UNA GIOIA GRANDISSIMA Lectio di Mt 1-2

C. Mariano, Lectio divina di Mt 1-2 (Cerignola, 20 dicembre 2013)
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UNA GIOIA GRANDISSIMA
Lectio di Mt 1-2
Introduzione
«Al vedere la stella provarono una gioia grandissima» (Mt 2,10).
La gioia immensa dei Magi al vedere la stella che li stava conducendo da Gesù, può
essere la nostra se, come loro, anche noi, sotto la guida della Parola, che è luce sul cammino, ci
mettiamo spiritualmente in viaggio, usciamo da noi stessi, per accogliere il Signore che, una
volta ancora, viene a visitarci nella pace in queste feste natalizie.
Oggi vi proporrò la lectio dei primi due capitoli del vangelo di Matteo, capitoli che con Lc
1-2, formano i cosiddetti vangeli dell’infanzia. Non si tratta di una lectio divina compiuta. Infatti,
la lectio divina è «una lettura individuale e comunitaria di un passo più o meno lungo della
Scrittura ascoltata come parola di Dio e che si prolunga sotto l'azione dello Spirito nella
meditazione, nella preghiera e nella contemplazione» (doc. PCB 1993). Nel tempo a
disposizione quello che posso fare è presentare una lectio cursiva del testo e offrire qua e là
qualche spunto di meditatio. Poi la palla passa voi.
Prima di iniziare a leggere i testi, una brevissima introduzione a questi primi due capitoli
del vangelo di Matteo.
Nel primo capitolo, con la genealogia (1,1-17) e con l’annunciazione a Giuseppe (1,18-25),
Matteo presenta Gesù come figlio di Davide e Figlio di Dio, ha cioè presentato la sua identità. Il
secondo capitolo è prevalentemente dedicato a illustrare la missione di Gesù Cristo. Nel brano
della visita dei Magi (2,1-12), si evidenzia che Gesù è il Salvatore di tutti gli uomini. In 2,13-18 (la
fuga in Egitto e la strage degli innocenti) è in primo piano il fatto che la sua missione di salvezza
passa attraverso la sofferenza, l’incomprensione, la persecuzione, in una parola la croce. In
2,19-23 (ritorno dall’Egitto e dimora a Nazaret), Matteo sottolinea che in Gesù giunga a
compimento la salvezza d’Israele, richiamata attraverso il riferimento all’evento centrale
dell’Antico Testamento e cioè l’esodo dall’Egitto.
La genealogia di Gesù Cristo (1,1-17)
Il vangelo di Matteo (e quindi anche il Nuovo Testamento) si apre con una lunga
genealogia. Il titolo di biblos genéseos mette in evidenza l’intenzione da parte di Matteo di
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riferirsi esplicitamente al libro della Genesi per offrire ai suoi lettori una ridefinizione della storia
biblica di base costituita dal Pentateuco alla luce del compimento crisologico. Quello della
genealogia è un genere che l’autore del primo vangelo (probabilmente un giudeo-cristiano
della seconda generazione che, verso l’anno 80, tradusse in greco un vangelo scritto in ebraico
o in aramaico da San Matteo apostolo) riprende dall’Antico Testamento, dove compare
massicciamente soprattutto nel libro della Genesi, in cui le genealogie (introdotte dalle formule
di toledot, “generazioni”: Gn 2,4; 5,1; 6,9; 10,1; 11,10.27; 25,12.19; 36,1(9); 37,2) presentano un
valore strutturante.
