RIVISTA • INTERNAZIONALE • DI • FILOSOFIA ACTA PHILOSOPHICA PONTIFICIA UNIVERSITÀ DELLA SANTA CROCE ARMANDO EDITORE Abbonamento annuale per i paesi UE L. 50.000 (25,82 euro) per i paesi extra-UE USD 50$ Abbonamento triennale per i paesi UE L. 130.000 (67,13 euro) per i paesi extra-UE USD 140$ Singolo numero per i paesi UE L. 30.000 (15,49 euro) per i paesi extra-UE USD 30$ Spedizione in abbonamento postale c.c.p. n. 62038005 intestato a Armando Armando s.r.l. Viale Trastevere 236 — 00153 Roma Payment for foreign subscription may be made via an international postal money order, or via a cheque or bank draft payable to Armando Armando s.r.l., acc. 651991.57 codice ABI 03002, CAB 05006, Banca di Roma, agenzia 203, Largo Arenula 32, 00186 Roma Consiglio di Redazione Francesco Russo (Direttore), Stephen L. Brock, Marco D’Avenia, Juan A. Mercado (Segretario) Consiglio Scientifico Juan José Sanguineti (Presidente), Lluís Clavell, Martin Rhonheimer, Angel Rodríguez Luño Amministrazione Armando Armando s.r.l. viale Trastevere 236 - I-00153 Roma Uff. Abb. tel. 06.5806420 – fax 06.5818564 Internet: http://www.armando.it E-Mail: [email protected] Redazione Pontificia Università della Santa Croce via S. Girolamo della Carità, 64 — I-00186 Roma tel. 06.68164500 – fax 06.68164600 E-Mail: [email protected] Internet: www.usc.urbe.it/acta Direttore Responsabile Francesco Russo Le collaborazioni, scambi, libri in saggio vanno indirizzati alla Redazione Autorizzazione del Tribunale Civile di Roma, n. Reg. 625/91, del 12.11.1991 Iscrizione al Registro Nazionale della Stampa, n. 3873, del 29.11.1992 Le opinioni espresse negli articoli pubblicati in questa rivista rispecchiano unicamente il pensiero degli autori. Imprimatur dal Vicariato di Roma, 16 giugno 2000 ISSN 1121-2179 Rivista associata all’Unione Stampa Periodica Italiana Semestrale, vol. 9 (2000), fasc. 2 Luglio/Dicembre sommario Studi 197 223 241 Daniel Gamarra Un caso di platonismo ed agostinismo medievale. Matteo d’Acquasparta: conoscenza ed esistenza Fernando Inciarte Heidegger, Hegel, and Aristotle: A Straight Line? Paulin Sabuy La question du dualisme anthropologique. Une analyse d’après Robert Spaemann Note e commenti 267 Javier Aranguren Echevarría Eudaimonía e historicidad 277 Gabriel Chalmeta Aristotele e Solov’ëv sul significato dell’amore 287 Mariano Fazio Tre proposte di società cristiana (Berdiaeff, Maritain, Eliot) 313 Juan Andrés Mercado Brief comments on Capaldi’s “We Do” interpretation of humean ethics 319 José Ignacio Murillo Una aproximación al Curso de Teoría del Conocimiento de Leonardo Polo Cronache di filosofia 339 Estetica della formatività: due saggi recenti (F. RUSSO) 341 Lezioni e conferenze 342 Convegni 344 Società filosofiche Bibliografia tematica 349 Affettività Recensioni 353 355 358 364 367 370 R. ALVIRA, La razón de ser hombre e Filosofía de la vida cotidiana (J.A. Mercado) M. ARTIGAS, Filosofía de la ciencia (M.A. Vitoria) G. CHALMETA, La giustizia politica in Tommaso d’Aquino (M. Fazio) A. LLANO, Humanismo cívico (G. Chalmeta) A.L. T IRABASSI (a cura di), Compendio di Semantica del Dolore. 7: Filosofia del dolore (F. Russo) J.J. WHITE, A Humean Critique of David Hume’s Theory of Knowledge (J.A. Mercado) Schede bibliografiche 375 378 J.J.E. GRACIA (a cura di), Concepciones de la metafísica (M. Pérez de Laborda) L. PAREYSON, Kierkegaard e Pascal (F. Russo) TOMÁS DE AQUINO, Comentario al libro de Aristóteles “Sobre la interpretación” (J.A. Mercado) A. VENDEMIATI, In prima persona. Lineamenti di etica generale (G. Faro) 380 Pubblicazioni ricevute 381 Indice del volume 9 (2000) 376 377 ACTA PHILOSOPHICA, vol. 9 (2000), fasc. 2- PAGG. 197-221 studi Un caso di platonismo ed agostinismo medievale. Matteo d’Acquasparta: conoscenza ed esistenza DANIEL GAMARRA* Sommario: 1. Cenno storico. 2. Il problema della conoscenza. 2.1. La conoscenza del singolare. 2.2. L’illuminazione. 2.3. Il problema della «natura communis». 3. La conoscenza del non-esistente. 3.1. L’indifferenza dell’essere. 3.2. L’oggetto dell’intelletto. ■ 1. Cenno storico Matteo d’Acquasparta è un pensatore che raccoglie la lunga tradizione di pensiero agostiniano, presente in numerosi autori francescani già a partire dal XIII secolo. Il suo modo di assumere la tradizione agostiniana non è privo però di originalità giacché i grandi problemi che Matteo studia con accuratezza sono, sotto forme e contesti diversi, i grandi problemi della filosofia del XIII e del XIV secolo: fra i maestri francescani, i rapporti fra la conoscenza e il plesso essenzaesistenza rappresentano un argomento di interesse notevole non soltanto dal punto di vista della ricerca storica, ma anche come problema suscettibile di essere posto in modo teoretico. Benché non possiamo dire che siamo davanti ad un innovatore, tuttavia il fatto di aver proposto con acutezza e chiarezza certi problemi gnoseologici propri del momento storico in cui è vissuto, fa vedere come, da una prospettiva agostiniana, alcune questioni trovano soluzioni — al meno questo è il tentativo di Matteo — che danno materiale di indiscusso interesse per la riflessione. Certo è, d’altra parte, che la bibliografia su questo autore non è troppo ampia e di solito si può osservare che i diversi studiosi che hanno approfondito il suo pensiero concentrano quasi esclusivamente la loro attenzione su due problemi * Universidad Austral, Mariano Acosta s/n°, Derqui (1629) Pilar, Buenos Aires, Argentina 197 studi intimamente collegati: quello riguardante la questione della conoscenza in generale e, all’interno di questo, quel che concerne il problema della conoscenza del singolare. Esistono tuttavia alcune opere di carattere più generale sul suo pensiero e la sua opera, benché in molti casi non vadano oltre una presentazione abbastanza schematica e in chiave soprattutto storiografica1. Comunque, un fatto evidente nella sua filosofia è che, nonostante la poca attenzione che in generale hanno prestato la critica e i diversi studi sul medioevo, Matteo pone il problema della conoscenza in un modo che implica anche una tematica metafisica, cioè attraverso la considerazione dell’esistenza e della non-esistenza come positività logica; così l’orizzonte intellettuale di Matteo si apre a dei problemi di portata notevolmente maggiore di quanto abitualmente viene in lui sottoposto all’attenzione dei diversi studiosi. Come dicevamo, il suo pensiero ha una chiara ispirazione agostiniana, come quello dei maestri francescani precedenti e contemporanei: Alessandro di Hales, Tommaso di York, Bonaventura, Vital di Furno, Pietro Olivi, Ruggero Marston, Riccardo di Mediavilla ed altri2. Inoltre in Matteo si vede anche una chiara assimilazione della filosofia di Avicenna3, similmente a quanto accade con Enrico di Gand e Duns Scoto. Con queste due filosofie, cioè con quella di Agostino e con quella di Avicenna, realizza un’amalgama di tendenza prevalentemente platonizzante, anche se non mancano alcuni elementi aristotelici ricevuti attraverso gli autori che alcuni decenni prima avevano sviluppato le grandi tesi di Aristotele, come p.e. Tommaso d’Aquino. In verità, è questo un appassionante momento della storia del pensiero in cui trovano posto tanto i grandi autori dell’antichità quanto le grandi sintesi che fioriscono con la maturazione della tradizione. Matteo, senza essere tuttavia uno di quei giganti della filosofia, ha una fine sensibilità speculativa che gli permette di cogliere i grandi temi e le grandi preoccupazioni epocali nella luce di una complessa ed armoniosa tradizione filosofica. Nel 1285, Giovanni Peckam scriveva a Roberto di Grossatesta che, in quel tempo, c’erano a Parigi due correnti di pensiero che destavano notevoli polemiche fra quei magistri che s’ispiravano alla filosofia di Tommaso d’Aquino e quelli che s’ispiravano soprattutto alla dottrina di San Bonaventura; fra loro, a 1 2 3 Cfr. G. B ONAFEDE , Matteo d’Acquasparta, A.Vento, Trapani 1968; I D ., Storia della Filosofia Medioevale, Pantea, Palermo 1945; ID., Il pensiero francescano nel secolo XIII, Mori e Figli, Palermo 1952; C. PIANA, Matteo d’Acquasparta, in Enciclopedia Cattolica, t. VIII, Roma 1952, pp. 488 ss.; E. LONGPRÉ, Matthieu d’Aquasparta, in Dictionnaire de Théologie Catholique, t. X, col. 375-389; V. DOUCET, Introductio critica de magisterio et scriptis Matthaei ab Aquasparta, in Quaestiones disputatae de gratia, Ad Claras Aquas, Florentiae 1935; E. GARIN, Storia della filosofia italiana, vol. I, Einaudi, Torino 1978. Pagine di grande interesse ed essenziali sono quelle di É. GILSON, Lo spirito della filosofia medioevale, Morcelliana, Brescia 1988, pp. 293-300. Fatta eccezione del Gilson, la bibliografia è tendenzialmente generica. Cfr. C. B ÉRUBÉ , Henri de Gand et Matthieu d’Aquasparta, interprètes de Saint Bonaventure, «Naturaleza y Gracia», 21 (1974), pp. 131-172. Cfr. A. MAURER, Being and Knowing, PIMS, Toronto 1990, p. 377. 198 Daniel Gamarra detta di Peckam, «in omnibus dubitabilibus sibi pene penitus hodie adversari exceptis fidei fundamentis»4: discutevano infatti di tutto ciò che consideravano materia adatta alla polemica, mentre l’unico punto di accordo che trovavano era quello della fede. Non è senz’altro una inesattezza storica pensare che Matteo non soltanto conosceva queste polemiche ma addirittura era inserito in questo vivace ambiente intellettuale5, non in un modo qualsiasi ma con una idea precisa riguardante i grandi problemi filosofici. Come ha anche ben segnalato L. Mauro, «nell’ambito del neo-agostinismo egli sembra peraltro essersi assunto il preciso compito di riproporre in modo puntuale ed organico i capisaldi della visione cristiana del mondo, dopo le aspre controversie che ne avevano profondamente scosso i consolidati quadri culturali»6. Le sue opere7, peraltro numerose, mostrano con chiarezza che Matteo conosceva con profondità i problemi centrali del dibattito parigino dell’ultimo periodo del XIII secolo; infatti di fronte ad essi dimostra un’intenzione altrettanto chiara di rispondere anche nei particolari a quelle discussioni che interessavano le sue preoccupazioni filosofiche e teologiche. Il noto studioso F. Ehrle non esita ad affermare che «in Matteo si manifestano a gran luce una conoscenza ed una penetrazione non comune degli scritti di Sant’Agostino»8, fatto che gli permette di trovare risposte adatte, cioè non generiche, in diretta connessione e ispirazione col pensiero appunto del vescovo d’Ippona. Nato intorno al 1240, originario di Acquasparta, in Umbria, abita a Roma dal 1279 fino alla morte, avvenuta nel 1302. Viene eletto generale dell’ordine francescano nel 1287, carica che occupa per circa due anni, cioè fino alla sua nomina di cardinale nel 1288. Dal suo arrivo a Roma inizia a svolgere la mansione di lettore della curia. Le sue quaestiones disputatae sono numerose, nonché i suoi commenti alla Sacra Scrittura, oltre ad un Commentarium super sententias, opere che corrispondono anche al suo soggiorno romano. Dopo essere stato nominato cardinale, ebbe un importante ruolo nella soluzione di alcuni problemi sorti fra 4 5 6 7 8 Registrum epistolarium J. Peckam, ed. C.T. Martin, London 1885, t. III, p. 896. MATTEO D’ACQUASPARTA, Il cosmo e la legge (Quaestiones disputatae de legibus), a cura di L. Mauro (Introduzione; Nota biografica; Nota bibliografica), Nardini Editore, Firenze 1990. E scrive L. Mauro nell’Introduzione: «Curriculum accademico e produzione esegetica e filosofico-teologica del magister francescano si collocano infatti pressoché interamente sullo sfondo di cruciali eventi culturali, che hanno avuto al loro centro l’intervento censorio del 7 marzo 1277 da parte dell’autorità ecclesiastica parigina» (pp. 7-8). L. MAURO, Introduzione, cit., p. 27. Cfr. V. DOUCET, o.c., pp. XXV-CLV. F. E HRLE , L’agostinismo e l’aristotelismo nella scolastica del secolo XIII, «Xenia Thomistica» (1925), pp. 63-75 (68). Una citazione sostanzialmente simile, ma tratta dal Longpré, compare in E. GARIN, Storia della filosofia italiana, cit., vol. I, p. 118. Cfr. O.M. BELMOND, À l’école de S. Agustin, «Études Franciscaines», 32 (1921), pp. 7-26 e 145-173; E. BETTONI, Matteo d’Acquasparta e il suo posto nella scolastica post-tomistica, in Atti del IV Convegno di Studi Umbri (Gubbio, 22-26 maggio 1966), Facoltà di Lettere di Perugia, Perugia 1967, pp. 231-248. 199 studi guelfi e ghibellini; e per incarico diretto di papa Bonifacio VIII lavorò alla ricomposizione delle relazioni fra la Sede Apostolica e Filippo, re di Francia9. Nonostante la sua attività pubblica, Matteo trovò anche il modo per continuare le sue disputationes durante il periodo romano. Dopo la morte, tuttavia, le sue opere e la sua figura persero di importanza o, per lo meno, destarono poca attenzione e solo di rado si trovano autori a lui poco posteriori che facciano uso dei suoi scritti. Per quanto riguarda il tema che abbiamo intenzione di studiare, Matteo rappresenta un momento caratteristico del pensiero scolastico-agostiniano, e questa personalità poco nota nella storia della filosofia del XIII secolo ci offre materiale certamente interessante per una riflessione teoretica sia sulla natura della conoscenza dal punto di vista che oggi potremmo chiamare della teoria del contenuto, sia sui nessi tra oggettività ed esistenza. 2. Il problema della conoscenza Per quanto presente in diversi testi, al problema della conoscenza Matteo dedica un’intera disputatio10, nella quale sono affrontati i grandi problemi che nella filosofia scolastica occupano tradizionalmente un posto di rilievo nella trattazione di questo argomento. Il suo punto di vista è, in un certo senso, un punto di vista duplice: adopera prospettive e soluzioni proprie tanto dell’aristotelismo quanto del pensiero agostiniano. Si potrebbe anche descrivere tale simbiosi come esigenza di sintesi tra, da un lato, l’attività dell’intelletto che può arrivare con la propria operazione e per se stesso alla conoscenza della realtà, e, dall’altro, il tema dell’illuminazione come causa della presenza delle idee nell’intelligenza stessa11. Matteo cerca una via intermedia: la sua è una posizione eclettica e misurata che mantiene un certo equilibrio, anche se problematico, fra l’aristotelismo classico e la teoria della conoscenza d’ispirazione agostiniana. Ciò nonostante, la sua preferenza per soluzioni agostiniane si manifesta in maniera assai chiara a livello di tesi fondamentali e convinzioni profonde, sebbene talvolta il modo di argomentare lasci pensare piuttosto a un metodo più aristotelico-scolastico. La tesi della passività dell’intelletto — in quanto riceve la species intelligibilis — e allo stesso tempo quella della sua attività — in quanto produce un’operazione diversa dalla pura ricezione della species e per la quale si definisce in 9 Cfr. una breve ma precisa biografia in L. MAURO, Nota biografica, cit., pp. 33-43. 10 MATTEO DE AQUASPARTA, Quaestiones disputatae de fide et cognitione, Ad Claras Aquas, Florentiae 1957. Da qui in poi le citazioni verrano fatte: QQC, numero di quaestio, numero di pagina e numero di riga. 11 Cfr. C. BÉRUBÉ, De l’homme à Dieu selon Duns Scot, Henri de Gand et Olivi, Edizioni Collegio S. Lorenzo, Roma 1983, pp. 231 ss., dove segnala come Matteo si trova in una situazione di una certa perplessità davanti a soluzioni diverse dello stesso problema dell’illuminazione. 200 Daniel Gamarra senso stretto il conoscere come tale —, manifesta questa tensione fra elementi trovati in filosofie che certamente hanno in comune un sottofondo antropologico di notevole spessore, ma che differiscono nel modo di descrivere il manifestarsi dell’attività animica. La forma della cosa, afferma Matteo, è in se stessa insufficiente a spiegare la conoscenza, giacché ha una certa incapacità di illuminare, di irrompere per se stessa nell’ambito intellettuale per muovere l’intelletto oppure per manifestarsi in esso. Allo stesso tempo Dio ha dato all’intelligenza una certa luce attraverso la quale si realizza la conoscenza. Neanche questa luce è però sufficiente se non interviene un’illuminazione (che non è né la forma che appartiene alla cosa né è azione del solo intelletto) da parte di Dio. C’è infatti una doppia provenienza della luce, cioè da parte della cosa e da parte dell’intelletto, ma sia l’una che l’altra hanno bisogno di un complemento che renda possibile la conoscenza e permetta la manifestazione della cosa come intelligibilità. Affinché la presenza della luce divina possa trovare una presenza giustificata nell’atto umano di conoscere, Matteo fa appello essenzialmente a tre motivi. In primo luogo, poiché il soggetto è stato creato ad immagine di Dio, Matteo afferma che esiste una certa connaturalità fra la facoltà intellettiva e la luce che essa riceve. Questo aspetto va però strettamente collegato col secondo dei motivi considerati: da parte dell’oggetto stesso c’è anche una certa necessità dell’illuminazione divina. Infatti, sia l’intelletto che la cosa sono imperfetti e non hanno in sé la capacità di pervenire alla piena luce, benché si tratti, in un caso e nell’altro, di una capacità e di una luce diversa12. In entrambi i casi (cioè riguardo all’intelletto e riguardo all’oggetto), tuttavia appare in maniera esistenzialmente evidente la finitezza che limita sia la soggettività sia l’oggetto in quanto creato. Ma proprio perché l’uomo è stato creato da Dio a sua immagine, il suo essere si trova aperto alla possibilità di ricevere la luce da Dio stesso, che con l’illuminazione adatta l’intelligenza creata a conoscere ciò che le si presenta nell’oscurità della propria finitezza, ma a sua volta illuminata. Il terzo motivo, infine, che propone Matteo è che la vera conoscenza diventa tale nel giudizio, o nel giudicare la somiglianza tra la cosa conosciuta e l’idea o modello esemplare che Dio ne ha. Così, l’intelligenza può anche arrivare a valutare la gradazione dell’essere della cosa attraverso tale giudizio comparativo, nella misura in cui l’intelletto può stabilire la vicinanza o la lontananza della cosa, in quanto alla sua perfezione, con la verità eterna. Appare così con maggiore chiarezza nella filosofia di Matteo non soltanto la possibilità ma soprattutto la necessità dell’illuminazione, giacché la luce per vedere l’esemplare eterno della cosa conosciuta proviene da Dio, che a propria 12 Si potrebbe anche dire che la luce dovuta, per quanto riguarda l’intelletto, è quella di portare all’intelligibilità compiuta l’essenza della cosa, mentre la luce dovuta per quanto riguarda la cosa stessa è in coincidenza con la sua perfezione ontologica e, con ciò, sarà più o meno intelligibile a seconda della sua perfezione entitativa. 201 studi volta perfeziona la luce intellettuale e la medesima intelligibilità dell’oggetto. Tale luce è, da un lato, pura luce, dall’altro è però un certo contenuto oggettivo, perché la verità eterna non è soltanto capacità di vedere, ma anche qualcosa che si vede nell’illuminazione, oppure nella sua propria luce13. In questa maniera è possibile indicare in quale direzione Matteo tenta di integrare la dottrina aristotelica della forma con quella agostiniana dell’illuminazione. È infatti necessaria l’esperienza della realtà extramentale, e accanto ad essa la capacità naturale della ragione, affinché la conoscenza si verifichi. La congiunzione di entrambe ha però il suo punto conclusivo nella conoscenza delle verità eterne14. In ogni caso, rimane chiaro il fatto che conoscere è un atto del conoscente, poiché la luce di Dio non sostituisce né l’intelletto né l’oggetto. Si tratta piuttosto della necessità di una luce che interviene nell’atto conoscitivo affinché l’uomo che conosce possa andare oltre la contingenza e possa contemplare l’intera realtà come ordine divino. D’altro canto, c’è a questo punto una flessione non priva di interesse nella gnoseologia di Matteo, che merita almeno di essere sottolineata. Infatti, simile maniera di conoscere rende notevolmente problematico il riconoscimento dell’individualità stessa dell’oggetto in quanto tale, sia perché l’intelligenza coglie la cosa sotto la sua forma intelligibile — ed in questo modo conosce quello che di universale e necessario c’è nell’oggetto —, sia perché l’illuminazione fornisce al soggetto un certo contenuto che anch’esso è a sua volta universale ed eterno. Le aeternae veritates non ammettono certamente una singolarizzazione gnoseologica, se direttamente attinte. Qual è quindi la situazione gnoseologica del singolare? Quale esperienza se ne potrebbe avere? Prima però di passare all’analisi dei testi di Matteo riguardanti i problemi fin qui riassunti, sembra opportuno considerarne alcuni aspetti teoretici che ne costituiscono in certo senso il presupposto. a) Da una parte, la conoscenza diretta del singolare15, sia nel pensiero di Matteo 13 Siamo parzialmente d’accordo con C. BÉRUBÉ, De l’homme à Dieu selon Duns Scot, Henri de Gand et Olivi, cit., p. 55, quando afferma che «Matthieu insiste, après Eustache d’Arras et Henri de Gand, sur l’atteinte des raisons éternelles seulement comme ratio cognoscendi et non comme ratio objecti. La lumière éternelle est un pur objectum motivum, jamais un objectum proprement dit. Elle fait tout voir, mais sans faire voir elle-même. […] Il n’est donc pas question, pour Matthieu, de la priorité de la connaissance de Dieu sur celle du créé, puisque Dieu n’est en aucune façon objet de connaissance, mais seulement principe»; anche se ci sembra troppo tassativa la sua affermazione giacché il modello divino è conosciuto quando la conoscenza è essenziale; il fatto che forse non sia immediatamente conosciuto spiega appunto la necessità della realtà della cosa affinché sia conosciuta, e si possa anche dire che si conosce veramente la realtà e non soltanto Dio. Comunque il punto resta fondamentalmente ambiguo in Matteo. 14 Cfr. G. BONAFEDE, Storia della Filosofia Medioevale, cit., p. 217. 15 Lo studio di questa tesi in Matteo sarà svolto nelle prossime pagine; per il momento intendo soltanto indicare il problema attraverso l’esplicitazione di alcuni presupposti, precisando così anche una chiave ermeneutica. 