affidarsi ad un apriorismo postulatorio, giacché al contrario, propriamente, «postulare è rinunciare a costruire» (SW V 142) (1). Occuparsi filosoficamente del problema della «costruzione» significa poi, inequivocabilmente, rispondere in positivo o in negativo all'annosa controversia circa la possibilità di un'estensione del costruzionismo matematico alla filosofia. Nel presente contesto, tuttavia, non si potrà non prescindere dai presupposti di questo approccio (eventuale coincidenza di costruibilità e scientificità, ricorso alla costruzione come segno di un privilegio oppure di un inaggirabile difetto strutturale, ecc.), per aggredire invece direttamente il rapporto nell'opera di Schelling tra concetto e intuizione (più o meno sensibile), che è quanto dire la possibilità per la sua filosofia di un oltrepassamento, da un lato, della coscienza comune, dall'altro, della dimensione puramente astratta e discorsiva dei suoi «costrutti», alla luce della diffusissima esigenza postkantiana (nelle sue più diverse sfumature: estetica, pedagogica, politica, ecc.) della Versinnlichung. Ma il tema della «costruzione», al di là di queste generiche premesse, circoscrive un orizzonte problematico tutt'altro che univoco. A cominciare dal fatto che, per la sua stessa natura (storiograficamente e geneticamente ricostruibile), il costruzionismo può legittimare due orientamenti tra loro addirittura antitetici, a seconda cioè della rilevanza che vi gioca la «sindrome» platonica: potrebbe cioè promuovere la tesi secondo cui è scientificamente accertato e di valore sintetico — al limite: che esiste — solo ciò che, potendo essere costruito nell'intuizione spaziotemporale, viene sottratto al cosmo puramente logico della possibilità come incontraddittorietà; ma potrebbe altresì sancire l'esistenza matematica, e quindi eterna e a priori, delle cose, del tutto indipendentemente da ogni riferimento empirico ed esperienziale. Questi dubbi ritornano, accentuati, nel caso di Schelling. Si può, ad esempio, sostenere che la tematizzazione del metodo costruttivo dimostri che egli effettivamente costruisce-deduce filosoficamente qualcosa, o non apparirà piuttosto eccessiva e fuorviante la sua pretesa di identificare deduzione e costruzione (la deduzione nel senso kantiano del quid juris è, infatti, cosa ben diversa dalla deduzione matematica di natura logico-formale)? E poi, se è vero che Schelling pone come meta la consapevolezza della «necessità» di una certa proposizione della filosofia della natura (SW III 278) ed equipara esplicitamente la «deduzione del processo dinamico a una completa costruzione della materia» (SW IV 4), non sarà tuttavia necessario riconoscere che la necessità qui evocata non ha nulla a che fare con il rigore della dimostrazione 2 matematica, che qui la costruzione consiste in definitiva solo «nell'esplicitare le implicazioni dei principi originari nella loro applicazione ai dati di fatto dell'esperienza» (2)? In breve, nel giustificare il proprio metodo costruttivistico Schelling non finisce di mescolare il concetto logico-trascendentale e quello logico-formale di deduzione, passando inoltre con troppa disinvoltura dallo speculativo a conclusioni quantitative, in virtù dell'ammissione di un semplice continuum tra la deduzione trascendentale e la costruzione matematico-filosofica? A queste severe obiezioni sarà possibile dare una risposta parzialmente soddisfacente, unicamente presentando nel suo sviluppo interno il costruzionismo del filosofo di Leonberg, cominciando, tra l'altro, con la banale ma pertinente osservazione che c'è costruzione e costruzione, e ascrivere alla filosofia schellinghiana un metodo costruttivo non significa ancora nulla, in assenza delle debite precisazioni in ordine al concetto di realtà e di filosofia che esso implica. D'altronde, l'interesse per questo tema matematicofilosofico ha l'indubbio merito di indurci a scrutare con occhio più attento, e al di là di una visione pregiudiziale, per la quale la Naturphilosophie schellinghiana non sarebbe che un fossile nella storia della scienza romantica, gli stretti rapporti che essa indubbiamente intratteneva con le scienze del tempo e nella fattispecie con la matematica. Ripercorrere l'evoluzione del concetto di costruzione (dal 1797 al 1805 all'incirca) significa, inoltre, comprendere e valutare nuovamente, insieme con la pretesa del filosofo della natura di mettersi al posto della natura (SW IV 530), quella più generale, della Naturphilosophie e della filosofia tout court, di essere una supermatematica edificatasi sulla «pura intuizione intellettuale che si riflette in se stessa» (SW V 129). 1. Esperimento e Zentralphänomen -- Ma subito un'obiezione e un pregiudizio immediati ingombrano il nostro cammino, alimentati se non principalmente certamente anche dall'adozione da parte di Schelling nel sistema dell'identità di un metodo dichiaratamente costruttivo: che proprio il costruzionismo idealistico comprovi emblematicamente la sua inclinazione ad indugiare su un apriorismo irrazionalistico e su assurde e inverificabili pretese totalizzanti. E' quasi inutile rammentare che questa obiezione, divenuta come s'è detto un luogo comune, che solo oggi lo sviluppo della ricerca tende a ridimensionare, non è che la replica di quella a suo tempo formulata nella Phänomenologie des Geistes e diretta appunto al costruzionismo della scuola schellinghiana. Hegel, del resto, non riconosceva alla costruzione, neppure nella sua applicazione in campo strettamente matematico, un qualche rango scientifico: inessenziale in quanto non sarebbe che un fare esteriore («il movimento della dimostrazione matematica non appartiene all'oggetto, ma è un operare esteriore alla cosa») (3) che forma non concetti ma mere astrazioni dell'intuizione sensibile, la costruzione, in matematica e tanto più in filosofia, esporrebbe bensì il divenire dell'oggetto nella conoscenza, ma in nessun caso l'intimo divenire della cosa (4), sfociando così in un vuoto formalismo esteriore ben lontano dal procedimento scientifico-filosofico che, solo, garantisce la piena manifestazione del concetto. Lasciando per ora da parte la seria e a suo modo epocale obiezione hegeliana, limitiamoci dapprima a prendere brevemente in considerazione la «classica» accusa di antiempiricità e astrattezza rivolta alla filosofia e alla scienza romantiche. A questo livello l'addebito si rivela assai approssimativo e generico, dato che, se già a modo loro sia la Wissenschaftslehre fichtiana che la filosofia speculativa hegeliana non intendono affatto minacciare o misconoscere la conoscenza empirica, l'orientamento 3 genericamente positivo di tutto Schelling (5) sembra addirittura assegnare un valore intrafilosofico al metodo empirico in quanto tale e auspicare un certo concordismo tra Naturphilosophie e Naturwissenchaft; come asserisce un passo del 1799, «la fisica speculativa (l'anima del vero esperimento) è stata da sempre la madre di ogni grande scoperta nella natura» (SW III 280). Un'affermazione che pare tornare, apparentemente senza soluzione di continuità, nel 1803, quando citando con evidente approvazione un brano di Hoyer, Schelling rammenta che «senza Naturphilosophie nessuna Naturwissenschaft. Il solo vero scopo ultimo dello studio (empirico) della natura, all'infuori dell'applicazione, può essere unicamente quello di porre necessariamente e integralmente in connessione la conoscenza particolare della natura con questa metafisica della natura» (SW V 150). La definizione del metodo naturphilosophisch nei termini di un «costruire i fenomeni mediante l'esperimento» (SW V 323), nonché l'assegnazione alla più tarda filosofia positiva non di un «apriorismo dell'empirico» bensì di un «empirismo dell'apriori» (SW XIII 130) — una considerazione, cioè, che abbia ad oggetto il divenire «storico» di Dio — parrebbero implicare e quindi confermare la già rimarcata indicazione antiaprioristica (6). Ma il discorso si complica non appena ci si impegna a chiarire quale esperienza Schelling abbia in mente. Con «vera esperienza», infatti, — sulla quale si fonderebbe l'intero nostro sapere (SW III 278), non da ultimo perché l'esperienza di un solo fenomeno contrario al «principio» presupposto lo falsifica (SW III 277) — si intende qui unicamente quella stabilita a partire dalle idee (SW V 230) e da una serie di principi ai quali è stato opportunamente e previamente conferito un ordine sistematico (SW V 323); solo quell'esperienza che, in breve, viene decisa e anticipata filosoficamente, e che perciò rende superfluo l'empirismo nelle scienze (si potrebbe parlare a questo proposito per Schelling di un «riduzionismo all'insù») (7). I prodotti che è lecito ammettere nella natura, ad esempio, sono solo quelli dedotti dalla considerazione della sua necessaria attività, da come essa opera essendo «il puramente-oggettivo dell'intuizione intellettuale». Sono questi prodotti l'oggetto della Naturphilosophie, indipendentemente, almeno in un primo momento, dal fatto che essi «siano o meno quelli che si presentano nell'esperienza» (SW IV 90). L'esperienza, in ultima analisi, non è qui assunta in un senso preidealistico, ossia convocata per convalidare o smentire l'elaborazione sistematica sul piano delle idee, ma solo perché si sottoponga a tale anticipazione e si sottragga così alla propria altrimenti insuperabile anarchia. Possiamo ricorrere ad una felice formulazione schellinghiana: «l'esperienza sarebbe certamente un'ottima cosa se solo si potesse sempre subito accertare che cosa propriamente la natura dica. Ciò può accadere solo per mezzo della teoria» (SW IV 534), poiché in assenza di una corretta teoria non si potrebbe contare su una corretta esperienza. Il che risulta comprovato dall'assunto per cui «il dato di fatto in sé non è nulla» (SW IV 532), potendo apparire in modo diverso a seconda della teoria di chi lo tematizza. E' solo su questa base che è possibile compendiare la dottrina schellinghiana del nesso consequenziale tra corretta teoria e corretta esperienza (o esperimento) individuando due criteri fondamentali (8): anzitutto quello secondo cui nessun esperimento può dimostrare la verità delle teorie, tanto più quando si tratti di teorie condannate ad avvolgersi nell'«eterno circolo dello spiegare», in quanto escogitate per astrazione dall'esperienza e fondate su cause non conosciute in se stesse ma sempre solo in interrelazione con gli effetti che a loro volta esse dovrebbero spiegare (SW IV 529); in secondo luogo quello secondo cui la garanzia di verità delle teorie direttive dell'approccio sperimentale va fissata non meno a priori della teoria stessa, in quanto, 4 «siccome la natura non può mai contraddire la ragione», la costruzione soltanto, e non la spiegazione (empiristicamente fondata sul regresso dall'effetto alla causa), può legittimamente godere di un'universale validità rispetto ad ogni possibile futura esperienza (SW IV 530). Un atteggiamento, quello assunto da Schelling, che forse Goethe pensava di poter scongiurare prima ancora che si propagasse: «una mente robusta impiega tanta più arte, quanto meno dati possiede [...], sa avviluppare, confondere ed eliminare i dati avversi in modo che il tutto somigli non a una repubblica basata sull'autogoverno, ma alla corte di un despota» (9). Ma, al di là di questa felice scelta metaforica, la Naturphilosophie romantica, e quella schellighiana in particolare, sarà davvero assimilabile alla «corte di un despota», e soprattutto si potrà sbrigativamente considerare in tal modo il metodo schellinghiano del costruire? A complicare l'indagine è il fatto che le prime riflessioni schellinghiane sull'esperimento appaiono ancora facilmente inscrivibili nell'orizzonte kantiano, e cioè nient'affatto semplicemente oculare o contemplativo. Leggiamo, ad esempio, una pagina del 1799: Non sarebbe certamente possibile gettare uno sguardo nella costruzione interna della natura se non fosse possibile un intervento nella natura grazie alla libertà. [...] Questo intervento nella natura si chiama esperimento. Ogni esperimento è una domanda posta alla natura, alla quale la si costringe a dare risposta. Ma ogni domanda contiene, nascosto, un giudizio a priori; ogni esperimento che sia tale è una profezia; lo sperimentare è esso stesso un produrre fenomeni (SW III 276). Il passaggio dalla metafora kantiana del tribunale a quella schellinghiana della profezia segnala, tuttavia, una precisa radicalizzazione dell'impostazione trascendentale. In gioco non è qui solo una difesa dell'interesse teoricamente condizionato di qualsiasi ricerca, ma una Naturphilosophie che, nella sua qualità di matematica universale, anticipi fin nei dettagli