Mt 1,1-17
1Genealogia di Gesù Cristo figlio di Davide, figlio di Abramo. 2Abramo generò Isacco, Isacco
generò Giacobbe, Giacobbe generò Giuda e i suoi fratelli, 3Giuda generò Fares e Zara da Tamar,
Fares generò Esrom, Esrom generò Aram, 4Aram generò Aminadàb, Aminadàb generò Naassòn,
Naassòn generò Salmon, 5Salmon generò Booz da Racab, Booz generò Obed da Rut, Obed generò
Iesse, 6Iesse generò il re Davide. Davide generò Salomone da quella che era stata la moglie di Uria,
7Salomone generò Roboamo, Roboamo generò Abia, Abia generò Asaf, 8Asaf generò Giòsafat,
Giòsafat generò Ioram, Ioram generò Ozia, 9Ozia generò Ioatàm, Ioatàm generò Acaz, Acaz generò
Ezechia, 10Ezechia generò Manasse, Manasse generò Amos, Amos generò Giosia, 11Giosia generò
Ieconia e i suoi fratelli, al tempo della deportazione in Babilonia. 12Dopo la deportazione in
Babilonia, Ieconia generò Salatièl, Salatièl generò Zorobabele, 13Zorobabele generò Abiùd, Abiùd
generò Eliachìm, Eliachìm generò Azor, 14Azor generò Sadoc, Sadoc generò Achim, Achim generò
Eliùd, 15Eliùd generò Eleazar, Eleazar generò Mattan, Mattan generò Giacobbe, 16Giacobbe generò
Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù, chiamato Cristo. 17In tal modo, tutte le
generazioni da Abramo a Davide sono quattordici, da Davide fino alla deportazione in Babilonia
quattordici, dalla deportazione in Babilonia a Cristo quattordici.
Per comprendere un po’ di più la genealogia di Gesù presente in Matteo, è necessario
confrontarla con l’altra genealogia di Gesù che troviamo nel Nuovo Testamento e cioè quella di
Luca, presente in Lc 3,23-38.
Le due genealogie presentano delle notevoli specificità.
1) La genealogia di Luca è ascendente, parte da Gesù ed arriva ad Adamo, quella di
Matteo è discendente: parte da Abramo ed arriva a Gesù;
2) la genealogia di Matteo fa riferimento a cinque donne, Luca no; le cinque donne di
Matteo sono quattro non ebree (Tamar, Rut, Rahab, Betsabea) e la vergine Maria: la
prospettiva è universalista
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3) la genealogia di Matteo si basa sul numero 14: vi sono, infatti, tre serie di 14
generazioni (cf. Mt 1,7) che in base alla gematrìa, con cui si afferma che Gesù è figlio di Davide
(dwd; d= 4; w= 6; d= 4); la genealogia di Luca si basa sul numero 77 (numero doppiamente
perfetto, proprio di Dio): da Giuseppe a Dio ci sono 7 volte 11 nomi e Gesù è l’inizio della
dodicesima ed ultima serie, è cioè l’arché, il compimento della storia della Creazione (Adamo) e
della salvezza, l’inizio dell’umanità escatologica.
Tuttavia, dal punto di vista teologico e cristologico, i due testi concordano su due punti
fondamentali:
1) Gesù è il compimento della Creazione, della storia d’Israele e di tutta la storia umana;
2) Gesù è il Figlio di Dio divenuto uomo nel grembo della Vergine, in modo cioè non
biologicamente riconducibile agli ascendenti della sua genealogia.
Per affermare quest’ultimo punto, tanto Matteo quanto Luca non esitano a “forzare” il
testo, rompendo gli schemi seguiti nel corso della genealogia.
a) Mt 1,16-18: 16Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù,
chiamato Cristo. (…);
b) Lc 3,23: Gesù, quando cominciò il suo ministero, aveva circa trent’anni ed era figlio,
come si riteneva, di Giuseppe, figlio di Eli.
Il messaggio fondamentale delle due genealogie è sostanzialmente lo stesso: nella
pienezza dei tempi, il Figlio di Dio è entrato nella storia dell’umanità attraverso la storia
concreta del suo popolo, della sua famiglia. Non è piovuto dal cielo come una stella cadente ma
si è inserito concretamente nella grande storia dell’umanità, scegliendo un punto, un piccolo
punto attraverso cui raggiungere tutta la realtà. Questo punto è stato il grembo verginale della
Madonna. Per questa ragione, la Madonna è così importante per la fede cristiana. La Madonna
è stata eletta, cioè scelta da sempre da Dio per essere la Madre di Cristo, del Figlio di Dio fatto
uomo.
La considerazione della genealogia di Gesù ci fa prendere coscienza anche
dell’importanza di san Giuseppe, che è l’ultimo (Matteo) o il primo (Luca) della lunga serie di
anelli della genealogia di Gesù.
Secondo un filone interpretativo (comune per lo più a esegeti cattolici), Giuseppe
avverte più o meno chiaramente di trovarsi di fronte al Mistero di Dio e vuole ritrarsi pieno di
santo timore (in questa linea il non temere dell’angelo in Mt 1,20: espressione che nell’AT
introduce spesso le teofanie).
