Democrazia senza diritti
In margine al Kelsen democratico
ANNA PINTORE
1. Kelsen democratico
Sono stati riediti in Italia dopo molti anni i principali saggi kelseniani sulla democrazia:
Essenza e valore della democrazia; Il problema del parlamentarismo; I fondamenti
della democrazia (Kelsen 1998a).1 L’iniziativa sicuramente stimolerà a rimeditare sul
pensiero filosofico-politico di Kelsen, e questo è assai opportuno: il Kelsen
democratico, infatti, continua ad essere oscurato dal Kelsen teorico del diritto, e
comunque nel complesso trascurato. Basti pensare che nei due più importanti lavori
degli ultimi dieci anni sui rapporti tra democrazia e stato di diritto, Diritto e ragione di
Luigi Ferrajoli, e Faktizität und Geltung di Jürgen Habermas, i suoi saggi sulla
democrazia non sono neppure menzionati2.
In fondo, al Kelsen teorico della democrazia non è stata dedicata soverchia
attenzione neppure nell’ambiente culturale che avrebbe dovuto essere a lui più
favorevole, vale a dire la filosofia giuridica e politica d’ispirazione giuspositivista,
analitica, laica e liberale. Ciò, a mio parere, non è dipeso però dal fatto che le sue idee
siano apparse sbagliate o, peggio, irrilevanti. Ciò è dipeso viceversa dal fatto che sono
state percepite come del tutto ovvie e condivisibili, almeno fino a tempi recenti.
Questa sensazione di ovvietà e di condivisibilità ha investito ambedue i profili
principali intorno ai quali tali idee ruotano: vale a dire, in primo luogo, il collegamento
istituito tra la democrazia e il relativismo etico; in secondo luogo, la definizione della
democrazia come procedura.
Ora, a me pare che questa impressione di ovvia accettabilità della teoria kelseniana
della democrazia sia stata alimentata da due equivoci: quello che chiamerei equivoco
relativista e quello che chiamerei equivoco proceduralista. L’equivoco relativista porta
a considerare il relativismo etico come una buona giustificazione (se non la
giustificazione per eccellenza) della democrazia. L’equivoco proceduralista porta a
ritenere che esista una categoria di definizioni meramente procedurali della democrazia,
alla quale anche quella di Kelsen può essere ascritta.
Nelle pagine che seguono mi occuperò di questi due equivoci, e ciò mi darà
l’opportunità di discutere se le idee kelseniane presentino oggi un interesse solo
archeologico, o se invece possano portare ancora un qualche utile contributo al dibattito
contemporaneo in tema di democrazia. Queste idee vengono tuttora considerate “una
pietra miliare della teoria contemporanea della democrazia” (Zagrebelski 1995, 119),
ma c’è da domandarsi fino a che punto tale diagnosi sia esatta. Infatti, oggi la teoria
1Da Kelsen 1998a sono tratte le citazioni che seguono. Il volume è preceduto da un’introduzione di
M. Barberis.
2Vedi Ferrajoli 1989 e Habermas 1996. La recente (e imponente) letteratura filosofico-politica in
lingua inglese in tema di democrazia ignora del tutto Kelsen.
della democrazia è essenzialmente teoria della democrazia costituzionale, e teoria
impegnata intorno al cruciale problema della conciliazione tra diritti e sovranità
popolare3. Tale problema è rimasto però, in buona sostanza, estraneo agli orizzonti di
Kelsen, il quale ha elaborato certamente una teoria della costituzione, e ha elaborato
inoltre una teoria della democrazia; non ha invece mai collegato le due in una teoria
della democrazia costituzionale (o, se vogliamo, del costituzionalismo democratico).
Sotto questo profilo, il suo contributo alla teoria della democrazia oggi dovrebbe essere
considerato alquanto datato, se non addirittura obsoleto. Tuttavia a mio parere esso
merita ancora grande attenzione, poiché negli scritti di Kelsen è implicito un modello
che potrebbe essere chiamato provocatoriamente di democrazia senza diritti, un
modello che può svolgere una funzione di salutare contrappeso rispetto ai modelli di
democrazie sature di diritti attualmente predominanti.
2. Democrazia e relativismo etico
Parliamo subito dell’equivoco relativista. Come si sa, uno dei due principali argomenti
giustificativi della democrazia ricorrenti negli scritti filosofico-politici di Kelsen
riguarda infatti il nesso tra democrazia e relativismo filosofico.4 Kelsen ci dice che solo
chi adotta, in etica e in filosofia, un atteggiamento relativista, può trattare la democrazia
come un valore e difenderla genuinamente.
‘Relativismo filosofico’ è peraltro un’espressione non univoca nel lessico di
Kelsen, poiché viene da lui adoperata per indicare almeno tre tesi diverse: una tesi
gnoseologica, una tesi metaetica, e una tesi etica.
Innanzi tutto, questa locuzione viene da lui adoperata per indicare un complesso di
assunzioni gnoseologiche, che potrebbero essere oggi designate come empirismo, non
cognitivismo e costruttivismo (moderato). Empirismo, ossia: la conoscenza è sempre
solo conoscenza empirica (cfr. Kelsen 1998b, 147-8; 1998c, 222ss.); non cognitivismo,
ossia: solo i fatti possono essere oggetto di conoscenza e non i valori, onde verità e
giustizia sono attributi radicalmente eterogenei (cfr. Kelsen 1998c, 223-4);
costruttivismo, ossia: la conoscenza è sempre relativa al soggetto che la produce (cfr.
ibid., 224-6).
In secondo luogo, ‘relativismo filosofico’ è espressione adoperata da Kelsen per
indicare un complesso di tesi etiche. Kelsen non tematizza nei suoi scritti sulla
democrazia la distinzione tra etica e metaetica, e dunque non chiarisce se, quando parla
di relativismo, intenda far riferimento a una tesi etica sostanziale (i valori sono relativi a
chi li adotta) ovvero a una tesi metaetica (non esiste una fondazione oggettiva dei
valori). Ritengo che i due aspetti siano compresenti nel relativismo filosofico come da
lui delineato. 'Relativismo filosofico' sta dunque ad indicare, da un lato, la tesi metaetica
per cui i valori non sono immanenti nella realtà e non possono essere estratti da essa
3Ancora va ricordato a questo proposito Habermas 1996. In lingua inglese, una difesa tra le più
persuasive del modello democratico-costituzionale è in Holmes 1995. In Italia il più significativo recente
lavoro in argomento è Palombella 1997a.
4L'altro argomento è quello che si ricollega al valore dell'autonomia. In tema si leggano le perspicue
considerazioni di Paulson 1990, 81-95.
2
tramite conoscenza razionale: non oggettivismo etico (cfr. ibid., 270-1)5; dall’altro lato,
la tesi etica per cui i valori sono relativi agli individui che li adottano (relativismo
normativo) (cfr. ibid., 269).6
Tra democrazia e relativismo Kelsen individua una molteplicità di collegamenti
situati su piani diversi.
Innanzi tutto un nesso di carattere fattuale-psicologico (cfr. ibid., 243).7 Per Kelsen
non c’è soluzione di continuità tra relativismo, sia gnoseologico che etico/metaetico, e
personalità tollerante e, viceversa, assolutismo e personalità totalitaria, autocratica.
In secondo luogo, un nesso di carattere storico: “quasi tutti i maggiori esponenti
della filosofia relativistica furono politicamente favorevoli alla democrazia, mentre i
seguaci dell’assolutismo filosofico, i grandi metafisici, furono favorevoli
all’assolutismo e contro la democrazia” (ibid., 259ss.).
Accanto a questi collegamenti di ordine fattuale, psicologico e storico, Kelsen
individua un altro genere di legame tra democrazia e relativismo. Non si tratta, a suo
dire, di un nesso “necessariamente logico”, bensì, piuttosto, di una “relazione di
congenialità” (ibid., 274); di un’“intima relazione”, di una “coordinazione” (ibid., 219)
tale per cui si deve ammettere che il relativismo è il presupposto della democrazia8: “se
io mi pronuncio a favore della democrazia, lo faccio esclusivamente … a causa …del
legame che esiste fra una democrazia e una teoria relativista” (Kelsen 1998b, 138).9
Kelsen per la verità non tratta il relativismo come condizione sufficiente, ma di certo lo
tratta come condizione necessaria della (giustificazione della) democrazia. E comunque,
il nesso che egli postula non ha natura puramente fattuale e contingente; neppure sembra
avere, però, carattere necessario e immanente (“necessariamente logico”): sotto questo
profilo, lo si potrebbe accostare al nesso che lega un’asserzione alle sue presupposizioni
pragmatiche, le quali non possono essere negate senza rendere paradossale l’asserzione
medesima. Va qui ovviamente richiamato il noto e paradossale esempio di Strawson:
“piove, ma non ci credo”: tale affermazione non è in sé logicamente contraddittoria, ma
è “strana” perché viola la regola pragmatica che impone di asserire solo proposizioni
coerenti con gli atteggiamenti proposizionali dell’emittente. Ora, parrebbe che Kelsen
ritenesse analogamente paradossale, quantunque non contraddittorio, negare la seguente
proposizione: “La democrazia è un valore, ma io non credo nella fondazione dei
valori”10.