202 Daniel Gamarra che più in generale, presenta due aspetti che devono essere studiati insieme e sollevano a loro volta una domanda che va al di là della gnoseologia stessa e arriva fino alla metafisica. Il primo aspetto potrebbe essere definito come la determinazione del concetto di esistenza intenzionale, mentre il secondo riguarderebbe soprattutto l’aspetto contenutistico della presenza intenzionale in quanto tale; vale a dire che se entrambi gli aspetti, cioè esistenza e contenuto, appartenessero alla stessa unità dell’atto intenzionale, il singolo reale potrebbe essere sostituito in maniera completa attraverso una forma di presenza, sufficiente in ordine alla sua comprensione. E questa, come vedremo, sembra essere la tesi di Matteo. b) Il secondo aspetto, si potrebbe formulare nel seguente modo: l’intenzione, ossia la presenza oggettiva in quanto tale, avrebbe un valore conclusivo in rapporto all’intuizione stessa, in quanto la presenza intenzionale non rappresenterebbe un’essenza universale, benché l’intenzione abbia un carattere oggettivo. La capacità di conoscere il singolo in maniera spirituale e diretta implicherebbe, in questo senso, una non-universalizzazione dell’essenza singolare, anche se l’essenza sarebbe in qualche modo universale in quanto essenza (e ciò per non affermare un nominalismo che senza questo presupposto sarebbe assolutamente inevitabile). In altri termini, se la conoscenza del singolare non fosse allo stesso tempo conoscenza essenziale, il problema della conoscenza intellettuale diretta del singolare semplicemente non avrebbe senso. Ciò che invece vuol dire Matteo, e in generale altri autori sostenitori di questa tesi, è appunto il contrario, cioè che la conoscenza diretta del singolare è conoscenza essenziale, ma con la differenza, rispetto alla conoscenza generica ed astrattiva, che l’essenza viene conosciuta nella singolarità entitativa e come singolarità costituita. A partire da queste considerazioni appare con una certa nitidezza la questione della non distinzione tra la cosa e l’oggetto. Ne risulta che la sostituzione dell’ente con la forma intuita sarebbe una trasformazione dell’ente in pura presenza, dalla quale scaturirebbe una possibilità fenomenologica esauriente per quanto riguarda il contenuto dell’oggetto presente. Questa è infatti una possibilità teoretica derivata dalla tesi della conoscenza diretta del singolare e che bisognerà in qualche modo percorrere per mostrare la sua praticabilità, oppure per spiegare almeno le condizioni di possibilità della tesi stessa. Comunque, bisogna dire che tale possibile confusione ha una certa limitazione nella filosofia del Nostro, dal momento in cui le aeterne veritates non possono essere considerate come pura oggettività. Esse sono il modello della creazione e con ciò si preclude la possibilità di una considerazione immanentistica della realtà nel suo insieme. Perciò, anche se in sede storica questo problema rimane così configurato, in sede teoretica il problema spinge alla considerazione metafisica del fondamento dell’ente, dell’origine e della finalità come problemi posti a loro volta quali diversi aspetti suscitati dall’atto creativo16. 16 Si potrebbe prescindere filosoficamente da un atto originario primo? Così formulata, la domanda è radicale e mostra che la radicalità è oggetto necessario della domanda filosofica. 203 studi 2.1. La conoscenza del singolare Matteo dedica la quaestio IV delle Quaestiones de cognitione a risolvere il problema della conoscenza del singolare, con la consapevolezza di chi sa di essere di fronte a un problema difficile e secolare; in lui, infatti, si trovano risposte e tentativi di soluzione che vanno da Aristotele ad Agostino, e da questo ad Avicenna e agli autori del XIII secolo, suoi contemporanei. Un punto importante della teoria di Matteo riguardante la conoscenza del singolare consiste nella sua distinzione fra il fatto ed il modo dell’intellezione17, distinzione che a sua volta implica un’acuta penetrazione delle istanze psicologiche del problema. Nel considerare gli aspetti più tecnici dell’argomentazione, Matteo si riferisce, alla stregua di una conferma, a tre motivi che dovrebbero rafforzare in modo estrinseco ma al contempo decisivo le ragioni di ordine psicologico attraverso le quali intende provare la sua tesi. Nelle Quaestiones de cognitione, afferma che la conoscenza diretta del singolare risulta necessaria anche in quanto «convincit veritas fidei, auctoritas divini praecepti et violentia argumenti»18. Accanto alle ragioni gnoseologiche, questi motivi potrebbero sembrare in effetti troppo estrinseci e fuori dall’argomentazione in quanto tale. Valutando inoltre la questione soltanto da un punto di vista dialettico-argomentativo, si potrebbe anche dire che l’osservazione di Matteo non ha peso oppure interesse filosofico. In realtà, si tratta della cornice entro la quale l’argomentazione viene svolta, e con ciò Matteo vuol segnalare, anche se indirettamente, che il fondamento della conoscenza si trova vincolato alla questione del fondamento del mondo e dell’uomo in quanto tale, e cioè che la conoscenza del singolare è qualcosa di più che un avvicinamento empirico del soggetto al mondo e che proprio nell’atto di conoscerlo si rivelerà qualcosa di eterno che appartiene alla singolarità, la quale ne è rivelatrice. Come primo passo, Matteo nega esplicitamente, e in polemica con Tommaso d’Aquino19, che la conoscenza del singolare si produca attraverso la reflexio ad phantasmata; sostiene invece la tesi della sua conoscenza diretta: «bisogna dire, senza dubbio, che il nostro intelletto conosce o coglie il singolare»20; egli critica quanti affermano che, poiché l’oggetto dell’intelletto è l’universale, tale intelletto 17 Cfr. C. BÉRUBÉ, La connaissance de l’individuel au Moyen Age, cit., p. 94. Bérubé discute la questione della conoscenza del singolare in un contesto storico più ampio, e segnala nello stesso luogo che con Matteo «la question de l’intellection directe du singulier fait un grand pas, car, sans se dégager du plan théologique […] elle accède véritablement au plan philosophique et s’appuie sur une psychologie consistante de la connaissance». 18 QQC, IV, 279, 16. 19 Quasi sicuramente Matteo si riferisce a TOMMASO D’AQUINO, De veritate, q. 2; cfr. C. BÉRUBÉ, La connaissance de l’individuel au Moyen Age, cit., p. 95; anche, H.M. BEHA, «Franciscan Studies», 20 (1960), pp. 161-204; 21 (1961), pp. 1-79; pp. 383-465. 20 QQC, IV, 279, 16: «Dicendum est quod intellectus noster cognoscit sive intelligit singularia». 204 Daniel Gamarra non può conoscere per sé il singolare21. In altri termini, Matteo non vedrebbe in questa tesi una limitazione della facoltà intellettiva, ma soprattutto due momenti diversi — ma allo stesso tempo integrati — di conoscenza. Di fronte però alla tesi della sola conoscenza dell’universale da parte dell’intelletto, il Nostro definisce la propria con chiarezza e precisione: «L’intelletto conosce veramente i singolari attraverso species singolari e conosce gli universali attraverso species universali», in quanto ottiene «in primo luogo la species singolare e a partire da questa produce il concetto universale; e tutto questo, prima di conoscere l’universale stesso»22. Matteo esprime questa opinione in diversi luoghi dell’opera che abbiamo di fronte, mentre testi più estesi precisano, a loro volta, aspetti diversi che completano la tesi principale. I seguenti rappresentano tre passi consecutivi che il Nostro dà al fine di esprimere il suo pensiero sul particolare: 1. «Affermo quindi che i singolari sono presenti nell’intelletto non per sé ma attraverso le loro species»23. 2. «Il singolare è conosciuto attraverso la species che è nell’intelletto, la quale rimane in un certo senso nella sua natura materiale, e in un certo senso diventa immateriale. È materiale in quanto rappresenta e conduce alla conoscenza dell’‘aggregato’ di materia e forma; ed è invece immateriale perché astrae dalla cosa esteriore e perché non ha l’essere nella materia»24. 3. D’altra parte, Matteo stabilisce un punto di unione fra l’ente singolare e la species oppure la presenza mentale della cosa in quanto materiale in una certa essenza individuale; si tratta di una corrispondenza a livello intenzionale ed ontologico allo stesso tempo: «dico quindi che, benché l’essenza sia la stessa forma specifica — la stessa, affermo, nella specie [intenzionale] —, tuttavia una è la forma individuale ed altra, secondo Riccardo di S. Vittore, quella della sostanzialità; non esiste perciò inconveniente che un’altra sia l’essenza singolare. Donde l’essenza generale di uomo è l’umanità, l’essenza di Daniele la ‘danielità’, come dice Riccardo, nel II libro [De Trinitate], cap. 12»25. 21 QQC, IV, 282, 16: «Quidam enim dicunt quod, quia obiectum intellectus est quod quid est et universale, intellectum numquam per se singulare cognoscit, immo abstrahit speciem intelligibilem ab omnibus principibus individuantibus». 22 QQC, IV, 285, 5: «Propterea dicendum, sine praeiudicio, quod revera intellectus cognoscit et intelligit singularia per se et proprie, non per accidens, ita quod singularia cognoscit per species singulares, universalia per species universales; nec species universalis sufficit ad cognoscendum singularia. […] Prius igitur defertur species singularis ad intellectum et ex illa colligit intentionem universalem, quam ipsum universale intelligat». 23 QQC, IV, 287, 17: «Dico enim quod singularia sunt in intellectu non per se, sed per suas species». 24 QQC, IV, 287, 28: «Singulare intelligitur per speciem quae est apud intellectum, quae quidem quodam modo manet materialis, quodam modo fit immaterialis. Materialis quidem manet, quia repraesentat et ducit in cognitionem totius aggregati ex materia et forma; fit autem immaterialis, quia abstrahitur a re extra nec habet esse in materia». 25 QQC, IV, 288, 10: «Dico quod, quamvis eadem sit quidditas, sicut eadem forma specifica — eadem dico in specie — alia tamen et alia est forma individualis, et, secundum 205 studi Non sembra ancora opportuno dedurre conclusioni specifiche che riguardano direttamente il nostro tema, perché è ancora necessario fare un successivo passo che permetta di avere una veduta d’insieme più chiara soprattutto per quanto riguarda i rapporti fra essenza e oggettività. Questi punti che appaiono nella teoria della conoscenza di Matteo, in particolare nelle sue tesi sulla conoscenza del singolare, saranno più volte ripetuti lungo il quattordicesimo secolo e poi nella più tardiva scolastica, soprattutto in quel suo momento di rinascita lungo i secoli XVI e XVII. Da qui anche l’interesse che presenta questo autore in materia gnoseologica strettamente legata a un problema metafisico radicale com’è quello costituito dall’essenza finita26. La tesi della conoscenza del singolare implica in realtà un insieme di tesi riguardante l’illuminazione, la costituzione dell’oggettività e la conoscenza come attività soggettiva. Riassumendo, ci troviamo davanti a una chiave di pensiero portatrice di una interiore tensione, e cioè quella che appare nella considerazione dell’universale in re che potrebbe essere considerata come una costante metafisica e gnoseologica della filosofia occidentale. 2.2. L’illuminazione Allo scopo di precisare meglio il ruolo dell’illuminazione nella teoria della conoscenza di Matteo di Acquasparta, oltre agli accenni fatti in pagine precedenti, possono essere considerati altri aspetti essenziali che nel suo insieme definiscono la questione in maniera assai chiara. In questo modo, sarà anche possibile mettere in luce i fondamenti metafisici che contribuiranno alla definizione dell’esse obiectivum; allo stesso tempo questa maniera di procedere permetterà di vedere il senso che ha nel pensiero di Matteo il problema della conoscenza del non-esistente. Quest’ultimo aspetto non sempre è stato considerato in maniera particolareggiata, pur tuttavia resta decisivo nella sua teoria della conoscenza. Avevamo già considerato che secondo Matteo d’Acquasparta sono tre gli elementi necessari che intervengono nella realizzazione della conoscenza: una certa attività soggettiva, l’oggetto stesso e l’illuminazione divina che, nel loro insieme, conformano un’unità attivo-conoscitiva. C’è da dire che per il Nostro esiste una forma tipica nella quale si manifesta in maniera propria questa unità di azione, anche se con una chiara accentuazione dell’illuminazione appunto, ed è quella Richardum de S.Victore, alia substantialitas; et pro tanto non est inconveniens quod alia quidditas singularis. Unde quidditas generalis hominis est humanitas, quidditas Danielis est danielitas, ut dicit Richardus, II libro, cap. 12». 26 Sul problema della conoscenza del singolare secondo Matteo d’Acquasparta, cfr. H.D. S IMONIN , La connaissance humaine des singuliers matériels d’après les Maîtres Franciscaines de la fin du XIIIe siècle, «Melanges Mandonnet», t. II, pp. 289-303, Vrin, Paris 1930; S. DAY, Intuitive cognition. A key to the significance of latter Scholastics, St. Bonaventure Institute, New York 1947; G. PAYNE, Cognitive Intuition of Singulars Revised, «Franciscan Studies», 41 (1981), pp. 346-384. 206 Daniel Gamarra della conoscenza degli esseri immateriali come, p.e., l’anima. Il motivo di questa forma pura di attività intellettuale è dovuta al fatto che la conoscenza sensibile non ha a che fare con essa. Con ciò Matteo intende rendere più chiara la questione della presenza oggettiva nell’anima senza intervento dei sensi, il che costituisce infatti un’affermazione in obliquo della causalità oggettiva dell’illuminazione. Nella conoscenza dell’anima non intervengono infatti i sensi; allo stesso modo in cui nella conoscenza di alcuni principi, la cui verità è indubitabile, non si vede quale possa essere la loro indole empirica che origina, dal punto di vista oggettivo, la loro conoscenza, come è il caso del principio «il tutto è maggior che la parte». L’evidenza di questa proposizione non richiama, al dire di Matteo, nessuna conoscenza sensibile. Così, per conoscere queste realtà immateriali, l’intelligenza riceve una particolare illuminazione in maniera tale da poterle conoscere non solo in se stesse, ma anche attraverso le rationes aeternae. Questo infatti accade — e aggiunge Matteo che c’è una certa esperienza di questo fatto — nella misura in cui possa esserci un non esse in rebus e che, al contrario, si costituisca un esse in intellectu, cioè il non ens (si deve però ancora vedere in che senso) potrebbe tuttavia presentarsi come un certo oggetto di conoscenza attraverso appunto le rationes aeternae27. Benché l’anima si trovi in una situazione di unione col corpo, in quanto forma di esso, e pertanto è il principio attivo di tutte le facoltà compresi i sensi, la conoscenza ha un punto finale e definitivo nel modo più spirituale di possedere l’oggetto. La teoria dell’astrazione risponde infatti in certo modo a questo problema, in quanto l’intelligenza spiritualizza il contenuto oggettivo che ha avuto un’origine sensibile, e fa sì che l’oggetto sia intellectus actu. Questo, comunque, ha soprattutto un valore di spiegazione della conoscenza di origine sensibile, ma resta senza risposta adeguata il problema posto prima, cioè quello delle realtà immateriali, giacché la loro conoscenza non potrà essere, per quanto detto, una conoscenza astrattiva in senso rigoroso. Fra l’aristotelismo e le tesi di origine agostiniana presenti nel pensiero di Matteo, egli trova una via media per spiegare la conoscenza o, meglio ancora, la causa ultima della conoscenza: poiché, da una parte, l’astrazione in senso aristotelico risulta insufficiente28 — e in certo senso non adeguata — e, dall’altra, un platonismo ad oltranza gli sembra un’opinione «omnino erronea. Quamvis videtur enim stabilire viam sapientiae destruit tamen viam scientiae»29. Per queste ragioni afferma il Nostro che «la conoscenza è causata sia da ciò che è inferiore 27 Cfr. QQC, I, 215, 22. Uno studio molto interessante che mostra il problema del non-esistente ed il suo rapporto con l’onnipotenza divina, è il seguente: A.L. GONZALEZ, El problema de la intuición de lo no-existente y el escepticismo ockhamista, «Anuario Filosófico», X/2 (1977), pp. 115-143. 28 Cfr. QQC, II, 231, 22. 29 QQC, II, 232, 4. 207 studi sia da ciò che è superiore, a partire dalle cose esterne e da quelle ideali»30. Questa sua tesi non significa quindi che in ogni atto di conoscere sono le cose esterne e quelle ideali a confluire nell’atto conoscitivo, apportando ognuna la sua parte; vuol dire, invece, che se la conoscenza ha avuto un momento esperienziale, questo non è sufficiente affinché l’oggetto sia essenzialmente presente nell’intelletto, ma ha ancora bisogno della cosa ideale. Mentre è invece possibile — apre cioè in maniera evidente la possibilità effettiva che possa accadere il contrario — che la ratio aeterna sia l’unica a dare qualche contenuto oggettivo all’intelletto in actu, come nel caso degli esempi finora considerati, cioè della conoscenza dell’anima oppure di certi principi in se stessi evidenti31. Da qui Matteo può distinguere tre ordini di adeguazione, oppure tre momenti veritativi in quanto s’intende la verità come adeguazione: la verità logica, che è l’adeguazione dell’intelletto con la cosa esterna; la verità ontologica, che è invece adeguazione della cosa con l’intelletto — e qui Matteo introduce una considerazione sul limite oggettivo oppure sull’attività di conformazione dell’oggettività —; ed in terzo luogo, la verità divina che è l’adeguazione della cosa con l’intelletto divino. In un testo non troppo breve ma chiaro, che ci permettiamo di citare per esteso, Matteo introduce delle precisioni di grande interesse: «la verità, infatti, d’accordo con la sua propria essenza è la ragione della conoscenza e della manifestazione, come dice Ilario, giacché la verità è dichiarativa dell’essere. Questa ragione, in quanto si trova impressa nella creatura, cioè in quanto è la sua propria forma o essenza, non è sufficiente né per manifestarsi e dichiararsi, né per muovere l’intelletto. Perciò Dio concede alla nostra intelligenza una certa luce intellettuale con la quale astrae la species delle cose conosciute (rerum obiectarum), attraverso le cose sensibili, che purifica e prende le loro essenze, le quali costituiscono in effetti l’oggetto dell’intelletto. Concede Dio anche una luce naturale con la finalità di giudicare e con la quale l’intelligenza discerne le cose buone da quelle cattive, le cose vere da quelle false. Non è però sufficiente neanche questa luce, poiché è deficiente ed opaca a meno che non si ricolleghi con la luce eterna, che è ragione perfetta e sufficiente per conoscere, e in questo modo possa 30 QQC, II, 232, 14: «Et ideo viam mediam puto sine praeiudicio esse tenendam, dicendo quod nostra cognitio causatur et ab inferiori et a superiori, a rebus exterioribus et a rationibus idealibus». Cfr. F. PREZIOSO, L’attività del soggetto pensante nella gnoseologia di Matteo d’Acquasparta e di Ruggero Marston, «Antonianum», 25 (1950), pp. 259-326. 31 V. SORGE, Gnoseologia e teologia nel pensiero di Enrico di Gand, Loffredo, Napoli 1988, p. 131: «secondo l’interpretazione del Bettoni che pure si è soffermato su tale complessa questione, gli agostiniani che limitano l’efficacia dell’illuminazione alla sola impressione all’anima umana dei primi principi sarebbero identificabili in Guglielmo d’Auvergne, Alessandro di Hales, San Bonaventura e Matteo d’Acquasparta». Forse, per considerare questo problema nel suo insieme, si dovrebbero tenere presente i temi che studieremo in seguito, cioè quelli riguardanti lo statuto gnoseologico e metafisico dell’essenza, dal quale si può concludere che in Matteo difficilmente l’illuminazione si limita ai primi principi. 208 Daniel Gamarra raggiungere e, in un certo senso, tocchi l’intelletto che arriva a quello che c’è di più alto»32. Matteo risponde così al problema della conoscenza in quanto sufficienza, oppure come momento non proseguibile di rapporto con l’intelligibilità, poiché la conoscenza vera è stata garantita dalla stessa verità divina, creatrice della verità finita. Rimangono però altre questioni sollevate senza una soluzione soddisfacente e che potrebbe soltanto darsi a partire da una considerazione ‘meno metafisica’ dell’oggettività, poiché per Matteo le verità eterne costituiscono un certo allargamento dell’oggetto inteso come finitezza fino alla infinitezza di un altro soggetto diverso da quello umano, cioè Dio, e con ciò l’oggetto ha a che vedere col pensiero necessario e creativo. Ma è questa una difficoltà per spiegare la conoscenza vera oppure la portata veritativa della conoscenza umana? Da un punto di vista creazionistico, com’è senz’altro quello di Matteo e della filosofia cristiana in generale, la coincidenza delle essenze delle cose con le loro idee in Dio si può presentare come si presenta al nostro, alla maniera di sigillo definitivo della trascendenza di Dio, della trascendenza conoscitiva. Con ciò, la dimensione trascendente dell’antropologia trova anche un fondamento operativo nella stessa natura umana in quanto capace di conoscere. Il punto problematico si trova comunque nella dimensione meta-esperienziale dell’illuminazione, sia che la si consideri come luce nell’intelligenza, sia come luce dell’essenza. La domanda sarebbe: non è possibile per l’uomo raggiungere la verità delle cose senza la mediazione della luce eterna? E se la risposta dovesse essere negativa: quale sarebbe allora il modo per trovare la prova metafisica di tale atto operante nel conoscente e nelle essenze? La prova dell’illuminazione non dovrebbe essere diversa dall’affermazione dell’intelligibilità dell’essere e, se così fosse, il fondamento della risposta si troverebbe piuttosto nella linea trascendentale del verum, da dove potrebbe anche scaturire la prova metafisica dell’esistenza dell’Essere supremo che nel causare l’essere causa l’intelligibilità. Se la conoscenza fosse soltanto un rapporto fra luci, si potrebbe obiettare a Matteo che quello che si conosce non è l’essere ma l’intelligibilità; quindi, il problema della conoscenza rimarrebbe senza risposta, se si suppone che la conoscenza ha come oggetto l’essere. 32 QQC, II, 233, 1: «Veritas autem secundum rationem suam est ratio cognoscendi et manifestandi, prout dicit Hilarius quod veritas est declarativa esse. Ista ratio ut est impressa creaturae, hoc est ipsa sua forma vel quidditas non est sufficiens ad se manifestandum nec (ad) movendum intellectum. Ideo providit Deus nostrae menti quoddam lumen intellectuale, quo species rerum obiectarum abstrahit a sensibilibus, depurando eas et accipiendo earum quidditates, quae sunt per se obiectum intellectus. Indidit nihilominus naturale iudicatorium, quo discernat et iudicet bona a malis, vera a falsis. Sed nec istud lumen est sufficiens quia defectivum est et opacitati admixtum, nisi subiungatur et connectatur illi lumini aeterni, quod est perfecta et sufficiens ratio cognoscendi, et illud attingat et quodam modo contingat intellectus secundum sui supremum». 209 studi Perciò, Matteo in un certo senso risponde alla domanda posta ed in un altro senso no. La risposta positiva è infatti l’illuminazione che ha a sua volta, indipendentemente dalla questione posta nel paragrafo precedente, una dimensione a nostro avviso valida se metafisicamente fondata. La risposta non sufficiente invece consiste nel mettere l’oggetto stesso in una situazione metafisica, o più esattamente come una condizione metafisica generale; l’oggetto, invece, altro non è se non oggettività logica, o più rigorosamente intenzionalità in atto, che viene per così dire messa in disparte quando Matteo dice che quell’elemento inferiore assieme con l’intelletto è insufficiente per giustificare la conoscenza di tutta la realtà, perché con ciò introduce una limitazione gnoseologica alla metafisica, nella misura in cui la possibilità di verità verrebbe attuata con una certa indipendenza dall’essere. Paradossalmente, in tal modo la sufficienza conoscitiva intesa soltanto in termini di luce implicherebbe una riduzione oggettiva della metafisica. Rimane comunque come punto saldo la realtà delle essenze, perché il Nostro non è nominalista ed è questo, per l’appunto, quello che rende possibile la sua riflessione sulla conoscenza in termini di luce. Nel corpus della stessa quaestio, nel suo momento conclusivo, Matteo riassume il suo pensiero con queste parole: «Tutto ciò che è conosciuto con certezza dalla conoscenza intellettuale, si conosce nelle verità eterne e nella luce della prima verità, come è stato spiegato, concludendosi così la natura conoscente e la cosa conoscibile, il mezzo certo ed il giudizio retto; in questo modo la ragione del conoscere la realtà materiale ha origine nelle cose esteriori da dove si prendono le species delle cose che verranno conosciute; tuttavia la ragione formale della conoscenza è, in parte, interiore, cioè la luce della ragione, e in parte viene dal superiore che si presenta in maniera completiva e consumativa attraverso le regole e le ragioni eterne»33. 