la sfera empirica, trasformando così il rapporto tra teoria ed esperienza, pensato da Kant ancora nei termini della relazione forma/materia, in un continuum, nel quadro del quale il dato empirico non è che la specificazione (perché dotato evidentemente di una minore universalità) della sua corrispondente definizione teorica, quindi in se stesso perfino eventualmente superfluo. Non solo, infatti, la qualità e la chiarezza stessa delle risposte della natura dipendono dall'ingegnosità delle domande poste dal filosofo (SW V 322), ma il sapere costruttivo-esoterico non può mai essere, in definitiva, confermato o smentito dal lato sperimentale-essoterico della scienza: sarebbe anche nei casi migliori, anche quando si trattasse di una ricerca empirica seria e non affidata a pseudoesperti (SW VII 137-138), o a quei fisici empirici che Schelling paragona ad «animali privi di ragione» e dotati semplicemente di una «solerzia istintiva» (SW IV 549), come voler arginare l'oceano con la paglia (SW V 325, 323), come pretendere di soddisfare con l'accumulo di dettagli superficiali il bisogno di una visione complessiva della struttura profonda. All'esperienza, del tutto anticipabile dallo studioso mediante l'indagine di se stesso, spetta in definitiva solo la documentazione intuitiva di quanto costruito (e qualcosa di analogo avviene anche nella ritteriana Physik als Kunst). Ogni eventuale discrepanza tra a priori e a posteriori andrebbe piuttosto addebitata all'infelice applicazione di ciò che si è razionalmente e quindi perfettamente costruito, all'incomprensione di quel costrutto che ontognoseologicamente anticipa l'esperienza, permettendo tra l'altro allo studioso una migliore economia delle sue forze (10). Il sapere si tramuta in sapere a priori quando se ne comprende l'interna necessità e quando, ciò facendo, ci si adegua al fatto che la natura stessa è a priori rispetto alle proprie parti. Ma questa difesa dell'autonomia 5 della natura («poiché essa dà a se stessa la propria sfera, nessuna potenza esterna può intervenirvi; tutte le sue leggi sono immanenti, ossia: la natura è legislatrice di se stessa») (SW III 17), che certo sembra contrastare significativamente con altre affermazioni che ripetono invece, quasi alla lettera, l'impianto trascendentale kantiano («lo spirito dell'uomo è legislatore della natura [...] la ragione dà le leggi alla natura») (SW IV 96), appare invece coerente con le restanti affermazioni non appena si ponga l'attenzione sul fatto che la Vernunft cui Schelling fa qui riferimento è una ragione universalmente diffusa e non anzitutto una facoltà proiettiva dell'essere umano. Non a caso, laddove non si perviene ad una coincidenza tra esperienza e costruzione, si può ipotizzare che «a costruire sia stata non la ragione legislatrice ma una qualche ragione empirica» (SW IV 96). La costruzione del Naturphilosoph, in conclusione, deve coincidere con quella costruzione, per definizione priva di errore, che la natura fa di se stessa (SW IV 97). Ma anche la concezione della «teoria» non è del tutto univoca nella prima Naturphilosophie. Non senza creare gravi ambiguità, Schelling definisce infatti «teorie» sia i Prinzipien, assolutamente universali e perciò in quanto tali privi di connessione con l'esperienza («la causa dei fenomeni magnetici [...] non rientra per nulla nei sensi»!) (HkA I 5 166), sia quei Mittelglieder «attraverso i quali il singolo fenomeno si connette con le ragioni ultime» (SW IV 532), andando a completare una serie deduttiva ininterrotta la cui scoperta spetta appunto a seri Experimentatoren. E' solo grazie a questi Mittelglieder che la teoria a priori può selezionare l'esperimento più efficace nel porre le domande migliori alla natura; in ogni caso un'eventuale difformità tra esperienza e teoria andrebbe addebitata unicamente ai Mittelglieder che hanno guidato l'applicazione dell'universale al particolare e mai alla teoria in quanto tale. E' quanto afferma Schelling stesso: «laddove non si perviene a questo terminus ad quem [l'esperienza; N.d.A.], si può a ragione concluderne che o non si è assolutamente applicato il metodo corretto, oppure che il metodo corretto è stato applicato scorrettamente o in modo incompleto» (SW IV 97). Resta naturalmente — pesantissimo — il dubbio che sia in fin dei conti impossibile valutare l'applicazione di un metodo senza ricadere nella tanto stigmatizzata circolarità della Erklärung. A prescindere dalla difficile risposta a tale quesito generale, quel che si può notare è che se a Schelling non si può attribuire l'indifferenza per le risultanze sperimentali (semmai una concezione per cui vi sarebbe una relazione a più stadi tra esperienza e principi) (11), neppure gli si può ascrivere un costruzionismo matematico di stampo galileiano (12). Ciò cui egli mira è, piuttosto, una ricerca — in fondo analoga a quella goethiana di un Urphänomen o a quella ritteriana, incentrata sulla natura come All-Thier — di un Centralphänomen, nel quale, saltati tutti gli accessori e difficilmente individuabili elementi intermedi, si possa sperimentare direttamente l'unità della natura nella sua totalità, esattamente come nel galvanismo sembrava negli stessi anni per la prima volta verificabile l'unità della natura organica (13). Centralphänomen è nozione che qui Schelling rinvia direttamente a Bacone e che, peraltro, in specie nello Schelling del periodo più marcatamente teosofico (dal 1806), attesterà il carattere fondamentale di un'esperienza che ha molto di più dell'intuizione-contemplazione religiosa che della ricerca sperimentale, che questa sia intesa nel senso geniale dei romantici (si pensi allo slancio sacrificale dell'autosperimentazione «esistenziale» di un Ritter) (14) o nel più sobrio senso metodico-obiettivante delle scienze naturali d'orientamento quantitativo. Nella tesi secondo cui «ogni vera esperienza è religiosa» (SW VII 137) risuona ormai la nozione mistico-teosofica, assaporata negli scritti dell'amato Oetinger, della 6 Zentralanschauung, che è quanto dire di una visione non discorsiva nel e dal Zentrum delle cose, una visione che pur da tempo implicita nell'assunzione di un metodo che dell'intuizione intellettuale e della costruzione aveva fatto i propri capisaldi, pure ne abbandona definitivamente ogni cautela critica. Ma a questo punto anche la nozione di costruzione, centrale quindi pur se con modalità diverse nel periodo intercorso tra le Ideen del 1797 e il System di Würzburg del 1804, perderà ogni pregnanza, com'è naturale in seguito al venire in primo piano della dimensione storica ai danni di quella sistematica ed eternizzante tipica della filosofia dell'identità. Non sarà più nella matematica (universale o meno), ma nella teosofia, capace secondo la linea böhmianooetingeriana di penetrare il Centrum della natura, che andrà cercato il metodo più adeguato al divenire di Dio. 2. Costruzione e idealismo -- Circoscritto e chiarito nella sua esatta dimensione il costante rinvio di Schelling all'esperienza, si può ora procedere alla delucidazione del suo costruzionismo, non senza segnalare come proprio la ricezione idealistica di tale metodo sia uno dei molti capitoli del tanto auspicato (a volte solo millantato) superamento di Kant. Nella fattispecie quel che un po' tutti cercano di emendare è la rigida distinzione kantiana tra la costruibilità (sinteticità a priori) dei concetti matematici e la incostruibilità dei concetti filosofici, secondo la quale questi ultimi, pur se non contraddittori dal punto di vista formale, potrebbero contare su uno status puramente «ideale». Si tratta di una diagnosi estremamente indigesta per chi come Schelling (a differenza di Hegel) non ritiene che il metodo matematico sia in linea di principio solo astratto e formale e perciò inadeguato all'automovimento del suo oggetto, per chi del sogno di una characteristica universalis d'impianto matematico — un leitmotiv sul quale torneremo — è stato per un certo tempo addirittura un entusiasta propugnatore (15). E' comunque tutt'altro che facile ricostruire in che modo e sulla base di quale impostazione Schelling si sia avvicinato negli anni di Lipsia alla matematica. Quel che è certo è che, non diversamente da Kant, Schelling già nella prefazione alla Weltseele (1798) (16) assegna proprio alla matematica, giunta all'idealismo prima delle altre scienze, una funzione di orientamento rispetto a quella che può considerarsi a tutti gli effetti la concezione fondamentale del filosofo di Leonberg (17), e cioè quella dell'unità, in matematica non meno che in filosofia, di particolare e universale. Anche a voler rifiutare la maliziosa insinuazione secondo cui il costruzionismo schellinghiano avrebbe solo un rapporto di analogia (per di più superficiale) con quello matematico (18), è arduo stabilire quanto l'approccio schellinghiano sia stato influenzato dalle lezioni di analisi combinatoria tenute a Lipsia da Carl Friedrich Hindenburg o da qualche membro del suo circolo (a cui Schelling certamente prese parte) (cfr. Editorischer Bericht a Ideen, HkA I 5 18-19) o addirittura, prima ancora, dalle lezioni di matematica e fisica del suo professore tubinghese Christoph Friedrich Pfleiderer. Di fatto è in questi anni che Schelling cerca una conciliazione tra l'unilaterale impostazione di Platone, per il quale il mondo delle idee e non quello sensibile va considerato il luogo peculiare della geometria, e quella, altrettanto unilaterale, di Kant, che aveva articolato la distinzione tra filosofia e matematica sulla base non dell'oggetto ma della loro modalità cognitiva, aveva stabilito cioè una differenza, rispettivamente, tra l'ambito puramente discorsivo e analitico del concetto e l'ambito dell'evidenza mediante intuizione pura o empirica in cui il concetto viene costruito. Quello compiuto da Schelling è, in sintesi, un passo duplice: da un lato egli reinterpreta e corregge la teoria kantiana della costruzione matematica 7 (19), dall'altro introduce la costruzione nella filosofia, anzi ne fa il metodo assoluto, accreditando in essa quella modalità matematica secondo cui le entità di cui ci si occupa sono perfettamente determinate, secondo cui — ma è lo stesso — il particolare è al tempo stesso l'universale. Veniamo al primo aspetto. Mentre Kant vede nella costruzione la mediazione di universale e particolare, Schelling vi scorge piuttosto ciò che ne dimostra e realizza l'equivalenza, permettendo così (cfr. in particolare SW IV 363) di fissare l'identà tra conoscenza matematica e oggetto matematico, tra essere-soggetto ed essere-oggetto o, se si vuole, secondo quanto auspicato già nel System des transzendentalen Idealismus (SW III 339-340), tra verità soggettiva e verità oggettiva. (Nel far ciò, pur con tutte le cautele che impone un confronto di questo tipo e senza scordare lo scoglio che rappresenta per la sua filosofia la questione della «differenza», è verosimile che Schelling sia più vicino di Kant alla matematica odierna (20), «allo scopo occulto dell'evoluzione della matematica e delle scienze della natura, che è quello di dissolvere tutto nella pura forma senza contenuto») (21). Quanto al secondo aspetto, la filosofia dell'identità sottolinea sì il fatto che filosofia e matematica prendono in considerazione la medesima unità, hanno in breve il medesimo oggetto, ma anche che, come vedremo meglio in seguito, la matematica si limita a cogliere l'assolutezza solo sul piano formale (spazio-tempo), laddove in filosofia forma e contenuto, poiché assolute, sono inseparabili. L'introduzione del costruzionismo della matematica (integrato e corretto) in filosofia, dunque, mentre assolutizza il metodo di entrambe, sancisce però anche definitivamente la superiorità della filosofia sulla matematica, ridotta a pura e semplice «formalizzazione della filosofia» (22). Ma si tratta di una argomentazione che potrà apparire perspicua solo in seguito ad una puntuale ricostruzione della dottrina della costruzione nel primo Schelling. Ad una prima considerazione tale dottrina può essere fatta rientrare semplicemente nella più generale tendenza antidualistica dell'idealismo. Esso costruisce, infatti, sia nella filosofia (che sia filosofia trascendentale o filosofia della natura) che nella psicologia, nella logica nonché in tutte le restanti scienze, senza alcun timore per l'astrattezza del geometrizzare. Anzi, se ci fu un errore di Spinoza, per Schelling fu proprio quello di non aver universalmente esteso il metodo matematico («er nicht weit genug zurück construirt»; SW V 127). In breve, la filosofia è scientifica per tutto l'idealismo unicamente se realizza quell'unità, nell'intuizione, di universale e particolare, prevista da