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Secondo un altro filone (comune per lo più a esegeti protestanti), Giuseppe, costretto a
prendere atto di un concepimento a lui estraneo da parte di Maria, cercando nella Legge non
l’osservanza formale del precetto ma l’amore di Dio (Dt 6,4), intende semplicemente evitare a
Maria la lapidazione prevista in caso d’adulterio.
Come Abramo, san Giuseppe accolse nella fede una generazione che non riconducibile
all’ambito del naturale, dell’ordinario e divenne così il padre putativo di Gesù, che non significa
«un padre di serie B» ma un padre «di ordine diverso» rispetto alla paternità naturale. È lui,
infatti, che assicura al Figlio di Dio la paternità legale, gli conferisce il nome («lo chiamerai Gesù»
gli dice l’angelo), lo accoglie in seno alla famiglia di Davide e gli assicura protezione,
sostentamento, affetto, tutte cose di cui gli uomini hanno bisogno quando vengono al mondo e
di cui anche il Figlio di Dio, divenuto veramente uomo, ha avuto bisogno.
Tutto questo è importante per noi. Infatti, tutto questo è avvenuto perché la salvezza (il
nome Yoshua significa «il Signore è salvezza») potesse raggiungere ciascuno di noi.
La nascita di Gesù Cristo (1,18-25)
L’importanza di san Giuseppe per il compimento dell’opera di salvezza emerge con
grande chiarezza soprattutto nel secondo brano del vangelo, quello che segue la genealogia di
Gesù.
In questa sezione il culmine della narrazione si trova in 1,22 in cui si mette in evidenza la
piena padronanza degli eventi da parte di Dio (teologia della storia): tale padronanza è
espressa mediante la corrispondenza tra la Scrittura e la Storia.
La grande sobrietà con cui il concepimento verginale è enunciato sia al v. 18 (che colloca
il lettore in una posizione di “superiorità conoscitiva” rispetto a Giuseppe, accentuando il
pathos della narrazione) che al v. 20 è un attestato evidente della sua appartenenza al dato
tradizionale. Se fosse stato concepito successivamente, sarebbe stato presumibilmente
arricchito dal punto di vista narrativo.
Mt 1,18-25:
18Così fu generato Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe,
prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. 19Giuseppe suo
sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in
segreto. 20Mentre però stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del
Signore e gli disse: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa.
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Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; 21ella darà alla luce un figlio e tu lo
chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati». 22Tutto questo è avvenuto
perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: 23Ecco, la vergine
concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele, che significa Dio con noi.
24Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese
con sé la sua sposa; 25senza che egli la conoscesse, ella diede alla luce un figlio ed egli lo chiamò
Gesù.
Non solo Matteo ma anche gli altri evangelisti non riportano neanche una parola di San
Giuseppe. Non c’è mai scritto nei Vangeli: Giuseppe disse, due punti, virgolette. Eppure con il suo
silenzio, con la sua discrezione Giuseppe ci istruisce con le sue azioni, tutte motivate da un
unico grande desiderio: fare la volontà di Dio. Per questo è stato simpaticamente
soprannominato il dottore del silenzio.
L’evangelista Matteo lo descrive con una sola parola: dikaios, giusto. Nella Bibbia la
concezione di giustizia è più ampia di quella del diritto romano (suum unicuique tribuendi: dare a
ciascuno il suo). Nella giustizia biblica c’è anche questo, certo, ma c’è molto di più, perché il
giusto per la Bibbia è un uomo che vive in comunione con Dio. Infatti, la coppia di termini
sedaqah / sadiq (giustizia / giusto) esprime l’idea di fedeltà / lealtà non alla Legge in senso
astratto ma a Dio, datore della Legge. In sintesi, nel linguaggio biblico giusto è definito chi ama
la Torah, la Legge, nella sua lettera e nel suo spirito, chi cioè nella Legge cerca l’obbedienza alla
volontà di Dio.