2.3. Il problema della «natura communis» Più volte è stata rilevata la vicinanza, per lo più critica, fra Matteo di Acquasparta e Duns Scoto; esiste senz’altro un fondamento sufficiente nei testi di entrambi per affermare tale vicinanza in alcune tesi non certamente secondarie34. Tra le varie possibilità ce n’è una che risulta particolarmente rilevante 33 QQC, II, 240, 21: «Sic igitur dico quod quidquid cognoscitur certitudinaliter cognitione intellectuali cognoscitur in rationibus aeternis et in luce primae veritatis eo modo quo fuit explicatum, concludente hoc et natura cognoscente et re cognoscibili, et medio certo et iudicio recto; ita quod ratio cognoscendi materialis est ab exterioribus, unde ministrantur species rerum cognoscendarum; sed ratio formalis partim est ab intra, scilicet a lumine rationis, partim a superiori, sed completive et consummative a regulis et rationibus aeternis». 34 Non è nostra intenzione dimostrare qui la vicinanza fra i due seguendo un metodo storiografico, ma soprattutto segnalarla in modo materiale, ovvero a modo di indicazione tematica. 210 Daniel Gamarra per le implicazioni che ha riguardo al nostro tema, e che in maniera principale avvicina Duns Scoto a Matteo oppure, se si vuole, fa di quest’ultimo un antecedente diretto di Scoto. Si tratta infatti della difficile questione della natura communis, materia della quale entrambi hanno parlato e sulla quale hanno manifestato una preoccupazione che possiamo definire primaria. Nelle stesse Quaestiones de fide et cognitione, Matteo riporta dei testi in gran misura coincidenti nel suo nucleo fondamentale con la nozione di natura communis di Duns Scoto. «Quando dico ‘uomo’ — afferma Matteo — mi riferisco all’universale, e quando dico ‘quest’uomo’, mi riferisco al singolare. L’universale in quanto nomina qualcosa, non è nell’anima ma è una specie universale, cioè, una natura comune (natura communis), a partire dalla quale si forma il concetto a causa della convenienza di molti, e in questo senso si chiama universale. […] Di conseguenza l’intelletto è quello che realizza la predicazione o composizione attraverso la specie che ha in se stesso, chiamata anche intenzione; tuttavia, a questa corrisponde, com’è stato detto, la natura comune, giacché ‘quest’uomo’ è ‘uomo’»35. Dal testo, considerato nella sua totalità, si possono trarre i seguenti punti di rilievo: 1. L’universalità si trova in maniera propria nella species, oppure nella cosa in quanto oggetto, e con ciò Matteo afferma che è una caratteristica del modo di conoscere; benché, 2. il fondamento dell’universale è presente nella natura communis, la quale si trova in ogni individuo (hic homo est homo); 3. la natura communis è diversa dai principi d’individuazione che costituiscono l’individuo in quanto tale, giacché «in quolibet enim particulari est aliquid, quo distinguitur ab alio»36; 4. la natura communis non si trova nella realtà astratta absolute ma in quanto si fa una comparazione fra gli individui. Così, essa è un certo risultato dell’operazione intellettiva, altrimenti si perderebbe il senso dell’atto di conoscenza 35 Quaestiones de fide, q. I, ad 10: «Quod dico ‘hominem’, dico universale; quod dico ‘hunc hominem’, dico singulare. Universale, prout dicit rem aliquam, non est in anima, sed species universalis, id est istitutus naturae communis, ex qua colligit intentionem hanc propter convenientiam multorum, et vocat universale. Sic ergo universale est in rebus secundum veritatem, sed secundum intentionem est in anima; et secundum hoc dicit Commentator quod ‘intellectus facit universalitatem in rebus’. — Quod dicit, universale est de essentia rei, dico quod non est de essentia rei tanquam essentiale principium, sed est rei essentiale. —Quod vero dicit, quod universale est pars definitionis, dico quod universale accipitur pro eo quod est magis commune, cuiusmodi est genus, sicuti ‘animal’ est communius quam ‘homo’. Sed ‘animal universale, ut dicit Philosophus, I De anima, aut nihil est aut posterius est’. — Quod quaerit, quid est illud quod praedicare est actus animae; ergo intellectus est ille qui facit praedicationem vel compositionem talem, per speciem quam habet in se sive intentionem. Huic tamen respondet in re, ut dictum est, illa natura communis: vere enim hic homo est homo». 36 Ibidem. 211 studi intellettuale in quanto astrazione, e, d’altra parte, l’individualità si renderebbe problematica davanti ad una realtà generica. Queste brevi considerazioni ci mettono dinanzi a due aspetti di importanza fondamentale: il concetto stesso di natura communis e anche un preludio di quello che Scoto chiamerà haecceitas e che, anche se con meno chiarezza, Matteo in qualche modo afferma: «et haec sunt principia particularia, ut sua anima, suum corpus; est etiam aliquid, quo convenit cum quolibet alio, sicut anima et corpus. Unde et est hic homo ex hac anima et hoc corpore compositus, et homo compositus ex anima et corpore»37. Oltre però alla maggiore o minore importanza storica di questa vicinanza fra Matteo e Duns Scoto, il punto che ci interessa sottolineare di più è quello che si riferisce allo statuto metafisico della natura communis nel senso che essa implica una presenza essenziale nell’individuo. Con ciò il Nostro trova un momento metafisico fondante della verità, ossia del rapporto dell’intelligenza con la realtà extramentale che combacia in modo assoluto con l’adeguazione veritativa fra l’intelletto e la ratio aeterna. A questo punto però è anche necessario menzionare quello che è stato oggetto del paragrafo precedente, cioè l’accentuazione del carattere secondario del momento sensibile della conoscenza, poiché l’atto proprio dell’intelligenza è la conoscenza di essenze, oppure di naturae communes. 3. La conoscenza del non-esistente 3.1. L’indifferenza dell’essere Non troppe volte si trova un problema di questo genere nella storia della filosofia. Sembra addirittura un controsenso parlare della possibilità della conoscenza di qualcosa che non esiste; almeno, il più elementare senso comune si rifiuta di ammettere una questione simile. Secondo il linguaggio comune, un non-esistente è qualcosa che non è, che non ha alcuna realtà oppure che è qualcosa di finto. Se si va oltre il significato più immediato dell’espressione, tuttavia, si potrebbe trovare una dimensione metafisica nascosta dietro questa apparente mancanza di senso. Quindi, perché proprio questo problema? L’origine non è, almeno in linee generali, una astrusa elaborazione concettuale di Matteo di Acquasparta. Nelle sue Quaestiones de cognitione ci troviamo di fronte al seguente titolo: «Quaestio est utrum ad cognitionem rei requiratur ipsius rei existentia aut non ens possit esse obiectum intellectus»38. Il problema è invitante e l’apporto di Matteo in questo testo all’elaborazione del problema dell’esse obiectivum ha senz’altro degli spunti pieni d’interesse. Comunque, come primo passo, prima di 37 Ibidem. 38 QQC, I, 212 201. Daniel Gamarra entrare nel merito della questione, bisogna chiarire le condizioni di possibilità della domanda stessa. Nelle pagine precedenti abbiamo studiato alcuni aspetti di particolare rilievo della teoria della conoscenza di Matteo e il nuovo problema che si pone adesso ci offre una chiave più generale e anche una spiegazione più profonda per poter dare un’interpretazione più coerente del pensiero del Nostro. Potrebbe anche sembrare una questione secondaria. Infatti, la conoscenza di quello che non esiste o che non è, ha tutta l’apparenza di un problema artificioso; ma non è così. Quello che non è una cosa (che non esiste come tale) con una realtà fisica — se sia materiale o spirituale per il momento non interessa — potrebbe tuttavia esistere come una realtà oggettiva. Con questa affermazione troviamo in maniera piuttosto virtuale, anche se ormai chiara come indicazione, una risposta alla possibilità stessa della domanda di Matteo, benché la sua risposta ci offra degli aspetti complessi ed articolati. Il problema posto da Matteo implica la previa definizione di un cospicuo numero di nozioni metafisiche. Infatti, soltanto la possibilità stessa di porre il problema significa che l’entità definita attraverso o a partire dalla non-esistenza, sotto qualche aspetto o punto di vista tuttavia è. Matteo oltre a conoscere in maniera profonda e vasta il pensiero di Agostino (da qui fondamentalmente l’elemento platonizzante del suo pensiero), ha letto anche con profondità Avicenna, ed è da quest’ultimo autore che accetta la distinzione fra essere ed essenza39. La tesi avicenniana implica però una definizione in sede gnoseologica, cioè non ha una dimensione soltanto metafisica40. Dice Matteo: «dal punto di vista dell’essenza, come afferma Avicenna (V Metaphysicae, cap. 2, f. 87), in ogni essere creato si distingue l’essenza dall’essere; l’essere non fa parte dell’essenza (nec est de intellectu quidditatis), la quale è indifferente all’essere ed al non-essere», e propone di conseguenza la tesi: «così non importa che la cosa esista per conoscere la sua essenza»41. Si può vedere qui una chiara dipendenza di Matteo dalle suddette tesi di Avicenna. In effetti, l’insistenza del filosofo arabo nella considerazione dell’essere come accidente estrinseco all’essenza, ha una profonda influenza nella metafisica degli ultimi secoli del Medioevo. Non è affatto soltanto Matteo d’Acquasparta ad essere vicino a questa opinione avicenniana, ma, se si può dire così, Matteo è uno in più di quella numerosa serie di autori medioevali che manifestano di aver assimilato in maniera pregnante la filosofia di Avicenna. Nell’impostazione di questo problema, comunque, non troviamo soltanto una 39 Cfr. C. BÉRUBÉ, o.c., p. 232. 40 Per approfondire questa tesi, cfr. D.O. GAMARRA, Esencia y objeto, Peter Lang, BernFrankfurt a.M.-Paris 1990, cap. I. 41 QQC, I, 212, 22: «Ex parte quidditatis, quoniam ut dicit Avicenna, V Metaphysicae (cap. 2, f. 87) et in multis locis, in omni creato differt quidditas et esse; nec esse est de intellectu quidditatis, immo indifferenter se habet ad esse et non esse. Et ideo nihil refert intelligere quidditatem rei absque eo quod res sit in actu». 213 studi spiegazione che si possa ridurre a un puro e semplice dato storico di fatto; bensì è lo stesso Matteo colui che apporta una teoria che gli appartiene in maniera originale, anche se con un’evidente dipendenza da Avicenna. L’astrazione, l’illuminazione, l’attività del soggetto sono senz’altro elementi necessari per il compimento dell’atto conoscitivo. Il problema però si complica notevolmente quando appare il regno di essenze separate dall’esistenza. Conoscere sotto la forma delle ragioni eterne e attraverso di esse è parallelo ad affermare che la conoscenza ha come oggetto ciò che è immutabile, ovvero la verità eterna, allo stesso modo in cui Dio conosce, oppure così come le essenze sono in Dio. Non consiste il problema soltanto nel conoscere la verità necessaria, perché questo sarebbe senz’altro una tesi, anche se troppo generica, allo stesso tempo comune a quasi tutta la filosofia medievale. Il problema è soprattutto che la conoscenza umana deriva in un certo senso da Dio, poiché Egli illumina e nell’illuminare presenta un certo oggetto sotto forma di essenza eterna e nel modo in cui essa è in Lui. La tesi proposta da Matteo conduce a questo. L’esistenza è, in questo contesto, sinonimo di contingenza ontologica. Così, se l’oggetto della conoscenza fosse l’esistente, la conoscenza, poiché è adeguazione intenzionale ma anche una certa adeguazione ontologica (l’illuminazione) fra l’oggetto e il conoscente, otterrebbe un risultato ancorato nella contingenza stessa ed avrebbe la stessa fluidità temporale propria degli esistenti singolari. In questo modo, l’essenza in quanto conosciuta si troverebbe in una situazione di cambiamento costante. Proprio per questo «l’adeguazione è un certo rapporto ad un’altra cosa. […] C’è per tanto adeguazione quando l’intelletto apprende o conosce l’essenza così come essa è; giacché non la conosce nel suo rapporto con l’essere oppure con il non essere, né in un luogo né nel tempo, come accade con l’esistenza»42. Gli argomenti che presenta Matteo al fine di collocare la conoscenza nell’ambito essenziale dell’ente, hanno una precisione crescente: «Quello che è vero non è il nulla, bensì quello che è (quod quid est) oppure quello che la cosa è […]. Quando conosco l’uomo, conosco l’uomo reale, cioè quello che l’uomo è in modo immutabile. Neanche Agostino aveva considerato che quello che è (id quod est) è l’essere in atto, perché tale essere si corrompe; la verità invece non si corrompe insieme alle cose corruttibili: sempre rimane la ragione della cosa»43. L’atto dell’intelligenza che conosce l’essenza così come l’essenza è, è 42 QQC, I, ad 2, 216, 19: «Adaequatio quaedam relatio est et ad aliud. […] Praeterea dico quod est adaequatio quia intellectus apprehendit vel intelligit quidditatem eo modo quo est; quia non intelligit eam concernendo esse vel non esse, locum vel tempus, sicut de ratione sua concernit, ideo intellectus sibi adaequatur». 43 QQC, I, ad 5, 217, 5: «Quod autem ‘verum’ non est nihil, immo est illud ‘quod quid est’, vel est illud quod res est […]. Cum enim intelligo quid est homo, intelligo hominem realem, hoc est ‘id quod homo est’ immutabiliter. Nec intelligit Augustinus per ‘id quod est’ esse actu, quoniam illud esse corrumpitur, veritas autem secundum ipsum non corrumpitur rebus corruptis; semper enim manet ratio rei». 214 Daniel Gamarra anch’esso semplice e assoluto, cioè senza alcun riferimento spazio-temporale: «L’intelletto ha un’operazione assoluta e semplice, attraverso la quale astrae assolutamente dagli esistenti; di conseguenza tale operazione non dipende dall’esistere o dal non esistere delle cose»44. Questa tesi di Matteo manifesta che l’esse ha per lui un valore esistenziale in senso stretto, e la distinzione fra l’essere e l’essenza, che in questo senso si rifà nuovamente ad Avicenna, implica in realtà una distinzione fra essere ed esistenza, in quanto l’essenza è quello che è, cioè l’essere immutabile, mentre l’esistenza è la cosa in atto, che anche è, ma in maniera contingente e mutabile. Allo stesso tempo però quello che c’è d’intelligibile nella cosa attuale non è primariamente l’esistenza, bensì l’essenza indifferente all’esistenza, oppure assoluta, perché l’esistenza non è una ragione formale. Il superamento della fatticità è pertanto condizione di trascendenza essenziale. Questa conclusione però, pur essendo sostanzialmente vera, nasconde una seria difficoltà. Infatti, porre come momento conclusivo della conoscenza la sola attualità delle cose esistenti, sarebbe fermarsi alla contingenza e alla variabilità che l’individualità manifesta in ogni ente. L’essenza, in senso opposto, è ciò che rimane, qualunque sia la situazione esistenziale dell’individuo, ed è in certo senso indipendente dall’individualità empirica. Così, se la conoscenza si risolvesse nell’ente considerato come quello che accade, l’uomo si troverebbe indissolubilmente legato alla finitezza anche nell’ambito conoscitivo. Se il punto di risoluzione della conoscenza si centra sull’essenza e questa, a sua volta, è la corrispondenza colta nell’esemplare divino, allora la conoscenza porterebbe direttamente alla trascendenza, benché in questo modo si neghi implicitamente che l’ente finito e temporale sia un’affermazione anch’essa implicita della trascendenza. D’altra parte, da questa prospettiva rimane compromessa in maniera radicale la realtà della sostanza nella misura in cui quest’ultima è, o potrebbe dirsi che è, l’esistente. In conformità con questi principi, Matteo afferma che «l’intelletto, nel rappresentare attraverso la specie qualcosa, sia che esista nella realtà sia che non esista, forma un certo concetto, il quale è il suo oggetto, benché tale concetto non consista nel suo essere conosciuto ma conduca a qualcos’altro»45. Il concetto stesso è quindi oggetto dell’intelletto, ma in quanto conduce a una realtà che non è il concetto. Ed è in questa realtà che la conoscenza si risolve oppure si coglie il vero. Matteo non chiude l’attività conoscitiva nella pura presenza mentale dell’essenza come se fosse l’oggetto conclusivo della conoscenza, afferma bensì un’istanza trascendente all’oggetto o al concetto. Se il cammino verso l’esistenza mondana non costituisce un ritorno alla vera realtà, perché arrivare conoscitivamente 44 QQC, I, ad 20, 221, 24: «Tamen, ut dictum est, intellectus habet aliam operationem absolutam et simplicem, quae omnino abstrahit ab istis; ideo non dependet ab esse vel non esse rerum». 45 QQC, I, ad 7, 217, 31: «Intellectus enim ex specie sibi repraesentante aliquid, sive sit sive non sit in re, format sibi quendam conceptum; quod (quidem) obicit sibi ipsi, illud tamen non sistit intellectum, sed ducit in aliud». 215 studi all’ente esistente farebbe della verità qualcosa di contingente, allora la via di uscita della fondazione dell’essenza, che a sua volta dev’essere fondata giacché è finita anch’essa, si trova nella possibilità che l’essenza porti alla sua propria origine ontologica, cioè all’esemplare divino. L’oggetto dell’intelligenza finita diventa dunque completo nel cogliere, da parte del conoscente, l’idea divina come momento assoluto della verità. Da qui anche la necessità dell’illuminazione da parte di Dio, perché a Matteo sembra evidente che le forze dell’intelligenza finita non possano raggiungere le idee che esistono eternamente in Dio. 3.2. L’oggetto dell’intelletto Sebbene abbiamo già parlato di questo argomento sotto un certo punto di vista, sarebbe interessante considerarne alcuni altri aspetti che permettono di vedere a quali conseguenze si potrebbe arrivare. Matteo di fatto lo suggerisce in maniera piuttosto chiara, considerando l’essere principalmente come riducibile all’apparire dell’esistenza, oppure, se si vuole, nella dimensione della fatticità. Nel porre il problema della conoscenza del non-esistente, Matteo parla in maniera abbastanza evidente della sua posizione sul tema dell’essere stesso e quindi dell’essenza e dell’esistenza. La conoscenza umana ha un inizio nella sensibilità, perché infatti «colligit notitiam rerum corporearum et sensibilium». Accanto a questa tesi, d’altronde comune alla tradizione filosofica classica, troviamo però un’accentuazione anche decisa dell’attività dell’intelletto, in quanto questo atto ha un ruolo suppletivo dinanzi all’insufficienza di atto della cosa materiale o naturale. Si tratta di un’insufficienza che si manifesta nella sua deficienza di intelligibilità in quanto ontologicamente non piena, cioè contingente e materiale. Infatti, dice Matteo che l’intelletto conosce «non ab ipsis rebus aliquid patiendo ut eis vice materiae subdatur»46. Il problema che si presenta a questo punto ha bisogno di una determinata chiarificazione, nel senso che si deve vedere che la res non è un concetto applicabile soltanto alle cose materiali e sensibili, ma a tutto ciò che non abbia un carattere strettamente essenziale. Così, la tesi anteriormente citata non vale solamente come tesi riferita alla conoscenza del singolare materiale, ma piuttosto ha a che vedere con l’oggetto stesso dell’intelletto. «Benché nell’intelletto — dice Matteo — la verità è causata dalle cose in quanto all’origine, non accade lo stesso per quanto riguarda la conservazione e la continuazione, perché anche quando le cose scompaiono dalla presenza [fisica] del conoscente, tuttavia rimane la verità con l’irradiazione della luce increata»47. Appare così da un’altra prospetti46 QQC, 47 QQC, III, 262, 12. I, sol.1, 215, 31: «Quamvis autem in intellectu causatur veritas a rebus quantum ad originem, non tamen quantum ad conservationem et continuationem; immo rebus pereuntibus manet veritas in intellectu, tamen cum irradiatione luminis increati». 216 Daniel Gamarra va qual è il ruolo attivo dell’intelletto sia che si riferisca alla presentazione dell’oggetto vero, sia alla sua permanenza, benché l’oggetto sia rappresentazione di qualcosa di effimero. L’azione conoscitiva che ha un’origine animica non si limita soltanto all’effettiva produzione dell’atto del conoscente e alla conservazione della specie, ma manifesta anche un aspetto palesemente attivo in quanto produce (facit) le species intelligibiles con le quali l’intelletto conosce. Il successivo adattamento dell’oggetto all’immaterialità della potenza conoscitiva è dunque un requisito indispensabile affinché nell’anima esista un termine ultimo intelligibile che adatta (coaptat) la cosa stessa affinché venga conosciuta dall’intelletto possibile48. A questo punto Matteo in un certo senso abbandona la prospettiva psicologica o, se si vuole, la chiave psicologica dell’analisi fin qui condotta, al fine di spostare la sua riflessione verso una dimensione più gnoseologica. In questo momento, infatti, egli considera la possibilità di una definizione dell’intelligibilità considerata in sé, oppure la definizione dell’oggettività come costituzione oggettiva nell’ambito più vasto dell’oggetto dell’intelletto. Siccome la cosa sensibile — quello che è stato il punto di partenza prima riferito —, nella situazione di cosa in quanto conosciuta dall’intelletto, rimane senza le condizioni materiali in cui si trovava ristretta nel mondo, ha un essere meramente intelligibile. Tale intelligibilità combacia con l’essenza oppure con il non-esistente. L’oggetto dell’intelletto si manifesta dunque nella coincidenza o concorrenza dell’elemento che viene dall’esterno con l’attività di carattere prettamente spiritualizzante dei contenuti sensibili da parte dell’intelletto: «et hoc sufficit ad rationem obiecti. Nam nec re existente, quidditas ut est in rebus est obiectum intellectus»49. Ossia, la cosa esiste nella realtà con la sua propria essenza che, astratta dall’esistenza, diventa oggetto. Resta tuttavia da integrare nell’oggetto (non-esistente) l’elemento illuminante, cioè il rapporto esplicito dell’oggetto (dell’oggettività) al suo esemplare attraverso l’illuminazione. Si presenta così a Matteo, come d’altronde accade ai pensatori cristiani che hanno affermato la realtà dell’illuminazione divina come parte integrante della conoscenza naturale, la necessità di distinguere questa luce dalla luce proveniente dalla visione di Dio alla maniera dei beati. È interessante la sua tesi nella quale afferma che l’esemplare eterno non è l’oggetto quietans et terminans della stessa conoscenza umana, ma che questo oggetto «è l’essenza stessa che viene concepita dal nostro intelletto ma [solo] riferita all’esemplare divino che tocca la nostra mente ed ha un carattere efficiente in rapporto con la sua attività. Ed allora abbiamo la vera notitia delle cose che sono state presentate attraverso i sensi»50. 