5Ovviamente, l’aspetto metaetico e quello gnoseologico del relativismo filosofico si intersecano, nel
momento in cui le tesi gnoseologiche si riferiscono ai valori: il non cognitivismo è la componente
(gnoseologica) di una metaetica (di solito non oggettivista).
6L’espressione “relativismo normativo” è di Frankena (1981, 207ss.). Frankena distingue dal
relativismo normativo il relativismo descrittivo e quello metaetico.
7Qui Kelsen parla di “parallelismo” tra assolutismo filosofico e politico.
8“[I]l relativismo è quella concezione del mondo che l’idea democratica suppone” (Kelsen 1998b,
149).
9Non si vede però come, per un divisionista come Kelsen, il relativismo epistemologico e
gnoseologico possano influire sull’etica/metaetica. Il discorso che segue si limiterà a prendere in
considerazione i nessi tra democrazia e relativismo etico e metaetico.
10Oppure, nella versione del relativismo normativo: “La democrazia è un valore, ma è un valore
relativo a me che lo adotto”.
3
Ad ogni modo, le idee kelseniane sulle implicazioni democratiche del relativismo
non potevano che piacere al positivismo giuridico, specie a quello analitico, il quale vi
leggeva, sul piano metaetico, una riaffermazione della legge di Hume (non si possono
fondare i valori sui fatti); mentre, sul piano dell’etica sostanziale, vi vedeva una
manifestazione del proprio spirito laico, pluralista e tollerante.
Tuttavia, Kelsen, per il suo relativismo democratico, è stato più criticato (dagli
avversari) che non lodato (dai sostenitori). Le critiche, a dire il vero, si sono mantenute
speculari agli argomenti criticati, nel senso che ne hanno riprodotto esattamente l’ordine
di idee, salvo capovolgerlo. Come Kelsen affermava il nesso tra relativismo e
democrazia, così i critici lo negavano, opponendone uno di segno contrario: non più tra
relativismo (metaetico ed etico) e democrazia, bensì tra oggettivismo o verità dei valori
e democrazia. Come Kelsen riteneva che una visione assolutista dei valori potesse
mettere in pericolo la fede nella democrazia; così i suoi critici gli opponevano che i
pericoli per la democrazia derivano proprio dal relativismo, e possono essere evitati solo
in una prospettiva etica oggettivista: se non si afferma la verità dei valori, si affida il
potere alla nuda forza, sia pure la forza dei più, e si rende un cattivo servizio alla
democrazia, che non viene affatto giustificata ma al contrario resa precaria.
Trovo davvero sconcertante che non sia mai stato detto, a critica di Kelsen e dei
critici di Kelsen, che ambedue hanno completamente torto.
Ha torto Kelsen, allorché afferma: “che i giudizi di valore abbiano una validità solo
relativa — principio basilare del relativismo filosofico — implica che opposti giudizi di
valore non siano esclusi né logicamente né moralmente” (Kelsen 1998c, 269).
Egli infatti in tal modo confonde il fondamento col contenuto dei giudizi di
valore11: un conto è quali valori si adottano, un conto è se tali valori abbiano o meno un
fondamento, e quale tipo di fondamento abbiano. L’ammissibilità di concorrenti punti di
vista e valori non discende da una soluzione negativa del problema della fondazione dei
valori, come Kelsen ritiene, bensì esclusivamente dal tipo di valori che vengono
sponsorizzati e difesi. Per dirla altrimenti, si può ben essere relativisti (ossia non
oggettivisti) in etica, e al contempo difendere valori che “escludano moralmente opposti
giudizi di valore”, e viceversa si può ben essere assolutisti (o meglio, oggettivisti) e al
contempo ammettere la legittimità morale di opposti punti di vista.
“Il relativismo è una teoria metaetica, e la sua verità o falsità è questione che
concerne un osservatore esterno. Difendere la tolleranza o essere tolleranti sono attività
interne a particolari sistemi morali — attività da partecipanti. Non c’è niente che il
relativista qua relativista possa dire in favore o contro la tolleranza da un punto di vista
morale. Nel momento in cui fa questo cessa di essere un osservatore della morale e
diventa un utente di un sistema morale” (Harrison 1979, 286).12
Un conto è la fondazione un conto è il contenuto. Non fa alcuna differenza che la
tolleranza, ad esempio, sia difesa da una prospettiva oggettivista o da una prospettiva
non oggettivista.13 Certo, chi parte dalla credenza nella validità oggettiva dei (propri)
11Per questa distinzione, proprio in riferimento al relativismo etico, vedi Ross (1978, 125).
12Allo stesso modo Oppenheim 1950.
13Diversamente Maritain (1976, 67) polemizzando con Kelsen, osserva che “non c’è tolleranza
reale e autentica se non quando un uomo è fermamente e assolutamente convinto di una verità, o di quella
che ritiene una verità, e quando, nel medesimo tempo, riconosce a quelli che negano questa verità il
4
valori, avrà la propensione psicologica a ritenere che essi si debbano imporre o vadano
imposti a scapito dei valori opposti14, ma questo non implica necessariamente un
atteggiamento imperialista o intollerante. Infatti, il valore che si ritiene vero e che si
desidererebbe imporre potrebbe proprio essere il valore della tolleranza, e quindi
dell’ammissibilità contemporanea di opposti punti di vista.15 D’altro canto, il
relativismo, inteso come posizione etica sostanziale, non è più congeniale né alla
tolleranza né all’intolleranza: il relativista etico difende i propri valori, se li difende,
esattamente come l’assolutista16.
La distinzione tra tolleranza e intolleranza e tra difesa e critica della democrazia
non passa per la questione della fondazione, ma per quella del contenuto dei valori. Essa
dipende dal fatto che nella propria etica si accolgano o meno metavalori liberali, come
per l’appunto la tolleranza, l’autonomia, la neutralità, l’imparzialità, siano essi concepiti
o meno come provvisti di fondazione obbiettiva. Perciò Kelsen ha torto quando afferma
che “la tolleranza presuppone la relatività della verità sostenuta o del valore postulato, e
tale relatività implica che la verità o il valore opposto non siano interamente esclusi”
(Kelsen 1998c, 321).
Kelsen ha torto, dunque, nell’istituire un nesso forte tra relativismo e democrazia.
La verità pratica è ininfluente sulla democrazia e sulla sua giustificazione: sia chi creda
nella sua esistenza sia chi non vi creda può argomentare coerentemente sia in favore, sia
contro la democrazia17.
In particolare, la democrazia può essere difesa (e notoriamente è stata difesa) anche
da una prospettiva oggettivista, per esempio con argomenti di carattere naturalista, quali
quelli che insistono sulle qualità veritative delle decisioni a maggioranza18; oppure con
diritto di esistere e di contraddirlo, non perché siano liberi nei confronti della verità, ma perché cercano la
verità a modo loro e perché rispetta in essi la natura umana e la dignità umana”.
Nella stessa direzione di Maritain, vedi da ultimo La Torre (1997, 191ss.). Ma poi lo stesso La Torre
(1997, 195) ammette che la fondazione è del tutto irrilevante rispetto al contenuto dei valori che si
pretende fondabili o infondabili.
Sui rapporti tra tolleranza e verità vedi Bobbio (1998, 141 ss.).
14Dunque, con la riserva indicata di seguito nel testo, si può concludere che il nesso più promettente
tra relativismo e tolleranza fra quelli indicati da Kelsen è semmai quello di tipo psicologico.
15Si veda Spadaro (1994, 278): “La tolleranza deve essere fondata non tanto sul presupposto che
‘nessuno’ sia in grado, di conoscere la verità (o frammenti della stessa), quanto sull’idea…secondo cui
nessuno può imporre la propria (presunta) verità”.
16Kelsen ricorda la bella frase di Schumpeter: “Ciò che distingue un uomo civilizzato da un barbaro
è il rendersi conto della validità relativa delle proprie convinzioni e, malgrado ciò, sostenerle senza
indietreggiare” (Kelsen 1998c, 198).
17Sul punto si leggano gli ottimi argomenti di Harrison (1996, cap. IX).