Quando avvenne ciò che abbiamo ascoltato nel Vangelo, Giuseppe doveva avere 18-20
anni. Fu la giustizia di cui il suo cuore era già colmo, che mosse Giuseppe a porre il primo
coraggioso passo: quello di non ripudiare pubblicamente Maria ma di licenziarla in segreto per
risparmiarle la lapidazione (Dt 22,20-22). Probabilmente, Giuseppe non riuscì a comprendere
quello che stava avvenendo, di certo non dubitò dell’onestà di Maria e forse intuì di essere al
cospetto di un intervento misterioso dell’Altissimo.
A quel punto, Dio si rivelò a lui attraverso la voce di un angelo. La sua risposta alla Voce
fu quella di un’assoluta, incondizionata e silenziosa obbedienza. Neppure una parola ma i fatti:
Destatosi dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo. Con il suo comportamento,
san Giuseppe ci insegna che la via della santità è una via di obbedienza alla volontà di Dio nelle
circostanze più ordinarie e concrete della nostra esistenza. San Giuseppe visse così tutti gli altri
passi del suo cammino terreno: nel viaggio a Betlemme per il censimento, nella nascita di Gesù
a Betlemme, nella circoncisione di Gesù al Tempio di Gerusalemme e nell’imposizione del nome,
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in occasione della fuga in Egitto, dello smarrimento di Gesù a Gerusalemme e del suo
ritrovamento nel Tempio tra i dottori, negli anni in cui Giuseppe si occupò del sostentamento
della santa famiglia e dell’educazione di Gesù. Giuseppe visse tutto in fedele e amorosa
obbedienza alla volontà di Dio.
Attraverso i due sì, quello di Maria (che secondo le consuetudini del tempo, aveva tra i 12
ed i 14 anni) e quello di Giuseppe (che doveva essere a sua volta un giovanotto), Dio entra
corporalmente nella storia per portare a compimento l’alleanza con Israele e con tutte le genti.
Attraverso La citazione di Is 7,14 (ecco la vergine concepirà e partorirà un figlio … ),
Matteo introduce la nuova e definitiva formula dell’alleanza tra Dio e Israele: a lui sarà dato il
nome di Emmanuele che significa “Dio con noi”. In Gesù si compie perfettamente e
definitivamente l’alleanza. Gesù è la shekinah (cf. la dimora della gloria di Dio durante l’Esodo), il
“luogo” in cui Dio dimora in mezzo al suo popolo e lo guida nel cammino della storia.
La visita dei Magi (2,1-12)
Si fronteggiano qui due strategie, che corrispondono a due campi contrapposti: la
strategia di Dio e la strategia di Erode, che si pone come nemico di Dio in quanto nemico
mortale del suo popolo (fa piangere Rahab, una delle madri d’Israele) e del suo Messia.
L’intertesto è costituito dagli eventi dell’Esodo (tentato genocidio da parte del Faraone, Mosè
salvato dalle acque, fuga di Mosè adulto nella terra di Madian, racconto delle piaghe, la piaga
dei primogeniti, il passaggio del mare)
Come dicevo all’inizio, nel primo capitolo Matteo mette in evidenza l’identità di Gesù,
nel secondo la missione di colui che è il Figlio di Davide ed il Figlio di Dio.
La missione di Gesù, il fatto che egli è stato inviato per la salvezza non solo d’Israele ma
di tutti le genti appare con grande evidenza nel racconto della visita dei Magi.
Mt 2,1-12:
1Nato Gesù a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode, ecco, alcuni Magi vennero da
oriente a Gerusalemme 2e dicevano: «Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto
spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo». 3All’udire questo, il re Erode restò turbato e con
lui tutta Gerusalemme. 4Riuniti tutti i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo [che erano gli
interpreti della Scrittura e specialmente della Torah], si informava da loro sul luogo in cui doveva
nascere il Cristo. 5Gli risposero: «A Betlemme di Giudea, perché così è scritto per mezzo del
profeta: 6E tu, Betlemme, terra di Giuda,
non sei davvero l’ultima delle città principali di Giuda: da
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te infatti uscirà un capo
che sarà il pastore del mio popolo, Israele» [citazione composita che fa
riferimento a tre testi: Mi 5,1-3; 2Sam 5,2 e 1Cr 11,2]. 7Allora Erode, chiamati segretamente i Magi,
si fece dire da loro con esattezza il tempo in cui era apparsa la stella 8e li inviò a Betlemme
dicendo: «Andate e informatevi accuratamente sul bambino e, quando l’avrete trovato, fatemelo
sapere, perché anch’io venga ad adorarlo». 9Udito il re, essi partirono. Ed ecco, la stella, che
avevano visto spuntare, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il
bambino. 10Al vedere la stella, provarono una gioia grandissima. 11Entrati nella casa, videro il
bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli
offrirono in dono oro, incenso e mirra. 12Avvertiti in sogno di non tornare da Erode, per un’altra
strada fecero ritorno al loro paese.