48 QQC, III, 264, 5: «Non igitur patitur anima aliquid a rebus sensibilibus sive corporeis, sed potius facit ex illis et de illis, et format sibi species aptas et proportionatas secundum exigentiam organorum et virium, quosque det sibi esse intelligibile et coaptet eam et formet sive transformet eam in intellectum possibilem, quo est omnia fieri». 49 QQC, I, 213, 24. 50 QQC, I, 214, 30 - 215, 4: «Cum ergo intelligimus alicuius rei quidditatem et suam rationem definitivam, obiectum intellectus non est ipsa mentis conceptus tantum; nec ipsa quidditas 217 studi Viene così spiegato da Matteo d’Acquasparta il fatto che le rationes aeternae fanno parte della conoscenza naturale fino all’estremo che attraverso di esse le cose possono essere conosciute «anche se non esistono»51, giacché l’agire intellettuale è consono con quello stato assoluto dell’essenza avicenniana, cioè di un’essenza senza riferimento all’esistenza52. Possiamo interrogarci però sulla natura dell’oggetto in quanto tale e come oggetto primo dell’intelletto: è l’essenza, è l’ente…? Secondo la tesi di Avicenna, Matteo afferma che ciò che per primo appare davanti all’intelligenza è l’ente senza nessuna determinazione. L’ente in questo senso non è né atto né potenza, né presente né futuro. Vale a dire che l’ente è in un certo senso superiore, oppure più esattamente trascendentale dinanzi ad ogni contrazione specifica, così — e questo è assai significativo — l’ente che viene considerato come oggetto primo è «l’essenza nell’intelletto, nell’esemplare eterno, benché non esista nelle cose [con esistenza attuale], perché neanche l’esistenza fa parte del suo contenuto»53. Matteo distingue, da una parte, le possibili determinazioni dell’ente e dall’altra quello che nell’ente c’è di accidentale, inclusa l’esistenza stessa. L’esemplare eterno appare così nell’oggetto separato e distinto, vale a dire, la connessione fra ragione eterna e oggetto conosciuto traccia una sorta di percorso fra l’essenza eterna e l’essenza nel suo stato oggettivo. In questo senso, l’essenza eterna è garanzia di verità perché l’oggetto conosciuto si libera dalla variabilità della contingenza. L’essere in quanto ricondotto al concetto di esistenza e fatticità, in qualche modo, scompare dall’ambito dell’intelligibilità perché l’esistenza viene a trovarsi nella situazione d’indigenza metafisica della creatura, mentre se c’è un qualcosa di metafisicamente solido nella cosa creata, questa è l’essenza che, sia tantum, quae non est in rerum natura; nec exemplar aeternum est obiectum quietans et terminans, quia hoc est solum obiectum intellectus beati et beatificans. Sed est quidditas ipsa concepta ab intellectu nostro, relata tamen ad artem sive exemplar aeternum, in quantum tangens mentem nostram se habet in ratione moventis. Et inde concipimus rerum veracem notitiam, et ministrata materia ab inferiore per sensus, inde fluunt principia omnium artium». Fra l’altro appare in questo testo in modo acuto il penetrante tema dell’inquietudo agostiniana. 51 QQC, I, 208, 12: «Apud intellectum nostrum sunt impressae rationes rerum aeternae et inmmutabiles, sicut ‘omne totum est maius sua parte’ et ‘de quolibet affirmatio vel negatio’. Sed illae rationes non dependent a rebus; ergo per illas rationes rebus non existentibus potest intelligere». 52 QQC, I, 212, 15: «Si vero loquamur de intellectu quantum ad operationem illam simplicem, absolutam et puram, qua apprehendit et concipit rerum quidditates absolutas, sic dico quod ab istius modi cognitionem rei existentia non requiritur immo nihil facit existentia vel nonexistentia». Cfr. D.O. GAMARRA, Esencia, posibilidad y predicación: a propósito de una distinción aviceniana, «Sapientia», 160 (1986), pp. 101-120. 53 QQC, I, 216, 24: «Ut dicit Avicenna, primum quod occurrit intellectui est ens; […]. Sed illud ens non est aliquid determinatum, nec actu nec potentia, nec praesens nec futurum, nec homo vel equus et huiusmodi, sed ens quod est superius ad omnia ista. Et ego dico quod quidditas illa est ens in intellectu, in exemplari aeterno, licet non sit ens actu in rebus, quia nec hoc est de intellecto suo». 218 Daniel Gamarra da un punto di vista metafisico sia da un punto di vista gnoseologico, dev’essere ricondotta all’idea eterna. L’oggettività è quindi una situazione allo stesso tempo logica e metafisica: logica in quanto è pura presenza mentale di un aliquid non determinatum, e metafisica poiché il rapporto con la verità eterna le conferisce una dimensione trascendente. Allo stesso tempo però si potrebbe definire la realtà oggettiva, a seconda degli elementi che presenta Matteo, come un momento riduttivo della realtà in generale, oppure come costituzione di un ambito trascendentale (diverso da una considerazione trascendente), nel senso che quello che in Matteo è trascendentale viene dato da una certa costituzione oggettiva e non tanto dalla considerazione trascendentale della verità e dell’ente. Infatti, la considerazione dell’idea nell’intelligenza finita fino al suo confronto e mantenimento nell’idea eterna (reale), come momento metafisico fondante, significa che tutta la realtà è stata considerata come idea. Si potrebbe comunque argomentare in senso contrario prendendo spunto dalla considerazione della sensibilità — come abbiamo anteriormente visto — in quanto connessione intuitiva del conoscente con la realtà. D’altronde, è anche vero — come pure abbiamo visto — che tale rapporto sensibile ha un valore originario ma non conclusivo. Esso apporta un certo materiale, benché rimanga isolato in quanto considerato solamente come punto d’inizio, ma non come un qualcosa che esige un certo ritorno affinché sia conosciuto nella sua profondità essenziale. Il sensibile è esistente e come tale contingente, il che vuol dire che conoscere la verità implica l’abbandono della finitezza in maniera assoluta. Si apre nella filosofia di Matteo d’Acquasparta la via della trascendenza in maniera piuttosto chiara, ma non tanto quella della considerazione trascendente del mondo in quanto implicata nell’esistenza del mondo stesso. La comprensione intellettiva non ritorna a quel punto di partenza con la cui intellezione si potrebbe capire la verità. Il sensibile viene abbandonato nella misura in cui la certezza e la pienezza formale dell’idea eterna si uniscono con l’atto dell’intelligenza finita. Questo tralasciare la finitezza (anche l’immediatezza) impedisce però in maniera quasi totale l’abbandono dell’oggettività come definizione oppure come elemento metafisicamente significativo, o se si vuole, come quello che la realtà diventa nel momento in cui viene conosciuta. Questo perché tale situazione libera la potenza intellettiva in una sola direzione, cioè in quella della pura trascendenza, ma non in quella dell’assunzione trascendente del reale. Quest’ultimo passo non è infatti possibile senza una percezione della differenza fra finitezza in quanto tale e partecipazione finita dell’essere nel finito. Non si tratta di una specie di calcolo metafisico, ma soprattutto di trovare il mezzo per non portare alla categoria di realtà quello che è soltanto una categoria appartenente alla presenza mentale in quanto mentale. Invece, la percezione di questa differenza rende possibile la considerazione della necessità nel finito e allo stesso tempo la considerazione del finito come contingente. Il livello qui è metafisico, in Matteo invece c’è un qualcosa di oggettivo che interviene nella costituzione della necessità dell’essenza. Questa è necessaria perché reale ed è reale finitamente nel finito, men219 studi tre la necessità della quale parla Matteo è, per così dire, necessità di percezione della necessità, cioè un eccesso d’intenzione. Rimane tuttavia il tema dell’incidenza dell’essenza come idea eterna nella costituzione della verità necessaria. È questo un aspetto non trascurabile per mantenere collegate le tesi esposte da Matteo. Bisogna qui però fare mezzo passo indietro. L’oggetto è pienamente oggetto a partire dalla coincidenza di tre istanze fondamentali: il sensibile, l’atto intellettivo e l’idea sotto la forma d’illuminazione. Questa triplice composizione dell’oggetto è l’unica possibilità, secondo le premesse del Nostro, perché ci sia conoscenza in modo assoluto. Qui appare l’oggetto vero in quanto vero oggetto e in quanto oggetto che è riflesso di una verità trascendente. Questa triplice composizione è, però, sempre composizione nell’intelletto. Senz’altro, se si trattasse di una questione gnoseologica, il punto di vista sarebbe chiaramente questo. Comunque, il problema che si presenta un’altra volta è appunto quello della considerazione dell’esistenza come un qualcosa di fattuale, senza profondità metafisica, mentre allo stesso tempo l’essere potrebbe darsi appunto come fattualità oppure come essenza. Nel primo caso troveremo un circolo di difficile rottura, nel secondo, un’altra volta, la risposta già considerata da Matteo. È vero che l’idea divina completa la verità oppure costituisce il suo fondamento davanti all’insufficienza della cosa esteriore. L’idea divina perfetta appare però come contenuto oggettivo nel momento in cui è posseduta dall’intelletto finito e così in qualche modo continua ad avere la limitazione oggettiva. Ma se invece questa idea fosse considerata come idea che appartiene soltanto a Dio? Certamente in questo caso il problema avrebbe una certa soluzione, ma non troverebbe risposta rigorosa il problema della conoscenza umana, bensì quello della conoscenza divina. A partire da questa situazione creatasi nella speculazione gnoseologica di Matteo di Acquasparta, si potrebbe affermare che l’infinitezza e l’immutabilità dell’idea rimane anche se accade quella specie di traslazione di soggetto così come si manifesta nel caso dell’idea quando essa è in Dio o quando essa è nell’intelletto creato. Di conseguenza, poiché l’idea non è soltanto un essere nell’intelletto umano, l’oggettività ha un ruolo negativo nel senso che sostituisce l’essenza, poiché quest’ultima corrisponde perfettamente all’idea. La questione, quindi, della separazione netta fra essere ed esistenza altro non è se non un movimento di sostituzione dell’idea con l’oggettività; cioè, poiché l’idea è reale in quanto eterna ed infinita, l’essere che gli è proprio o è Dio stesso o è oggetto. Il problema sta però nell’affermare che l’esistenza rende impossibile l’entrata nel regno delle essenze, se non attraverso il suo annullamento. In questo modo, il limite considerativo ha un evidente primato davanti alla realtà, allo stesso tempo in cui si propone come la sua definizione più esatta. *** 220 Daniel Gamarra Abstract: This study concerns the thought of Matthew of Acquasparta (12401302), a thinker who brings significant elements of originality into the scholastic-augustinian philosophical tradition to which he belongs. In this article the author addresses the gnoseological problem, in light of the “theory of content” and of the “links between objectivity and existence”, with the aim of showing how Matthew of Acquasparta’s philosophical reflection is chiefly characterized by eclecticism and a sense of measure. A specific trait of his gnoseological perspective is in fact his capacity to maintain a balance between classical aristotelianism and cognitive theory of augustinian inspiration, a balance that is the fruit of a synthesis of the aristotelian doctrine of form and St. Augustine’s doctrine of illumination. According to Matthew of Acquasparta, the conjunction of the experience of extramental reality with the natural capacity of reason — a union that reaches its final term in the understanding of the aeternae veritates — constitutes the necessary condition for there being a cognitive act. At the same time, the influence of aristotelianism upon his thought also emerges clearly from the question of the non-existent. Here he shows his profound assimilation not only of augustinian thought but also of the philosophy of Avicenna, from whom he takes the distinction between being and essence. 221 222 ACTA PHILOSOPHICA, vol. 9 (2000), fasc. 2- PAGG. 223-240 Heidegger, Hegel, and Aristotle: A Straight Line?* FERNANDO INCIARTE∗∗ Sommario: 1. Heidegger’s Theory of Seinsvergessenheit and his Attitude Towards Humanism and Forschung. 2. Heidegger’s Interpretations of Time, Being, and Substance in Aristotle and Hegel. 3. Concluding Remarks. ■ About the same time in which Martin Heidegger was maturing into a philosopher, Marcel Proust referred somewhere in his monumental Remembrance of Things Past, to a professor of history at the Sorbonne saying, “he was out of sympathy with the modern Sorbonne, where ideas of scientific exactitude, after the German model, were beginning to prevail over humanism”1. The time to which Marcel Proust referred was, of course, that of la belle époque, a century ago. A quarter of a century later the German model of which Proust spoke was firmly established almost everywhere in the academic quarters of the Western world. Whether or not the philosopher Heidegger was ever attached to this model, the fact is that he sought to keep his own work at an increasing distance from it without, however, ever attaching himself to the rival model of humanism. In this respect, the two World Wars were undoubtedly of special significance for him. It was only after World War II that, in his letter to Jean Baufret, Heidegger defined his own position towards humanism in a fully explicit way. He had however already touched upon the issue of humanism and culture in a rather dramatic way in the period between the two great wars of our century. This was a period * Conference at the Catholic University of America, Washington D. C. ∗∗ Philosophisches Seminar, Domplatz, 23, D-48143, Münster. Il prof. Fernando Inciarte, che ha collaborato più volte con la nostra rivista, è morto il 9 giugno 2000. 1 English translation by C.K. Scott Moncrief and Terence Kilmartin in the Penguin Books, vol. 2, p. 897. 223 studi during which Germany, despite its first crushing defeat, was witnessing a revival of her Classical tradition under the heading of “The New Humanism”, of which Werner Jaeger’s Paideia was only one, though an outstanding example. In the purely philosophical field, one may think of Ernst Cassirer’s Philosophy of Symbolic Forms as a similarly outstanding example. The two attitudes most dramatically clashed with each other in the famous series of disputes between Ernst Cassirer and his junior colleague Martin Heidegger that took place in the Davos of Thomas Mann’s Magic Mountain when Heidegger reproached Cassirer for inviting man to make himself comfortable in the shelters (Behausungen) of culture without realizing that it is the genuine task of philosophy, as Heidegger put it, “to cast man back from the sloth of using the products of the spirit into the hardship of fate”2. As is well known, he eventually went so far as to altogether reject the title of philosophy for his own endeavours3. Under such circumstances, one may ask what is the point of treating Heidegger alongside two classical philosophers such as Aristotle and Hegel. The scope of this question is not limited to the issue of humanism. It bears not only on Heidegger’s attitude towards culture in general and philosophy in particular, but on his attitude towards the German model of exact investigation or Forschung as well. In fact, Heidegger’s motives for mistrusting both models can be traced back to the same origin. Their common origin lies in the very nature of metaphysics in the sense given by Heidegger to the term “onto-theology”, i.e. in the sense in which metaphysics represents a progressive oblivion of being in favor of beings, of Sein in favor of Seiendes. I am not going to give a new interpretation of this real or alleged oblivion, nor am I going to repeat other interpretations. Rather, I will first explain the way in which Heidegger’s thesis of Seinsvergessenheit is to be considered responsible for his persistent attitude towards both humanism and Forschung. Then, in the central part of my exposition, I will draw some consequences of this attitude with regard to Heidegger’s interpretation of Hegel and Aristotle concerning time, being, and substance. A third section concludes with some remarks in a more general key. 1. Heidegger’s Theory of Seinsvergessenheit and his Attitude Towards Humanism and Forschung Heidegger’s attitude to both cultural humanism and exact investigation was rooted in his conviction of the inadequacy of theory vis-à-vis human life in its 2 3 “Davoser Disputation”, edited as an appendix to Kant und das Problem der Metaphysik in Gesamtausgabe (GA) I 3, Frankfurt 1991, p. 291. Cf., e.g., “Das Ende der Philosophie und die Aufgabe des Denkens”, in Zur Sache des Denkens, Tübingen 1969, pp. 61-81. For his own work Heidegger retained at first even the title “Forschung”, if only in the sense of “phänomenologishe Forschung”, but he gave this up later on (cf. also note 24 below). 224 Fernando Inciarte individual as well as historical dimension. The word “theory” is here to be taken literally, i.e. broadly enough so as to encompass all connotations of “looking at”, including the Biblical “enticing of eyes” or “Augenlust” (“lust of the eyes”). But, of course, it was not so much because the Greeks were, as the saying goes, “Augenmenschen” (“men of eyes”) that they, according to Heidegger, bequeathed the notion of theory to the Western world. Even during the time of the Third Reich, Heidegger at least firmly rejected any kind of biologism, naturalism or, for that matter, racism. If the Greeks were “Augenmenschen”, this was because of their mental or spiritual attitude — i.e. because of the way in which being manifested itself to them, and at the same time concealed itself from them. It is also the way of metaphysics as interpreted by Heidegger. What is concealed from metaphysics are its own foundations, i.e. the fact that the essence or sense of being is time. A clear example of this is to be found, according to Heidegger, in what he once — drawing more on the Scholastic tradition than on Aristotle himself — called analogia entis. In this tradition, substance represents the primary meaning of being, its primum analogatum. But whereas at the beginning the Greek “ousia” was still understood in the full range of its own connotations, at the end it was reduced to the impoverished notion of substantia. What the notion of substantia mainly left out was precisely the temporal connotation of “ousia” (Anwesenheit and Gegenwart, presence and the present) on which Heidegger, rightly or wrongly, put so much stress. According to Heidegger, this is already evident in the twist taken by onto-theology into the timeless and eternal when Aristotle set about finding the most primordial sense of “ousia” in a unique and — to borrow from Schelling’s critique of Hegelian Aristotelianism — idle or lazy God (“fauler Gott”) who makes his appearance only at the end of the system, when nothing more is to be done4. It is the same twist that had already led Aristotle to give pride of place to world-detached theoretical wisdom over world-orientated practical wisdom, to sophia over phronesis, to theoria over praxis. In fact, immediately after World War I, Heidegger started to scourge what he had been seeking to defend before, viz. the objective and universal validity of eternal truths and values. After such a catastrophe for Europe in general and Germany in particular Heidegger came to see in the belief in allegedly pure objective truths the attempt of human life or Dasein to distract itself from its radically contingent condition or, as he put it, its facticity. In this respect, no difference in principle is to be found between humanism and Forschung. The pretensions to unshakeable results on the part of the latter correspond on the part of the former to the picture of cultural contents hanging, as it were, on the high wall of ideal values — as if among them one could choose the fittest ones, as from a collection of clothes, in order to cover one’s own existential nakedness. Even Aristotelian virtues, being as they are ktemata rather than chreseis, properties 4 Cf. Münchener Vorlesungen, in Werke (ed. K.F.A. Schelling) X, p. 160. 225 studi and proprieties rather than praxis proper, represent for him some sort of moral code, and are by this very fact to be considered but another consequence of the objectifying drive in metaphysics. The same applies, of course, to the whole realm of Hegelian objective spirit, substantial Sittlichkeit, or public morality. Thus, it is not surprising that just as Heidegger never found the way from the Aristotelian ethics to the Politics, he, similarly, never found the way from the passions of the Rhetorics to the virtues of the Nicomachean Ethics5. Nor is it surprising that, under such circumstances, to deal with metaphysics ought for him to be at the same time to retrace its living origins by patiently removing the sediment accumulated on them by the sheer passing of time and history. In his view, simply looking back to metaphysics without any destructive intention would have the same deadly effect as the looking back of Lot’s wife to the doomed city or that of Orpheus sending Eurydice back to the realm of death as a result of the same sort of idle curiosity or Augenlust. Thus the constructive aspect in metaphysics’ de-construction — as Heidegger’s expression “Ab-bau” was to be translated later on as literally as it was appropriately — is not to be taken as objective reconstruction but, precisely, as appropriation, as An-eignung or, to lean on Heidegger’s later keyword, as Er-eignung. This was not so much due to any incapacity for reaching objectivity on the interpreter’s part, but rather to there not being any objectivity to be reached here after all. For even the now past metaphysics, when still alive, despite its thrust towards reification, was less of a closed actuality like those of Hegel’s or even Aristotle’s lazy God, than it was an open potentiality like time or history. Now, supposing one should accept Heidegger’s standpoint on this score, the question arises, on the one hand, as to whether there is — as regards our concern with the metaphysical past — any alternative between objective validity, and, on the other, subjective willfulness. The answer to this along Heidegger’s lines would be to say that, in dealing with its own essential past, philosophy must not so much bring back (wieder-holen) now dead realities, but rather to bring to light precisely those living possibilities hidden in metaphysics itself that, for whatever reasons, were never realized in it. Obviously, such an attitude fits neither the German model of exact investigation nor that of cultural humanism. Nevertheless, it is, as a matter of fact, the very attitude with which Heidegger looked into the metaphysical past. It is something of this sort that I myself intend to do in the second part of my lecture. More precisely, what I intend to do is to try to bring to light some of the possibilities Heidegger himself once detected in Aristotle as well as in Hegel concerning the issue of time and being, and of time and substance, which he himself never further developed. In other words, I am going to approach Heidegger himself in the same spirit with which he approached Aristotle and Hegel or even metaphysics as a whole. 