Riassunto L’obiettivo del presente lavoro è quello di indagare il rapporto tra svalutazioni, esportazioni e crescita economica. È innegabile che una revisione al ribasso del tasso di cambio abbia un effetto positivo sulla competitività dell’export, ma le sue implicazioni ulteriori sull’economia di un paese ne scoraggiano l’utilizzo finalizzato al rilancio della crescita. L’analisi teorica e quella empirica convergono nel tracciare un bilancio negativo di una politica valutaria di questo genere: se non abbinata a riforme strutturali, la sola svalutazione non è uno stimolo sufficiente alla crescita. Questo vale sia per regimi di cambi fluttuanti che fissi, nei quali il ricorso alla svalutazione è permesso solo in caso di grave necessità: una scelta di questo tipo è sintomo di disfunzioni interne, dal punto di vista economico e politico. Solo in casi eccezionali un tasso di cambio perennemente sottostimato è manifestazione della posizione di forza del paese all’interno del mercato globale. Abbiamo deciso di analizzare la questione anzitutto da un punto di vista teorico, per poi verificare la corrispondenza di tali affermazioni sul piano pratico, passando in rassegna alcuni dei casi più noti di economie trainate dalle esportazioni. Infine, abbiamo scelto di concentrarci sul caso particolare dell’Italia, sulle differenti esperienze valutarie che ha attraversato il Paese e sui riflessi che queste hanno avuto sulle esportazioni e sulla crescita. Questo percorso ci ha portati a concludere che la svalutazione non è sufficiente per suo conto a sostenere un sano sviluppo economico, e anzi produce conseguenze negative sulla credibilità del paese a livello internazionale. Sul piano teorico, la condizione di Marshall-Lerner spiega l’influenza positiva della svalutazione sulla bilancia commerciale; ciò avviene in maniera graduale nel tempo: la curva J rappresenta l’iniziale aumento delle importazioni, che solo successivamente viene più che bilanciato dalle esportazioni, rese più competitive dalla riduzione del tasso di cambio. Così considerate, le svalutazioni potrebbero sembrare la via più rapida a uno sviluppo economico trainato dalle esportazioni; ma attraverso il modello di Mundell-Fleming è possibile contestualizzare questo tipo di politiche valutarie nel sistema economico di una piccola economia aperta: in questo modo, ci si accorge che tutta una serie di implicazioni, sia interne che esterne, modificano l’impatto finale della svalutazione sulla crescita economica. Internamente, l’effetto delle revisioni del tasso di cambio va a combinarsi con quello delle politiche monetarie e fiscali; esternamente, ogni paese si trova ad affrontare i vincoli imposti dal regime di cambio, fluttuante o fisso che sia. Nel breve periodo, la scelta di un regime flessibile permette al tasso di cambio gli aggiustamenti necessari a bilanciare gli effetti delle diverse politiche, e consente di utilizzare la politica monetaria per stimolare la crescita. Un regime di cambi fissi, invece, annulla la funzione di aggiustamento del tasso di cambio in modo da garantire maggiore stabilità, che è condizione essenziale per lo sviluppo di proficue relazioni commerciali a livello internazionale. In questo caso, il paese che procede a una svalutazione implicitamente ammette di non essere più un grado di sostenere il tasso di cambio al livello fissato per le proprie debolezze interne. Lo stesso accade nel medio periodo, con l’unica differenza che il livello dei prezzi non è più fisso: il modello AS-AD mostra come anche questa variabile contribuisca al raggiungimento del livello naturale di produzione, che avviene indipendentemente dal regime di cambio scelto. In un arco di tempo più ampio, si attiva il meccanismo delle aspettative degli investitori sulle modifiche del tasso di cambio: tali pronostici, non di rado irrazionali, finiscono per scatenare attacchi speculativi sulle valute. Le ricadute sull’economia sono più pesanti in regime di cambi fissi, poiché la spirale speculativa costringe le autorità monetarie a procedere effettivamente una svalutazione. Il modello AS-AD, inoltre, mostra come le manipolazioni del tasso di cambio possano effettivamente portare la produzione al suo livello naturale; ma questa non è che una scorciatoia, il cui effetto collaterale è l’innescamento di una forte inflazione. La conclusione di questa prima parte è che dal punto di vista teorico gli argomenti a favore della svalutazione come politica di rilancio della crescita sono ben pochi. Passando all’analisi di casi concreti nella seconda parte della trattazione, potremmo aspettarci di trovare dati che contrastano con gli assunti teorici: nell’immaginario collettivo, si tende a tracciare il modello di sviluppo di molti paesi emergenti associando esportazioni competitive a livello globale con valute estremamente sottostimate. In realtà, un inquadramento in termini generali del modello Export-Led Growth ridimensiona la portata del tasso di cambio nello spiegare la crescita impressionante di alcuni paesi emergenti: la