18Cfr. Hallowell (1995, 140): “siamo obbligati a sottostare alla decisione della maggioranza non
perché questa rappresenti una volontà numericamente superiore, ma perché è manifestazione del miglior
giudizio della società con riferimento ad una particolare materia in un momento determinato”. Hallowell
cita Aristotele, Politica, III, 11.2-3: “Può darsi in effetto che i molti, pur se singolarmente non eccellenti,
qualora si raccolgano insieme, siano superiori […]. In realtà, essendo molti, ciascuno ha una parte di virtù
e di saggezza e come quando si raccolgono insieme, in massa, diventano un uomo con molti piedi, con
molte mani, con molti sensi, così diventano un uomo con molte eccellenti doti di carattere e di
intelligenza. Per tale motivo i molti giudicano meglio”. Schauer (1983, spec. 244ss.) richiama la linea di
pensiero che va da Spinoza a Kant e Hume fino al giurista americano Meiklejohn, che difende il free
speech su basi epistemologiche, giungendo a ritenere che le verità politiche siano per definizione quelle
rese tali dalla maggioranza.
5
argomenti di carattere teleologico, quali quelli che trattano il metodo democratico come
quello che, alla lunga, favorisce la scoperta della verità (cfr. Mill 1997, 470ss.).
Se Kelsen ha torto, hanno torto però anche i suoi critici, allorché contestano la sua
tesi, ma ne oppongono una viziata dallo stesso errore, argomentando che la democrazia
può essere adeguatamente giustificata e difesa solo a partire da valori oggettivi, ossia
valori oggettivamente fondati e oggettivamente superiori ai valori opposti. Il discorso
fatto poc’anzi a proposito dell’irrilevanza del relativismo (etico e metaetico) vale infatti
pienamente, mutatis mutandis, per quello che Kelsen chiama assolutismo etico, e che
noi possiamo chiamare oggettivismo e cognitivismo. Sul piano metaetico, la
convinzione che sia possibile una fondazione oggettiva (razionale, empirica o
metafisica) dei valori, non porta alcun argomento né a favore né contro la democrazia (o
la tolleranza, per rimanere nell’ordine di idee di Kelsen): semplicemente perché non
dice alcunché sul valore (o disvalore) sostanziale della democrazia; dice solo che i
valori che noi colleghiamo alla democrazia possono essere dimostrati veri o falsi. Tutto
qui.
Anche nel caso dell’oggettivista, tutto dipende dai valori sostanziali adoperati: se
l’oggettivista in questione riterrà che i valori veri sono l’autonomia, la tolleranza, la
tutela delle minoranze ecc., la sua etica democratica sarà sostanzialmente identica a
quella kelseniana. L’unica differenza sarà che egli la crede vera, a differenza da Kelsen.
Tuttavia, va notato che l’oggettivista si trova alle prese con una complicazione
estranea alla posizione di un non oggettivista à la Kelsen. Mentre infatti quest’ultimo,
poiché esclude dal suo orizzonte i valori oggettivi, risolve ovviamente in limine il
problema della loro (ri)conoscibilità, negando che abbia senso financo porselo,
l’oggettivista si trova a dover fronteggiare questo ulteriore problema: egli non solo deve
dimostrare che esistono valori veri, ma anche che sono effettivamente tali quelli da lui
sostenuti. In altre parole, un conto è ritenere che sia possibile fondare oggettivamente i
valori, un altro conto è dimostrare che i valori prescelti siano davvero quelli
correttamente fondati, e non frutto di errore o simili (si veda Pintore 1997, 756s.). Non
basta evidentemente credere nell’etica vera per attribuire una patente di verità alla
propria etica19.
Dunque i problemi di fondazione dell’etica sono nel complesso irrilevanti per la
democrazia. Questa conclusione deluderà coloro i quali ritengono di poter derivare
l’etica democratico-liberale, e i valori di laicità, tolleranza, ecc., precisamente
dall’opzione per una metaetica non oggettivista e divisionista. Essa potrebbe essere
addirittura percepita come un “tradimento” della metaetica analitica.
Ma a ben guardare, le cose non stanno così. Uno dei principali insegnamenti che
uno dei maestri della filosofia analitica, Uberto Scarpelli, ci ha lasciato in eredità
riguarda proprio i rapporti tra metaetica ed etica, e può essere riassunto nel principio
della priorità dell’etica sulla metaetica. Tale principio afferma che la metaetica non può
fondare l’etica, e che è viceversa l’etica a dover giustificare la metaetica. Noi non
possiamo giustificare la democrazia con una metaetica, per la semplice ragione che
nessun valore o complesso di valori sostanziali può essere giustificato, nel suo
contenuto, da una metaetica quale che sia, ma solo da altri valori sostanziali; sono
19E tuttavia è irresistibile la tentazione di compiere questo passaggio dalla metaetica oggettiva
all’etica vera. E’ su questo piano psicologico che si insinuano e si concentrano le pretese imperialiste
dell’oggettivista.
6
precisamente questi ultimi a condurci a scegliere un tipo di metaetica a preferenza di un
altro. La metaetica, in questa prospettiva, non svolge un ruolo di giustificazione
(contenutistica), bensì di fondazione dei valori20: ci dice qual è il loro status ontologico
e epistemologico, il loro radicamento nella realtà naturale e sociale, ce ne fornisce la
sintassi.
3. La democrazia kelseniana come procedura. In che senso?
Veniamo ora all’equivoco proceduralista. Nella letteratura filosofico-politica corrente è
usuale imbattersi nella contrapposizione tra due concezioni della democrazia (ovvero tra
due definizioni del termine ‘democrazia’): una concezione o definizione procedurale, e
una concezione o definizione che in mancanza di meglio si potrebbe provvisoriamente
chiamare sostanziale. La prima concezione, o definizione, viene di solito legata, oltre
che al nome di Kelsen, ai nomi di Schumpeter, di Dahl, di Popper, di Bobbio, e
qualificata come concetto “minimo”, “ristretto” o “formale” (Bobbio 1984, x)21 (o, nel
linguaggio dei detrattori, “formalistico”: Porciello 1991, 13ss.)22, procedurale o
proceduralistico (cfr. Pecora 1995, 8-9) di democrazia.
Kelsen qualifica la democrazia come un “metodo politico”, parla di “elemento
procedurale” o “procedura”, e asserisce che “come metodo o procedura, la democrazia è
una ‘forma’ di governo” (Kelsen 1998c, 196, 198), ma in realtà si sofferma poco a
discutere di questi profili della sua definizione di democrazia, nonché dei nessi tra
quest’ultima e il relativismo filosofico di cui si è discusso poc’anzi. I nessi tuttavia
possono essere facilmente ricostruiti: poiché i valori sono relativi e non fondabili, la
democrazia può essere giustificata solo se non viene definita in termini di valori e
contenuti (necessariamente controversi) ma in termini di procedure (esenti da valori o
contenuti)23. Ciò, secondo i critici, condurrebbe a consegnare la sfera pubblica
all’irrilevanza etica e, in ultima analisi, ad affidarla alla forza dei più24; secondo i
sostenitori, conduce a surrogare con un metodo decisionale in sé degno di valore una
ragione deficitaria sul terreno delle cose pratiche25.
Allorché parliamo di democrazia procedurale o di definizione procedurale della
democrazia, dovremmo innanzi tutto domandarci che cosa intendiamo per ‘procedura’.
20“’Fondare’ significa immettere le basi di un edificio in un terreno solido capace di sostenerlo, o,
in filosofia, reperire e mettere in chiaro la ragion sufficiente; ed ha del teoretico. ‘Giustificare’ significa
invece mostrare, o costituire, la legittimità, la correttezza, la giustezza di certe operazioni in un contesto
di direttive e valori; ed ha dell’etico” (Scarpelli 1982, 106-7).
21Cfr. Bobbio 1984, p. X, in cui si parla di “definizione minima”, “procedurale” o “formale” di
democrazia.
22Barcellona (1998, 166) parla di ‘formalismo procedurale’.
23In realtà il nesso, a mio parere, riguarda solo quello che Frankena chiama relativismo descrittivo:
come correttamente assume Rawls, quando tratta come motivo fondamentale della democrazia il fatto
dell’ineliminabile pluralismo etico e religioso. Vedi Rawls (1994, 47, 69, 125, 186).
24Secondo Possenti 1991, 195 la dottrina kelseniana “configura una democrazia procedurale
fondamentalmente senza scopo, un perimetro disponibile per svariati contenuti”.
25Sulla procedura intesa come surrogato della ragion pratica e della verità, vedi Pintore 1996, cap.
VI.
7
Metodo, forma, formalismo, sono nozioni troppo compromesse filosoficamente e in
ogni caso troppo elusive perché le si possa trattare come sinonimi soddisfacenti di
‘procedura’.
Nella versione di Bobbio (1984, 4), ‘democrazia procedurale’ significa che il
concetto di democrazia ci dà (e deve limitarsi a darci) semplicemente le regole del
gioco, ossia le regole sul chi è autorizzato a decidere (competenze) e sul come decidere
(procedure). E tuttavia questa distinzione tra il chi e il come da un lato, e il che cosa
dall’altro lato, per quanto intuitiva, presenta profili di incertezza che vanno chiariti.