Il nome magi (in greco magoi) proviene dal persiano maga che significa “dono di Dio,
rivelazione”, da cui magu che significa “partecipe del dono / della rivelazione di Dio”. Si tratta
certamente di saggi dell’Oriente, forse appartenenti allo Zoroastrismo (un’antica filosofia /
religione fondata sulle dottrine del profeta Zoroastro o Zarathustra, diffusasi in Persia, l’attuale
Iran)1. Gli esegeti discutono se considerarli più vicini a dei maghi o a degli astrologi, a dei
sacerdoti o a dei filosofi. Con il passare del tempo, la tradizione cristiana li considerò dei re ed
assegnò loro dei nomi: Gaspare (nero), Melchiorre e Baldassare. La stella, l’astro miracoloso
potrebbe essere o una supernova, una cometa o una congiunzione planetaria.
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«Religione ufficiale ben prima dell'avvento dell'Islam, lo zoroastrismo (o mazdaismo dal dio Mazda, o anche magismo dai
"magi", i sacerdoti sacri) è stata per secoli la principale confessione di fede in Iran, quando ancora si chiamava Persia, prima
di essere scacciata a ovest dalla religione di Allah e il suo profeta, e a est dagli influssi buddhisti provenienti dall'Estremo
Oriente. Gli zoroastriani sono i seguaci di Zoroastro (Zartosht, Zarathustra), nato probabilmente intorno al 550 a.C. a
Mazar-é-Sharif nell'odierno Afghanistan, sebbene diverse località in Iran oggi si contendano i natali di Zoroastro. La
religione zoroastriana è stata una delle prime a postulare l'esistenza di un Dio unico e onnipotente, Ahura Mazda. La sua
ossatura teorica si basa sul concetto di dualismo, secondo cui tutto è riconducibile alla contrapposizione perenne tra Bene
e Male, Vohu Mano (spirito del Bene) e Ahem Mano (spirito del Male), giorno e notte, in una dialettica che divide e spiega
il mondo e le sue cose. La purezza degli elementi è centrale nella teorica zoroastriana. Infatti tipicamente gli zoroastriani
non usavano né seppellire i defunti né tanto meno cremarli, per non contaminare terra e aria; essi venivano esposti nelle
cosiddette "torri del silenzio" e lasciati in pasto agli avvoltoi. Questa antica pratica oggi è stata sostituita con l'uso di casse
in cemento in cui vengono rinchiusi i cadaveri. Legato all'atto della purificazione e alla sua importanza è l'elemento del
fuoco che, sacro, arde perennemente nei templi esistenti, come nel tempio di Yazd in Iran, per l'appunto. Ricorrenti nel
simbolismo zoroastriano sono anche le figure alate, molto ricorrenti soprattutto su antichi monumenti funebri del
periodo preislamico. I diversi strati di piume che li caratterizzano simboleggiano la purezza del pensiero e dell'azione.
Dell'antica diffusione della religione zoroastriana in Iran oggi non resta che un gruppo sparuto di 30 mila persone e le
tante forme dell'arte persiana preislamica che ricordano, soprattutto nell'architettura, la vocazione persiana per la religione
di Zoroastro. Zoroastriani se ne possono trovare soprattutto a Yazd, ma anche a Shīrāz, Tehran, Isfahān e Kermān; molti di
essi, tuttavia, sono stati costretti a riparare in altri Paesi (per esempio in India) dopo la conquista islamica. Essi si
distinguono ancora nell'abbigliamento. Questo vale soprattutto per le donne, che indossano abiti ricamati con colori
crema, bianco e rosso, e pur non ricorrendo al chador iraniano, non rinunciano ad avvolgere il capo nell'hijab.
Nonostante oggi sia relegata a religione di minoranza, lo zoroastrismo torna ad affascinare molti giovani, musulmani e non,
che si accostano a conoscere l'antica fede preislamica e ne difendono l'essenza erigendola quasi a simbolo della propria
iranicità». Cf. http://www.iran.it/Religioni/Zoroastrismo.shtml.