Kant solo per la matematica; se, unificando qualsiasi polarità e ridefinendo così la relazione di assoluto e finito, assegna alla costruzione una valenza squisitamente ontologica (23). E Schelling non fa certo eccezione. E' infatti proprio dal confronto critico con la Dottrina trascendentale del metodo della prima Critica kantiana che Schelling prende spunto. In essa Kant aveva ascritto solo alla matematica quell'uso puro-intuitivo della ragione che le permette di esibire in un «concetto concreto» un oggetto universalmente valido rispetto ad ogni altra intuizione afferente al medesimo concetto, laddove alla discorsività filosofica perterrebbero concetti a cui non corrispondono intuizioni né pure né empiriche, e che quindi fungono solamente da regole della sintesi di possibili intuizioni empiriche. Proprio in riferimento a questa distinzione di principio Schelling, da tempo in vario modo impegnato a sfuggire all'asfittica identificazione di filosofia e riflessione e ad attribuire alla filosofia un uso intuitivo della ragione (intuizione intellettuale, beninteso, e non sensibile), perfettamente coniugato col mos gemetricum di ascendenza spinoziana, si sente legittimato a declinare anche su questo punto un topos ermeneutico che gli era 8 particolarmente congeniale, l'idea che gli fosse possibile comprendere l'autore meglio di quanto questi avesse compreso se stesso. In altri termini, Kant avrebbe costruito nell'intuizione intellettuale, ma «senza saperlo» o, meglio, non avendo «una piena consapevolezza della propria filosofia» (SW V 140), avrebbe cioè presupposto l'intuizione intellettuale proprio mentre la escludeva, anche se non poteva ammettere l'inaggirabilità di questo presupposto a causa dei limiti riflessivi in cui si muoveva, a causa cioè della persistente separazione e financo contrapposizione di universale e particolare della sua impostazione. Si tratta di un limite riflessivo — è noto — che Schelling denuncia (esplicitamente solo dal 1801; cfr. SW IV 109) anche nell'idealismo unicamente soggettivo di un Fichte (che costruirebbe, ma senza regola) (SW V 140), in una certa sintonia con il giudizio di Jacobi, che nella dottrina della scienza aveva visto il pericolo di una nichilistica dissoluzione dell'essere nel sapere. Vale comunque la pena di notare che tale comprensione «oltrepassante» del criticismo di Kant non fa che compensare quella non meno superba comprensione oltrepassante con cui Kant stesso aveva ritenuto di sbrigare l'annosa questione delle idee platoniche. E' infatti proprio nell'aver preteso di ridurre il cosmo ideale platonico ad un insieme di concetti della ragione che siano puramente ipotetico-regolativi e ai quali nessuna intuizione può essere adeguata, proprio nell'aver privato così la filosofia dei suoi veri oggetti presumendo di comprendere le idee platoniche meglio di Platone stesso (24), che Kant avrebbe invece misconosciuto il vero e più originario metodo della filosofia, rimanendo, per così dire, solo a metà strada in quel cammino di liberazione dai ceppi del sensibile (25) che la costruzione appunto promuove. Ma un'eterogenesi dei fini è pur sempre possibile, e infatti proprio con il collocare le idee al di sopra dei concetti e con l'ascrivere loro un'insaturabilità empirica Kant avrebbe di fatto ridato diritto di cittadinanza in filosofia alla nozione di «idea» (SW VI 186). Certo, all'identificazione di filosofia dell'assoluto e metodo assoluto della costruzione anche Schelling non sarebbe mai pervenuto, se non avesse reinterpretato la «speculazione» come «riflesso» di quella cosmica Ein-Bildung dell'assoluto nel particolare finito che regge parallelamente tanto la natura che l'io, di quella parusia dell'assoluto senza annientamento del finito che dell'esemplarismo tipico della filosofia dell'identità è il cuore. Ma per poter discutere il ruolo di questo snodo neoplatonico nel costruzionismo schellinghiano occorre anzitutto ripercorrere quell'iter di pensiero che conduce, parallelamente al definirsi di io e natura (ideale e reale) come attributi dell'unico assoluto, a riconferire un'autentica produttività costruttiva ai concetti della filosofia. 3. La costruzione o intuizione (originaria) dell'Io -- La costruzione teorizzata da Kant è stata definita di tipo genetico-sintetico. La si ottiene cioè con un procedimento additivo, del quale sono possibili due sottospecie: la constructio per puncta o connessione delle parti, e la constructio per motum o per movimento del tracciare. Quel che si tratterà di vagliare è in che misura la costruzione schellinghiana vada, per contro, considerata come un esempio caratteristico di una costruzione, del tutto diversa, che si è voluto definire sistematico-deduttiva (26). Una qualifica che facciamo nostra, pur nella sua genericità, e che peraltro non ci esime dal sottolineare come vi siano diversi tipi di costruzione anche nel primo Schelling, e come perciò occorra distinguere con cura — è l'ipotesi che regge questo lavoro — la costruzione operazionale di tipo relativamente fichtiano dello Schelling degli anni di Lipsia (1796-98) da quella, del tutto deduttivoplatonizzante, del periodo di Jena e Würzburg (1799-1804). 9 Schelling, comunque, non è affatto il primo ad interessarsi della costruzione. Gli snodi indispensabili per inquadrare la sua prima concezione (operazionale) di costruzione, per quanto evidentemente riferiti qui in maniera del tutto cursoria, sono infatti Maimon (per il quale il costruente è co-costruito indirettamente attraverso la costruzione della sfera oggettuale, secondo una modalità che Novalis chiamerà artistica) (27) e soprattutto Fichte. Per l'attivismo fichtiano, se già ogni scienza presuppone la possibilità che i puri concetti siano costruibili nell'intuizione (non più sensibile ma intellettuale), ovvero in un'azione che ciascuno deve compiere in sé, a maggior ragione la costruzione adottata dalla dottrina della scienza, dovendo costruire spazio e tempo e quindi le condizioni di possibilità stesse della costruzione matematica, potrà facilmente essere innalzata al di sopra di quella matematica, della quale pure riprende il procedimento. La differenza pertiene unicamente all'oggetto: mentre la costruzione matematica consiste nella limitazione dello spazio, quella filosofica si basa sulla limitazione dell'agire (28). Mediante una costruzione dinamico-operazionale per motum, il soggetto della dialettica fichtiana costruisce l'io (e il non-io) intuendosi nel proprio agire, secondo un procedimento additivo dell'immaginazione (quale unione degli opposti), dalla cui irrealtà scaturisce la realtà, e per il quale l'evidenza è altro dalla concettualità. Si ha insomma a che fare in Fichte con una costruzione originaria e inconscia, rispetto alla quale quella filosofica funge da ri-costruzione. Quel che balza immediatamente agli occhi è che la costruzione, in Kant ancora circoscritta alla matematica, viene estesa dall'attivismo fichtiano (e dal giovanissimo Schelling) all'intera filosofia o dottrina della scienza, assurgendo così a cifra simbolica del superamento di ogni prospettiva realistico-passiva: esiste, in definitiva nell'attivismo fichtiano, solo quanto viene costruito e poi filosoficamente ri-costruito. E' appunto su questo terreno che incontriamo le prime riflessioni schellinghiane sull'argomento. La prima meditata e consapevole occorrenza del termine si ha nella Allgemeine Übersicht (1797-1798), laddove Schelling, chiarendo la compenetrazione reciproca delle due tendenze (centrifuga e centripeta) dell'anima, definisce il prodotto di questa duplicità «una costruzione reale dell'anima stessa» (HkA I 4 107), e assegna altresì questa funzione solo allo spirito dell'uomo, ossia solo a quella natura che si autoorganizza e si finitizza pur producendosi all'infinito (HkA I 4 113). Che costruire significhi sintetizzare una polarità, appare confermato esemplarmente agli occhi di Schelling anche dal fatto che in Kant la terza categoria risulta sempre dalla connessione della prima con la seconda (viene così, in un certo qual modo, fatta sorgere dinanzi ai nostri occhi): «la forma originaria secondo la quale lo spirito procede è esposta intuitivamente e con precisione matematica. Che però lo spirito umano in generale sia obbligato a costruire a partire da opposti tutto ciò che intuisce e conosce, è cosa di cui non si vede il fondamento senza scoprire l'originario dualismo nello spirito umano» (HkA I 4 135). E' proprio questo dualismo tra sensibile e sovrasensibile che Kant, del resto, aveva non solo presupposto, ma anche esplicitamente esposto (nella seconda Critica), e più in generale perfettamente ed efficacemente simboleggiato nella «cosa in sé» quale fondamento delle rappresentazioni. In questo orizzonte attivistico costruire è dunque un rappresentare originario, ovvero quell'«agire originario dello spirito su se stesso», quell'«autonomia originaria che, considerata dal punto di vista teoretico, è un rappresentare, o, che è lo stesso, un costruire cose finite, mentre dal punto di vista pratico è un volere» (HkA I 4 141). Ne deriva che l'oggetto non è che una determinata maniera d'agire del nostro spirito, non è cioè altro che costruzione, ovvero, come s'è già ricordato, sintesi (HkA I 4 151), rappresentazione originaria della sintesi in noi degli 10 assolutamente opposti, dell'assoluta identità in noi di condizionante e condizionato, di attivo e passivo, di soggetto e oggetto (HkA I 4 153). Ma è soprattutto in un'appendice a questo stesso testo, dedicata ai postulati della filosofia (HkA I 4 170-182), e più tardi nel § 4 del System des transzendentalen Idealismus che Schelling ha modo di delineare nella maniera più precisa, e proprio come Kant in relazione alla matematica (intesa però non nel suo metodo puramente esterno, sia chiaro; HkA IV 179, n. G), questa sua prima dottrina della «costruzione». Il confronto è naturalmente quello tra filosofia e geometria. Come la geometria non dimostra, ma postula intuitivamente la sua più originaria costruzione nello spazio (il punto mosso o linea, nella sua illimitatezza e indeterminazione), e di null'altro ha bisogno e tratta se non di questa sua costruzione, altrettanto dovrebbe fare la filosofia che voglia essere scienza. E' scienza, infatti, solo quel sapere che prende le mosse non da un Grundsatz ma da una ursprüngliche Anschauung, ossia da qualcosa che si appella ad un'«evidenza» indimostrabile (HkA I 4 171) e che, analogamente a quanto accade in matematica, è semmai il presupposto di ogni Grundsatz. E' per questo che «non è attraverso il segno sulla lavagna che arrivi a comprendere la linea, ma, al contrario, il segno attraverso la linea» (HkA I 4 176). L'assenza della costruzione matematica è automaticamente assenza di scientificità, il che ad esempio è verificabile, sia per Kant che per Schelling, nella chimica (cfr. HkA I V 243, 286, 305). Ma la matematica sembra godere di un vantaggio indiscutibile sulla filosofia. Dove si può trovare, infatti, una rappresentazione esterna che attesti l'intuizione o costruzione originaria degli oggetti del senso interno — cioè la costruzione specifica della filosofia? E com'è possibile che essa sia poi in grado di suscitare questa intuizione anche nei più renitenti (che vi possono essere condotti, beninteso, solo perché già la possiedono!), e con la stessa persuasività con cui l'immagine esterna, ad esempio una linea tracciata sulla carta o sulla sabbia, aveva soddisfatto la dimostratività innata anche di un rozzo Menone? Ma quello dell'intuizione esterna non è l'unico problema per la filosofia. Non si può infatti passare sotto silenzio il fatto che il senso interno, nel suo dipendere solo dalla libertà, può giungere a maggiore o minore coscienza nell'uno o nell'altro individuo, così che è del tutto naturale che individui di differente capacità intuitiva facciano valere in filosofia princìpi assolutamente differenti. L'incomunicabilità e il perenne rischio del fraintendimento sembrano gravare solo sulla filosofia — un eschimese potrebbe trovare incomprensibile persino la più generica filosofia «popolare» — laddove «un simile "più o meno" non si dà in matematica» (HkA I 4 172). Ma concluderne la non insegnabilità della filosofia e la sua irredimibile subordinazione ai contesti storico-culturali, sarebbe un errore gravissimo. E' certamente possibile ovviare all'indiscutibile circostanza per cui vi sarebbero in filosofia «tanti diversi principi quanti sono i gradi della forza intuitiva interna» (HkA I 4 172), ma a questo scopo è assolutamente necessario individuare un principio che valga coattivamente per il senso interno. Si tratta, alla luce del peculiare e necessario intreccio