Discutendo in generale delle tendenze proceduralistiche delle teorie della giustizia
contemporanee, è stato detto che “il proceduralismo accentua la distinzione tra principi
morali di primo e di second’ordine” (Chambers 1996, 17). Questa caratterizzazione è
senz’altro da accogliere ma è secondo me ancora insufficiente, poiché rimanda a una
ulteriore nozione a sua volta equivoca. Di principi morali di second’ordine si può infatti
parlare in almeno due sensi diversi26.
In un primo senso, se ne può parlare come di principi il cui contenuto rimanda al
contenuto di altri principi o norme di condotta morale. Per esempio, possono essere
considerati tali la tolleranza, o la neutralità, o l’imparzialità, per il fatto che, per essere
adoperati, devono “appoggiarsi” su o essere completati attraverso il rinvio ad altri valori
o regole morali, rispetto ai quali si pongono su un piano metalinguistico o logicamente
superiore. Per esempio, il principio della tolleranza ci dice, poniamo, che dobbiamo
tollerare i valori morali diversi dai nostri: dunque, perché esso ci possa fornire una guida
autosufficiente della condotta abbiamo la necessità di far riferimento ad altri valori (gli
altri nostri valori e quelli opposti ai nostri). In questo senso la tolleranza è un
metavalore: ci fornisce una guida d’azione, ma questa guida è incompleta fintantoché
non la integriamo coi valori di prima istanza. Se vogliamo trovare nel diritto un analogo
di questo genere di principi morali di seconda istanza potremmo richiamare le norme del
diritto internazionale privato che operano un rinvio recettizio a norme appartenenti ad
un altro ordinamento.
In un secondo senso, possiamo parlare di principi morali di secondo livello come
principi che non ci dicono alcunché su come agire in modo moralmente retto, dunque
non ci forniscono direttamente “istruzioni” morali (siano esse complete o incomplete),
ma si limitano ad indicarci il modo in cui individuare i principi per agire in modo
moralmente retto27. Potremmo dunque chiamare procedurali quei principi che non
specificano (sia pure in modo incompleto) il contenuto dei valori da adottare o delle
norme da seguire, bensì indicano solamente i criteri di scelta delle norme e dei valori,
criteri che non contengono alcun riferimento al contenuto delle norme e dei valori che
verranno prescelti, ma solo un rimando alla fonte, per così dire, dalla quale ricavarli.
L’analogo giuridico di tali principi morali è dato dalle norme di diritto internazionale
privato che operano un rinvio non recettizio a fonti giuridiche di un altro ordinamento.
La peculiarità delle etiche procedurali nel senso qui indicato non è dunque tanto di
essere vuote di contenuti (“formali”), quanto di fornire una guida della condotta
esclusivamente indiretta, giacché comprendono solo norme di seconda istanza, e vanno
completate con la scelta delle norme di condotta di prima istanza, scelta da compiere
26Il discorso che segue è sviluppato più ampiamente in Pintore 1996, 226ss..
27Questo “individuare” potrà essere letto come un decidere, o come uno scoprire, a seconda che si
adotti una prospettiva non cognitivista oppure cognitivista.
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seguendo appunto le modalità indicate come procedure. In questo senso un’etica
procedurale è paragonabile a un ordinamento giuridico composto di sole metanorme
sulla produzione28: il caso (immaginario) potrebbe essere quello di un ordinamento
appena sorto a seguito di una rivoluzione giuridica, e composto della sola norma di
riconoscimento che disciplina le modalità di creazione delle altre norme, al momento
non ancora create.
La procedura divisata può essere una procedura ipotetica oppure reale. Nel primo
caso le esplicazioni dei principi procedurali vengono ottenute attraverso l’esperimento
mentale costitutivo della procedura, ossia per via di un puro ragionamento. L’esempio
celeberrimo di procedura ipotetica in questo senso è rappresentato dal metodo
decisionale seguito dai contraenti nella posizione originaria, metodo che Rawls illustra
nella sua Teoria della giustizia. Nel secondo caso le esplicazioni dei principi
procedurali sono legate all’effettivo verificarsi nel mondo empirico di accadimenti o
comportamenti, considerati dai principi procedurali come fatti o atti produttivi di regole
sostanziali. E’ esattamente questo il caso della democrazia politica, che può dunque
essere definita come “un insieme di regole di procedura per la formazione di decisioni
collettive” (Bobbio 1984, x).
Se quella appena proposta è una buona caratterizzazione dei principi procedurali, ne
deriva che parlare di ‘procedura’ come sinonimo di ‘forma’ finisce per essere
fuorviante, perché qualunque principio morale, a meno che non si tratti di una mera
tautologia, ha ovviamente un contenuto. Così anche i principi procedurali hanno dei
contenuti normativi e valutativi, se le procedure non sono indicate in modo del tutto
vacuo.
Quando si dice che la democrazia procedurale è anche (per ciò stesso) formale,
ossia priva di contenuti, si adopera, volutamente o meno, una formula equivoca.
L’equivocità sta nel non distinguere tra i contenuti del metodo (per così dire) e i
contenuti derivati dall’applicazione del metodo. Il metodo, per dirla con Bobbio, ci
indica il chi e il come, e sono appunto questi i suoi contenuti. Il “chi” potrebbe essere
specificato come “i maggiorenni”, “gli ottimati”, “i proprietari”, e via dicendo. Il
“come” potrebbe essere un sorteggio, una votazione, e così via. Precisamente questi
sono i contenuti della procedura. Ed è ovvio che questi contenuti possono essere
giudicati iuxta propria principia, per il loro valore (o disvalore) sia intrinseco che
strumentale29. In questo senso, le procedure non sono ovviamente mai irrilevanti o
neutre moralmente, nella misura in cui sono costitutive del gioco che si sta giocando:
sono dei valori (o disvalori) che possono e devono essere apprezzati in sé, anche perché
possono contribuire a ridefinire i fini a ‘cui servono: vale qui il detto inglese garbage in
garbage out30. Ne discende che l’universo del proceduralista non è vuoto di valori e
consegnato all’irrilevanza etica, come vorrebbero farci credere i suoi critici.
28Habermas 1992, 16-7, non a caso richiama, parlando di etiche procedurali, la teoria hartiana delle
norme secondarie.
29Si veda Peters 1997, 323ss., il quale distingue tra un proceduralismo deontologico, che valuta il
metodo democratico in sé, ad esempio kantianamente o roussovianamente come esplicazione di
autonomia e un proceduralismo conseguenzialista, che lo valuta in vista dei suoi risultati. In generale,
sulla distinzione tra giustificazioni intrinseche e strumentali della democrazia, si veda Cohen 1971, 1ss..
30Il brutale ma realistico detto è usato da Rawls (1995, 178), proprio per illustrare il rapporto tra
procedure e loro risultati. Il punto è sottolineato efficacemente da Kateb 1979, 215ss.
9
Kelsen era ben consapevole di questo aspetto ambivalente delle procedure
democratiche, come risulta dalla seguente notazione: “tuttavia, se la democrazia è
soprattutto una forma, di Stato o di governo, si deve tener presente che l’antagonismo
tra forma e sostanza o tra forma e contenuto è soltanto relativo, e che una stessa cosa
può sembrare forma da un punto di vista e contenuto o sostanza da un altro” (Kelsen
1998c, 198).31
Questione diversa da quella dei contenuti delle regole procedurali in sé considerate,
è quella dei contenuti delle regole prodotte tramite la corretta esplicazione delle
procedure, e del rapporto tra queste ultime regole, e le regole procedurali medesime.
Riguardo a tale rapporto, ci troviamo di fronte alla seguente, ben nota alternativa: se la
democrazia vada intesa come un metodo che può condurre a scegliere regole di
contenuto qualsivoglia, oppure solo regole con dati contenuti32.
Il tema dei limiti della democrazia sarà toccato fra poco: concisamente, s’intende,
dato il carattere circoscritto di questo lavoro. Per ora va sottolineato che in ambedue i
casi la democrazia ha da essere comunque intesa (almeno) come una procedura, e che
dunque la distinzione tra definizioni procedurali e definizioni non procedurali di
democrazia è priva di fondamento. Una definizione di ‘democrazia’ che non
comprendesse alcun riferimento al metodo decisionale, si collocherebbe al di fuori
dell’area semantica che ha connotato la storia della parola, sia nelle sue accezioni
antiche che in quelle moderne33. Riguardo a queste ultime, Bobbio (1984, 55) afferma
senza mezzi termini: “chi non si è reso conto che per sistema democratico oggi
s’intende preliminarmente un insieme di regole procedurali di cui la regola della
maggioranza è la principale ma non la sola, non ha capito nulla e continua a non capire
nulla della democrazia”. In questo senso, anche la qualificazione del concetto di
Ma, ancor prima, Bobbio (1976, 44ss.) osservava: “non soltanto i risultati sono valutabili in base a
criteri che ci permettono di distinguere risultati desiderabili dai risultati non desiderabili, ma sono
sottoponibili a giudizi di valore anche le procedure, per cui è possibile distinguere procedure buone di per
se stesse e procedure di per se stesse cattive indipendentemente dai risultati”.