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I Magi, questi personaggi misteriosi partiti da lontano sotto la guida di una stella, ci
rappresentano tutti. Ogni uomo, lo riconosca o no, è alla ricerca di quel Bambino divino. Giunti
al cospetto di Gesù, i Magi offrono oro, incenso e mirra. Si tratta di doni simbolici: l’oro al Re dei
Re, al Signore dei regnanti, l’incenso a colui che è il Figlio di Dio, «Luce da Luce, Dio vero da Dio
vero», la mirra a Colui che sarebbe entrato nella gloria della Risurrezione passando attraverso
gli aspri sentieri della passione, della morte e della sepoltura.
Gregorio Magno interpreta l’oro come simbolo di sapienza, l’incenso simbolo di
preghiera e la mirra come simbolo del dominio dello spirito sulla carne.
Altri (tra i quali Lutero) interpretano i tre doni simbolici in riferimento alle virtù teologali:
la fede (oro), la carità (incenso) e la speranza (mirra).
Il comportamento perverso di Erode rende evidente che la luce di Cristo è una luce da
subito minacciata. Eppure, nonostante la sua apparente debolezza, Dio veglia su questa luce e
non permette che essa sia spenta dal potere delle tenebre: Avvertiti in sogno di non tornare da
Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro paese (2,12).
Come, in modo stupendo, spiegò papa Benedetto XVI alla Giornata mondiale della
Gioventù di Colonia, il 20 agosto 2005, fu proprio al termine del loro viaggio che per i Magi ne
cominciò un altro, ancora più affascinante e sorprendente dell’altro:
«Il cammino esteriore di quegli uomini era finito. Erano giunti alla meta. Ma a questo
punto per loro comincia un nuovo cammino, un pellegrinaggio interiore che cambia tutta la
loro vita. Poiché sicuramente avevano immaginato questo Re neonato in modo diverso. (…)
Anche se gli altri uomini, quelli rimasti a casa, li ritenevano forse utopisti e sognatori - essi
invece erano persone con i piedi sulla terra, e sapevano che per cambiare il mondo bisogna
disporre del potere. Per questo non potevano cercare il bambino della promessa se non nel
palazzo del Re. Ora però s'inchinano davanti a un bimbo di povera gente (…)
Così dovevano imparare che Dio è diverso da come noi di solito lo immaginiamo. Qui
cominciò il loro cammino interiore. Cominciò nello stesso momento in cui si prostrarono
davanti a questo bambino e lo riconobbero come il Re promesso. (…) Ora vedevano: il potere
di Dio è diverso dal potere dei potenti del mondo. (…) Dio in questo mondo non entra in
concorrenza con le forme terrene del potere. Non contrappone le sue divisioni ad altre
divisioni. (…) Egli contrappone al potere rumoroso e prepotente di questo mondo il potere
inerme dell'amore (…) E ciò significa che ora essi stessi devono diventare diversi, devono
imparare lo stile di Dio. (…). Ora imparano che devono donare se stessi - un dono minore di
questo non basta per questo Re. (…) Devono diventare uomini della verità, del diritto, della
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bontà, del perdono, della misericordia. Non domanderanno più: Questo a che cosa mi serve?
Dovranno invece domandare: Con che cosa servo io la presenza di Dio nel mondo? Devono
imparare a perdere se stessi e proprio così a trovare se stessi. Andando via da Gerusalemme,
devono rimanere sulle orme del vero Re, al seguito di Gesù».
La fuga in Egitto e la strage degli innocenti (2,13-18)
Gesù è un anti-re rispetto ad Erode e, più in generale, rispetto al potere mondano che si
erge con arroganza, protervia e violenza contro Dio e quindi contro l’uomo. L’unico titolo
cristologico che Matteo inserisce nel c. 2 è quello di Figlio di Dio (mediante la citazione di
compimento del v. 16). Gesù è un re totalmente dalla parte dell’uomo in quanto appartiene
totalmente a Dio: la vera regalità – quella di Dio – è totalmente per l’uomo.