5 W. Marx (Heidegger und die Tradition, Hamburg 1980) is not the only one to find fault with Heidegger about this. 226 Fernando Inciarte 2. Heidegger’s Interpretations of Time, Being, and Substance in Aristotle and Hegel In so proceeding, one may be forced to pay a price: the price of unduly simplifying — at least from the standpoint of Forschung. This risk has already been hinted at in the expression “a straight line,” which appears in the title of the present lecture. It becomes even more evident in the words of a contemporary French philosopher who, like so many others nowadays in France, has been deeply influenced by Heidegger. I mean Gilles Deleuze. In his book Différence et Repétition, Deleuze maintains that from Parmenides to Heidegger “there has never been more than one ontological proposition: Being is univocal. There has never been more than a single ontology, that of Duns Scotus...”6. Is Deleuze unduly simplifying? He is, at any rate, playing with the word “univocal”. From Parmenides to Heidegger, ontology has spoken with only one voice: this seems to be Deleuze’s contention. And this contention need not be simplistic. For Heidegger’s history of being has to do with univocity only in the general sense that what philosophers have said (or voiced) in the past has always been the same (das Selbe), where the “same” or “sameness” (“Selbigkeit”) has “otherness” (“Andersheit”) not outside but inside itself — just as identity, according to Hegel, encompasses difference; or just as, according to Aristotle, the differentia specifica, far from being added to an identical genus from outside, is nothing else than the latter in its own differentiation7. Thus the important thing to ask here, is how it is that all three — Aristotle, Hegel, and Heidegger — came to say the same thing, and this not despite, but precisely because of their differences. Consequently, rather than making external comparisons, it would be more to the point to attempt to repeat the gist of their thought about being and time in a way that, even if it should fail to coincide completely with the philosophy of any one of the three, preserves the thing that matters, die Sache. This is more so as Heidegger’s original intention was not to liquidate, but to liquidize (“verflüssigen”) or revitalize Aristotelianism in a similar spirit to that in which Hegel had hinted at when, shortly before his death, he wrote the following words: “If something ancient is to be renewed, [...] then the form of the idea given to it by Plato and much more profoundly by Aristotle, is infinitely worthy of being recollected, also for this reason that the unpacking of it by means of appropriating it (Aneignung) to the formation of our thoughts is immediately, not only an understanding of it, but a step forward for science itself”8. Hegel went so far as to say that, for anyone taking philosophy seriously, the best thing to do would be to teach Aristotle9. Now, Heidegger’s own appreciation of Aristotle is 6 7 8 9 Différence et Repétition, Paris 1968, p. 52. Cf. Metaphysics, VII 12. Enzyklopädie, in Werke (Suhrkamp) 8, p. 31: Vorrede 1827. For the translation I am indebted to D. Dahlstrom. “Würde es ernst mit der Philosophie, so würde nichts würdiger, als über Aristoteles Vorlesungen zu halten” (Geschichte der Philosophie, in Werke (Suhrkamp) 19, p. 148). 227 studi not far from that of Hegel10 who, however, tended rather to minimize distances, whereas Heidegger, on the contrary, tended to maximize them11. As is well known, Heidegger’s criticism of the Aristotelian and Hegelian conceptions of time was directed against the idea of a succession of “nows”. In this he was, to put it mildly, not exactly attacking them on their strongest side. For Aristotle, the enigma of time already consists not so much — as for St. Augustine — in that, upon closer examination, the reality of time boils down to a succession of “nows”, each one of which is is not time or even part of it; rather it consists primarily in the fact that, although whatever is, only now — now this, now that, and so on —, there is, nevertheless, only one now, just as, according to Heidegger, there is, as it were, only one being voicing itself throughout history and, indeed, identical with its own ever differently voiced history, as opposed to an alleged hiding itself merely behind its changing manifestations in history. However, the reason why there is only one now is not that in the putative succession of nows, one immediately following upon another, it represents the limit between past and future nows. Just as there is no such immediate succession, there is no such limit either, except by way of abstraction12. To be sure, we can mark off as many limits as our historical or physical research or even our everyday orientation in the world may require: for instance, just that moment between Coriscus still being in the Lyceum and his starting to go to the marketplace; or between Coriscus still going in that direction and his arrival there. There is no difficulty in accepting as many “now” — limits as one wants as long as one is engaged in practical business or appraisals, including scientific ones — as historians do, when they date, say, the end of a war with the signing of a peace treaty, even though the shooting is still going on, or as physicists do when they dismiss computational errors as being negligible with respect to the purpose in hand. The difficulty with, or rather 10 As in the case of Hegel the evidence is too profuse to be accounted for here. For the purpose of this paper, centered on the problem of time from the Physics onwards, the following words of H.-G. Gadamer on occasion of the discovery of Heidegger’s Aristotelian programmatic text of 1922 (the primordial cell of Sein und Zeit) are instructive: “… Das bedeutet, daß den jungen Heidegger damals mehr als die Aktualität der praktischen Philosophie ihre Bedeutung für die Aristotelische Ontologie, Metaphysik, beschäftigt. Das 6. Buch der Nikomachischen Ethik erscheint in dieser Programmschrift eigentlich mehr als eine Einleitung in die aristotelische Physik” (H.-G. GADAMER, Heideggers ‘theologische’ Jugendschrift, in Dilthey-Jahrbuch, 1989, p. 231: “Die Wiederaufgefundene ‘AristotelesEinleitung’ Heideggers von 1922” edited by H.-U. Lessing, p. 266. Both Gadamer’s Introduction and Heidegger’s text are included in the same issue of the Jahrbuch, pp. 228234 and 235-274 respectively). 11 Cf., e.g., Logik. Die Frage nach der Wahrheit, GA II 21: “philosophisch verstanden wird die durch Aristoteles grundgelegte und in Hegel vollendete philosophische Logik nicht gefördert durch weitere Sohn- und Enkelschaft, um philosophisch weiterzukommen bedarf es eines neuen Geschlechtes”. 12 Cf. my article Aristotle and the Reality of Time in “Acta philosophica” 4 (1995) pp. 189203. 228 Fernando Inciarte the very impossibility of objectively pinning down the real “now” (as opposed to any such given abstract “now”) only becomes apparent at the philosophical level. Already in his Physics, Aristotle had shown the insurmountable difficulties involved in pinning down the instant of change — not only the transition from motion to rest and vice versa, but also more general forms of change. The difficulties are rooted in the very nature of continuity, as distinct from both contiguity and closest neighborhood. If time, like movement, is continuous, then the very notion of contiguity (haptomenon) — and all the more so that of closest neighborhood (ephexes) — is misapplied when what is involved is not a question of practice, scientific or otherwise, but a philosophical or, rather, metaphysical theory of real time. And since real as opposed to abstract or extended time is no magnitude at all, the very notion of succession, even that of a continuous succession, is misapplied here as well13. The upshot of all this is that in rerum natura, which includes human history in the sense of res gestae (not in the sense of recorded history), there can be only one “now”. And this is the true enigma of time. For it then seems as if one ought to be able to infer from this that, to take Aristotle’s example, the Trojan War is still going on. But it only seems so14. Likewise, it is a non sequitur to infer with the Sophists from the fact that Coriscus’s being in the Lyceum is not the same as his being in the market place that it is not the same Coriscus who is now here and then there. Here, the analogy drawn by Aristotle between the only one “now” of real time and the identical substance despite or rather because of the different states into which it itself is continuously changing has been often overlooked. And it is not unlikely that it was Heidegger’s own overlooking of this analogy which lay at the root of some of the difficulties he encountered when writing the then pending third section of the first part of Being and Time, and which ultimately forced him to abandon continuation of that work. One year before Heidegger’s death, however, in 1975, a series of lectures were published which he had delivered in Marburg on the same topic shortly after the appearance of Being and Time — a series which is also important for the light it sheds on the development of Heidegger’s views on Aristotle’s and Hegel’s treatment of time. Let me explain this. Less than two years before the publication of Being and Time, Heidegger could still write that Hegel’s treatment of time in the Philosophy of Nature “kills (totschlägt) the proper content of the Aristotelian interpretation, putting it, as it were, on ice, and leaving purely formal and empty results in its place”15. But, two years later, the series of lectures just mentioned already has a totally different ring to them. Thus, after having raised the question, “to what extent is time itself the condition of the possibility of Nothingness as such?”16, Heidegger con13 Cf. Physics, III 6, 206a33-b2. 14 Ibid., IV 11, 219b18-22. 15 Logik. Die Frage nach der Wahrheit, GA II 21, p. 266. 16 Die Grundprobleme der Phänomenologie, GA II 24, p. 443. 229 studi cludes: “In the end (one has to acknowledge) that Hegel was on to a fundamental truth when he said that Being and Nothing are the same thing…”17. And with a sentence which anticipates further developments in his thought he adds: “We are not sufficiently prepared to enter into this darkness. It is only by going back to (the enigma of) time that it will be possible to cast some light on the interpretation of being”18. Heidegger was then about to reverse his first attempt at regaining the original sense of being and, taking time now not as his point of departure but rather as his destination, he set out in a direction that was ultimately to lead to the notions of “Ereignis” and of the history of being. The preceding quotations may suffice as evidence grounding a two-fold contention: first, that even after the Kehre Heidegger continued his search for the meaning of being in the direction originally laid down by Hegel’s concept of negativity as the identity of being and nothingness; secondly, that the concept of negativity, once so defined, provides the key to understanding Aristotle’s analogy between the one and only ever-changing “now” and the substance (ousia) of the Physics, which Heidegger himself interpreted as movement or mobility (Bewegtheit) in the sense of an unlimited or imperfect act (energeia ateles)19. So in his essay on Aristotle’s notion of physis published in 1958 in Il Pensiero, but written already in 1939, Heidegger paraphrases Hegel in order to convey the meaning of physis as Bewegtheit20 or limitless actuality by saying: “All living things are in the process of dying as soon as they start to live”21. This is but the sadness that, as Hegel put it22, haunts the whole of nature. The identity of being and nothing is, in effect, the identity of coming-to-be and passing-away; that is to say, it is not just a passing-away after having come-to-be, but coming-to-be and passing-away coinciding in the one and only one unlimited “now” in which, unlike the many “nows” as mere limits of time at which nothing occurs, all things do occur. Thus, at the very beginning of the Science of Logic, under the heading “Moments of Becoming”, Hegel writes: “Becoming is in this way in a double determination. In one of them, nothing is immediate, that is, the determination starts from nothing which relates itself to being, or in other words changes into it; in the other, being is immediate, that is, the determination starts from being which changes into nothing: the former is coming-to-be and the latter is ceasing-to-be. Both are the same, becoming…”23. Thus, it is not surprising that, when Heidegger — in his efforts to cope with the problems of being and time as well as of time and being, and after a relatively long period in which he had 17 Ibid. 18 Ibid. 19 Cf. Physics, III 2, 201b31-32. 20 Cf. Vom Wesen und Begriff der Physis. Aristoteles, Physik B,1, in Wegmarken, GA I 9. 21 Ibid., p. 367. 22 Cf. Werke (Suhrkamp) 5, p.140. 23 Hegels Science of Logic I, Humanity Press International, Atlantic Highlands, N.J. 1969, 105 f. (Werke, Suhrkamp, 5, 112). 230 p. Fernando Inciarte moved from Aristotle to Kant24 — at last returned to Aristotle in the essay just mentioned on physis, he did so as already under the sway of Hegel’s notion of negativity25. Heidegger regards the eight books of the Physics as constituting the original Aristotelian metaphysics in which the burden of onto-theology had not yet become so heavy as to crush pre-Socratic (above all Heraclitean) insights into the essence of nature under its weight. Now, inasmuch as it preserves those insights, Heidegger’s interpretation of this original metaphysics turns on the identity of universal passing-away and universal coming-to-be. Thus, at the end of his essay on the Aristotelian physis, Heidegger comments on fragment 123 of Heraclitus (physis kruptesthai philei) by saying: “Being loves to hide, what does that mean? Usually this has been understood to mean that being is almost inaccessible so that great efforts are needed to bring it out of hiding and to exorcise, as it were, its love of hiding. Quite the opposite: the hiding belongs to being itself and that is why it loves it”26. These words represent an accurate explanation of the apeiron-structure proper to time as something from which nothing is merely hidden — as is the lost umbrella from the distracted professor (Heidegger’s own example) — except itself from itself, since time itself is outside itself. It is, in fact, in real time as the unlimited “now” — as opposed to any given abstract “now”-limit — that the truth of manifestation is originally and inextricably tied to the untruth of concealment. On the other hand, it has to be said that Heidegger never explored this Aristotelian-Hegelian path any further, even after the Kehre. Such an exploration would have led to an interpretation of Aristotelian time and substance quite different from that of time as a mere succession of nows or of substance as primum analogatum of being in the sense of something hiding behind an alleged veil of accidents from which it ought some24 “Im Winter 1925/1926 änderte Heidegger in einem dramatischen Bruch den Plan seiner Vorlesung und gab statt weiterer Aristotelesinterpretationen eine Interpretation der Lehre von der transzendentalen Einbildungskraft und der Schematisierung” (O. PÖGGELER, Neue Wege mit Heidegger, Freiburg-München 1992, p. 194). Cf. also D.O. D AHLSTROM , Heideggers Kant-Kommentar, 1925-1936, in Philosophisches Jahrbuch, 1989, pp. 343-366 as well as D. K ÖHLER , Martin Heidegger. Die Schematisierung des Seinssinnes als Thematik des dritten Abschnittes von “Sein und Zeit”, Bonn 1993. 25 Cf. Hegel. Die Negativität (1938-1939), GA III Abteilung, Unveröffentlichte Abhandlungen. In the meantime, if only for one semester (Aristoteles, Metaphysik IX 1-3, summer 1931), he had already lectured on Aristotle’s ousia in a different mood. Cf. O. PÖGGELER, o.c., p. 232: “In jenen Jahren revidierte Heidegger seine Rezeption der Analogie des Seins (nämlich der Ausrichtung aller Seinsweisen auf eine leitende Bedeutung) zugunsten der Erfahrung der Energeia als eines Am-Werke-Seins und somit einer “Geschichte” [...] So wollte Heidegger fortan nicht mehr weiter akademische Philosophie, sei es in der Weise Husserls, betreiben...”. Cf. ibid., p. 35: “... wenn dynamis Eignung ist, muß die energeia als eine Wirklichkeit, die eine offene Möglichkeit in sich trägt, in ihrer Bewegtheit und mit der Not ihrer Notwendigkeit ein Ereignis sein”. 26 GA I 9, p. 300. 231 studi how to be exorcised27. It must be said as well, however, that even after having reversed the hermeneutical priority of time over being, Heidegger kept on insisting on another genuine aspect of Aristotelian time: that just as there can be no being without man (no Sein without the clearing of Da-sein in the wood of nothingness), so there can be no time without man; that, to put it another way, man is not a traveler along a particular path of time but is temporality itself. This, of course, sounds more like Physics without Metaphysics than Aristotelian metaphysics proper as the science of ens qua ens. For as the science of ens qua ens metaphysics seems to banish all forms of negativity from being and to relegate them instead to the realm of mere thought or to ens ut verum28. As a matter of fact, Hegel himself had already explicitly protested against the exclusion of negativity from being as such. Again, shortly before he died, Hegel wrote: “It is therefore said that although nothing is in thought or imagination, yet for that very reason it is not nothing that is, being does not belong to nothing as such, but only thought or imagination is this being… that nothing does not possess an independent being of its own, is not being as such”29. The contrary is true according to Hegel. So, just as, according to both Hegel and Heidegger, one must not sever being from nothing, so one must not sever ens ut verum from ens ut ens or being from man (Sein from Dasein) either. In this respect both Hegel’s and Heidegger’s thought is, in fact, Aristotelian philosophy stripped of the doctrine of ens ut ens as distinct from ens ut verum. Heidegger himself — like Hegel30 — refused to subordinate the latter to the former right from the beginning31. But the situation is a little more complicated than that, both as regards non-being and as regards truth. For not only does Aristotle say, in a famous passage, on which Heidegger often commented32, that truth is the main meaning of being33. He also sometimes treated non-being on a par with accidents despite the fact that these are ways of being. And he does it in the very passage in which he explains metaphysics as the science of being qua being34. Let me make two comments on this. First, if any sense is to be made of the comparison between, on the one hand, time as the simultaneous coming-to-be and passing-away of the only one continuous “now” and, on the other, the 27 Cf., e.g., Was heißt Denken?, Tübingen l954, p. 68: “Alles wahrhaft Gedachte eines wesentlichen Denkens bleibt — und zwar aus Wesensgründen — mehrdeutig. Diese Mehrdeutigkeit ist niemals nur der Restbestand einer noch nicht erreichten formallogischen Eindeutigkeit, die eigentlich anzustreben wäre, aber nicht erreicht wurde. Die Mehrdeutigkeit ist vielmehr das Element, worin das Denken sich bewegen muß, um ein strenges zu sein”. 28 Cf. Metaphysics, VI 4, 1027 b 25-31. 29 Science of Logic, cit., p. 101 f. 30 Cf. note 29. 31 Cf. Phänomenologische Interpretationen zu Aristoteles, in Dilthey-Jahrbuch (s. note 10 above), p. 268. 32 Cf., e.g., GA II 21, pp. 170-182. 33 Cf. Metaphysics, IX 10, 1051 b 1. 34 Ibid., IV 2, 1003 b 6-10. 232 Fernando Inciarte essence (ousia) of all that belongs to nature (David Ross, for instance, dismissed the whole passage in the Physics as too obviously wrong to be commented on35), then this is arguably in the sense in which physical ousia is taken to manifest and hide itself in its changing states36. Now, this description corresponds not only to the notion of physis as developed by Heidegger. It corresponds also to an important aspect of Ereignis as appropriation, to which I shall now address the second of my remarks. At the lecture held in Freiburg in 1957 on identity as the sameness of being and thought (“to gar auto noein esti the kai einai”) — reprinted in the volume Identität und Differenz — Heidegger said: “The word Ereignis is taken from an already evolved language. Er-eignen originally read: eräugen”. Here one can still hear the German for “eye” — “Auge” — or even its cognate form, “beäugen”, meaning “to eye something” or “to take a close look at something.” So Heidegger concludes his series of renderings with “to appropriate in looking” (“er-blicken, im Blicken zu sich rufen, an-eignen”). And he adds: “Understood in this way it is just as incapable of being translated as the key Greek term logos or the Chinese Tao”37. Perhaps. But here, wherever the truth of the matter may lie, the consideration that allows one to discern an intrinsic connection between Heidegger’s Ereignis and Aristotle’s comparison of “ousia” with the identical “now” of time — which only conceptually has “nows” different from each other — is offered immediately after the passage quoted, when Heidegger continues: “Therefore, the word “Ereignis” no longer refers here to what we usually describe as some recurrence or happening. It is to be understood as a singulare tantum. What it says occurs only once (“ereignet sich nur in der Einzahl”), and in fact not even once (“in einer Zahl”), but is unique (beyond number)”38. As I noted above, Heidegger’s interpretation of Aristotelian and Hegelian time as a succession of “nows” treated neither of the two on their strongest side. We have already seen this with respect to Aristotle. The same also applies, however, to Hegel. Take, for instance, Hegel’s following contention about time: Time “is the being which, in that it is, is not, and in that it is not, is. It is intuited becoming; admittedly, its differences are therefore determinated as being simply momentary; in that they immediately sublate themselves in their externality, however, they are self-external”39. One may take this contention as a paraphrase of the unlimited “now” which Aristotle compared with the always changing and only relatively resting physical ousia of Coriscus or of anything else. Such an 35 Cf. Aristotle’s Physics. A revised text with introduction and commentary by W.D. Ross, Oxford 1960, p. 599. 36 Cf. Physics, IV 11, 219b18 ff. 37 Der Satz der Identität, originally published in Die Albert-Ludwigs-Universität Freiburg 1457-1957. Die Festvorträge bei der Jubiläumsfeier, p. 76. 38 Ibid. 39 Hegel’s Philosophy of Nature, transl. by M.J. Petry, vol. I, London 1970, pp. 229 f. (Werke, Suhrkamp 9, 48). 