31Kelsen (1998c, 198) prosegue: “in particolare, non vi è alcun principio obiettivo che stabilisca
una differenza tra il valore dell’una e il valore dell’altro. Sotto alcuni rispetti può essere più importante la
forma e, sotto altri, il contenuto o la sostanza”.
32Nel primo caso la democrazia sarebbe un esempio di quella che Rawls chiama procedura pura
(qualunque esito cui conduca è giusto); nel secondo caso sarebbe un esempio di quella che Rawls chiama
procedura perfetta o imperfetta (a seconda che realizzi sempre infallibilmente il fine cui tende, oppure sia
esposta a insuccessi): vedi Rawls (1982, 85ss.). Non sono sicura, tuttavia, che le due distinzioni — tra
mezzi e fini, e tra procedure e contenuti (derivanti dall’esplicazione delle procedure) — possano essere
sovrapposte e fatte coincidere, come fa Rawls. A contrario, occorrerebbe distinguere tra i contenuti e i
fini; se i contenuti non sono predeterminati, i fini invece potrebbero esserlo. La democrazia potrebbe
essere intesa per l’appunto come un metodo che non determina in anticipo i contenuti delle norme, e che
tuttavia, come procedura, realizza puntualmente i suoi fini, ad esempio, il fine dell’autonomia, o
dell’eguaglianza (in questo caso si dovrebbe forse parlare di procedura pura-perfetta?), oppure realizza i
suoi fini, ma è esposta ad insuccessi (in questo caso si dovrebbe forse parlare di procedura puraimperfetta?).
33Così si colloca a mio parere interamente al di fuori dell’area semantica di ‘democrazia’ la
definizione di ‘democrazia sostanziale’ offerta da Ferrajoli (1989, 904ss.): “Chiamerò democrazia
sostanziale o sociale lo ‘stato di diritto’ dotato di effettive garanzie, sia liberali che sociali” (ibid., 905).
La democrazia sostanziale di Ferrajoli è per l’appunto stato di diritto, non democrazia. Condivisibili le
critiche a tale definizione di Bovero (1993, 403ss.).
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democrazia come essentially contested concept è inappropriata34. ‘Democrazia’ è un
concetto dotato di un nucleo solido minimo (metodo di scelta e decisione) non
contestato, che rappresenta una condizione necessaria (quantunque non sufficiente) di
ogni suo uso. Ignorare questo nucleo equivale a proporre una definizione stipulativa di
‘democrazia’ interamente innovativa. Ma di una definizione innovativa di democrazia,
per quanto interessante possa essere, non si vede al momento l’utilità, perlomeno in
filosofia.
Se questo è vero, è sconcertante la contrapposizione tra democrazie che sarebbero
procedurali e democrazie che tali non sarebbero; è sconcertante la critica (e la difesa)
delle definizioni e teorie della democrazia in quanto procedurali (o non procedurali).
Democrazia è (almeno, ma necessariamente) procedura (nel senso sopra indicato), e
senza procedure la democrazia non è.
Spesso, a dire il vero, si fa uso dell’opposizione tra definizioni procedurali e non
procedurali per indicare in modo obliquo un’opposizione ben diversa: quella tra
definizioni minime e più-che-minime di ‘democrazia’, ossia tra definizioni che
adoperano un concetto di democrazia circoscritto al nucleo procedurale, e concetti (o
meglio concezioni) di democrazia che qualificano tale nucleo con ulteriori elementi. Di
fatto, molte delle definizioni correntemente etichettate come procedurali andrebbero
meglio qualificate come minime, per non dare adito ai fraintendimenti che possono
derivare dall’insidiosa nozione di procedura (vedi sopra).
La questione, se sia preferibile una definizione minima oppure più-che-minima di
‘democrazia’, ha ovviamente implicazioni vastissime, e non può essere trattata
seriamente in poche righe. Mi limiterò ad esprimere concisamente la mia (niente affatto
originale) opinione.
Dal canto mio, sono incline dunque a ritenere che in filosofia politica ci si dovrebbe
limitare ad adoperare un concetto minimo di democrazia, perché i significati eccedenti
questo concetto minimo sono fortemente controversi, e perché caricare il concetto di
contenuti etico-politici controversi produce inevitabilmente l’effetto di travestire da
dispute sui significati le dispute di sostanza, da questioni analitiche le questioni
sintetiche 35. Vale qui l’insegnamento di Hart: le teorie non dovrebbero essere costruite
sulle spalle delle definizioni, se vogliamo mantenerle aperte alla confutazione. Usare un
concetto minimo di democrazia offre il vantaggio di spostare dal terreno definitorio al
terreno apertamente normativo le dispute etico-politiche sul migliore sistema di
governo. I modelli più-che-minimi di democrazia potranno essere qualificati con
aggettivi: ad esempio come democrazia costituzionale, maggioritaria, populista, liberale
ecc., come usano fare gli scienziati politici36.
34La nozione di essentially contested concept è di Gallie (1976, 121-46). La democrazia viene
trattata come essentially contested concept, oltre che da Gallie, ad esempio anche da Connolly (19741984, 10, 29ss.). In generale dubito che tale nozione, nonostante la sua fortuna, serva ad identificare una
categoria di concetti dotati di una qualche specificità semantica o pragmatica; la sua utilità analitica, mi
pare, è solo quella, banale, di ricordarci che su alcuni concetti filosoficamente cruciali le dispute non
finiscono mai.
35In questo senso si veda, ad esempio, Oppenheim 1971.
36Si veda l’interessante lavoro di Collier & Levitsky 1997, ove viene posto il problema del tasso di
specificità che i concetti di democrazia elaborati ai fini della ricerca comparata devono possedere.
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Tornando a Kelsen, vediamo che, se non ha senso qualificare il suo concetto di
democrazia come procedurale (poiché tutti lo sono), è anche dubbio che lo si possa
qualificare come minimo, oltre che come concetto puramente normativo.
Infatti, Kelsen certamente parla di decisione a maggioranza, e di metodo, non di
contenuti. Tuttavia, manifesta numerose incertezze ed oscillazioni, che i commentatori
hanno puntualmente notato, in tema di rapporti tra democrazia e liberalismo. Infatti,
talvolta ammette che si potrebbe continuare a parlare di democrazia anche se la libertà
individuale fosse completamente annientata, talaltra afferma viceversa che la
democrazia non può essere separata completamente dal liberalismo, arrivando
addirittura a sostenere che i due coincidono37. I diritti di libertà che egli considera
indispensabili alla forma di governo democratica sembrano qualcosa di più rispetto al
catalogo dei diritti che costituisce il presupposto della democrazia intesa in senso
minimo38.
Inoltre, il concetto kelseniano di democrazia non è neppure puramente normativo,
perché non guarda solo alle regole del metodo, ma anche all’assetto della società in cui
il metodo andrà ad operare. Kelsen ripetutamente sottolinea che la democrazia
presuppone un certo environment sociale, una libertà di fatto e non solo di diritto,
un’opinione pubblica libera di esprimersi39. Vedremo nel prossimo paragrafo che
Kelsen si allontana dal formalismo e dal normativismo puro anche sotto altri
significativi profili.
4. Il nesso mancante tra costituzionalismo e democrazia
E’ piuttosto accentuata oggi la tendenza ad interpretare l’intera opera di Kelsen come un
corpus coerente, sia per sottolineare l’identità dei presupposti della dottrina pura e della
filosofia politica kelseniana, sia, più spesso, per sottolineare come la filosofia politica di
Kelsen impregni di sé la teoria del diritto.
Tale accostamento interpretativo “olistico” si sostanzia in una lettura unitaria anche
delle idee kelseniane in tema di costituzione e di giustizia costituzionale da un lato e in
tema di parlamentarismo e democrazia dall’altro lato. In quest’ordine di idee, si è per
esempio affermato che la “dottrina pura del diritto elaborata da Kelsen […] può essere
interpretata come la dottrina giuridica della democrazia costituzionale”. E inoltre: “La
dottrina pura del diritto consente così di formulare gli elementi fondamentali di una
teoria costituzionale della democrazia contemporanea, enunciando con chiarezza i
termini della relazione che intercorre tra democrazia e diritti fondamentali”
(Bongiovanni & Gozzi 1997, 236, 237).
Ora, a me tale interpretazione pare inesatta.
37Per un esame delle incertezze di Kelsen in argomento, vedi (Pecora 1995, p. 15. 50ss.) il quale
critica la qualificazione che Kelsen dà della propria concezione della democrazia come procedurale,
qualificazione del resto oscillante; anche vedi Gatti (1989, 64). Vedi anche infra, note 58 e 61.