di teoretico e pratico (dato che un principio solo teoretico porterebbe al dogmatismo e un principio solo pratico ad un sistema di comandi), del Sollen, nel senso che «il postulato da cui muove la filosofia, dovrebbe quindi avere un oggetto di cui ciascuno, anche se non ne è cosciente, dovrebbe per lo meno esserlo» (HkA IV 172). Occorre individuare un oggetto, in altri termini, la cui coscienza soltanto rende comprensibile il Sollen originario. Tale postulato teoretico-pratico della filosofia (29), che non va minimamente confuso con quelli che Kant dovrebbe chiamare, anziché postulati della ragione pratica, compiti infiniti o doveri, non essendo né Dio né l'immortalità oggetti di 11 una costruzione originaria (e postulato indica appunto «la richiesta di una costruzione originaria (trascendentale)») (HkA I 4 177), è tutto ciò che è necessario conoscere in filosofia, esattamente come nella geometria tutto scaturisce dalla costruzione originaria della linea. Al di fuori di questa costruzione anche per il filosofo non vi è nulla e, reciprocamente, qualche cosa esiste per lui solo se egli la costruisce secondo quanto gli è richiesto. Forte di questa interpretazione della rivoluzione trascendentale nel segno di un'identità dell'essere e del costruito, e quindi di un (ri)avvicinamento della filosofia alla matematica in nome tanto del trattamento sintetico e non analitico di qualsiasi «proposizione reale» («in quanto sorta per mezzo di sintesi»), quanto dell'ammissione di una vera e propria «facoltà della costruzione» dello spirito (HkA IV 173) operante anche in filosofia, Schelling può finalmente circoscrivere a oggetto della filosofia «la costruzione più originaria per il senso interno» (HkA IV 174) attraverso la quale nasce l'Io stesso. E con l'occasione egli si richiama qui, significativamente, all'ammissione kantiana della precedenza dell'unità sintetica della coscienza su quella analitica (30). Il filosofo, in altri termini, costruisce originariamente il proprio oggetto, e cioè l'Io (l'«Io sono» e non solo l'analitica identità «Io=Io» che erroneamente si è voluta porre a principio della filosofia); un oggetto — occorre ribadirlo — che come la linea geometrica non esiste al di fuori della costruzione, non è cioè mai ostensibile esternamente al processo con cui lo si costruisce, né semplicemente riconducibile (pena la ricaduta nel dogmatismo) ad una semplice enunciazione di esistenza, e che tuttavia, a differenza di quello geometrico, essendo nel medesimo tempo il costruito e il costruente, risulta però «elevato al di sopra di ogni oggettivo» (HkA I 4 175). Nonostante gli indubbi punti di contatto, riassumibili nel fatto che tanto la geometria quanto la filosofia postulano e non spiegano il loro principio primo (rispettivamente: la linea e l'Io), la differenza specifica tra costruzionismo matematico e costruzionismo filosofico è immediatamente evidente già a questo livello d'analisi: in primo luogo, laddove la matematica non ha mai a che fare direttamente con l'intuizione (con la costruzione) ma solo col costruito, è specifico della filosofia invece essere sempre in rapporto proprio con l'atto assolutamente interiore della costruzione; in secondo luogo, alla costruzione degli oggetti della filosofia trascendentale non ci si può costringere, come invece accade quando ad esempio si traccia esternamente una figura geometrica (SW III 350). Postulare l'Io significa fissarne la dimostrazione esclusivamente nella costruzione che ciascuno di noi è chiamato a farne non fuori ma dentro di sé, per cui non c'è motivo di diffidare di chi sostiene di non sapere cosa sia l'Io: con ciò egli dichiara semplicemente di non saperlo e poterlo costruire, ossia che tipo d'uomo egli sia. Ma l'Allgemeine Übersicht offre un ulteriore ausilio a chi voglia orientarsi nel costruzionismo schellinghiano. Si tratta di alcune riflessioni, apparentemente sporadiche, sull'ideale della risoluzione di tutte le scienze in una matematica universale (HkA IV 179-181), e nella fattispecie sul fatto che solo l'universalizzazione del costruzionismo e idealismo matematico (31), battendo su tutta la linea ogni tentazione scettica, possa probabilmente favorire l'armistizio nelle contese metafisiche e il conseguimento di grandi scoperte nelle scienze superiori. Solo «una costruzione elaborata fino alla totalità» può fornire una certezza talmente universale che «non possa derivare dall'universale incertezza alcuna dottrina che la contrasti o la misconosca» (SW IV 402). E qui Schelling ha buon gioco nel richiamarsi a ciò che aveva permesso a Leibniz di ricondurre tutto ciò che esiste al numero, ossia al metodo dell'analisi, che, essendo l'idealismo nella matematica, sarebbe prossimo a conciliarsi, secondo 12 Schelling, con quello antico-geometrico, ossia realistico, in un terzo e superiore metodo (HkA I 4 180). Proprio nell'analisi, vale a dire in un progetto che faceva giustizia della abituale obiezione di coloro che, pensando unilateralmente alla costruzione geometrica, ritengono che non tutto possa diventare oggetto della matematica, Schelling scorge un passo fondamentale nella direzione di una riconduzione di ogni intuizione esterna a intuizione interna, già in Kant considerabile come «forma dell'intuizione in generale». Se «tutto ciò che esiste, è una funzione del tempo» (HkA IV 181), e se persino le qualità possono su questa base essere costruite come velocità, niente impedisce di affermare che lo spirito trascendentale, originatosi dalla matematica, proprio nella matematica farà ritorno, eliminando così ogni empirismo (sperimentalismo) nelle scienze e dissimilando sapere ed esperienza, se non altro perché l'esperienza considera il suo oggetto nel suo essere, mentre la filosofia soltanto nel suo divenire originario (HkA IV 182). Che Schelling guardasse con sempre maggiore convinzione alla propria Naturphilosophie come alla forma che avrebbe assunto questa matematica universale, è cosa che avremo modo di chiarire nel prosieguo. Basti qui accennare al fatto che è solo per questa ragione, e cioè perché la matematica schiude l'accesso all'eidetico e al sovraempirico, che Schelling aderisce senza remore, a differenza di Kant, al monito platonico che vuole il filosofo anzitutto addestrato nella matematica (SW V 129). 4. Costruzione e atomistica dinamica - Altrettanto, se non forse più decisiva, è la ripresa del costruzionismo nel quadro della Naturphilosophie (in specie nell'Erster Entwurf eines Systems der Naturphilosophie del 1799). Schelling si riferisce qui ovviamente alla costruzione della materia, con l'intento di ampliare e correggere quella proposta da Kant nei Metaphyisiche Anfangsgründe der Naturwissenschaft (la cosiddetta «costruzione costruttiva», applicata tra l'altro anche al diritto nella Metaphysik der Sitten) (32) allo scopo non di dimostrare ma di rendere intuibile il modo in cui il dato naturale deriva dinamicamente dalle Grundkräfte. Al metodo della «costruzione» della materia, adottato nella kantiana «fisica dinamica», egli oppone la propria «atomistica dinamica» (e non corpuscolare), nell'intento generale di sostituire alla concezione della natura come oggetto quella della natura come soggetto. Solo l'approccio del filosofo della natura, che non sa alcunché del prodotto, ma solo di «ciò che nella natura è puramente produttivo» (SW III 101), è in grado di ridare le ali alla fisica (secondo quanto auspicato anche nel Systemprogramm), lasciandosi così alle spalle i principi kantiani, definiti nel medesimo ordine metaforico «un vero piombo per la scienza della natura» (SW III 101). Il primo passo in questa direzione consiste appunto nel riformare la costruzione kantiana della materia. Sebbene nata a sua volta dall'esigenza di oppore il dinamico al meccanico, essa si rivela di valore inequivocabilmente meccanico, giacché la materia, costruita dalla sintesi di repulsione e di attrazione, viene presentata già sempre come prodotto (SW III 103, n. 1). Di questa costruzione Schelling fornisce, per così dire, l'interpretazione autentica, ma nell'ottica di un orientamento radicalmente trascendentale, che cioè sa pensare l'attività senza e prima di ogni substrato (SW III 102): «il senso più profondo della costruzione kantiana della materia da forze opposte è appunto il fatto che la condizione di ogni formazione è una divisione originaria» (SW III 117, n. 1; cfr. anche SW III 299). L'aver preso le mosse da una polarità è dunque il solo merito di un procedimento inficiato, d'altro canto, da due rilevanti difetti. Anzitutto, 1) esso si fonderebbe su elementi acquisiti analiticamente e riflessivamente, col risultato di perdere di vista la genesi della materia (l'originariamente produttivo in quanto 13 puramente ideale) (SW III 102) e di essere costretto a presupporre qualsiasi differenza specifica (SW III 115, n. 3). Esso spiega bensì come la materia possa dar vita a diversi gradi di riempimento dello spazio (diversi gradi di densità), ma mai come possa formarsi una qualche materia specifica (SW III 101). Inoltre, 2) questa costruzione sarebbe rimasta gravemente incompleta, dato che la forza d'attrazione (o meglio, ritardante), di per sé utile a spiegare la costruzione del prodotto e che in esso si esaurisce, non coincide affatto con la forza di gravità, che agisce sul prodotto già costruito, e comunque è una «forza transitiva, ossia una forza con la quale il prodotto deve poter agire fuori di sé» (SW III 103, n. 1). Fin qui, nei suoi tratti essenziali, la rettifica della costruzione kantiana della materia, accusata di non essere veramente dinamico-genetica e di aver erroneamente confuso forza attrattiva e forza di gravità. Mosso dall'esigenza, estranea al filosofo di Königsberg, di spiegare non tanto l'attività nella natura quanto la possibilità in essa di qualcosa di permanente, vale a dire il prodotto in quanto attività ostacolata ovvero come finitizzarsi della velocità di per sé assoluta dell'evoluzione della natura, Schelling s'impegna a dedurre la pura produttività originaria sottesa all'evoluzione dei prodotti (dei quali in linea di principio nulla si sa all'inizio) mediante un instrumentario tripartito: la forza d'attrazione, la forza di repulsione e la forza di gravità, laddove le prime due sono i fattori costruttivi, mentre la terza attesta piuttosto la realtà dell'attività costruente. Solo adottando integralmente questo instrumentario il Naturphilosoph può finalmente costruire la materia (che separata dall'attività di cui è il risultato, il prodotto o effetto, addirittura non esiste) (SW IV 32), e costruirla, a differenza di Kant, individuando financo la condizione di possibilità delle forze originarie di cui essa è la sintesi dinamica (33). Si tratta di un procedimento che dev'essere poi ripetuto ad ogni livello (ad esempio nell'opposizione tra processo magnetico ed elettrico, la cui sintesi è in quello chimico) e che, essendo a priori, deve certo essere poi verificato da «intuizioni esterne» (pena il suo non avere «per noi maggior senso della teoria dei colori per i ciechi») (SW III 20), ma in base a quel nesso teoria-esperienza in cui l'esperienza funge unicamente da terminus ad quem. Anzi, propriamente il filosofo della natura non costruisce neppure l'oggetto naturale, piuttosto ne mostra, trascendentalmente e mediante un'intuizione intellettuale, la genesi o autocostruzione, in modo tale che, ben distinto dal costruttore materiale non meno che dal ricercatore empirico e dal metafisico (che presuppone l'esistenza del suo oggetto), si potrebbe dire che della natura indaghi non tanto la genesi reale quanto quella ideale (la logogenesi) (34). Egli cessa, in altri termini, di essere il costruente perché, restando tale e cioè intervenendo in essa, pregiudicherebbe o comunque renderebbe sempre problematico il coincidere di costruente e costruito. Lascia invece in un certo senso la parola alla natura, al suo autonomo costruirsi. Che questo «empirismo filosofico» sui generis si riveli o meno prossimo al moderno operazionismo (35), quel che si può notare è che l'adaequatio resta qui il criterio, ma essa riguarda non tanto la generica relazione del soggetto con l'oggetto, quanto il rapporto, mutuato dalla classica distinzione spinoziana tra natura naturans e natura naturata, tra la natura costruente e quella costruita. Né è escluso che a favorire tale generalizzazione del processo costruzionistico come ricostruzione logica dell'originaria autocostruzione della natura sia poi la ripresa della a Schelling ben nota ontologia generativa contenuta nel Timeo e incentrata sulla genesi di superfici e corpi dal generarsi di numeri quadrati e cubici, ossia dallo sviluppo del potenziale immanente al numero. La cosmogonia del Timeo si può, a tutti gli effetti, considerare un antichissimo costruzionismo matematico (36). 