233 studi ousia shows the structure of the unlimited act (energeia ateles) which Heidegger interpreted as Bewegtheit embracing both movement and resting. For Aristotle’s definition of apeiron does not read, as it has been sometimes translated40 “that which always has something outside itself”. This corresponds rather to the definition of the perfect or limited. The limits (points, lines, surfaces), taken as in contiguity, not continuity, are themselves only outside each other just like those “nows” by means of which we break up the only one continuous “now” into more or less smaller events in an ultimately futile attempt to control the unique Ereignis in whose tapestry we are all, as it were, interwoven. Aristotle’s definition of the unlimited should, of course, read instead: “that of which some part is always outside” (“hou aei ti exo”, where “hou” modifies “ti”, and not “exo”)41. It is precisely because the moments are not outside each other, but each individual moment is, as Hegel himself said, outside itself (“sich selbst äusserliche”, “selfexternal”) that they form a unique and continuous flowing. So much for potentialities that had perhaps even in Aristotle not always been fully actualized, but which a sympathetic reading of Heidegger’s interpretations of Hegel and Aristotle could help to bring, if not fully then at least a little further, to light. Along these lines one might fairly straightforwardly gain a view of the traditional notion of substance more orientated towards a temporal rather than to a spatial model of substance as conceived under the new-Scholasticism, just as Heidegger once was trying to “liquidize” (but not yet to “liquidate”) the concepts of scholasticism. I come now finally to some brief considerations of a more general kind. 3. Concluding Remarks As radically temporal we too are always outside ourselves and thus vulnerable. To be sure, all things in the world are alike in being somehow composed of that enigmatic stuff which is ecstatic time. But we alone are aware of the fact, and try to escape our fate by compensatory devices such as computation of time and so on. The result is what we usually call “culture” — from the most primitive burial rites to the most sophisticated technology, be it beneficial to or destructive of mankind. Philosophy as such, and metaphysics in particular, forms a part of such precautionary measures. But inasmuch as we fail to take seriously our radical temporality and historicity, i.e. the fact that we do not merely consist in being something (bestehen), e.g. in being a rational animal, but do also properly ek-sist (ent-stehen), all cultural precautions, humanism included, are, according to Heidegger, in the end illusory and self-delusive. 40 E.g. as late as 1987 by H.G. Zekl, cf. Aristoteles’ Physik, Griechisch-Deutsch, Hamburg 1987. 41 Physics, 207a1, 8. 234 Fernando Inciarte “Ek-sistence” is always in the process of starting anew, provided one does not succumb to routine. Anything that may be said to consist in being something else, anything that has consistency (Bestand) is always an objective content (Inhalt). Philosophy, for instance, as a cultural precaution, is full of contents. All that we can grasp with the help of a definition — man or whatever — is a content. But time is not a content, nor does man in his historicity consist in anything. Ek-sisting rather than consisting beings like ourselves are, of course, always relentlessly getting older and passing away, but at the same time they are always starting to be in the first place. In other words, man, history, philosophy, being, are, like time, always repeating themselves; but, like time itself, what they are always repeating are not closed realities but open possibilities. The title of Deleuze’s book, to which I previously referred, Différence et Repétition, was intended to hint at this — only its author completely failed to realize how much of all this is already to be found in Aristotle, whom he has so maligned in his book42. Similarly, it would perhaps not be false to say that had Heidegger from the beginning better assessed Aristotle’s and Hegel’s views on time and ousia, then he would have arrived much earlier at his notion of Ereignis as appropriation. But this would — at best — be true in a rather irrelevant way: what matters is not the duration or the length of the way traversed but the traversing itself, a traversing which is always at the same time a transformation. Thus, at the beginning of his above mentioned lecture on “Identity”, Heidegger wrote: “In thinking about something that matters it might happen that, on the way, thought undergoes some change. So, in thinking of identity, it is advisable to pay less attention to the content than to the way. The very unfolding of a lecture such as this makes it impossible anyway to dwell on the content”43. Here again, you have the overcoming of the misrepresentation of real time as an extended line with points succeeding one upon another in the way Heidegger once interpreted the whole Aristotelian as well as Hegelian notion of time. However, the overcoming of such a misrepresentation in the last quotation sounds as if a lecture could never stick to just one topic. But what was meant was rather the opposite, namely that, if the topic is a dead one, nobody can stick to it for any length of time, except outwardly, whereas if the topic is a living one — not a topic at all, as it were, i.e., not a pure content — it varies continuously so that one cannot simply return to the same spot as one can direct his view back and forth along a straight line. (Etienne Gilson was, incidentally, present at this lecture, having received during 42 Cf. Différence et Repétition, Paris 1965. The main shortcoming of this book lies in the inability of its author to grasp why, according to Aristotle, the differentia specifica does not merely express a part of but the whole ousia. In this he was indeed following Scotus’ doctrine of univocatio entis in the usual sense of this term (cf. note 5 above). As for Scotus’ own inability to cope with Aristotle’s doctrine of ousia in this respect cf., e.g., “quod finalis differentia erit terminus et definitio, nullo modo potest intelligi, quod tota ratio quidditativa sit in ultima differentia…” (In IV Sent., d. 11, q. 3, ed. Vivès, n. 47). 43 Der Satz der Identität (s. note 36 above), p. 69. 235 studi the same ceremony an honorary degree from the University of Freiburg. It was after this lecture that he remarked: “I have only twice heard philosophy spoken aloud (en haute voix): once by Henry Bergson and today by Heidegger”). Now, what to Heidegger as well as Deleuze remained hidden in the metaphysical theory of ousia — hidden perhaps even to metaphysics itself — was the possibility of viewing ousia not only in the sense of substance but even in that of essence, as something transforming itself continuously like time, though, of course, not essentially. One may bring out the appropriate kind of transformation in terms borrowed from Aquinas by saying that the change concerns only the ousia as forma substantialis, whereas the ousia as forma essentialis or eidos (in the sense of species) remains unchanged. In this, Aristotelian essentialism clearly differs from any kind of holism for which there are no bounds marked by the different species beyond which no individual can change and yet remain itself. This reservation does not go against taking Aristotle’s analogy between real time and substance in a strong sense. On the contrary. Let us explain this briefly before ending. Independently of whether time be considered in terms of the history of being or in terms of the one and only continuous “now”, there are two possible mistakes that one may make in dealing with time, and if, as in a statement once derided by Heidegger44 Hegel thought, time is somehow even the truth of space then there are also two possible errors one may commit in dealing with space, the error of thinking that nothing is old, and the error of thinking that nothing is new. Take the example of a straight line that has been drawn on a blackboard. As long as it has not been erased, enlarged, or foreshortened, it seems to remain unchanged as far as its being on the blackboard is concerned. But this is not in fact the case. Only so long as one fails to take into account the lapse of time, i.e. the flowing of the one and only real “now,” can one consider the straight line on the blackboard unchanged. For as soon as one has finished drawing it45 the line is, of course, already there, but at each particular moment in time it is only there then, and not at some later point in time. The line is itself something temporal. As such, it is, like everything else, changing. Only when regarded in merely spatial terms can it be said not to have changed. However, nothing is purely spatial. In this, Aristotelianism — especially with regard to its critique of Anaxagoras and Empedocles46 — is Hegelianism and Heideggerianism avant la lettre. A 44 “‘Die Wahrheit des Raumes ist die Zeit’ […] Die umgekehrte These hat Bergson ausgesprochen […] Bergson aber wie Hegel vernichten das, was an echtem Gehalt darin liegt, dadurch, daß sie ihn aufheben, nicht in sicherer Wahrheit, sondern in einer grundsätzlicher Sophistik, von der überhaupt Hegels Dialektik lebt” (GA II 21, p. 252). 45 Cf. G.E. O WEN , General and Particular, in Proceedings of the Artistotelian Society, London 1979/80, p. 18: “... an unfinished statue can be a statue, an unfinished circle is not a circle. Aristotle disregards the difference, even in house-building (Phys. 201 b 11-12) [...] statements of the form “A is becoming/making a Y” do not carry in their truth-conditions or entailments any requirement that there must (timelessly) be some particular Y for A to become/make”. 46 Cf. Physics, VIII 1. 236 Fernando Inciarte thoroughly unchanging and hence timeless universe is as impossible for Aristotle as it is for Hegel or Heidegger. The fact of the line changing, however, is not limited to a particular period of time. Periods of time are always periods of rest: time frozen, as it were, by the mind, which — by virtue of its retentional as well “protentional” (Husserl) power to extend or stretch the “now” — is able to transform time into space, that is to say, that which represents no magnitude at all into a magnitude. By way of contrast, the fact of the line’s changing depends on the fact that real time as the unique “now” does not stop flowing any more than the universe stops moving, whereas any period of time or, for that matter, of history is by definition limited and static. A period of time, like the line drawn on the blackboard, must have a beginning and an end. It is not limitless, apeiron. To put it briefly, then, the first error would be to deny that, regardless of how late in the course of its development it might be at a given point in time, the universe is always new, that in it nothing is ever left behind, i.e., left behind in a past that no longer exists. In this sense, of course, nothing can be said to be old. The second error is just the reverse of the first. It consists in proceeding from the fact that, to take the same example, the straight line remains unchanged in its career — for, however dull its career, it is like everything else in that it, too, is always starting afresh — to the conclusion that the line that yesterday I saw on the blackboard and that I still see there today is not allegedly the same line at all and, in general, that nothing can be said to be old or aging in any sense whatsoever. This would be tantamount to denying that Coriscus can at any two points which we may choose to select within the ceaseless flowing of real time be the same person, on the grounds that Coriscus-at-the-Lyceum is no longer Coriscusin-the-market-place — as if the real thing were not the changing Coriscus himself but rather his unchanging abstract states “Coriscus-at-the Lyceum” and “Coriscus-in-the-market-place”, or as if the real time were not the only one “now”, but rather different nows succeeding one upon another. True, if Coriscus is no longer in the market place, then this state of Coriscus is no longer anywhere, not even somewhere in the past, since the past does not exist. Therefore, one cannot even say that it has been left behind, except of course in the sense that his having been in the market-place has been preserved in the memory of all those who happen to think of Coriscus’ displacement. But this does not prevent its being in Coriscus in the sense of having been there. We are so used to the idea of substance as something that solidly remains in space throughout temporal change that we scarcely realize the challenge contained in this second error. Due to a reifying tendency inherent in the spatial representation of substance, we are naturally inclined to regard the previous stages in the career of whatever we are talking about as having been left somewhere behind unchanged — like a line which after having been drawn on a blackboard is still there. It costs us not a little bit of effort to realize that they are just as little anywhere as, say, the skull of the young St. Thomas which was allegedly kept in Montecassino while that of the older St. Thomas had been buried at Toulouse. In other words, whereas there 237 studi is at least some truth in Hegel’s dictum according to which time is the truth of space, its converse — viz. that space is the truth of time — has nothing to offer except the coarse representation of real time (or substance) as a straight line. But to throw away the idea of the identity of substances “over time” for this reason — i.e., to abandon the very idea of physical substances altogether — would be but another way of clinging to the same coarse representation. A physical substance is, by virtue of its temporality, analogous to a snail carrying along all its belongings — omnia mea mecum porto — or like a tree that has its annual rings inside it. It is precisely because nothing is left behind that all things, while constantly in the process of starting anew, are at the same time always getting older. Coriscus’s now being in the Lyceum is different, simply by virtue of his previously having been in the market-place, from what it would have been had he not been in the market-place. The same applies to the notions of Ereignis and of the history of being. Just as it is wrong to say that there is nothing new or nothing old since time is precisely both passing away and starting to be at once, so it would be equally wrong to say that, e.g., Aristotle’s, Hegel’s, and Heidegger’s Sache — the thing that matters for each of them — was each always the same or always different. Either way we would not be progressing beyond, but rather falling behind, Aristotle’s analogy between time and substance. For it would be like saying that physical accidents as well as the happenstance of everyday life or even the different epochs in the history of mankind do not affect either the essence of things or the Sache des Denkens; it would be like adding differences to the identical genus from without and in the process getting only the dead content of eide as general species (the forma essentialis) instead of the living essence (the forma substantialis), the soul, or the heart, of the matter. From this standpoint this would be no less wrong than to say that, from Aristotle or even from Parmenides onwards up to Heidegger and beyond, the questions or problems of philosophy have remained the same, and that only the answers or solutions offered in response to them have been different. Were we to cling to this idea we would still be thinking in rather straightforward terms of a thoroughly unchanged, extended line — i.e. of content rather than of a changing path, relying more on a spatial rather than a temporal model for viewing philosophy and its history. But the fact that not only the answers, or solutions, but along with them also the questions or problems do change throughout history ought not to deter one from saying that the Sache des Denkens is always the same. Otherwise, the history of philosophy would be, as Hegel put it, but a collection of peculiar opinions. Since the similarities between Aristotle’s theistic, Hegel’s quasi-pantheistic, and Heidegger’s atheistic thought do not reflect the repetition of a closed reality or content but that of an open possibility, the path which leads from Aristotle to Heidegger via Hegel cannot be said to have started with Aristotle or stopped with Heidegger. Surely the fact that neither Aristotle’s nor Hegel’s metaphysics was atheistic is mainly to be attributed to the fact that neither rejected, as did 238 Fernando Inciarte Heidegger47, the ultimate truth of the principle of non-contradiction. It is true that for Hegel, unlike Aristotle, contradiction is the very soul and essence of anything that is not in itself dead. But contradiction is not the only force pushing forward that process in which — if in anything — being consists for Hegel. Just as vital for the process of being is the striving to overcome that contradiction which lurks in each one of the several stages of a given life-process — be it that of consciousness or anything else — with the result that the validity of the principle of noncontradiction is preserved, if not during the individual stages themselves, then at least at the end, i.e. in the process as a whole. Whether pantheistically or not, all forms of productive contradiction — be they in thought, nature, or history — find their resolution in God. That is why Hegel can close his system with a quotation from Aristotle without having to take the trouble to comment on it48. As Aristotle put it, without the principle called God nothing would exist at all49. To place such a great emphasis on the negativity of the world is Hegelianism ante litteram. But is it compatible with Heidegger’s atheistic thought? His not accepting non-contradiction as a principle at all blocked the way of onto-theology after all. But perhaps the resulting thought only appears atheistic because Heidegger preferred to embrace the contradiction involved in accepting only the ultimate Heraclitean physis-logos till the very end, in the belief that the miracle of being thus becomes all the more conspicuous; in other words, because he preferred to go on wondering at the fact that there should be something rather than nothing instead of asking why there is something and not nothing, this latter being — as he put it — still a metaphysical question, and the ultimate one at that; because, let us say, he preferred to peer over the abyss (Ab-grund) rather than to search for some final ground — lest the source of all philosophy, wonder, should disappear. Somewhere else in his Remembrance of Things Past, with which I started, Marcel Proust wrote: “An artist has no need to express his thought directly in his work for the latter to reflect its quality; it has been said that the highest praise of God consists in the denial of him by the atheist who finds creation so perfect that it can dispense with the creator.”50 Heidegger’s attitude towards religion is less clear-cut than that. The ambiguity ranges from the almost Satanic lifting of the hand against God — which Heidegger attributed to philosophy even at the time in which he considered himself to be doing philosophy — to something perhaps quite the opposite of this51. Who knows whether somehow — behind his giving 47 Cf., e.g., GA II 33, pp. 198 f. (taking into account that for Aristotle, Protagoras was the main opponent of the principle of non-contradiction). 48 Cf. Enzyklopädie, par. 577, in Werke (Suhrkamp) 10, p. 395. 49 Cf. Metaphysics, IX 8, 1050 b 19, XII 6, 1071 b 55 f. 50 Ibid., p. 430. 51 Cf., e.g.: “Jede Philosophie […] muß […] gerade dann, wenn sie eine ‘Ahnung’ von Gott hat, wissen, daß das von ihr vollzogene sich zu sich zurückreißen des Lebens, religiös gesprochen, eine Handaufhebung gegen Gott ist. […] atheistisch besagt hier: sich freihaltend vor verführerischer, Religiösität lediglich beredender, Besorgnis” (Phänomenologische 239 studi up of not only any cultural way of transforming the thingness of things into the objectivity of objects including exact research, metaphysics, and finally even philosophy as a whole — there did not lie something like Hölderlin’s complaint, viz. “zu lang ist alles Göttliche dienstbar schon,” i.e., the sadness about the instrumentalizing of the divine “since long, too long ago,” which Heidegger himself reckoned to the Frömmigkeit des Denkens qua Dankens, to the piety of thinking qua thanksgiving or gratitude. But this does not remove the ambiguity of Heidegger’s thought as regards the issue of atheism; it rather makes it inevitable52. On the other hand, I have in no way been claiming that the objectifying method of Forschung, or research proper to the historiography of philosophy, should be forced to yield pride of place to something as questionable (fragwürdig) as the history of being. Indeed, were one to forsake the former for the latter, one would be in even less of a position to do justice to Seinsgeschichte itself53. All that I have been suggesting is that the model called by Marcel Proust the German model of exact investigation represents a more historical than philosophical approach to the history of philosophy, and that the concern with the history of being possibly represents, by contrast, a more philosophical than historical approach. *** Abstract: Per quanto riguarda lo studio storico della metafisica, Heidegger rifiuta sia il modello tedesco di ricerca esatta (Forschung) che quello dell’umanesimo culturale. Invece, Heidegger propone che la filosofia, nel trattare il proprio passato essenziale, deve soprattutto cercare di mettere in luce le possibilità nascoste nella metafisica che prima non siano state trovate. Heidegger esegue con questo spirito la sua interpretazione di Aristotele e di Hegel. In questo articolo si tenta di esaminare il pensiero dello stesso Heidegger e della sua interpretazione di Aristotele e di Hegel sotto la stessa luce per quanto riguarda gli argomenti dell’essere, del tempo e della sostanza. Questo metodo si distacca da quello della Forschung offrendo un modello più filosofico che storico per l’interpretazione appunto della storia della filosofia. Interpretationen zu Aristoteles, in Dilthey-Jahrbuch (s. note 10 above), p. 246, note 2. Cf. also the quotation in note 25 above). 52 Cf. notes 26 and 51 above. 53 To take only one example: it can be shown that Heidegger’s notion of Aristotelian energeia is defective inasmuch as it takes into consideration only the aspect of manifestation (“sich zeigen in Anwesenheit”) and not that of (perfect) activity. But with regard to Heidegger’s reversal of the priority relation between actuality and potentiality, his was at least a productive error. 240 ACTA PHILOSOPHICA, vol. 9 (2000), fasc. 2- PAGG. 241-265 La question du dualisme anthropologique. Une analyse d’après Robert Spaemann PAULIN SABUY* Sommario: 1. Le problème. 1.1. L’actualité du problème. 1.2. La radicalisation de la subjectivité. 1.3. L’hétérogénéité de l’expérience fondamentale de l’homme. 2. Quelques tentatives de solution. 2.1. J. de Finance. 2.2. Ricœur. 3. L’approche anthropologique de Robert Spaemann. 3.1. L’inversion de la téléologie. 3.2. L’être comme Selbstsein. 3.3. La non-identité essentielle. 3.4. La raison, forme de la vie. 3.5. L’être de la personne et la liberté. 3.6. Au delà de l’objectivation du langage. 