38Per questo catalogo vedi Bobbio 1984, 6.
39Kelsen (1994, 293) giunge ad affermare che “una democrazia senza opinione pubblica è una
contraddizione in termini”, e prosegue: “In quanto l’opinione pubblica può sorgere dove sono garantite la
libertà di pensiero, la libertà di parola, di stampa e di religione, la democrazia coincide col liberalismo
politico”.
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Infatti, Kelsen ha certamente scritto, addirittura negli stessi anni, di democrazia e di
costituzione, ma non ha mai prodotto una teoria della democrazia costituzionale, bensì,
separatamente e solo, una teoria della democrazia, e una teoria della costituzione. Non
ha mai prodotto una teoria della democrazia costituzionale nel senso di concezione che
affrontasse espressamente e sistematicamente il problema di conciliare i due poli in
perenne tensione all’interno di questo modello: la sovranità popolare e la costituzione,
la democrazia e i diritti, l’autonomia pubblica e l’autonomia privata40.
Non è che Kelsen fosse ignaro di questa tensione; di certo però non l’ha mai posta
al centro delle proprie riflessioni. Così, ad esempio, egli osserva che il principio della
separazione dei poteri rappresenta la negazione della sovranità popolare, che vuole tutto
il potere nelle mani del popolo, ma questa notazione è fatta solo per segnalare la
distanza tra gli ordinamenti politici storici e i loro modelli ideali (le “metamorfosi” che
gli ideali subiscono quando vengono calati nella realtà), non invece la divergenza tra i
due principi, il democratico e il costituzionale (vedi Kelsen 1991, 34; 1994, 287).
Ancora, uno dei problemi più critici delle democrazie costituzionali, quello relativo
alla “difficoltà antimaggioritaria” suscitata dalla judicial review viene da Kelsen trattato
solo di sfuggita, con l’osservazione per cui tutto alla fine dipende dal modo in cui sono
nominati i membri del tribunale costituzionale: l’esigenza di garantire la composizione
democratica dell’organo della giustizia costituzionale può essere agevolmente
soddisfatta col renderne elettiva la carica (vedi Kelsen 1981a, 284ss.)41.
In generale, la questione della compatibilità tra la garanzia dei diritti fondamentali e
la sovranità popolare, che sta al centro del costituzionalismo democratico, viene da
Kelsen affrontata in modo estremamente conciso e sicuramente insoddisfacente. Infatti,
come si sa, egli si limita a suggerire di evitare nelle costituzioni ogni riferimento a
concetti vaghi che rimandino a valori controversi, per scongiurare l’inevitabile
consequenziale traslazione di potere dal parlamento all’organo della giustizia
costituzionale e agli organi dell’applicazione (Kelsen 1981b, 189-90; 1981a, 253ss.).
Incidentalmente si può osservare che Kelsen teme lo spostamento di potere dal
legislativo al giudiziario, ben più di quanto non tema lo spostamento di potere dal
costituente al legislatore. Quest’ultimo infatti può essere neutralizzato con l’artificio
classico della divisione dei poteri applicato all’interno dello stesso potere legislativo,
ossia col separare il potere di fare leggi dal potere di controllarle, e con l’attribuire
questi a due organi legislativi diversi. Kelsen invece non ha particolari suggerimenti da
offrire per scongiurare la traslazione di potere dal legislatore ai giudici, se non quello di
ridurre al massimo la vaghezza delle norme costituzionali. Tale suggerimento non solo
appare assai sbrigativo e semanticamente ingenuo (vedi però infra), ma anche taglia alla
radice la stessa ragion d’essere del costituzionalismo democratico, la cui la massima
40Uno dei (rari) passi in cui pone sul tappeto il problema, è il seguente: “E’ importante rendersi
conto che il principio democratico e quello liberale non si identificano e che tra loro esiste, anzi, un certo
antagonismo. Infatti, secondo il primo, il potere del popolo è illimitato […] Il liberalismo, invece,
significa […] anche limitazione del potere democratico” (Kelsen 1998c, 196). E poi: “La democrazia
moderna non può essere separata dal liberalismo politico. Il suo principio è che il governo non deve
interferire in certe sfere di interessi proprie dell’individuo, che devono venir protette dalla legge come
diritti umani fondamentali o diritti di libertà” (Kelsen 1998c, 245), anche se poi, nel discorso successivo,
riconduce tali diritti alla tutela delle minoranze.
41L’argomento di Kelsen è una replica a Carl Schmitt, che bollava le corti costituzionali come
aristocratiche.
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questione è proprio come tutelare i diritti senza vanificare la sovranità popolare42. Ma
per Kelsen la costituzione in senso stretto o sostanziale è solo il complesso delle regole
dell’organizzazione statale, e lo stato di diritto è semplicemente lo stato regolato dal
diritto, non lo stato vincolato dai diritti. Dunque parrebbe completamente assente in
Kelsen uno dei lati della tensione che pervade il costituzionalismo democratico
contemporaneo: il lato dei diritti.
Kelsen forse non aveva molto da dire su questa tensione: e forse non è un caso che i
suoi contributi in tema di democrazia si siano fermati alla metà degli anni ‘50: gli anni
in cui si afferma quello che è stato chiamato il paradigma costituzionalistico43. Forse
non aveva molto da dire per due ragioni.
In primo luogo, perché, se è vero che le sue tesi democratiche sono penetrate nella
dottrina pura del diritto, è anche vero che l’esigenza della purezza normativa è penetrata
nelle sue riflessioni sulla democrazia44. La democrazia è un metodo di creazione
dell’ordinamento, e l’ordinamento può avere qualunque contenuto: l’esigenza della
purezza converge con la definizione minima di democrazia.
In secondo luogo, la tensione immanente nel costituzionalismo democratico è
assente in Kelsen perché, si può sospettare, egli in fondo coltiva un’idea latentemente
integrazionista della società e della politica, o per meglio dire nutre un fiducioso
ottimismo circa la possibilità di compromesso che la dialettica tra maggioranze e
minoranze coessenziale al metodo democratico (necessariamente?) produce45. In questo
senso, nella teoria kelseniana della democrazia troviamo attenuata e quasi messa in
sordina l’antropologia pessimistico-hobbesiana che per altri versi può essere
giustamente ascritta a Kelsen.
Kelsen dunque sotto questo profilo si muove ancora pienamente all’interno
dell’orizzonte del Rechtsstaat ottocentesco. La tensione tra diritti e democrazia è
estranea alla sua ottica e alle sue preoccupazioni. Egli non pare rendersi conto che il
“paradigma” costituzionalistico ha mutato irreversibilmente le costituzioni,
trasformandole in necessario punto di confluenza di valori spesso ultimativi e ancor più
spesso controversi. Il suo suggerimento di evitare nel documento costituzionale rimandi
alla giustizia, all’uguaglianza, all’equità e in generale a valori controversi, sul piano
teorico, può essere considerato affetto da riduzionismo semantico46; sul piano dei fatti, è
42“L’idea repubblicana, che fu la prima forma dell’idea democratica moderna, riposa di fatto
sull’associazione di due temi, al contempo complementari e opposti: quello dello Stato di diritto e quello
delle libertà pubbliche” (Touraine 1996, 149, corsivo mio). Naturalmente va qui ancora ricordato
Habermas 1996 che è costruito proprio intorno a questo puzzle della democrazia liberale.
43Così lo chiama Ferrajoli 1998, 28.
44Come illustra assai bene Carrino nella sua introduzione a H. Kelsen 199).
45Pertanto non mi sembra del tutto corretta la diagnosi di Gatti (1989, 68): “la concezione
proceduralistica della democrazia riflette, sul piano della teoria politica, il disincanto ormai radicale di
un’epoca, come quella di cui Kelsen è significativo interprete, che sembra aver perso la fiducia nella
possibilità di un qualsiasi accordo su valori comuni della convivenza e non è in grado di elaborare altra
alternativa che quella costituita dal consenso sugli “universali procedurali”, ultima disincarnata
espressione, si direbbe, di un bene comune il cui significato autentico è andato sempre più smarrito”.
46 Chiamo riduzionismo semantico la convinzione di poter influire sulla vaghezza di un discorso
semplicemente sostituendo i termini vaghi con termini meno vaghi (o viceversa). Anche a voler trascurare
la vaghezza della stessa distinzione tra termini vaghi e non, occorre sottolineare la portata non generale
della tesi, che trova proprio nel linguaggio giuridico una smentita clamorosa. Nel diritto, infatti, la
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stato vanificato dal corso della storia nel momento in cui si è imposto il modello delle
costituzioni lunghe.