14 Ma non si pensi che il costruzionismo e quindi la conoscenza della natura sia nel primo Schelling esente da limiti. Questi sono rappresentati dalle «qualità originarie», che nel loro essere pure intensità o entelechie pure risultano di per sé inconoscibili e quindi conoscibili solo empiricamente (sono «l'assolutamente empirico della nostra conoscenza della natura»), ossia unicamente nel loro prodotto (SW III 294). Essendo i punti d'ostacolo originari, da cui deriva ogni riempimento dello spazio, esse non si presentano mai a loro volta nello spazio, configurandosi come ciò che nella natura trascende la sua costruibilità umana. In breve, «la qualità, concepita in modo assoluto, è incostruibile, giacché la qualità in generale non è nulla di assoluto, e non esiste in generale altra qualità che quella che i corpi mostrano reciprocamente nella loro interrelazione» (SW III 295). Non vi sono pertanto nella prima Naturphilosophie schellinghiana, stante questa incostruibilità delle azioni originarie intese come processi solo idealmente spiegabili (SW III 296), propriamente delle forme originarie, quanto piuttosto qualcosa di originariamente formante (37), da cui deriva un'attività conflittuale che, in tanto forma prodotti, in quanto non raggiunge mai l'equilibrio in ciascuno di essi (l'equilibrio equivarrebbe ad uno sprofondamento nel non-essere). Matematicamente impenetrabili nel loro essere pure e inquantificabili intensità, tali qualità non sono nulla quando si astragga dai loro prodotti (SW III 24), il che — si potrebbe notare di passaggio — attesta il fallimento della pretesa di una costruzione globale della natura, visto che le sfugge per ora proprio l'essenziale. Il minimo che si possa dire è che sfera dell'essere (più precisamente di ciò che è l'essere senza che mai semplicemente sia) e della misurabilità, in ultima analisi, nella prima Naturphilosophie non coincidono. 5. Il concetto deduttivo di costruzione: matematica e filosofia -- Per quanto non privo d'interesse nella sua applicazione alla filosofia trascendentale (come costruzione dell'Io) e alla filosofia della natura (come costruzione della materia), l'orientamento costruzionistico di Schelling trova il suo massimo dispiegamento solo un po' più tardi, negli scritti del periodo dell'identità e in particolare (anche se ci riferiremo di tanto in tanto anche ad altri scritti del periodo) in tre testi sostanzialmente coevi, vale a dire nella quarta delle Vorlesungen über die Methode des akademischen Studiums (1802), che tematizza il rapporto tra matematica e filosofia (SW V 248-265), in una recensione al volume del filosofo svedese K. H. Hoyer, Abhandlung über die philosophische Construction (Stoccolma 1801) pubblicata con il titolo Über die Construction in der Philosophie (1803; SW V, 125-151), infine nel fondamentale §4 delle Fernere Darstellungen aus der System der Philosophie (1802), che porta il titolo programmatico Von der philosophischen Construction oder von der Art, alle Dinge im Absoluten darzustellen (SW IV 391-411). E' alle suddette lezioni sul metodo che converrà anzitutto prestare la nostra attenzione, dato che è solo a partire dell'orizzonte programmatico ed enciclopedico del sistema dell'identità che si può ricavare quella compiuta definizione del rapporto tra filosofia e matematica in cui inquadrare il problema della costruzione. Ed ecco la premessa indispensabile di ogni analisi dei saperi: se l'essenza del sapere è una sola, mentre a variare sono unicamente le sue forme, ossia i modi in cui i singoli saperi si differenziano da quell'essenza o universale, perdendo in questo modo il carattere di veri saperi, colui che conosce solo il particolare, conosce di fatto solo una realtà effettiva per nulla pensata a partire dalla sua possibilità, laddove, viceversa, chi conosce solo l'essenza, l'universale opposto al particolare, conosce solo la pura astratta possibilità, dalla quale non si può affatto passare alla realtà effettiva. L'assoluto, che è identità di 15 universale e particolare, ideale e reale, sembrerebbe dunque presentarsi nel fenomeno o solo nel reale (in modo che la realtà preceda la possibilità) o solo nell'ideale (in modo che la possibilità preceda la realtà). In verità, se si ammette «la possibilità di una conoscenza assoluta all'interno del fenomeno» (SW V 250), occorre ammettere che proprio la sua stessa identità venga a manifestazione. In quest'ottica reale e ideale non sono che due diversi Reflexe (altrove definiti anche «immagini universali» o, spinozianamente, «attributi» dell'assoluto) (SW IV 346), nei quali l'assoluto si presenta, rispettivamente, o sotto la forma dello spazio puro (di per sé unico, né astratto né concreto, pena la molteplicità degli spazi e l'inadeguatezza di quello particolare a quello astratto), inteso come puro essere e cioè come negazione dell'attività, come ciò in cui «l'essere esaurisce il concetto» (SW V 251), oppure sotto la forma del tempo puro (anch'esso unico, né astratto né concreto), ossia di quell'assoluta attività che nega ogni essere. Essendo assoluti e puri, spazio e tempo contengono ciascuno anche il proprio opposto, sono in altri termini identità di possibilità e realtà effettiva, assolutamente reali e, nel contempo, assolutamente ideali. Nell'intuizione pura di spazio e di tempo (ossia nella matematica) si dà dunque un'intuizione dell'identità di possibilità e realtà, ma «né lo spazio né il tempo esibiscono l'idea di tutte le idee in sé, bensì solo in un riflesso separato» (SW V 252). Le scienze che ne derivano (appunto la matematica come insieme di analisi e geometria) saranno dunque assolute solo per la loro forma, ma in quanto tali pertinenti al mondo riflesso, e dunque inferiori alla filosofia. Cogliendo l'idea così come essa si presenta nell'intuizione, la conoscenza matematica è allora «presentazione dell'universale e del particolare nell'unità» (SW V 252), ovvero costruisce (dimostra) l'unità di universale e particolare, nel senso, che meglio preciseremo in seguito, per cui ciò che vale, ad esempio, per una singola figura vale per tutte, rispettivamente nella geometria (spazio puro) e nell'analisi (tempo puro). Ma in generale, pur trascendendo il nesso causale e il criterio dell'applicabilità esterna, che sono dominanti nel sapere comune, e fondando il proprio successo se mai sulla sua «pura evidenza razionale» (SW V 253), questa matematica incarnerà ancora il modello sincretico dei saperi che si è visto indicato con nettezza nella Allgemeine Übersicht? O non si dovrà piuttosto, stabilita l'inferiorità ectipa della matematica rispetto alla filosofia, trarne le debite conseguenze anche per quanto riguarda il metodo della costruzione? In altri termini, ha ancora diritto di cittadinanza nel sistema dell'identità il più giovanile progetto di una mathesis universalis? Prima di poter rispondere alla domanda, è necessario un supplemento d'analisi circa l'ordinamento gerarchico di matematica e filosofia. Matematica e scienza della natura sono una sola e medesima scienza considerata da lati diversi, ossia come perfetta espressione della ragione stessa nell'astratto (matematica) e come perfetta espressione della ragione stessa nel concreto (scienza della natura); ma è soltanto la filosofia qualeWissenschaft alles Wissens che risulta agli occhi di Schelling in grado di decifrare il troppo a lungo misconosciuto carattere simbolico della matematica («le forme della matematica, così come ora le si intende, sono simboli di cui, per coloro che ne sono in possesso, è andata perduta la chiave») (SW V 254). La filosofia soltanto può concepire la matematica come espressione della pura ragione e delle idee, in quanto esse si traspongono in un altro elemento rivelandosi nella loro figura oggettiva, non da ultimo anche di vedere in essa rispecchiata la propria inevitabile partizione interna, nel senso, già ricordato, che per Schelling nella matematica geometria e analisi si rapportano tra loro come nella filosofia realismo e idealismo. Pur se fondata, come la matematica, 16 sull'identità assoluta dell'universale e del particolare, e cioè sull'intuizione dell'idea nel concreto seppure con piena indifferenza per il concreto, la filosofia dispone di un'intuizione intellettuale che è senza dubbio, nella sua identità col sapere originario, cosa radicalmente diversa dall'intuizione riflessa spettante alla matematica. Il solo vantaggio che si possa concedere alla matematica consiste, in definitiva, nella possibilità di una «presentazione esteriore» di quanto intuisce. In filosofia, per contro, l'intuizione ricade interamente nella ragione, così che «chi non la possiede, non comprende neppure ciò che se ne dice; essa quindi non può in generale essere data» (SW V 256), e solo dopo una sua adeguata educazione «essa deve in un certo senso trasformarsi in carattere, in un organo immutabile, nella capacità di vedere tutte le cose solo come esse si presentano nell'idea» (ibid.). E tuttavia — col che rispondiamo alla domanda sopra lasciata in sospeso circa la sopravvivenza dell'ideale di una mathesis universalis — solo l'attuale matematica è inferiore alla filosofia, dato che l'affermazione stessa, secondo cui essa perderà il suo carattere solo formale unicamente quando «sarà concepita in maniera totalmente simbolica» (SW V 254), sembra pur sempre alludere proletticamentere al compiersi di una non meglio definita matematica superiore. Ma per comprendere a quale matematica Schelling pensi, e in che modo questo suo affermarsi implichi una ridefinizione del suo rapporto (in termini costruzionistici) con la filosofia, occorre evidentemente approfondire gli altri scritti in cui si tematizza specificamente il metodo della costruzione. 6. Con Kant oltre Kant -- Molti hanno parlato di costruzione filosofica, ma pochi saprebbero davvero di cosa si tratti, come del resto pochissimi disporrebbero di una concezione adeguata del metodo dimostrativo: è alla luce di questa brutale constatazione di valore anche kulturkritisch (cfr. SW IV 403) che probabilmente Schelling (o Hegel?) (38) sceglie, sfruttando la decisione di recensire una recente pubblicazione su questo tema di B. K. H. Hoyer (ma Schelling scrive: Höyer!) (39), di chiarire una volta per tutte analogie e differenze rispetto all'impostazione kantiana del problema. Il testo di Hoyer è comunque — non sarà superfluo ricordarlo fin da principio — qualcosa di più che una semplice occasione, in quanto svolge di per sé un ruolo non irrilevante nell'evoluzione del concetto stesso di costruzione, come del resto dimostra il fatto che Schelling vi si soffermi con una certa attenzione nella seconda parte del suddetto scritto (SW V 140-151) (40). Hoyer estende apertamente la costruzione, nella sua valenza di costruzione originaria o Grundconstruction, alla filosofia, e così la innalza a criterio fondamentale di ogni altra scienza che si riprometta una qualche certezza, matematica compresa (in cui vigerebbe una costruzione secondaria). Fichtianamente, essa consiste per Hoyer nella limitazione di una sfera omogenea, ossia di quel punto d'indifferenza di libertà e necessità costituito dalla ursprüngliche Handlung (41). In questo breve scritto, che come già segnalato porta un titolo assai ambizioso (Ueber die Construktion in der Philosophie, 1803), Schelling non ha comunque primariamente l'intenzione di commentare la teoria di Hoyer, ma di dimostrare la necessità della «costruzione» per ogni filosofia che voglia evitare la pericolosa malìa del Räsonniren e di tutto ciò che è solo geistreich, e sappia così discernere definitivamente il vero dal falso (SW V 125); per ogni filosofia, cioè, che non si limiti ad addurre un «saputo» (che può magari anche essere vero, ancorché in un contesto assurdo e pseudofilosofico), ma ne delinei le condizioni trascendentali, fornendogli così un senso ben determinato. Si può, infatti, in assenza di un'adeguata costruzione, avere magari anche ragione su un 17 dettaglio contenutistico, eppure avere assolutamente torto nell'insieme. E' solo la «forma assoluta» o «inseparabilità dell'essenza e della forma» (che ebbe il suo vertice in Spinoza e la sua ricaduta dogmatico-esteriore in Wolff) che garantisce davvero la scientificità e la verità della filosofia che si professa. Ma ciò che più ci interessa è, indubbiamente, la resa dei conti con Kant, «probabilmente il primo che abbia concepito in modo così profondo e autenticamente filosofico» il concetto di costruzione (SW V 128). Si noti che è questa la prima volta che Schelling approfondisce esplicitamente il