svalutazione va associata ad altri fattori, quali l’utilizzo di tecnologie che hanno permesso un significativo miglioramento qualitativo e quantitativo delle esportazioni e la diversificazione della produzione. Questo modello di sviluppo trainato dalle esportazioni ha permesso ad alcuni paesi emergenti di colmare il gap tecnologico con le economie occidentali, se non addirittura superarle; è bene sottolineare, tuttavia, che questa crescita impressionante non di rado si è accompagnata a pratiche commerciali non propriamente corrette, quale può essere il dumping. Abbiamo scelto di portare come argomento a sostegno della nostra tesi il caso storico delle Tigri Asiatiche e del Giappone: l’analisi empirica suggerisce che la svalutazione ha avuto un ruolo poco più che marginale nel determinare uno sviluppo economico piuttosto rapido. Abbiamo scelto di dedicare ampio spazio al caso della Cina, attualmente leader del commercio mondiale nonostante una moneta fortemente sottovalutata. Il modello di sviluppo cinese presenta forti specificità, che lo rendono difficilmente applicabile ad altre economie: si tratta più che altro di una vistosa eccezione alla regola per cui un robusto tasso di cambio è un buon biglietto da visita per un paese che debba confrontarsi con il mercato mondiale. Allo stato attuale, è difficile immaginare un Paese diverso dalla Cina che possa mantenere la propria credibilità e sostenere il braccio di ferro con gli Stati Uniti imponendo un tasso di cambio palesemente sottovalutato. Anche i paesi occidentali, tuttavia, non sono immuni dalla tentazione di svalutare; ma, mentre nelle economie in sviluppo la manipolazione del tasso di cambio è più che altro uno strumento per favorire la competitività delle esportazioni, la concezione occidentale sembra più essere quella di un rimedio estremo in una congiuntura economica particolarmente difficile. A ben guardare, le svalutazioni di monete occidentali sono storicamente legate alle grandi crisi economiche internazionali, i cui si riflessi sempre più si sono manifestati a livello nazionale. Per questo, i paesi industrializzati hanno dato il primo impulso a organizzazioni economiche che potessero favorire e disciplinare il commercio internazionale: la cooperazione è stata la risposta, il superamento occidentale delle tattiche di svalutazione e dei modelli Export-Led Growth, basati più che altro sulla performance del singolo paese. Allo stato attuale, è difficile immaginare il ricorso alla svalutazione in una qualsiasi economia occidentale che abbia accettato di rispettare le condizioni e le regole imposte da questi organismi; unica eccezione sono gli Stati Uniti: il tasso di cambio del dollaro è fortemente sottostimato ormai da decenni per decurtare il valore dell’ingente debito estero americano. Ma ancora, si tratta di un caso eccezionale: la credibilità del paese ne è stata intaccata, ma il fatto che il dollaro sia moneta di riserva internazionale ha permesso che non ne venisse completamente travolta. Anche la seconda parte non porta elementi a favore della tesi per cui la svalutazione di per sé basterebbe a stimolare la crescita economica di un paese. La terza ed ultima parte del nostro lavoro è interamente incentrata sull’Italia: innanzitutto, abbiamo cercato di comprendere se le frequenti svalutazioni competitive dagli anni ’70 in poi abbiano effettivamente giovato alle esportazioni e alla crescita. Anche in questo caso emerge una concezione negativa della svalutazione, sintomo dell’elevata instabilità politica ed economica del paese. Pur favorendo in qualche modo la competitività delle esportazioni italiane, le oscillazioni della lira hanno soprattutto minato la credibilità del paese a livello internazionale; e questo soprattutto in occasione dell’ultima, drammatica svalutazione della lira nel 1992, che ha segnato l’uscita dell’Italia dal Sistema Monetario Europeo. La necessità di far uscire la lira dalla spirale speculativa ha portato l’Italia a un impegno crescente nell’integrazione monetaria europea, prima con lo SME e poi con l’adozione dell’euro. La stabilizzazione del tasso di cambio, tuttavia, ha richiesto grandi sacrifici e ha avuto pesanti ricadute a livello socio-economico. L’evidenza empirica mostra che la competitività delle esportazioni italiane è andata declinando negli anni successivi all’entrata in vigore dell’euro. Tuttavia, sarebbe ingiusto attribuire questo calo unicamente alla forte quotazione di cui gode la moneta unica sul mercato mondiale: problemi strutturali, tra cui la rigidità del mercato del lavoro e l’inadeguatezza delle piccole e medie imprese ad affrontare la competizione commerciale a livello globale, sono la causa di ciò; l’euro ne ha ulteriormente ampliato gli effetti negativi. L’adesione alla moneta unica impedisce all’Italia l’utilizzo della svalutazione; ma quand’anche il paese dovesse tornare ad usare la lira, manipolare il tasso di cambio non sarebbe sufficiente a ridare alle esportazione quella competitività necessaria al rilancio della crescita economica.