Il modello di stato che Kelsen ha presente è quello di un’organizzazione normativa
in cui i valori e le verità pubbliche non sono predeterminati sia pure genericamente sotto
forma di formulazioni di principio; nel suo modello, piuttosto, valori e principi sono
creati e ricreati in sede parlamentare, attraverso il confronto tra maggioranze e
minoranze e la prassi del compromesso47.
5. Democrazia senza diritti
Che interesse può avere, allora, rileggere oggi il Kelsen democratico?
L’interesse è dato proprio dal fatto che la composizione tra quei due elementi così
essenziali per le nostre democrazie costituzionali, è lungi dal dirsi compiuta. Noi tutti
desideriamo avere sia la democrazia, che i diritti; il problema è come ottenere insieme le
due cose, senza sacrificare l’una all’altra. La democrazia, come sappiamo, è una
potenziale minaccia per i diritti, qualora la sovranità popolare non sia circoscritta da
limiti. I diritti a loro volta sono una minaccia per la democrazia, sia nel senso che
rappresentano una limitazione contenutistica al libero dispiegarsi della sovranità
popolare, sia nel senso che affidano se stessi, la determinazione dei loro contenuti e la
loro tutela, ad altri che non al popolo sovrano, altri che potrebbero diventare i signori
dei diritti, gli amministratori del loro contenuto e dei loro confini.
Ora, negli scritti di Kelsen, possiamo trovare implicitamente delineato un modello
di democrazia costituzionale senza diritti. La cosa può suonare grottesca, ed è stata in
effetti letta come una negazione dello spirito del costituzionalismo democratico
contemporaneo (cfr. in part. Ferrajoli 1998, spec. 9, 23ss.). Kelsen consumerebbe questo
tradimento nel momento in cui riduce i diritti alle loro garanzie, ossia, rispettivamente,
agli obblighi e divieti corrispondenti alle aspettative-diritti (garanzie primarie), e alle
sanzioni previste per le violazioni di tali aspettative (garanzie secondarie). Con ciò
condannerebbe all’inesistenza giuridica in primo luogo proprio i diritti fondamentali
sanciti nei documenti costituzionali: poiché di solito è proprio la formulazione di questi
ultimi ad essere sprovvista di ogni riferimento alle garanzie primarie e secondarie, la cui
vaghezza del linguaggio non è tanto la causa, quanto semmai il prodotto dei conflitti interpretativi (che,
specialmente nel caso delle norme costituzionali, sono conflitti di valore), e può venir meno solo se
vengono meno tali conflitti. La vaghezza nel diritto è dunque una nozione pragmatica e non semantica, e
si trova in rapporto di proporzionalità inversa rispetto al consenso “rappreso” nei documenti giuridici:
cresce col decrescere di quest’ultimo, e viceversa. Vedi (Jori 1995, 109-44), che deriva da questa
considerazione la conclusione che il linguaggio giuridico ha le fattezze pragmatiche di un linguaggio
“amministrato” da autorità. Per una recente perspicua formulazione di questa idea con riferimento alle
disposizioni costituzionali, vedi Nagel 1983.
47Osserva Fioravanti (1993, 143), a proposito della concezione kelseniana della costituzione: “La
costituzione è dunque in questo senso la norma fondamentale di una società massimamente aperta e
pluralista, che sfugge ad ogni definizione sostantiva del bene comune, così come ad ogni tipo di
‘omogeneità’ politico-sociale che non sia quella relativa al necessario riconoscimento e rispetto delle
regole del gioco. Per gli stessi motivi, una dottrina del genere non ci dice niente circa i motivi per cui le
distinte parti sociali dovrebbero accordarsi; o meglio, ci dice che questo non è un capitolo del diritto
costituzionale, ma della politica intesa come calcolo di convenienze, di costi e benefici”. Vedi inoltre
(Palombella 1997, spec. 188ss.).
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determinazione viene così ad essere demandata ai gradini normativi successivi
dell’ordinamento (ossia principalmente alla buona volontà del legislatore). In questo
senso, proprio i diritti che dovrebbero essere più forti e maggiormente garantiti,
finiscono per essere i più deboli e i meno garantiti: diritti di carta48.
A me questa non pare una buona critica a Kelsen. Dirò subito che, se è inaccettabile
la riduzione kelseniana dei diritti alle loro garanzie secondarie (sanzioni), la riduzione
dei diritti alle garanzie primarie (obblighi e divieti) è invece necessaria e anzi
imprescindibile, poiché senza di essa non si capirebbe in che cosa i diritti possano
consistere49. Se il contenuto dei diritti non può essere riformulato in termini di obblighi
e divieti a carico di qualcuno, risulta incomprensibile la stessa definizione del diritto
come aspettativa: “aspettativa” infatti indica una relazione, è sempre aspettativa di
qualcosa, e questo qualcosa, per un diritto, non può essere altro che un comportamento
altrui normativamente prescritto come dovuto (o la sua omissione). Non può esistere
un’aspettativa senza ciò che si aspetta, come non può esistere, poniamo, una visione
senza ciò che si vede. L’argomento di cui sopra è ovviamente semiotico o definitorio e
non ontologico: non mira a ricavare l’esistenza degli obblighi dal concetto di
aspettativa, ma solo a sottolineare che sono due lati della stessa medaglia.
Mentre le garanzie secondarie dei diritti sono condizione essenziale della loro
effettività (s’intende, se a loro volta effettive), le garanzie primarie non sono altro che il
contenuto dei diritti, visto dal lato del soggetto passivo.
L’obbligo dunque non è altro che il contenuto dei diritti. La riduzione dei diritti
alle garanzie primarie operata da Kelsen, lungi dal sancire l’“inesistenza” dei diritti
costituzionali, comporta che li si legga immediatamente come obblighi a carico del
legislatore50. Esiste poi una generale garanzia secondaria di tali obblighi, ossia il
controllo di costituzionalità, e stupisce che questa critica a Kelsen ometta di menzionare
proprio la tecnica di tutela dei diritti su cui egli ha concentrato le sue energie di
studioso, ossia l’annullamento della norma che li viola da parte del tribunale
costituzionale.
Trovo poi inappropriato e teoricamente insidioso parlare di lacuna tecnica, laddove
i diritti siano sprovvisti di garanzie primarie (ossia ove gli obblighi del legislatore siano
insufficientemente determinati) o secondarie (ossia siano sprovvisti di sanzioni ulteriori
rispetto alla dichiarazione di illegittimità costituzionale). Di lacuna tecnica infatti è
48L’espressione, richiamata da Ferrajoli, è di Guastini 1994. Su questo paradosso, e sul “brutale
realismo” di Kelsen, vedi le osservazioni di M. Jori, “Ferrajoli sui diritti” (in corso di stampa).
49La riduzione dei diritti a garanzie secondarie è resa necessaria dal modello nomostatico
kelseniano della norma giuridica come giudizio ipotetico sanzionatorio. Tutta l’opera di Kelsen è pervasa
della tensione irrisolta tra la prospettiva nomostatica e quella nomodinamica, ed è ovviamente facile gioco
interpretativo additare le dissonanze tra le due.
50“Queste garanzie costituzionali [ossia i diritti e le libertà fondamentali] non sono di per sé diritti
soggettivi, né semplici diritti-riflessi né diritti soggettivi privati in senso tecnico. Esse si presentano come
divieti di violare (cioè di abolire o limitare), per mezzo di leggi o di decreti aventi forza di legge,
l’eguaglianza e le libertà così garantite. Ma l’elemento essenziale di questi ‘divieti’ non consiste nel fatto
che, a carico dell’organo legislativo, possa essere posto il dovere giuridico di non emanare tali leggi,
bensì nel fatto che tali leggi, una volta entrate in vigore, possono essere annullate con un particolare
procedimento previsto a questo fine, a causa della loro ‘incostituzionalità’” (Kelsen 1966, 163-4).
Qualche pagina prima (Kelsen 1966, 152), si legge che “l’opinione tradizionale, secondo cui il diritto è un
oggetto della conoscenza giuridica diverso dal dovere ed ha addirittura la priorità rispetto al dovere, si
può ben ricondurre alla dottrina giusnaturalistica”.
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possibile parlare solo laddove il diritto positivo risulti manchevole se giudicato iuxta
propria principia (per esempio allorquando la costituzione affermi che il diritto di
sciopero si esercita in base alle leggi che lo regolano, ma non vengano emanate leggi
che disciplinano il diritto di sciopero).
La presunta lacuna tecnica è in realtà un’insufficienza degli obblighi e delle
sanzioni previsti dall’ordinamento a tutela del diritto. Tale giudizio di insufficienza però
non è teorico bensì interamente etico-politico, e andrebbe francamente presentato come
tale, e dunque la lacuna andrebbe piuttosto qualificata come lacuna ideologica51. Che le
garanzie primarie siano delineate in maniera vaga o altrimenti insoddisfacente equivale
a un’indeterminatezza del contenuto dei diritti (indeterminatezza che talora, come
sappiamo, può essere radicale). Che le garanzie secondarie manchino o siano delineate
in maniera insoddisfacente o insufficiente, equivale a un deficit di tutela dei diritti.