concetto di costruzione così come questo era stato esposto nella «Dottrina trascendentale del metodo» della prima Critica (Cap. I, Sez. I). Già non kantiano si rivela il primo accorgimento, e cioè quello di identificare fin da principio dimostrazione e costruzione, laddove Kant si era preoccupato di rammentare che la dimostrazione (empirica) presuppone la costruzione (a priori). Non che manchino i passi in cui Schelling ripete alla lettera il dettato kantiano (42): ad esempio anche nella sua prospettiva costruire significa pur sempre equiparare il concetto ad un'intuizione (nonempirica) che, pur essendo singola e concreta, valga universalmente per ogni altra possibile intuizione pertinente a quel concetto. Ma lo sviluppo di questa definizione è ben diverso, anzi il primo passo falso di Kant coincide agli occhi di Schelling con la sua stessa impostazione, ossia con l'escludere che la filosofia, correlata a concetti puri privi di intuizione, possa contare sull'evidenza costruzionistica: un'esclusione della possibilità stessa di intuizioni non empiriche adeguate ai concetti filosofici che pare presupporre la convinzione che esistano unicamente intuizioni sensibili. Ma che cos'è mai quell'«universale, l'unità pura di universale e particolare» intuita dalla matematica, se non, appunto, l'elemento puramente intellettuale (SW V 128) — lo spazio e il tempo puri — che certo essa poi riflette, come sappiamo, o geometricamente nel finito o aritmeticamente nell'infinito? Kant, del resto, non potrebbe a rigore neppure escludere l'intuizione intellettuale dalla filosofia, pena la riduzione dell'intera filosofia ad una vuota discorsività, dato che proprio quella particolare intuizione sarebbe già sempre presupposta tanto nella dottrina dell'immaginazione trascendentale quanto in quella della sintesi pura dell'appercezione. Quel che Kant può legittimamente fare è solo ascrivere alla matematica il vantaggio (misconoscendo però del tutto l'orientamento sovrasensibile introdotto in filosofia dalla matematica platonica) di poter contare su un Bild e su uno Zeichen; anzi questa conclusione è persino eccessiva, dato che non vale neppure per l'aritmetica, effettivamente inoggettuale e riconducibile, nel caso dell'algebra, addirittura a mere «proporzioni di proporzioni» (SW V 130). Ma la critica della distinzione di principio tra filosofia e matematica passa anche attraverso una più puntuale disamina degli argomenti addotti da Kant. La prima mossa consiste nell'invalidare la sua assoluta opposizione di universale e particolare, a prescindere poi dal fatto che se la conoscenza matematica fosse davvero considerazione dell'universale nel particolare e la filosofia considerazione del particolare nell'universale (43), matematica e filosofia non sarebbero in ultima analisi che due differenti modalità della medesima intuizione (intesa come identità di universale e particolare). E due modalità, per di più, che nel caso in cui si pensasse soltanto ad un universale discorsivointellettuale altro non rappresenterebbero che i due rami della matematica stessa (artimetica = particolare->universale, geometria = universale->particolare). La seconda mossa, ancora più diretta, consiste nell'attaccare frontalmente la distinzione di principio tra matematica e filosofia: alla filosofia quale «esposizione delle unità nell'indifferenza assoluta» (SW V 131) non spetta ora soltanto più un lato della costruzione, ma la costruzione nel suo insieme e un compito nient'affatto puramente analitico. Nel 18 rettificare Kant, Schelling non può fare a meno di atteggiarsi a psicocritico: del senso più profondo che assume la definizione della filosofia come esposizione del particolare nell'universale Kant stesso sarebbe all'oscuro, in quanto essa tradisce pur sempre l'inconscia permanenza di una tradizione che con «universale» intendeva non il «concetto» ma l'«idea», ciò che è oggetto di un'intuizione intellettuale in quanto unità di universale e particolare, e, viceversa, con «particolare» non pensava tanto al fattore formale, quanto a qualcosa che contiene in sé anche l'universale. Ne è una riprova il fatto che il particolare della geometria non è, neppure per Kant, il triangolo empiricamente tracciato nella sua insuperabile accidentalità, ma unicamente «il triangolo dell'intuizione pura», il che fissa una volta per tutte la tendenziale estraneità dell'empiria alla costruzione. Se Kant non vuole contraddirsi, finendo di intendere l'intuizione matematica come intuizione empirica, deve concedere che tanto nella matematica quanto nella filosofia si ha la totale equivalenza di universale e particolare. L'osservazione apparentemente persuasiva secondo la quale il filosofo non sa ricavare nulla di nuovo dal concetto di triangolo, nulla al di fuori delle proprietà analiticamente in esso contenute e da esso ricavabili (44), non dimostra agli occhi di Schelling nulla di più di quanto dimostri il fatto, del tutto speculare, che il geometra non sa per parte sua ricavare nulla di nuovo dall'idea di bellezza o di giustizia, e cioè che si tratta di due autonome regioni del sapere. E' dunque l'ammissione di uno «iato assoluto» tra concetto e intuizione a spiegare a sufficienza il pregiudizio kantiano, secondo cui la filosofia prenderebbe le mosse da un intelletto vuoto e poggerebbe su concetti a priori che attestano nient'altro che la possibilità dell'intuizione (sintesi di intuizioni possibili) (45), ma sui quali è impossibile costruire. In effetti — postilla Schelling con acribìa — si costruisce non con quei concetti ma quei concetti stessi (SW V 133), ad esempio il concetto di causa-effetto può essere costruito nell'idea dell'unità assoluta di possibilitàrealtà e questa a sua volta nell'idea dell'unità assoluta di soggettivo-oggettivo. In altri termini, la filosofia «costruisce a sua volta anche la costruzione» (SW V 137), pensando i concetti stessi piuttosto che semplicemente a partire da essi. Ma questa strada era sbarrata per Kant, non avendo egli ricondotto i concetti al punto in cui il regresso costruzionistico cessa e mostra, nella sua qualità di punto esterno alla filosofia o costruzione, il principio supremo dell'identità di costruente e costruito. Torniamo al ricorrente esempio del geometra. Il fatto che questi non costruisca con il concetto di triangolo o di quadrato (altrimenti «vi sarebbero tante differenti evidenze quante sono le costruzioni») (SW IV 134) più di quanto faccia il filosofo, mette a giorno che si dà solo un unico principio della costruzione, un'unica cosa con cui si costruisce, tanto in matematica che in filosofia. Per il geometra si tratta dell'unità assoluta dello spazio, uguale in tutte le costruzioni, per il filosofo quella dell'assoluto. Come si è già detto, vi è un'unica cosa che viene costruita, cioè le idee, mentre tutto quanto è derivato non viene costruito in quanto derivato, bensì nella sua idea (SW V 134-135). Kant, per contro, non avrebbe saputo procedere al di là del Verstand alla volta del regno delle idee (che sono, tanto per il filosofo che per il matematico, la sola cosa ad essere propriamente costruita), e per questo non avrebbe potuto conciliare l'unità dell'assoluto con la molteplicità del particolare, che dell'idea segnala piuttosto l'avvenuto distacco (ma secondo leggi generali a loro volta costruibili solo nelle idee!). Tale conciliazione gli sarebbe riuscita solo «nella costruzione delle idee e attraverso l'immaginazione produttiva» (SW V 135). Irretito in una dimensione solo relativo-ideale della possibilità, 19 Kant ha pensato ai concetti dell'intelletto come a delle semplici possibilità, ove con assoluta possibilità il vero idealismo (a cui Schelling senza remore affilia anche Hoyer) intende piuttosto quella che contiene già da sempre in sé la realtà effettiva. Fin qui le obiezioni di principio. Ma Kant aveva tentato di suffragare ulteriormente l'inferiorità scientifica della filosofia rispetto alla matematica, mostrando che la prima non può contare su definizioni, assiomi e dimostrazioni, né imitarne il risultante rigore (46). La puntuale obiezione schellinghiana è che nel caso delle definizioni non si tratta di veri e propri «principi», bensì di «punti di confine nel risalire a qualcosa di assolutamente primo» (SW V 137), ai quali è costretta a ricorrere ogni scienza subordinata per definire compiutamente il proprio ambito specifico (47). In nessun caso si tratta di indispensabili criteri della scienza delle scienze, della filosofia, di per sé anzi adefinitoria, perché la sua costruzione (in quato costruzione della costruzione stessa, definizione delle definizioni stesse) non ha propriamente confini, senza che ciò implichi la sua ricaduta nel regresso infinito. Gli assiomi, poi, ovvero le «proposizioni fondamentali sintetiche a priori [...] immediatamente certe» (48), non sarebbero che delle «dimostrazioni interrotte» di natura sovramatematica (filosofica) (SW V 138). Quanto alla dimostrazione, infine, se il suo primo momento, ovvero quell'equiparazione dell'unità universale e di quella particolare alla quale non consegue alcuna fuoriuscita dall'assoluto (per il geometra, ad esempio, la forma assoluta dello spazio puro è indivisibilmente espressa nella figura particolare), non manca affatto alla filosofia, il secondo, e cioè la relazione sensibile con un oggetto individuale, può benissimo difettarle (49), senza peraltro che ciò ne pregiudichi la possibilità di far uso del costruzionismo scientifico: «la ragione vede nella copia empirica [...] solo l'idea ovvero la sintesi pura dell'universale e del particolare in quanto tale; dove ciò non accade, ad agire nel filosofo non è la ragione, bensì l'individuo» (SW V 140). Non diversamente che in matematica, allora, la dimostrazione è anche in filosofia «l'universale riconduzione della sintesi alla pura identità del pensiero in generale» (SW V 138), in altri termini la conquista del punto d'identità di analitico e sintetico. 7. Matematica superiore: la filosofia dell'identità come filosofia «diurna» -Abbiamo così delineato, sulla scorta delleVorlesungen, il rapporto di matematica e filosofia nella sistematica dei saperi, e, sulla base del breve Über die Construktion, i termini del superamento di Kant per quanto concerne il metodo costruzionistico. Non resta che inquadrare con maggiore precisione, anzitutto in riferimento al già citato capitolo delle Fernere Darstellungen, il ruolo della teoria della costruzione all'interno del sistema dell'identità, e verificare di conseguenza in modo dettagliato l'ipotesi, già ricordata, che essa cessi di avere una valenza «operazionale» per assumerne una rigorosamente «deduttiva». La verosimiglianza dell'ipotesi è fuori discussione, dato che, cessando la ragione di essere attività e costruzione del suo oggetto mediante la conflittualità della Einbildungskraft e assumendo invece i tratti dell'identità assoluta, è del tutto naturale che all'idea come fulcro del conflitto universale-particolare subentri qui l'idea come soluzione di tale conflitto «mediante la produktive Einbildung, dove a Einbildung deve essere naturalmente attribuito il nuovo significato di absolute und reale Gleichsetzung (Ein-bildung), più originaria del conflitto tra opposti in cui non appare l'identità che costituiva l'oscillare (Schweben) dell'immaginazione come forza» (50). Rispetto agli anni di Lipsia il dato — di qualunque cosa si tratti: della forma naturale, dell'evento storico, del Cristianesimo o dell'opera d'arte — non è più costruito evoluzionisticamente, quanto per deduzione dalle idee (kantianamente intese in senso 20 non euristico-regolativo ma ostensivo) (51). Costruire non significa più ripetere liberamente la serie originaria delle azioni passate, ma esporre le cose nell'assoluto, reidealizzarle nel senso di iscriverle nelle loro idee corrispondenti (l'intera Philosophie der Kunst, ad esempio, non è che l'imponente tentativo di costruire l'arte nel senso di mostrarne la collocazione nell'universo, o, che è lo stesso, esibire l'universo nella forma dell'arte). Poiché l'universale è costruito nel particolare, che lo simboleggia microcosmicamente in quanto unità assoluta di ideale e reale, la costruzione potrà legittimamente essere definita la Darstellung des Besonderen in absoluter Form, ossia nella forma intuita intellettualmente. Sono almeno due le condizioni di possibilità dell'adozione di questo nuovo metodo costruttivo: da una parte che il filosofo — il che, com'è noto, suscitò le obiezioni di Fichte — sia in grado di intuire intellettualmente la natura svincolandosi dal soggettivo dell'intuizione intellettuale, astraendo cioè dall'intuente per guadagnare unicamente l'oggettivo di tale