Il testo di 2,13-18 mostra la dolorosa manifestazione di quanto si è delineato nel brano
precedente: la missione di salvezza di Gesù è da subito contrassegnata da sofferenza, rifiuto,
persecuzione, in una parola la croce. Eppure, come abbiamo ascoltato dalle parole del Papa che
ho citato poco fa, è proprio nella Croce che Dio manifesta in pienezza la sua gloria, il potere
dell’amore ed è attraverso questo potere che Gesù salva il mondo.
Mt 2,13-18:
13Essi erano appena partiti, quando un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli
disse: «Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e resta là finché non ti
avvertirò: Erode infatti vuole cercare il bambino per ucciderlo».
14Egli si alzò, nella notte, prese il bambino e sua madre e si rifugiò in Egitto, 15dove rimase
fino alla morte di Erode, perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del
profeta: Dall’Egitto ho chiamato mio figlio. [allusione a vari testi: Es 4,22; Nm 23,22; 24,28; Os 1,11]
16Quando Erode si accorse che i Magi si erano presi gioco di lui, si infuriò e mandò a
uccidere tutti i bambini che stavano a Betlemme e in tutto il suo territorio e che avevano da due
anni in giù, secondo il tempo che aveva appreso con esattezza dai Magi. 17Allora si compì ciò che
era stato detto per mezzo del profeta Geremia: 18Un grido è stato udito in Rama, un pianto e un
lamento grande: Rachele piange i suoi figli
e non vuole essere consolata, perché non sono più.
[citazione di Ger 31,15, riferita di per sé agli uomini di Efraim, Manasse e Beniamino, massacrati
o deportati da parte degli Assiri; il riferimento al pianto di Rachele è dovuto al fatto che a Rama,
oggi er-Ram, si trovava la tomba della sposa di Giacobbe, morta nel dare alla luce Beniamino].
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Il pianto inconsolabile di Rachele di cui parla Geremia è la rappresentazione drammatica
di tutto il dolore innocente del mondo, di tutti i pianti della storia, del grido dei perseguitati,
delle mamme che hanno visto morire i loro figli a causa della violenza, della guerra, della
persecuzione. Il pianto di Rachele è il compimento del pianto delle madri ebree al tempo della
persecuzione del Faraone ed è la prefigurazione del pianto della Madre di Gesù ai piedi della
Croce.
Ma la presenza umile di Gesù bambino costituisce un seme luminoso di speranza e di
vita al cuore delle tenebre del dolore e della morte. Un seme che sembra piccolo ed indifeso ma
che manifesterà tutta la sua potenza nel Mistero della passione, morte e Risurrezione.
Il crudele eccidio dei bambini di Betlemme, dei piccoli coetanei di Gesù partecipa alla
potenza della sua Pasqua. È questa consapevolezza che ha indotto la Chiesa a festeggiare tre
giorni dopo il Natale, il 28 dicembre, la festa dei Ss. Innocenti, in ordine cronologico i primi
martiri della storia del Cristianesimo.
La morte dei bambini di Betlemme ci fa vedere con grande chiarezza che il Mistero del
Natale è ben lontano da una vaga celebrazione dei buoni sentimenti, condita da luminarie,
dolciumi e regali. Sin dal suo albeggiare, la presenza del Cristianesimo nella storia è segnata da
una testimonianza radicale, una testimonianza che non è solo quella della parola, della vita ma
anche del sangue: il martirio.
Il martirio potrebbe apparirci come una realtà lontana, qualcosa che ha riguardato solo i
primi secoli della storia della Chiesa ma non è affatto così. Il grande teologo H.U. von Balthasar
lo ha definito «il caso serio della fede». Infatti, o la fede in Cristo arriva sino a lì, cioè ad amare
Cristo più di qualsiasi altra cosa, persino più di se stessi e della propria vita, oppure cos’è?
Un’ideologia tra le altri? Un insieme di tradizioni? Un codice etico?
A ben vedere, il martirio è una realtà dei nostri giorni. Il XX secolo, il Novecento è stato il
secolo che ha conosciuto la più grande persecuzione dei Cristiani della storia. Le stime parlano
di oltre 45 milioni di vittime. Ai nostri giorni, l’accanimento contro la Chiesa che ha accomunato
i totalitarismi del secolo scorso ha ripreso vigore con il fondamentalismo islamico. Sono tanti i
paesi in cui professare la fede cristiana significa andare incontro a discriminazioni, persecuzioni
fisiche e morali e rischiare ogni giorno la vita.