Una situazione, come quella che caratterizza molti ordinamenti giuridici
contemporanei, in cui i diritti siano altamente indeterminati (quanto agli obblighi del
legislatore e degli altri pubblici poteri) o insufficientemente tutelati (quanto a sanzione
delle loro violazioni), può essere senza dubbio giudicata indesiderabile dal punto di
vista etico-politico, ma non può venir qualificata dal punto di vista teorico come un caso
di lacuna del diritto positivo. Infatti, è bene sottolineare ancora, di lacuna si può parlare
solo quando nel diritto manchi qualcosa che dovrebbe esserci, ma qualcosa di cui
possiamo dire in anticipo che cos’è, in base allo stesso diritto positivo. Tuttavia, non è
questo il caso delle garanzie (primarie e secondarie) dei diritti, come risulta evidente
non appena ci poniamo le seguenti domande: quali e quanti obblighi del legislatore
sarebbero necessari (o sufficienti?) a colmare la lacuna? Quali e quante sanzioni
sarebbero necessarie (o sufficienti?) a tutelare efficacemente il diritto? Nel momento in
cui cerchiamo una risposta a queste domande, diventa chiaro che stiamo discutendo di
quale preciso contenuto normativo il diritto dovrebbe avere e di quali precise sanzioni
dovrebbero essere poste a sua tutela, stiamo discutendo della semantica e non della
sintassi dei diritti, e stiamo discutendo di semantica normativa, poiché la semantica
descrittiva può fornirci solo la descrizione del contenuto (vago) del diritto enunciato
nella costituzione.
La teoria non può (né deve) darci precisi contenuti e efficaci garanzie: può far
questo, in uno stato democratico, solo il legislatore democraticamente eletto. Contenuti
e garanzie potranno essere reputati vacui o perfino illusori, e allora sarà bene
intraprendere una “lotta per i diritti”: sotto forma di richiesta al legislatore di leggi di
tutela del diritto proclamato nella costituzione, o sotto forma di richiesta di
emendamenti costituzionali che formulino in modo più soddisfacente il contenuto del
diritto (ossia gli obblighi del legislatore). Tuttavia, il teorico (giuspositivista), su tale
lotta, non ha affatto voce in capitolo. La critica di insufficiente tutela dei diritti, infatti,
presuppone (non un modello teorico-sintattico bensì) un modello sostantivo dei diritti,
ossia un loro catalogo normativo-contenutistico, un catalogo che le costituzioni
contemporanee non forniscono (se non a grandissime linee) e presumibilmente non
saranno mai in grado di fornire, finché esisterà il pluralismo dei valori che caratterizza
le nostre società. Sul piano politico, la determinazione dei contenuti dei diritti non potrà
che essere demandata, nella cornice vaga delle norme costituzionali, al popolo sovrano,
51L’unico giudizio teorico o meglio descrittivo, può essere quello che si limita a illustrare
contenuto, di solito vago, della formulazione del diritto.
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ossia al parlamento, al potere di revisione costituzionale, o addirittura al potere
costituente. La cosa può apparire dolorosa a chi nutra una giustificata sfiducia nelle
assemblee parlamentari, o nell’acume dell’opinione pubblica, ma è resa inevitabile dalle
regole del gioco democratico52.
In alternativa al modello kelseniano, ci viene presentato un modello di diritti
teoricamente completo, e le enunciazioni dei diritti presenti nelle costituzioni come in sé
sufficienti a predeterminare interamente i contenuti normativi e le garanzie che
dovranno essere apprestati per rendere non illusoria la tutela delle proclamazioni
costituzionali, sufficienti al punto da rendere inevitabile un giudizio di lacunosità
tecnica dell’ordinamento che non li produca. Il diritto positivo sembra così avere la
strada tracciata dal teorico, o da una costituzione letta con le lenti del teorico, come
documento che incorpora un catalogo — ovviamente implicito53 — di contenuti
normativi precisamente scolpiti in tutti i loro aspetti54.
Ma tali diritti “trovati” dal teorico nella costituzione finiscono per apparire qualcosa
di molto simile a dei postulati di ragione.
Ciò pone innanzi tutto il problema della loro giustificazione. Quale mai può essere
la giustificazione di diritti concepiti come prevalenti non solo sul gioco democraticoparlamentare, ma perfino sullo stesso potere costituente55? Questi diritti inattaccabili
perché ritenuti inscritti nello stesso contratto sociale costituzionale, finiscono per
assomigliare irresistibilmente a quelli del vetusto diritto naturale56. Naturalmente, tale
“pregiudizio” nei confronti del diritto naturale potrà essere considerato ingiustificato;
resta però pur sempre il fatto che
la validazione filosofica e l’autorizzazione politica sono due cose
completamente differenti. […] L’autorizzazione compete ai cittadini che
governano se stessi nella loro comunità. La validazione compete al filosofo
che ragiona da solo in un mondo abitato unicamente da lui e riempito dei
prodotti delle sue speculazioni (Walzer 1981, 397).
In secondo luogo, ciò pone il problema della loro amministrazione: i diritti
interamente svincolati dalla sovranità popolare dovranno pur essere amministrati nel
52Waldron 1990, 71, osserva che dovremmo prendere più seriamente l’elemento di insulto implicato
dalla tesi che i cittadini e i loro rappresentanti siano incapaci di fare buone leggi.
53Non è un caso che (Ferrajoli 1998), qui più volte citato, si chiuda con un rimando a Dworkin, a
cui già altre volte il suo pensiero è stato accostato. Vedi Gianformaggio (1993, 35ss.); Diritto e ragione
tra essere e dover essere, in L. Gianformaggio (a cura di), Le ragioni del garantismo, p. 35 ss.; vedi
anche Sagnotti (1998, 119).
54Questo potrebbe inoltre essere considerato un indizio della presenza di un’aporia nel
ragionamento, perché, delle due l’una: o i diritti sono completi già in costituzione, e allora ovviamente
non c’è lacuna tecnica, oppure c’è lacuna tecnica, ma manca il parametro intranormativo con cui
giudicare della pretesa lacuna.
55Come ritiene Ferrajoli, che nel suo Principia juris (in corso d’edizione) difende la tesi
dell’esaurimento del potere costituente nell’atto del suo esercizio, e sostiene che il potere di revisione
costituzionale potrà esercitarsi solo nella direzione dell’ampliamento dei contenuti e delle garanzie dei
diritti già ricompresi nelle costituzioni.
56Che la costituzione non coincida col contratto sociale e non rappresenti la base ultima di
giustificazione delle nostre società politiche, ma richieda a sua volta una giustificazione, è argomentato
efficacemente da Railton 1983, 154.
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loro contenuto e nelle loro implicazioni, nel novero delle garanzie a loro sostegno, che
ovviamente contribuiscono a determinarne il contenuto. Amministrazione dei diritti,
ossia definizione/ridefinizione dei loro contenuti, elaborazione delle loro garanzie: a chi
dovrebbero spettare tutti questi compiti? La diffidenza nei confronti del legislatore
democratico e, in definitiva, della politica, sospinge irresistibilmente ad affidarli ai
giudici,
giacché le discussioni interne al potere giudiziario effettivamente
assomigliano molto più del dibattito democratico agli argomenti che si
sviluppano nella repubblica ideale (nella mente del filosofo). E sembra
plausibile ritenere che i diritti possano esser definiti più correttamente
tramite la riflessione dei pochi che tramite il voto dei molti. […] La lista
filosofica dei diritti […] sollecita un’attività giudiziale che è radicalmente
intrusiva di quello che può essere chiamato spazio democratico (ibid., 3901).
Il primato delle “liste filosofiche dei diritti” si traduce inesorabilmente in un loro
affidamento ai giudici, dunque in una vanificazione della democrazia.
Kelsen doveva avere ben visto tutto questo, nel momento in cui, per diffidenza
verso il potere giudiziario, formulava il suggerimento, certo naïf, di redigere le
costituzioni con rigore semantico.
E forse, con la sua visione della pacifica dialettica parlamentare orientata alla
tolleranza e al compromesso, ci offre un’indicazione inadeguata nel merito (inadeguata
specie per società ad altissimo tasso di conflittualità come le nostre), ma ancora preziosa
nel metodo: poiché indica lo spazio irrinunciabile della politica. Non è cristallizzando i
diritti in modelli teorici atti a misurare le lacune dei diritti positivi e affidandoli al
terribile e non democratico potere giudiziario, che si massimizza la loro tutela. Non è
presumendo che le “liste filosofiche dei diritti” siano già incorporate nelle costituzioni,
che li si concilia con la democrazia. Non è consegnando lo spazio della politica nelle
mani del filosofo che si proteggono sia i diritti, che la democrazia.
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