intuizione (o natura), o, per dirla in altri termini, in virtù di un adeguato depotenziamento dell'io; dall'altra che, deregolativizzando una suggestione kantiana in ordine all'assunzione di un metodo pienamente olistico, sia concessa al vero filosofo la possibilità dell'intellectus archetypus (Kritik der Urteilskraft, § 77). Solo questa attribuzione garantisce un carattere necessario al rapporto tra particolare e universale (laddove questo rapporto resta solo contingente nell'intelletto discorsivo), nel senso che permette una determinazione completa di ogni esistente muovendo dal tutto (o dall'universale sintetico) alle parti, il che sottrae di fatto l'idea di una durchgängige Bestimmtheit di ogni esistente, esemplata sulla costruzione matematica (52), all'ambito regolativo in cui Kant l'aveva mantenuta (53). Se nel periodo ancora relativamente attivistico (all'incirca fino al System del 1800) si trattava solo di trasferire l'evidenza del costruire dalla filosofia dell'io alla natura, ora è in gioco piuttosto la possibilità di individuare, di contro alla spiegazione causalistica, considerata come superstizione e ignoranza fatta sistema (SW IV 343) (54), quel «metodo assoluto» (costruttivo-dimostrativo) che è stato trapiantato dalla matematica nella filosofia e finora sviluppato in forma più o meno universale da alcuni «spiriti eccellenti» (SW IV 400), ma che evidentemente manca ancora di una piena e perspicua esposizione. Chiarire la possibilità di tale metodo assoluto significa altresì rispondere all'obiezione secondo cui non sarebbe possibile avere una scienza dell'assoluto, di ciò «che è assolutamente unico e sempre il medesimo» (SW IV 392), se non implicando la molteplicità e diversità di ciò in cui esso viene dimostrato. La soluzione schellinghiana, prospettabile secondo il consueto appello idealistico alla congenialità unicamente a coloro «che si sono realmente impadroniti del punto supremo della filosofia» (SW IV 393), ossia del «punto luminoso nel quale l'assoluto è positivamente intuito» (SW IV 392, n. 1), è che ciò che si dimostra (l'universale) e ciò in cui si dimostra (il particolare) sono una sola cosa, appunto nella costruzione. Ma allora dire costruzione equivale a dire annullamento del particolare, considerarlo diverso solo idealmente (come il riflesso o la copia rispetto al modello) dall'assoluto, ovvero «esporre il particolare nell'Assoluto ma così che esso particolare contenga in sé espresso l'Assoluto» (55). Schelling conferma anzitutto il pionierismo della matematica. Autenticamente anticipatrice nell'ovviare al causalismo (56) e nel ricorrere dimostrativamenteintuitivamente alla legge razionale dell'identità (identità di essere e pensiero di là da ogni distinzione analitico-sintetico), la conoscenza matematica è però assoluta unicamente dal punto di vista formale, dato che la sua applicazione concerne unicamente oggetti del mondo ectipo o spaziotemporale. Infatti, che proceda in modo 21 strettamente matematico (unità di finito e infinito nell'infinito o ideale) o in modo geometrico (unità di finito e infinito nel finito o reale), la matematica non solo deve la propria «vera idea» alla filosofia, ma resta in ogni caso al di sotto della filosofia; la filosofia intuisce quella stessa unità finito-infinito, ma la intuisce nell'essenza dell'eterno, e la intuisce positivamente, cioè non solo in negativo rispetto alla riflessione (57). Ne è condizione di possibilità ciò che Schelling definisce enfaticamente il «più riposto mistero della creazione o della Ineinsbildung (Einbildung) divina di modello e copia» (SW IV 394), di per sé reali solo perché identici nell'assoluto. In una corretta costruzione, infatti, «ogni particolare nell'assoluto è a sua volta questo (l'assoluto), cioè è a sua volta unità di infinito e finito, semplicemente intuita in una forma particolare» (SW IV 393, n. 1), laddove il particolare fenomenico, per contro, registra solo la «volontà» della forma di differenziarsi dall'essenza e la sua conseguente inadeguatezza e subordinazione all'essenza (all'universale, alla legge), nonostante tutti gli sforzi per esprimere perfettamente la totalità archetipica. Per esprimerci diversamente, se «tutte le cose fenomeniche sono, seppure altamente imperfette, Abbildungen della totalità [archetipica]» (SW IV 395), si potrebbe dire che non esiste propriamente una pianta in sé (ciò che definiamo in tal modo è solo un concetto, una determinazione «ideale»); la pianta è davvero reale solo se, ricevendo «l'immagine divina dell'unità», diviene a sua volta un universo, un'«idea» insomma (e idealismo in Schelling significa anzitutto dottrina delle idee) (58), nella conoscenza della quale, collassate le categorie modali, ogni possibile è anche ipso facto reale, esattamente come il triangolo costruito dal geometra non è mai un singolo triangolo reale, ma il triangolo assoluto e per ciò stesso assolutamente reale (ma real e non wirklich), rispetto al quale quello fenomenico è inessenziale (SW IV 406). Nella geometria, infatti, «un certo triangolo particolare possiede tutti i predicati contenuti nel concetto del triangolo» (59), poiché, considerando quel triangolo nella sua qualità diUrbild o Idee, il geometra — lo si è più volte ricordato —non ha davvero mai la necessità, per dimostrare le caratteristiche della figura tracciata, di uscire dall'assoluto, vale a dire dall'assolutezza dello spazio puro (SW V 139). Impostata in questo modo la dottrina della costruzione, cominciano le difficoltà. In primo luogo, una costruzione intesa come l'esposizione del particolare nell'assoluto non rischierà, configurandosi come l'annientamento indifferenziante di qualsiasi differenza e singolarità, di legittimare la celebre condanna hegeliana? Schelling non solo prevede, in un certo senso, l'obiezione secondo cui l'essenza dell'assoluto, così concepita, potrebbe essere paragonata ad una «vuota notte» in cui nulla è percepibile (SW IV 403), ma ritiene anche di sfuggirle, sottolineando come la filosofia consista nel conoscere non esseri diversi, ma «solo un unico essere in tutti gli schematismi originari della Weltanschauung», ribadendo in altri termini che il filosofo «non costruisce le piante, l'animale, bensì [la forma assoluta, cioè] l'universo nella figura della pianta, l'universo nella figura dell'animale; questi schematismi sono possibili solo perché possono ricevere in sé l'indivisa pienezza dell'unità e quindi essere annientati come particolari» (SW IV 395). Egli presume di aver così aggirato ogni concezione puramente privativa dell'assoluto, di aver mostrato a sufficienza «come quella notte dell'assoluto si trasformi nel giorno per la conoscenza» (SW IV 404), e come questa conoscenza sia eternamente certa perché trascendente, e comunque sistematizzante il piano altrimenti unilaterale dei Reflexionspunkte e delle identità solo relative. Rispetto a questa conoscenza perfettamente diurna, finalmente all'altezza dell'atto con cui l'assoluto stesso autointuendosi conosce se stesso e giunge ad una sua propria Gestalt (60), finalmente 22 conforme all'evidenza con cui ci rendiamo conto che sapere dell'assoluto vale antidualisticamente (o, che è lo stesso, come idealismo assoluto sovrafichtiano) nel senso sia oggettivo che soggettivo del genitivo, ogni altra presunta conoscenza non sarà che «profonda oscurità» (SW IV 404), «vuoto intelletto» (SW IV 402). D'altra parte, non c'è ragione di considerare l'intuizione intellettuale più misteriosa di quanto lo sia l'intuizione geometrica dello spazio puro (61), né di pensare che l'adozione del metodo costruttivo esoneri Schelling dall'attenzione ai particolari, come dimostra la circostanza che, nella filosofia dell'arte, è proprio solo in seguito alla proposta costruzionista, declinata qui come altrove in un'ottica che potrebbe in un certo senso dirsi «evoluzionistica» (nel senso che viene ripetuta in potenze sempre superiori), che egli si sente finalmente legittimato a indagare l'origine della molteplicità artistica (le diverse forme dell'arte, la sua interna opposizione storica tra antico e moderno, financo le singole opere), senza che ciò possa configurarsi come un danno per l'unità del sistema o vi si possa vedere il rischio di attribuire un eccessivo ispessimento ontologico a ciò che (la singola opera d'arte) nell'ottica del System del 1800 poteva apparire solo come una manifestazione accidentale dell'unica opera assoluta (62). E come solo la costruzione dell'arte, paradossalmente, schiude la possibilità di un'estetica materiale (pur conducendo non all'identità ma all'indifferenza ove si rispecchiano gli Urbilder), così, più in generale, si potrebbe dire che solo il generale costruzionismo identitätsphilosophisch — tanto più se si ammettesse che in esso conta più il processo che l'esito (l'assolutezza, in quanto tale assunta fin da principio) — apre davvero la strada ad una più seria e attenta considerazione della differenza (ancorché puramente quantitativa) e dell'elemento dinamico, quali indispensabili mediazioni anagogiche dell'assoluto stesso e del processo con cui esso ritorna presso di sé. L'accettazione della tesi storiografica secondo cui quello di Schelling sarebbe un costruzionismo «deduttivo» comporta però preliminarmente una messa a punto del concetto stesso di deduzione. Costruire non significa affatto derivare o dedurre le leggi del mondo fenomenico (che dei fenomeni sanciscono piuttosto «l'assoluta nullità e inessenzialità») (SW IV 397), dato che quella dell'Ableiten resta «un'opera assolutamente condizionata» (SW IV 397), ma semmai esporre (o, che è lo stesso, dimostrare) semplicemente il tutto nel suo principio o unità (SW IV 398). Né costruire significa qui dedurre la forma (conoscenza) dall'essenza (oggetto) o qualcosa di simile, bensì constatare l'impossibilità di afferrare sul piano delle idee la forma senza l'essenza (tra loro distinguibili solo sul piano inessenziale del quantitativo), segnatamente rappresentare «il particolare (l'unità specifica) come assoluto, ossia per sé come unità assoluta di ideale e reale», come «totale unità di finito e infinito» (SW IV 407). Costruire, per entrare ancor più nello specifico, vuol dire cogliere l'identità della duplice natura di ogni cosa (ciò per cui essa è qualcosa in sé e ciò per cui essa è nell'assoluto), comprendere la absolute Realität der Dinge e non la Wirklichkeit von dem Erscheinenden, in definitiva non avere nulla a che fare con il mondo effettivo, che anzi si mostra come una absolute Nichtwirklichkeit, a causa del suo derivare unicamente dalla scissione, dal rendersi autonoma della forma dall'essenza (SW IV 409, n. 1). Chi ammetta la costruzione filosofica, in tutte le sue possibili occorrenze (a tutte le costruzioni infatti, volte alla medesima unità, spetta la medesima assolutezza, essendo la loro differenza solo ideale-formale), riconosce la possibilità di accedere al mondo dell'Ineinander di forma ed essenza, dal quale germinano, secondo lo stesso principio metamorfico con cui Goethe aveva spiegato il divenire delle singole parti della pianta o delle diverse piante da un unico modello, quegli «esseri beati» o «prime creature» (SW 23 IV 405) che sono le idee (per la filosofia) o gli dèi (per la mitologia e l'arte). Chi costruisce non perviene soltanto all'unità formale ed esteriore che può dare il concetto ai vari contrasti, ma ne scopre l'identica e interna essenza, e cioè un'unità che «è anche insieme totalità senza passare per la pluralità» (63). In questo senso, anche la tesi, sorprendente al di fuori del suo adeguato contesto, di un'identità tra natura e storia perde ogni residua valenza metaforica, giacché è ora perfettamente comprensibile il fatto che esse, pur sotto esponenti diversi (rispettivamente il finito e l'infinito), siano come ogni altra cosa radicalmente separate nel mondo effettuale e, al contrario, in un vicendevole rapporto analogico-simbolico nella conoscenza assoluta (SW IV 411). E' qualcosa che vale in generale nel cosmo esemplaristico-analogico squadernato dal sistema dell'identità: ciascuna unità assoluta risulta essere un Gleichnis e un Sinnbild di qualche altra, non appena la costruzione mostri come vi è vincolata da un'identica Wesenheit. L'adozione di un unico metodo assoluto in filosofia comporta inoltre — ed è un chiarimento essenziale che troviamo solo nelle Fernere Darstellungen — la ripresa del procedimento sintetico (tesi-antitesi-sintesi), liberato peraltro dalla condizionatezza dell'orizzonte in cui Fichte l'aveva concepito. La linearità argomentativa nella sua fondamentale indifferenza direzionale (del tutto inessenziale è rispetto al metodo assoluto l'opposizione analitico-sintetico) e