4. Conclusions. ■ 1. Le problème Le problème du dualisme anthropologique a quelque chose à voir avec l’hétérogénéité fondamentale de l’expérience humaine. En effet, nous sommes partagés entre le dynamisme de nos penchants naturels, qui tendent à s’exprimer immédiatement, et un certain intérêt à les différer, quand nous en prenons conscience comme tels. La question de la fondation de l’unité de l’homme devient ainsi une préoccupation principale de l’anthropologie. En fait, elle a accompagné le cheminement de la pensée philosophique dès le commencement1. * Pontificia Università della Santa Croce, Piazza di Sant’Apollinare 49, 00186 Roma 1 Aristote, par exemple, considérait que, par rapport aux facultés de l’organisme humain, la raison vient tyrathein, “du dehors” (De la génération des animaux, 736b). Cette affirmation fut à l’origine de la controverse qui opposa Thomas d’Aquin aux avveroïstes, au XIIIe siècle. Ce dernier adopta une démarche qui, mettant l’accent sur les conditions d’exercice de la rationalité — «Hic homo intelligit», observait-t-il —, lui permit d’affirmer: «Id quo intelligimus [est] forma corporis physici», ou encore: «Intellectus [est] potentia animae, quae est actus corporis» (De unitate intellectus. Contra averrhoistas, respectivement nn. 61, 11 et 12). Il repoussait, de cette façon, la position de ses adversaires qui eux, partant du contenu des actes de la rationalité et, donc, de leur “autonomie” par rapport aux facultés de 241 studi 1.1. L’actualité du problème L’actualité de ce problème tient notamment au fait que certains auteurs contemporains, soucieux d’éduquer aux valeurs, restent sensibles au prestige de la liberté, mais la conçoivent souvent en opposition, ou en conflit, avec la nature matérielle et biologique, à laquelle elle devrait progressivement s’imposer. A ce propos, diverses conceptions se rejoignent dans le même oubli du caractère de créature de la nature et dans la méconnaissance de son intégralité. Pour certains, la nature se trouve réduite à n’être qu’un matériau de l’agir humain et de son pouvoir: elle devrait être profondément transformée ou même dépassée par la liberté, parce qu’elle serait pour celle-ci une limite et une négation. Pour d’autres, les valeurs économiques, sociales, culturelles et mêmes morales ne se constituent que dans la promotion sans limite du pouvoir de l’homme ou de sa liberté: la nature ne désignerait alors que tout ce qui, en l’homme et dans le monde, se trouve hors du champ de la liberté. Cette nature comprendrait en premier lieu le corps humain, sa constitution et ses dynamismes: à ce donné physique s’opposerait ce qui est “construit”, c’est-à-dire la “culture”, en tant qu’œuvre et produit de la liberté. La nature humaine, ainsi comprise, pourrait être réduite à n’être qu’un matériau biologique ou social toujours disponible. Cela signifie, en dernier ressort, que la liberté se définirait par elle-même et serait créatrice d’elle-même et de ses valeurs. C’est ainsi qu’à la limite l’homme n’aurait même pas de nature, et serait à lui-même son propre projet d’existence. L’homme ne serait rien d’autre que sa liberté!2. Ce diagnostic de l’Encyclique Veritatis splendor sur la situation du concept de nature dans certains courants de la philosophie et de la théologie morale montre l’importance d’une nouvelle réflexion sur cette notion, et particulièrement en rapport avec l’idée de personne. Toute la question tient dans l’affirmation suivante: l’homme en tant qu’il se caractérise par la liberté ne peut pas être considéré en termes de nature; il n’y aurait pas à proprement parler une nature de l’homme: la personne est autre chose que la nature. Mais, est-il nécessaire de cesser de se considérer comme des êtres naturels pour s’affirmer comme des personnes? Comment faut-il concevoir la notion de nature pour qu’il soit légitime de parler d’une nature humaine et, par conséquent, d’une nature de la personne? Voici quelques unes des questions qui pourraient se 2 l’organisme, situaient la raison hors de l’individu et considéraient qu’elle devait être la même pour tous les hommes (cfr. SIGER DE BRABANT, In III De anima, q. 11, lignes 4-5). Cette position était, aux yeux de saint Thomas, incompatible avec la foi chrétienne. Ce problème, comme on va le voir, se posera encore une fois, en des termes nouveaux, à partir de Descartes. JEAN-PAUL II, Lettre Encyclique Veritatis splendor, n. 46. C’est nous qui soulignons. 242 Paulin Sabuy poser et que Spaemann affronte explicitement3. Il n’est pas le seul à le faire. A vrai dire, il s’agit là d’un problème d’actualité — je viens de le relever — du moment qu’il en va notamment de la fondation même des droits de l’homme4. Ainsi, on se demande, par exemple, s’il est juste de parler des droits de l’homme ou s’il est plus exact qu’on dise les droits de la personne. Il se pose alors des questions comme celles-ci: Les enfants non encore nés ou les moribonds inconscients sont-ils aussi des personnes? Peut-on parler, en toute rigueur, des droits — au sens de droits inaliénables et inconditionnés — dans de tels cas, alors même que ces êtres n’ont pas la capacité d’entrer en rapport avec d’autres, sur le mode du discours rationnel qui caractérise les personnes? Ne s’agirait-il pas, dans le meilleur des cas, de droits au sens large; un peu comme on parle de droits des animaux qui sont toujours sous tutelle des hommes, ou si l’on veut, peut-être dans un degré supérieur, mais pas de droits de l’homme, au sens propre, c’est-àdire au sens des droits de la personne? On en vient ainsi à la nécessité d’une caractérisation de la personne. Qu’est-ce que la personne, qui est personne? 1.2. La radicalisation de la subjectivité Le problème du dualisme de la personne et de la nature est particulièrement aigu dans le courant de pensée qui cherche à définir la personne sur la base de la seule intériorité, c’est-à-dire en partant de l’autoconscience. Cette tradition se rattache aisément à la distinction cartésienne res cogitans-res extensa5. Selon 3 4 5 R. SPAEMANN, Das Natürliche und das Vernünftige. Aufsätze zur Anthropologie, Piper, München 1987, Avant-Propos, p. 8. «Die gedanklichen Bemühungen um den Personbegriff schienen bisher von einem eher theoretisch-akademischen Interesse zu sein. Das hat sich im Lauf der letzten Jahre auf unerwartete Weise geändert. Seit Boethius hatte “Person” als ein nomen dignitatis, also als ein Begriff mit axiologischen Konnotationen gegolten. Seit Kant wurde er zum zentralen Begriff bei der Begründung von Menschenrechten. In den letzten Jahren aber hat sich seine Funktion umgekehrt. Der Personbegriff spielt plötzlich eine Schlüsselrolle bei der Destruktion des Gedankens, Menschen hätten, weil sie Menschen sind gegenüber ihresgleichen so etwas wie Rechte. Nicht als Menschen sollen Menschen Rechte haben sondern nur, soweit sie Personen sind. Nicht alle Menschen und nicht Menschen in jedem Stadium ihres Lebens und jeder Verfassung ihres Bewußtseins sind, so wird uns gesagt, Personen» (R. S PAEMANN , Personen. Versuch über den Unterschied zwischen Etwas und Jemand, Klett-Cotta, Stuttgart 1996, Introduction, p. 10). P. RICOEUR fait la constatation suivante: «La compréhension des rapports de l’involontaire et du volontaire exige donc que soit sans cesse reconquis sur l’attitude naturaliste le Cogito saisi en première personne. Cette reconquête peut bien se réclamer du Cogito de Descartes; mais Descartes aggrave la difficulté en rapportant l’âme et le corps à deux lignes hétérogènes d’intelligibilité, en renvoyant l’âme à la réflexion et le corps à la géométrie: il institue ainsi un dualisme d’entendement qui condamne à penser l’homme comme brisé […]. La reconquête du Cogito doit être totale; c’est au sein même du Cogito qu’il nous faut 243 studi cette vision anthropologique, la personne est référée surtout, ou même exclusivement au fait que nous avons l’expérience de nous-mêmes comme pensants, comme ayant conscience d’être. Et si on adopte une démarche empirique, c’està-dire si l’on conditionne la reconnaissance de la personne à la manifestation actuelle de la conscience, l’opposition entre être humain et personne se trouve définitivement établie. C’est ce que font, à la suite de John Locke, certains auteurs dont Spaemann a fait ses interlocuteurs6. On en tire alors diverses conséquences dont celle, pire entre toutes, qui admet la distinction entre personnes actuelles et personnes potentielles7. Les difficultés d’une telle position devraient être évidentes. Si on se rappelle que “personne” est, à l’origine, l’expression d’une dignité ontologique, parler de “personnes potentielles” pose le problème de l’actualisation de cette dignité. Cela, en pratique, revient à établir un critère conventionnel de reconnaissance, qui livrerait, eo ipso, les “personnes potentielles” au pouvoir des “personnes actuelles” (qui seraient les seules à établir ce critère). Un tel critère pouvant toujours, en principe, changer, il s’en suit que le rapport entre les deux “catégories” de personnes relèvera d’une certaine “tyrannie” des uns sur les autres, surtout quand il est question du droit fondamental à la vie. Et, au bout du compte, c’est l’idée même de personne qui s’en trouverait détruite. La distinction entre “personnes potentielles” et “personnes actuelles” comporte, donc, une insuffisance théorique grave. Celle-ci vient d’une mauvaise approche du problème du dualisme de la personne et de la nature, ainsi qu’on va le voir. Or il ne s’agit pas d’une simple discussion académique. On le sait, cette question ne manque pas de retombées pratiques, notamment quand il s’agit de prendre position face aux problèmes concernant le droit à la vie des êtres humains dans certaines situations. Qu’on pense à l’avortement, à l’euthanasie, au jugement à porter et à l’attitude à adopter face aux phénomènes d’extermination des masses, d’épurations ethniques etc. Considérer les droits des êtres de notre espèce, quand ceux-ci ne disposent pas de l’usage actuel de la raison (ou de la parole), dans le sens des “droits” reconnus aux animaux, ou en général à la nature non humaine, nous répugne. Et ce n’est pas une question de tabou; il ne s’agit pas non plus d’un chauvinisme d’espèce, ainsi que Singer le suggère8. Parfit, quant à lui, va jusqu’à affirmer que l’on ne peut pas proprement parler 6 7 8 retrouver le corps et l’involontaire qu’il nourrit» (Philosophie de la volonté, vol. I, AubierMontaigne, Paris 1949, pp. 12-13). Le diagnostic de Ricœur me paraît tout à fait juste. Mais, en ce qui concerne la voie de solution qu’il propose, il y a lieu de soulever la question suivante: Et si ce n’était pas au sein du Cogito qu’il faut chercher une sortie à l’impasse du Cogito (cartésien)? Cfr. R. SPAEMANN, Personen, cit., p. 10. Il s’agit notamment de Peter Singer et de Derek Parfit. Cfr. P. SINGER, Questions d’éthique pratique, Bayard, Paris 1997, pp. 137ss. Cfr. ibidem, p. 61. Cet auteur emploie le terme “spécisme”. 244 Paulin Sabuy d’une personne même dans le cas d’un homme endormi9, corroborant ainsi la position de ceux qui voient dans la personne une dignité liée à un état de l’homme, au lieu d’y voir une dignité véritablement ontologique. Si être personne signifie qu’on rassemble en soi un certain nombre de qualités, cela voudrait dire que la personne est un état, un stade par lequel passe un être humain. Un tel état ne correspondrait, en toute rigueur, qu’à un homme éveillé et conscient de soi. C’est cela le problème du dualisme de la personne et de la nature. L’homme est tour à tour exalté et humilié. Quand on le considère en tant que “personne”, on affirme sa grande dignité. Et, en même temps, dans certaines situations, on est prêt à le réduire, au rang d’un simple objet de la nature. 1.3. L’hétérogénéité de l’expérience fondamentale de l’homme Cette double considération a quelque chose à voir avec l’expérience de l’homme, ai-je dit plus haut. En effet, l’expérience fondamentale que j’ai de moimême est celle d’un être susceptible de prendre de la distance par rapport aux inclinations. Les penchants que j’éprouve ne dépendent pas de ma liberté. Il est vrai que je peux provoquer des sensations. Par exemple, je peux provoquer, le désir de manger en fixant mon attention sur un plat particulièrement appétissant. Mais l’inclination ou la tendance qui se trouve à la base de la sensation n’est jamais posée par moi. Le fait de pouvoir provoquer la sensation n’est qu’une preuve supplémentaire du fait que je garde une certaine distance par rapport à l’inclination. L’inclination peut ensuite devenir un vouloir, car je connais l’objet de la tendance comme tel. Ainsi, je peux distinguer nettement les actes qui me sont possibles grâce à cette capacité de “réfléchir”, c’est-à-dire, les actes qui procèdent d’une certaine initiative de ma part, et que j’expérimente comme libres, d’un côté. Et, de l’autre côté, j’expérimente aussi les sensations, qui dépendent d’un objet extérieur, vers lequel la tendance m’incline, suivant un certain mouvement d’immédiateté. Il peut alors se poser le problème du statut ontologique de ces actes, ou des états correspondants, qui font partie de notre expérience fondamentale, dans le cadre d’une théorie philosophique sur l’homme. Dans la tradition de la philosophie analytique, on parle aussi de “prédicats”, pour désigner ces différents états et qualités que nous attribuons à l’homme, et dans lesquels il fait, tour à tour, l’expérience d’un certain pouvoir d’initiative et celle de la passivité. Ainsi, par exemple, selon cette tradition, les prédicats mentaux ou psychiques correspondent au premier genre et sont attribuables à l’âme (mens), tandis que les prédicats 9 Cfr. D. PARFIT, Reasons and Persons, Clarendon Press, Oxford 1987. Paul Ricœur offre une bonne vue d’ensemble et une critique des positions fondamentales de Parfit dans son livre Soi-même comme un autre, Éd. du Seuil, Paris 1990, pp. 156-166. 245 studi corporels ou physiques sont ceux qui font référence au corps10. On remarque un certain effort de dépassement du dualisme anthropologique au sein de la philosophie analytique actuelle, qui admet l’attribution à la personne comme telle, des prédicats non seulement psychiques mais aussi physiques11. La question du dualisme de la personne et de la nature se rattache à ce problème. Les chances que l’on a de surmonter ce dualisme dépendent de la manière dont le problème du statut ontologique des événements psychiques et physiques est résolu, ou mieux encore, de la manière de fonder ontologiquement la double articulation de l’expérience fondamentale de l’homme. 2. Quelques tentatives de solution Avant d’analyser l’approche anthropologique de Robert Spaemann, je me propose, d’examiner, brièvement, la conception de la personne (par rapport à la nature) qu’ont deux auteurs de langue française: Joseph de Finance et Paul Ricœur. Le premier se situe volontiers en continuité avec la tradition classique, tout en restant attentif aux apports de la philosophie moderne, comme on va bientôt le voir. Le second se réclame d’une phénoménologie herméneutique pénétrée du souci de fondation ontologique. Pour discuter de leurs positions respectives, j’analyserai la vision des choses qu’ils présentent dans leurs ouvrages, non seulement récents et correspondants à la maturité de leur cheminement philosophique, mais qui, en plus, abordent directement le problème du dualisme dont il est question ici: Personne et valeur12 pour J. de Finance, et Soi même comme un autre pour Ricœur. Mais, ça et là, je me servirai également d’autres ouvrages de ces auteurs. Par ailleurs, à travers Ricœur, qui se rattache aussi à la philosophie analytique, j’espère faire apparaître, dans une certaine mesure, l’appréciable effort de dépassement du dualisme anthropologique qu’on remarque au sein de cette tradition, et qui est particulièrement vif chez cet auteur. 10 Cfr. P.F. STRAWSON, Individuals. An Essay in Descriptive Metaphysics, Routledge, LondonNew York 1996, pp. 89ss. Voir aussi P. RICOEUR, Soi-même comme un autre, cit., p. 369. 11 Voir, par exemple, P. RICOEUR, Soi-même comme un autre, cit., p. 369. Spaemann affirme notamment: «Seit der berühmten Definition des Boethius, nach der eine Person “das individuelle Dasein einer vernünftigen Natur” ist, hat die Philosophie die Merkmale zu differenzieren versucht, aufgrund derer wir bestimmte Wesen “Personen” nennen. Diese Versuche gehen in zwei Richtungen. Einmal zielen sie auf eine Präzisierung dessen, was bei Boethius “rationabilis”, “vernünftig” heißt. Vor allem das angelsächsische Denken von Locke bis zur sprachanalytischen Philosophie der Gegenwart hat eine Reihe von Prädikaten herausgearbeitet, durch die Personen definiert werden sollen. Strawson sieht es als wesentlich an, daß Personen Träger mentaler und physischer Prädikate zugleich sind, also nicht bloß “denkende Dinge” im Sinne Descartes’. (Einzelding und logisches Subjekt. Deutsch: Stuttgart 1972, 134) […] In anderem Richtung der Verständigung über den Personbegriff wird der soziale charakter des Personseins in den Mittelpunkt gestellt» (Personen, cit., Introduction, p. 9). C’est nous qui soulignons. 12 J. DE FINANCE, Personne et valeur, PUG, Roma 1992. 246 Paulin Sabuy 2.1. J. de Finance I. J’ai dit que l’idée de la personne conçue comme un état remonte à la doctrine cartésienne de deux substances; mais c’est surtout aux présupposés empiriques des auteurs qui la soutiennent qu’elle doit son actuelle configuration dans le débat philosophique. En effet, J. de Finance part également de l’intuition cartésienne: Cogito ergo sum13. Il en fait un traitement qui se veut original, bien entendu. Pour lui, «le sum ouvre le cogito ou plutôt explicite son ouverture. Car le vrai cogito est un cogito ouvert»14. Ainsi, il est en mesure d’affirmer la possibilité, et même la nécessité d’une notion de “nature humaine”15, sans laquelle il serait difficile, non seulement d’envisager une norme pour la personne16, mais aussi de bien comprendre le sujet humain lui-même17. Et il peut conclure: «Il n’y a pas donc à opposer nature et personne, à refuser les exigences de celle-là au nom des exigences de celle-ci. La personne n’est rien sans nature et la nature raisonnable n’existe que dans une personne, dont elle porte en soi la dignité»18. Et un peu plus loin, il ajoute encore: «Le respect des personnes est inséparable du respect de la nature humaine en elles et il n’y a pas d’amour vrai sans respect»19. II. Ces conclusions sont tout à fait évidentes. Cependant, je trouve que la démarche suivie par J. de Finance présente quelques difficultés. J’en compte principalement deux: d’une part, sa manière de traduire le concept d’animal rationale par “esprit incarné”20 et, d’autre part, la caractérisation (conséquente?) de la liberté comme “autodétermination”21. En effet, ces notions, qui sont légitimes en elles-mêmes, doivent être, à mon avis, bien comprises, dans un raisonnement où l’on cherche à fonder philosophiquement l’unité de l’homme, afin d’éviter des malentendus. La notion d’esprit incarné n’est pas adéquate pour traduire celle d’animal rationale chaque fois qu’elle signifie, en quelque sorte, la rupture de l’unité de l’homme, ou même simplement son insuffisante formulation. Et c’est le cas, semble-t-il, chez J. de Finance, qui continue à parler de la “dualité de visées”22, dans la considération de l’être humain; c’est-à-dire, tantôt du point de vue de «la participation, [de] la descente de l’idée dans la matière», tantôt du point de vue de l’émergence, autrement dit, du point de vue de «la montée de la matière vers l’esprit […], [ ou de la] communication de l’esprit à la matière»23. 13 Cfr. ibidem, pp. 48ss. 14 Ibidem, p. 48. 15 Cfr. ibidem, pp. 60ss. 16 Cfr. ibidem, p. 70. 17 Cfr. ibidem, pp. 43ss. 18 Ibidem, p. 69. 19 Ibidem, p. 70. 20 Ibidem, pp. 23ss. 21 Ibidem, pp. 45-46. 22 Ibidem, p. 32. 23 Ibidem, p. 31. 247 studi Cette dualité de visées ne garantit pas une vision unitaire de l’homme, au delà d’une certaine alternance du Cogito et de l’anti-Cogito, pour reprendre une expression de Paul Ricœur24. Ainsi, quand on regardera la personne comme un esprit qui “descend” dans la la matière ou dans la chair, il s’en suivra que la nature sera, en toute logique, vue comme une limite (extérieure), sur laquelle bute — en fait provisoirement — sa liberté, conçue comme autodétermination, ou tout au moins rien n’empêcherait vraiment que l’on en arrive à cette vision des choses. Il est vrai que la liberté implique une dimension d’autodétermination. Mais la détermination de soi par soi n’est pas, pour autant, indépendante de ce qui, dans le soi, précède le moment de son “expansion” et le rend possible. La conscience de soi n’annule pas le moment d’inconscience — bien que l’acte de conscience soit, en tant que tel, indifférent à ce moment —, ce qui fait que la liberté ne peut être adéquatement caractérisée indépendamment du moment qui précède et accompagne toujours sa manifestation. Être libre n’est pas s’émanciper de la nature. De Finance serait probablement d’accord avec cette observation, puisqu’il affirme la nécessité de respecter la personne à travers la reconnaissance de la dignité de la nature dans laquelle elle se manifeste, ainsi que nous l’avons vu. Cependant, ma critique concerne une importance excessive accordée à la dimension d’autodétermination, ou mieux encore elle porte sur un certain défaut de caractérisation de l’idée de liberté. En effet, là où il est question de l’idée de personne et de la fondation d’un ordre axiologique la concernant, il est impératif de bien saisir, d’énoncer avec clarté et exactitude l’idée de liberté sur laquelle elle est fondée. Autrement dit, il faut considérer la liberté en son sens premier et fondamental, qui n’est pas l’autodétermination, quoique celle-ci en soit le corollaire sur le plan de l’agir. On peut voir encore plus clairement les difficultés que je viens d’évoquer lorsque J. de Finance cherche à comprendre le rapport entre la nature et la liberté. En effet, il dit: «Comme nous ne pouvons être nous-mêmes que dans les limites de notre nature, nous ne pouvons réaliser notre vrai bien — individuel ou communautaire — que dans les limites de ce qui, dans l’ordre axiologique, correspond à cette nature et trouve en elle sa détermination quasi matérielle»25. Il y a lieu de s’étendre sur cet intéressant passage pour voir, par exemple, quel serait le sens à donner à l’expression “détermination quasi matérielle” du bien de l’homme se trouvant dans sa nature, et par conséquent, celle de l’ordre axiologique — si l’on veut prendre cette expression pour synonyme de normativité — qui en découle. On en tirerait sans doute beaucoup de conséquences utiles. Mais ce n’est pas notre sujet. Je considérerai plutôt le fondement que l’auteur donne à sa position. En effet, quelques pages plus haut, il écrit: 24 Cfr. P. RICOEUR, Soi-même comme un autre, cit., 25 J. DE FINANCE, Personne et valeur, cit., p. 70. 