Tra le tante testimonianze che si potrebbero richiamare, riporto quella relativa ai fatti
del 31 ottobre 2010. È domenica. A Bagdad dei cristiani come noi compiono un gesto
importante, decisivo, che caratterizza la fede cristiana davanti al mondo: vanno a Messa. Ed
C. Mariano, Lectio divina di Mt 1-2 (Cerignola, 20 dicembre 2013)
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ecco quel che accade (cito dalla cronaca di Claudio Monici apparsa su Avvenire del 2 novembre
2010):
«C’era la preghiera e d’improvviso è esplosa la paura. Le urla dei terroristi, le grida delle
donne e dei bambini, l’orrore. Le esplosioni delle bombe umane e le raffiche dei mitra, e le
forze di sicurezza che irrompevano nell’edificio anche loro sparando come impazziti. Uno dopo
l’altro cadevano i morti di una carneficina che ha lasciato le sue tracce di sangue e di resti umani
ovunque, anche sulle pareti più alte della cattedrale siro-cattolica Nostra Signora del perpetuo
soccorso di Baghdad. I primi a cadere sono stati due giovani preti, padre Trayer e padre
Waseem, uccisi mentre cercavano di impedire al commando armato di entrare. Poi c’è stato il
finimondo: “Una tragedia terrificante”, di “violenza bestiale”, ha detto un prete sopravvissuto,
padre Pius Qasha, con ancora negli occhi i corpi dilaniati delle decine di vittime innocenti».
Sono parole che riempiono i nostri cuori di sgomento e di commozione ma anche di
forza, di audacia perché due millenni di storia della Chiesa stanno lì ad insegnarci che, come
diceva Tertulliano, sanguis martyrum semen christianorum, “il sangue dei martiri è seme i nuovi
cristiani”, stanno lì a rammentarci che allora la Chiesa è forte, è vittoriosa quando rinuncia alle
vie della violenza, del potere ed accoglie la via della Croce, la via di Colui che ha vinto il mondo
non uccidendo ma lasciandosi crocifiggere per risorgere il terzo giorno come Signore del
tempo e della storia. I bambini di Betlemme sono i capofila di questa gloriosa schiera di vincitori
sul potere delle tenebre.
Ritorno dall’Egitto e dimora a Nazaret (2,19-23)
Concludiamo con 2,19-23, in cui viene espresso con grande pregnanza il DNA della
missione di Gesù e della Chiesa, la missione del Nazoraios (cf. 2,23 e Is 11,1) e dei Nazoraioi (così
venivano chiamati i Cristiani dagli altri Ebrei).
Il testo:
19Morto Erode, ecco, un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe in Egitto 20e gli
disse: «Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre e va’ nella terra d’Israele; sono morti infatti
quelli che cercavano di uccidere il bambino». 21Egli si alzò, prese il bambino e sua madre ed entrò
nella terra d’Israele. 22Ma, quando venne a sapere che nella Giudea regnava Archelao al posto di
suo padre Erode, ebbe paura di andarvi. Avvertito poi in sogno, si ritirò nella regione della Galilea
23e andò ad abitare in una città chiamata Nàzaret, perché si compisse ciò che era stato detto per
mezzo dei profeti: «Sarà chiamato Nazareno».
C. Mariano, Lectio divina di Mt 1-2 (Cerignola, 20 dicembre 2013)
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Il piccolo esodo dall’Egitto alla terra d’Israele compiuto dalla famiglia di Giuseppe, Maria
e Gesù è il segno che in quel bambino si sta compiendo la storia della salvezza, l’esodo
dell’umanità dalla schiavitù del peccato e della morte alla libertà della comunione con Dio.
Quel piccolo bambino è l’origine, il significato, il fine della storia umana perché è vero
Dio e vero uomo. È lui che, sebbene sia ancora così piccolo, guida i suoi discepoli ed amici (noi!)
nei sentieri della libertà, della giustizia e della pace.
In lui si compiono le Scritture, in lui è rivelata / donata a Israele e alle genti (Nazaret è
nella “Galilea delle genti”) la grazia apportatrice di salvezza che rifulgerà nella notte santa del
Natale (Tt 2,11) e nell’ultimo avvento di colui che è venuto, viene, verrà.