nel suo procedere discreto (tesi o categorico = unità; antitesi o ipotetico = molteplicità; sintesi = unità assoluta) viene cioè radicalmente rovesciata ed emendata dalla sua discorsività, appunto perché in questa forma è inadeguata all'identità di assoluto e sapere assoluto e alla definizione del sapere assoluto come unità di essere e pensiero. La sintesi, ad esempio, non deve affatto essere considerata come il terzo elemento dell'argomentazione, bensì come il primo, come «l'unità assoluta, della quale unità e molteplicità in opposizione sono a loro volta soltanto le diverse forme» (SW IV 399). E' agevole mostrare che Schelling si riferisce qui a quella «comunanza delle conoscenze» che Kant nella prima Critica (§ 9) aveva ascritto al giudizio disgiuntivo (64) e che è cosa radicalmente diversa dalla concettualizzazione intesa come sussunzione del particolare nell'universale, nella quale particolare e universale restano invariabilmente separati. Proprio sull'esempio della singola verità geometrica, che coimplica tutte le altre e ad esse si lascia sempre riportare, la costruzione, a maggior ragione se filosofica, è sempre «per sé un universo» (SW IV 399) «di infinita fecondità e [...] saturo delle possibilità di tutti gli esseri» (SW V 400), e nient'affatto l'estenuato passaggio empirico da condizione a condizione o l'unilaterale fissazione soggettivistica e intellettualistica delle forme dell'universo nella loro presunta separazione l'una dall'altra (65). Essa soltanto garantisce lo sguardo simbolico-eternizzante tipico della filosofia dell'identità: attestando «l'immanenza della possibilità in ogni verità di tutte le altre verità» o, altrimenti detto, «l'intreccio nonlineare degli esseri» (66), la costruzione è perfettamente omologa a quella pacifica göttliche Verwirrung, a quel göttliches Chaos, conformemente al quale — monadologicamente — «ciascuna cosa riproduce in sé il tutto e con ciò anche l'altra cosa [...], tutto è una sola cosa e tuttavia ogni cosa è separata» (SW V 400). Innalzatasi così a principio non-ipotetico della realtà, a principio di assoluta e non solo relativoideale possibilità (e assoluta possibilità = assoluta realtà), la costruzione è ottenuta — come più volte segnalato — non mediante una qualche conoscenza meccanicodiscorsiva, mediante una concettualizzazione intesa come riconduzione ad aggregato di parte discontinue, ma, al contrario in virtù di una concretizzazione dei concetti nella quale le diverse componenti derivano unicamente dalla restrizione a priori di un continuum intuitivo (67). Si noti, tra l'altro, come questo procedimento sia perfettamente 24 omologo a quello con il quale Schelling spiegava altrove l'emergenza di forme nella natura in base alla tensione dinamica tra continuità e discontinuità (68). Nel sistema a somma costante cui Schelling pensa la costruzione inverte non soltanto la conoscenza fenomenica (che consiste — ribadiamolo — nella scissione della forma dall'essenza), ma anche la costruzione della natura o Ein-bildung dell'infinito nel finito, assicurandosi così l'accesso al mondo delle idee, caratterizzato dall'unità di universale e particolare, essenza e forma, nonché dalla duplice legge (che ne esprime, appunto, la simbolicità) della «pura limitazione» e dell'«indivisa assolutezza» di ciascuno dei suoi membri (ad es. SW V 391-392). Sono idee, in questo senso di componenti di una «caratteristica» superiore, nella quale è già dato ogni possibile intreccio empirico e per la quale Alles ist ineinander, tanto le figure regolari della geometria, ciascuna delle quali rinvia a tutte le altre e con ciò all'insieme dei principi della geometria piana, quanto le figure mitologiche, ciascuna delle quali costituisce un mondo a sé e che, tutte insieme, formano «un continuum di figure, entro il quale è possibile passare da una figura alle altre attraverso una progressiva deformazione o "strappo"» (69). Siccome è (senza limitarsi a significarla) una certa proprietà, ma non un'altra, pur rinviandovi difettivamente (più precisamente secondo un principio di complementarietà), ogni figura (mitologica o geometrica non fa ora differenza) è simbolo in senso pregnante (Sinnbild) della continuità o caoticità assoluta di cui non è che una variazione metamorfica. La costruzione è dunque, in ultima analisi, la ri-costruzione dell'ordinamento circolare-caotico (70) degli archetipi al di là della discontinuità empirico-lineare delle loro copie. E' pertanto, nella sua assolutezza, una sorta di characteristica universalis sottratta, nel valore simbolico del tutto che essa preserva, al prospettivismo e allegorismo o schematismo cui è per contro invariabilmente destinata ogni altra forma condizionata di sapere. L'apparentemente inevitabile svalutazione delle filosofie particolari, che essa comporta, non tocca mai in verità le conoscenze particolari, per lo meno nella misura in cui queste ultime siano passibili di ricomprensione nella suddetta morfologia assoluta o simbolica, nel continuum morfogenetico o caos divino, di cui la «costruzione», nel suo specifico valore speculativo, è, come s'è visto, la sola via d'accesso. 9. Conclusione -- L'articolarsi nella filosofia di Schelling del tema della costruzione presuppone in tutti i suoi snodi, seppure in misura e secondo orientamenti relativamente diversi, l'idea di una simbolica universale trascendentalmente sovraordinata al molteplice empirico. In questo orizzonte il rinvio ad una characteristica universalis è stata una tentazione ricorrente, come da ultimo dimostra il non casuale riferirvisi in un breve scritto ormai del tutto estraneo al sistema dell'identità (Bericht über den pasigraphischen Versuch des Herrn Professor Schmid in Dillingen, 1811), semmai permeato da istanze genericamente teosofiche. La characteristica leibniziana è in questo contesto profondamente differenziata da ogni genealogia puramente logica dei pensieri, e riportata invece apertamente alla mistica della signatura rerum (è ben noto quale fosse la consuetudine dello Schelling monachese con i testi della tradizione böhmiana-oetingeriana) (71), vale a dire all'idea che la missione dell'uomo sia quella di portare in atto la potenzialità linguistica insita in ciascuna cosa, e che ogni creatura sia a sua volta nel profondo soprattutto l'espressione di una certa idea (SW VIII 449). Il che varrebbe persino quando si considerasse la caratteristica nel suo valore squisitamente algebrico (il ragionamento come calcolo): infatti «un calcolo è possibile solo mediante segni che siano insieme la cosa stessa» (SW VIII 440), siano cioè perfettamente 25 equivalenti ai Begriffe. Una vera pasigrafia (e non certo quella poco rigorosa e in definitiva solo strumentale dello Schmid di turno) è, allora, solo quella che scopre l'essenza della lingua, per così dire «la lingua della lingua» (SW VIII 449), ed è perciò formata secondo necessità, tanto dei segni usati e delle loro combinazioni, quanto del rapporto tra segno e designato. Una perfetta dottrina della segnatura è una sorta di magia che allontana da sé ogni arbitrio e artificiosità, e che possiede quel carattere rivelativo dell'essenza delle cose che non si può non riconoscere, rispettivamente, alla parola, in specie nel quadro delle Ursprachen, alla figura e al numero nell'ottica di una matematica simbolica che forma un'ininterrotta ancorché sotterranea tradizione dai Pitagorici sino a Keplero. E' a tutti evidente come in questa allusione ad una Ursprache, il cui Centrum (legame naturale tra Wort e Sache) costituirebbe quanto hanno in comune molte se non tutte le lingue, risuoni quello stesso modello di pensiero che in precedenza abbiamo visto sotteso all'ipotesi di una mathesis universalis. Pur se in un contesto profondamente mutato, che ha indotto da sempre a parlare di una vera e propria Kehre, Schelling resta fedele ad una concezione per cui il mondo fenomenico non sarebbe che la manifestazione (più o meno «caduta») di un ordine superiore (nell'epoca della filosofia dell'identità: il cosmo delle idee e dello spazio-tempo puro) al quale solo il filosofo ha il diritto e il dovere di accedere. Ma non è questo certamente il luogo per una esauriente disamina di quanto in Schelling sopravvive dell'antica dottrina della segnatura. Ci è parso sufficiente segnalarne la permanente presenza nel pensiero schellinghiano. Rispetto alla costruzione, ci pare di poter concludere che, una volta segnalato che l'errore fondamentale di Kant sta nell'aver attribuito alla filosofia un ambito puramente analitico e nell'aver identificato l'evidenza con la sinteticità discorsiva, Schelling ha opposto all'esattezza della matematica per definizioni e assiomi l'esattezza per genesi: la filosofia è stata così sottratta, nell'ottica di una «matematica superiore» in cui risuona l'eco tanto del simbolismo pitagorico quanto della mistica del mondo come libro da decrittare, ad un destino che ricorda la condizione in cui versava la matematica presso i Babilonesi e gli Egizi. Così come i Greci, spezzato l'apparentemente indissolubile legame con l'applicazione pratica e l'esempio singolo, seppero procedere sulla via di un'assiomatizzazione che, pur offrendo utili soluzioni a problemi empirici, si risolveva puramente nel medium dell'intuizione, così la costruzione filosofica dovrebbe astrarre dall'immediata applicabilità pratica, pur pretendendo di restare all'altezza dei problemi concreti. Fedele alla valenza di «visione» attribuita da Kant al metodo costruttivo — nel che segnaliamo un paradossale ritorno a Kant, che sancisce il definitivo congedo dall'intuizione intellettuale come semplice autoriflessione dell'io (Fichte) — e insieme propugnatore, di contro a Kant, di un'universalizzazione di tale metodo, Schelling mostra di essere un convinto assertore della possibilità per la filosofia di trascendere il proprio destino analitico e in definitiva meramente tautologico, di pervenire, in altri termini, alla sintesi rappresentata dal concetto razionale (l'idea) e non solo discorsivo. Di questa sintesi, pienamente riconducibile all'identità, egli ammette l'articolazione ostensiva e non solo apagogica, legittimando così attraverso il costruzionismo filosofico, non a caso considerato sulla scorta di Hoyer tanto un'arte che una scienza (SW V 141), una simbolica o caratteristica universale nel quadro della quale ogni particolare è sempre a sua volta anche l'intero. Solo una matematica superiore (SW V 130) di questo genere rende possibile un «sapere unitario su basi filosofiche» (72). E' proprio quale ratifica di questo enciclopedismo costruzionistico, arroccato sulla Zentralschau delle idee, ed entro il quale ogni specialismo, se pervenuto alle idee, 26 esprimerebbe monadologicamente l'universale, che andrebbe considerata la svolta specificamente simbolistica degli anni seguenti (in specie nella Philosophie der Kunst) (73). Ma non si pensi per questo motivo ad un dissolversi della filosofia nell'estetico (che semmai diviene parte integrante del carattere in senso lato contemplativo della filosofia). E' pur sempre la filosofia soltanto che — proprio attraverso la costruzione come posizionamento di ciascuna cosa nell'universo — non si limita a riscoprire, oltre i limiti della scienza empirica, il carattere simbolico della totalità (in modo eminente dell'organismo e dell'opera d'arte) e la pervasività in essa della ragione , ma soprattutto è in grado, quale «solvente» universale, di riportare tutte le singole forme, anche i molteplici Sinnbilder, all'identità divina della quale sono i riflessi più perspicui. Irriducibile alla matematica, ossia ad una scienza che per quanto euristicamente importante trova pur sempre «un più alto riflesso al di sopra di sé», la vera filosofia «riunisce in se stessa tutti i riflessi» (SW V 127). E' perciò proprio come mathesis universalis o costruzionismo delle idee che dev'essere intesa quella «filosofia che tutto unifica trionfando» (SW IV 403), cui Schelling guarda nel periodo dell'identità senza indulgenze prolettico-utopiche. Se l'idealismo assoluto della filosofia dell'identità è stato un sogno (74), è stato appunto il sogno di una characteristica universalis, capace di dare ordine ed esprimere l'universo del molteplice, il sogno di una costruzione o simbolica infallibilmente retta da un allsehende und alles offenbarende Auge der Welt, al di fuori della quale addirittura nulla è possibile, giacché — e qui la filosofia si dissolve totalmente in teologia — «per il punto di vista della vera filosofia Dio non è la cosa più alta ma assolutamente l'unica, non il culmine o l'elemento ultimo di una serie, ma il centro. Non c'è alcun mondo al di fuori di Dio» (SW VI 152).