248 p. 27. Paulin Sabuy la nature, avec ses habitus, est donnée au sujet comme une condition non posée par lui et hors de laquelle il ne peut s’évader; comme une limite donc, au moins en apparence, de sa spontanéité et de sa liberté. La liberté est un aspect de la nature: cela veut dire qu’il n’y a pas entre elles de vraie opposition, mais cela veut dire aussi que la nature en nous est nécessairement libre: nous sommes […] “condamnés à la liberté”. Il dépend de nous de choisir ceci ou cela, le bien ou le mal; il ne dépend pas de nous d’être mis en demeure de choisir. La nature est la condition non l’ennemie de la liberté: reste que celle-ci étant conditionnée n’est pas liberté pure. Et, conclut-il, c’est ce que la conscience contemporaine a tant de peine à admettre26. Il faut dire, encore une fois, que J. de Finance perçoit bien le problème et y apporte même une solution intéressante. Simplement les termes de celle-ci ne sont pas, anthropologiquement parlant, tout à fait cohérents, sans doute à cause de leur insuffisance. III. D’abord, à bien voir les choses, la liberté n’est pas un aspect de la nature. Si nous prenons la nature au sens de la dotation d’origine de l’étant, reçue dans l’acte créateur qui le fait être, c’est-à-dire au sens de ce avec quoi on naît normalement, la liberté peut, certes, être considérée comme un “aspect” de la nature. Alors on dit qu’il y a des natures libres et des natures qui ne le sont pas. Mais, comme on peut le voir, la liberté n’est considérée comme un “aspect” de la nature qu’en tant que celle-ci est déjà conçue comme libre, en vertu de la distinction que je viens d’évoquer. C’est ainsi que nous disons que la nature humaine est une nature libre. (Si par nature on entend l’ensemble d’impulsions qui “naissent” en nous, c’est-à-dire la simple spontanéité naturelle, la liberté ne serait pas du tout bien comprise, si on la caractérisait comme un aspect de la nature). Du coup, on tombe dans une certaine tautologie, qu’il ne faut pas, pour le moins, perdre de vue, quand il est question de fonder philosophiquement l’unité de l’homme, car, autrement, nous ferions de la notion de nature une pure abstraction et nous réduirions la nature humaine au rang de la nature inférieure, c’est-à-dire au rang de la simple spontanéité naturelle. En tout cas cela reviendrait à escamoter le problème de la double articulation de l’expérience fondamentale de l’homme dont il est question. En effet, quand, par exemple, nous disons que la nature de l’homme est une nature raisonnable, il faut prendre garde à ne pas croire ou faire croire que la raison est une simple différence spécifique, un peu comme quand nous disons que la chauve-souris est un mammifère volant. La rationalité — dans laquelle apparaît la liberté —, en raison de son articulation particulière dans l’homme, instaure un genre nouveau, où la nature est portée au delà d’elle-même, car la simple spontanéité naturelle s’ouvre à une dimension nouvelle qui ne s’explique pas par elle. D’ailleurs, la nature humaine, dans laquelle, grâce à la “réflexion”, nous fai26 Ibidem, pp. 65-66. 249 studi sons la double expérience de l’impulsion spontanée et de notre capacité à prendre de la distance par rapport à l’immédiateté, est ce qui nous permet de comprendre toute autre nature, puisque nous comprenons la simple spontanéité naturelle comme telle, et nous saisissons aussi l’idée de liberté (par rapport à la nature). La nature de l’homme n’est pas seulement une nature parmi d’autres espèces de nature. Elle a valeur de paradigme27. Cela étant, je dirais qu’il y a une certaine contradiction ou, pour le moins, une certaine confusion à caractériser la liberté comme autodétermination tout en la considérant comme un aspect de la nature, quand il est question de la fondation théorique de l’unité de l’homme. D’autre part, il est vrai que la nature est “la condition de la liberté”, et qu’il s’agit d’“une condition non posée” par l’homme lui-même. Mais elle n’est pas simplement une “limite”, elle contient également l’indication des fins (telos), autrement dit, il s’agit d’une limite interne, qui donne du sens. Et au delà de cette “limite”, la liberté s’égare et devient auto-destructive, elle se retourne contre l’homme même. Cela est certainement sous-entendu lorsque J. de Finance affirme qu’«il ne dépend pas de nous d’être mis en demeure de choisir», ou mieux encore, quand il dit que c’est dans la nature que nous trouvons une «détermination quasi matérielle» du bien de la personne, ainsi que nous l’avons vu plus haut. IV. Or c’est la notion de vie qui traduit mieux tout cela; la vie qui précède, accompagne toujours et rend possible l’émergence de la rationalité, par laquelle elle devient consciente d’elle-même. En effet, la vie implique à la fois l’intériorité et l’extériorité dans l’unité d’un même système par rapport à son milieu, ou mieux encore dans l’unité d’un même processus. J. de Finance n’insiste pas assez sur la téléologie naturelle. Autrement dit, la notion de vie, chez lui, est encore conçue en termes d’extériorité28. On comprend alors qu’il caractérise la liberté surtout comme autodétermination. Cela est-il dû au fait que sa critique initiale du Cogito est insuffisante? Ce n’est pas le lieu d’approfondir la question. Je me contenterai d’indiquer que dans le Cogito ergo sum, il n’est pas essentiel pour le Cogito que le sum implique quelque chose comme un processus vital. Il s’en suit qu’un tel processus, s’il est donné, disons empiriquement, lui viendra comme de l’extérieur, c’est-à-dire comme une extériorité qui n’a pas de prise sur la “structure” interne du Cogito comme tel. L’ouverture du Cogito par le sum29 n’est pas une exigence du Cogito lui-même. Enfin, bien que J. de Finance perçoit la nécessité d’une affirmation de l’être dans une perspective pratique30, il ne semble pas avoir surmonté tout à fait la 27 Dans ce sens, Spaemann écrit: «Nous ne pouvons caractériser un comportement observé de l’extérieur comme étant dirigé par la tendance que si nous pouvons l’interpréter par analogie avec “l’être-tendu-vers” qui est la structure de notre propre être-soi» (Bonheur et bienveillance. Essai sur l’éthique, PUF, Paris 1996, p. 230). 28 Voir par exemple J. DE FINANCE, Personne et valeur, cit., pp. 67-69. 29 Cfr. ibidem, p. 48. 30 Ainsi il peut affirmer: «L’amour vise l’autre selon son esse propre» (ibidem, p. 19). 250 Paulin Sabuy conception de l’être comme objet de pensée31. «La conscience de soi, écrit-il, est celle d’un sujet qui est de l’être, dans l’être, et ne peut se saisir comme être dans l’être qu’en s’ouvrant à l’être»32. Mais, il n’y a pas de l’être dans le non-être. En revanche, le contraire peut être vrai ainsi que l’atteste une juste compréhension des notions aristotéliciennes d’acte et de puissance; où l’acte est toujours premier33. On retrouve cette même ambiguité dans un autre important ouvrage: Le «Je […], écrit De Finance, n’est pas un simple objet phénoménal: c’est par delà les “faits de conscience”, une réalité enracinée dans l’être. Son existence est impliquée dans sa connaissance: le penser, c’est l’affirmer. Et sa nature est impliquée dans son existence, car dire: je suis, c’est dire: je suis un être capable de dire: je suis, un être qui se pense dans l’être avec tout ce que cela comporte»34. Il est vrai que la réalité se trouve toujours au delà de “faits de conscience”. Mais dire-je est encore un fait de ce type, c’est-à-dire, ce n’est pas le Je lui-même. C’est ainsi que penser-je n’est pas affirmer-je, si du moins par là on entend l’affirmation pratique. De sorte que c’est seulement dans la sollicitude ou le souci de soi que l’on atteint vraiment — réellement — le Je. L’acte d’être n’est pas la notion générale de l’être. Ce n’est pas l’objet (de pensée) que j’ai dans la conscience lorsque je pense l’être. Ce n’est pas le résultat de mon abstraction. L’acte d’être est l’acte de ce qui existe en tant qu’il existe. C’est ainsi que je “saisis” mon être, non pas avant tout quand je m’ouvre à l’autre, mais, par exemple, dans l’expérience de la douleur, comme ce qui menace ma vie (et donc mon être). L’ouverture à l’autre en tant qu’autre vient après. Et elle se réalise également dans un contexte pratique: elle a toujours la forme d’une affirmation libre, par le respect et la bienveillance. Voilà pourquoi la simple perception de l’autre ne garantit pas l’ouverture à l’autre en tant qu’autre, car elle peut être encore interprétée par rapport à l’intérêt de celui qui perçoit. Autrement dit, celui-ci peut se refuser à rendre justice à l’autre dans son altérité, ne l’interprétant alors que par rapport à son auto-affirmation. Ce qui équivaut à ne pas reconnaître l’altérité de l’autre comme tel. Bien entendu, la reconnaissance de l’autre en tant qu’autre suppose que je me saisis moi-même dans l’être. 31 Cfr. ibidem, pp. 4ss. 32 Ibidem, p. 48. 33 Cfr. R. YEPES STORK, La doctrina del acto en Aristóteles, Eunsa, Pamplona 1993, pp. 242ss. L’idée de la priorité de l’acte apparaît, par exemple, dans le texte de Thomas d’Aquin ci-après: «Ex hoc ipso quod quidditati esse tribuitur, non solum esse, sed ipsa quidditas creari dicitur: quia antequam esse habeat, nihil est, nisi forte in intellectu creantis, ubi non est creatura sed creatrix essentia» (De Potentia, q. 3, a. 5, ad 2). Dans le même sens, Spaemann observe: «Für Aristoteles galt es als Axiom, daβ das Wirkliche vor dem Möglichen ist. Möglichkeit war verstanden als Spielraum der mit jedem wirklich eröffnet ist. Möglichkeit hieβ: “können”. Nur Wirkliches “kann”» (R. SPAEMANN, Philosophische Essays, Reclam, Stuttgart 1994, p. 14). 34 J. DE F INANCE , L’affrontement de l’autre. Essai sur l’altérité, Università Gregoriana Editrice, Roma 1973, p. 29. 251 studi Ce point est capital, non seulement comme préalable d’un concept adéquat de nature, mais aussi comme condition d’une acception de la personne qui résout les difficultés de sa conception comme un ensemble de qualités attribuables à l’être humain. 2.2. Ricœur I. Chez Ricœur aussi, on trouve, tout d’abord, une intéressante critique du Cogito, dans le but de conjurer la dialectique du sujet, tour à tour exalté et humilié, de Descartes à Nietzsche, sans jamais réussir, à ce qu’il semble, à lui assurer une place dans le discours, au delà de cette alternance du Cogito et de l’antiCogito35. Et c’est fort de cette analyse initiale36, que Ricœur s’engage ensuite dans une recherche complexe de la place du sujet qui répond à la question qui?, et dont l’identité est traduite par le terme latin ipse à la différence de l’identitéidem (ou mêmeté) qui s’attribue aux choses, et signifie «la permanence dans le temps […], à quoi s’oppose le différent, au sens de changeant, variable»37. Tandis que «l’identité au sens d’ipse n’implique aucune assertion concernant un prétendu noyau non changeant de la personnalité. Et cela, quand bien même l’ipséité apporterait des modalités propres d’identité»38. Alors que l’identité des choses ou mêmeté signifie que celles-ci demeurent identifiables (au même) à travers les changements et le temps, l’ipséité elle indique autre chose que la mêmeté, c’est-à-dire elle désigne la personne, bien que le corps de la personne appartienne lui-même à la catégorie de mêmeté. Après la clarification initiale, faite dans la longue préface du livre, suivent dix vigoureuses études, au fil d’une argumentation serrée, en une discussion permanente et patiente avec les auteurs les plus divers: Ricœur nous fournit de formidables intuitions sur le sujet personnel qui seul peut répondre à la question “qui?”. Mais quel est le rapport de l’ipséité à la mêmeté? «Avec la question qui? — qui cherche, qui trébuche et ne trouve pas, et qui perçoit? —, revient le soi au moment où le même se dérobe»39. Équivocité de la notion d’identité: la mêmeté n’est pas à confondre avec l’ipséité. Si la mêmeté est accessible par voie de référence identifiante, l’ipséité ne l’est que par le mode de l’autodésignation40. D’une part, «dans une problématique de la référence identifiante, la mêmeté du 35 P. RICOEUR, Soi-même comme 36 Ibidem, pp. 14-26. 37 Ibidem, pp. 12-13. 38 Ibidem, p. 13. J’ai relevé plus un autre, cit., p. 27. haut le fait que dans la tradition de la philosophie analytique, on affirme la nécessité d’une attribution à la personne des prédicats aussi bien psychiques que physiques. 39 Ibidem, p. 154. 40 Ibidem, p. 44. 252 Paulin Sabuy corps propre occulte son ipséité»41; et d’autre part, le soi lui-même «apparaît sous les apparences de la mêmeté»42. Il s’y cache un paradoxe. Et Ricœur l’avoue dès la première étude: «C’est un immense problème — dit-il — de comprendre la manière par laquelle notre propre corps est à la fois un corps quelconque, objectivement situé parmi les corps, et un aspect du soi, sa manière d’être au monde»43. L’opposition ipséité-mêmeté ne signifie donc nullement que le soi soit dépouillé du corps. Au contraire, «posséder un corps, c’est ce que font ou plutôt ce que sont les personnes»44. Ainsi pour Ricœur, «l’appartenance de mon corps à moi-même constitue le témoignage le plus massif en faveur de l’irréductibilité de l’ipséité à la mêmeté. Aussi semblable à lui-même que demeure un corps […], ce n’est pas sa mêmeté qui constitue son ipséité, mais son appartenance à quelqu’un capable de se désigner lui-même comme celui qui a son corps»45. II. Malheureusement, comme on peut facilement le voir, Ricœur ne semble pas dépasser une certaine dichotomie. L’unité de l’homme, la conjonction du corps au soi, ne peut être convenablement fondée, du moment que l’irréductibilité des éléments se situe au point de départ. D’entrée de jeu, les deux objets de la référence langagière — la personne et les corps, appelés “particuliers de base”46 — sont considérés comme hétérogènes. Dans ces conditions, l’unité ne peut jamais être qu’extrinsèque. Et pourtant, Ricœur affirme, un peu avant, dans la préface: «Si l’on admet que la problématique de l’agir constitue l’unité analogique sous laquelle se rassemblent toutes nos investigations, l’attestation peut se définir comme l’assurance d’être soi-même agissant et souffrant. Cette assurance demeure l’ultime recours contre tout soupçon; même si elle est toujours en quelque façon reçue d’un autre, elle demeure attestation de soi»47. Tout le problème c’est que le soi ne comprend pas, ou mieux n’inclut pas le corps; il se trouve dès le départ dans un rapport de dualité avec lui. Certes, Ricœur soutient que «posséder un corps, c’est ce que font ou plutôt ce que sont les personnes»48. Mais, cette affirmation, chez lui, semble être faite par principe, sans qu’elle soit suivie d’une mise en lumière de ses fondements ontologiques. De telle sorte que, malgré cette appréciable élévation du rapport de la personne avec son corps au niveau ontologique, on ne peut éviter l’impression que, en pra41 Ibidem, p. 46. 42 Ibidem, p. 154. 43 Ibidem, p. 46. 44 Ibidem. 45 Ibidem, p. 155. 46 Cfr. ibidem, p. 43. Ricœur fait référence à F. Strawson en ce qui concerne la notion de “particuliers de base”. 47 Ibidem, p. 35. Ricœur présente le soupçon comme le contraire de l’attestation, même s’il en est aussi, à sa manière, une manifestation, c’est-à-dire par négation, comme le revers d’une même médaille. 48 Ibidem, p. 46. 253 studi tique, cela reste une conjonction extrinsèque, parce qu’il y manque quelque chose comme une notion “charnière”, telle que la notion de vie. La référence fondamentale au fait que, le “même” qui apparaît dans la diversité se conçoit toujours sur base de l’expérience que nous avons de nous-mêmes comme le sujet permanent de nos actes et passions, est insuffisamment exploitée. En un certain sens, l’hétérogénéité est inévitable puisqu’elle répond à l’expérience fondamentale de l’homme. Mais c’est justement pourquoi il faut partir de là: de l’expérience de l’homme, qui est celui qui sent et sait qu’il sent; la conscience étant toujours conscience de “quelque chose” qui précède le moment de son propre dévoilement. Et le souci de cette fondation de l’unité devrait nous permettre de surmonter le dualisme des points de vue, que Ricœur réintroduit quand il soutient que la personne est tantôt “ce dont nous parlons” tantôt le “sujet parlant”. Même s’il ajoute aussitôt après qu’il ne faut pas «opposer trop radicalement les deux approches de la personne: par référence identifiante et par autodésignation»49. La personne n’est pas “ce dont on parle” au sens de l’objet de la référence identifiante, car nos jugements versent toujours sur les phénomènes. En revanche, la personne est toujours celui qui parle ou celui qui est potentiellement parlant. En tout cas, celui qui reste toujours au delà de notre discours, quoique le rendant possible: la personne est de l’ordre de l’être. Dans mes jugements et dans les propositions que je formule, l’autre apparaît toujours sous forme de l’ensemble de perceptions que j’en ai, à un moment donné. Il reste donc, en quelque sorte, voilé par ces mêmes perceptions, car il ne s’épuise pas en elles. L’autre ne s’identifie point avec l’ensemble de perceptions que j’en ai, autant je ne m’identifie pas avec l’objectivation de moi-même dans le souvenir de ma propre histoire. L’autre est toujours plus que ces perceptions; mieux encore, il est au delà d’elles. Je ne saisis vraiment l’autre en tant qu’autre que dans la mesure où mes jugements et mes propositions sur lui s’inscrivent aussi dans un contexte pratique, où j’accepte l’autre dans son altérité, par le respect et la bienveillance. Nous allons y revenir. III. Enfin, malgré le souci permanent dont témoigne Ricœur pour la fondation ontologique, il ne paraît pas plus que J. de Finance dépasser une conception de l’être comme objet de pensée. Pourtant, dans la préface de Soi-même comme un autre, la notion d’attestation apparaît chargée de promesse. Ainsi, par exemple, il écrit: «[…] L’attestation est fondamentalement attestation de soi. Cette confiance sera tour à tour confiance dans le pouvoir de dire, dans le pouvoir de faire, dans le pouvoir de se reconnaître personnage de récit, dans le pouvoir enfin de répondre à l’accusation par l’accusatif: me voici! selon une expression chère à Lévinas. À ce stade, l’attestation sera celle de ce qu’on appelle communément conscience morale»50. Mais la référence au contexte pratique est finalement 49 Ibidem, 50 Ibidem, 254 p. 44. pp. 34-35. Paulin Sabuy minimisée, et l’attestation ne culmine que comme l’affirmation de l’«être-vrai de la médiation de la réflexion par l’analyse»51. Et il ajoute plus loin: «Si […] la dimension aléthique (véritative) de l’attestation s’inscrit bien dans le prolongement de l’être-vrai aristotélicien, l’attestation garde à son égard quelque chose de spécifique, du seul fait que ce dont elle dit l’être-vrai, c’est le soi; et elle le fait à travers les médiations objectivantes du langage, de l’action, du récit, des prédicats éthiques et moraux de l’action»52. Même s’il dit bien ensuite que «l’attestation est l’assurance — la créance et la fiance — d’exister sur le mode de l’ipséité»53, Ricœur ne semble pas échapper à une certaine “objectivation” de l’être (et du soi) dont il pressent qu’on lui reprochera54. En effet, dans l’idée de l’attestation, l’apparition du soi (et de l’autre) ne comporte pas clairement une perception du bien, précisément parce que cette notion n’est pas entièrement replacée dans le contexte pratique qu’elle évoque. L’attestation ne se trouve pas mise en rapport avec la “sollicitude” et à la “bienveillance”, dont parle pourtant aussi Ricœur55. Ici aussi, je pense qu’on peut attribuer cette insuffisance à l’absence d’un concept adéquat de vie et de téléologie immanente. Ricœur perçoit, certes, l’importance du concept de vie56. Mais il la prend exclusivement dans le sens du concept spinozien de conatus. Par contre, l’inclinatio n’apparaît point (la nature demeure toujours affectée d’un déterminisme trivial, par un défaut de caractérisation téléologique). La relative déception, écrit-il, sur laquelle se clôt notre attentive écoute des interprétations heideggériennes visant à une réappropriation de l’ontologie aristotélicienne nous invite à chercher un autre relais entre la phénoménologie du soi agissant et souffrant et le fond effectif et puissant sur lequel se détache l’ipséité. Ce relais, c’est pour moi le conatus de Spinoza. […] Je partage avec Sylvain Zac la conviction selon laquelle “on peut centrer tous les thèmes spinozistes autour de la notion de vie” (Sylvain Zac, L’idée de vie dans la philosophie de Spinoza, Paris, PUF, 1963, pp. 15-16). Or qui dit vie, dit aussitôt puissance, comme l’atteste de bout en bout l’Éthique. Puissance, ici, ne veut pas dire potentialité, mais productivité, qui n’a donc pas lieu d’être opposée à acte au sens d’affectivité, d’accomplissement57. En réalité «le fond effectif et puissant sur lequel se détache l’ipséité», c’est toujours l’acte (d’être) sans lequel il n’y a pas simpliciter de puissance. Toute 51 Ibidem, 52 Ibidem, 53 Ibidem, 54 Ibidem, 55 Ibidem, 56 Ibidem, 57 Ibidem. p. 348. p. 350. C’est nous qui soulignons. p. 351. p. 348. pp. 254-255. p. 365. C’est nous qui soulignons. 255 studi potentialité réelle (ou la “productivité” comme le veut Ricœur) ne naît qu’avec l’acte. La puissance n’est jamais antérieure que secundum quid, dans l’ordre de l’action; mais on remonte toujours à un acte qui est premier. C’est ainsi que la productivité suit la potentialité, car le conatus ne s’explique, en définitive, qu’à partir de l’inclinatio. Et l’inclinatio signifie: une potentialité qui s’ouvre chez un être vivant en tant que tel. IV. En ce qui concerne le rapport de la liberté à la norme, Ricœur, après avoir longuement analysé le formalisme kantien ainsi que l’opposition entre l’impératif de la raison et le désir58 conclut: «L’obéissance véritable, pourrait-on dire, c’est l’autonomie»59. Sans doute. Mais à condition qu’il soit également légitime de lire cette phrase en sens inverse: «l’autonomie véritable c’est l’obéissance», obéissance à la nature, parce que la raison pratique est susceptible de percevoir son bien véritable, à partir des inclinations naturelles, qui sont des indications pour l’action de l’homme. À mon avis, le problème du dualisme de la personne et de la nature dont il est question, trouve une réponse plus complète et mieux fondée dans l’œuvre de Spaemann. Les conditions d’une acception adéquate de la nature, la conception de l’être qui la fonde, ainsi que la caractérisation de la liberté et le problème du rapport entre la personne et la nature se trouvent, chez lui, expliqués avec une clarté suffisante. 3. L’approche anthropologique de Robert Spaemann Pour bien cerner la question du dualisme anthropologique, Spaemann entreprend d’approfondir le contenu de la caractérisation classique de la personne comme «substance individuelle de nature rationnelle»60, tout en restant attentif à l’apport de l’analyse du langage. C’est ainsi qu’il voit la philosophie engagée, à cet égard, dans un effort de détermination des caractéristiques spécifiques de l’homme, à qui nous reconnaissons la dignité de personne, par rapport aux autres êtres. Il relève ainsi deux orientations majeures de la recherche61. Une première orientation viserait surtout la détermination du sens de l’adjectif “rationnelle” qui qualifie la “nature” de l’homme. Dans, ce sens, la philosophie analytique actuelle soutient qu’il est essentiel pour la compréhension de l’idée de personne, qu’on lui attribue des pré58 Cfr. ibidem, pp. 237ss. 59 Ibidem, p. 277. 60 BOÈCE, Contra Euthychen et Nestorium, III, 4; cité par R. SPAEMANN, 61 Cfr. R. SPAEMANN, Personen, cit., p. 9. Voir note 11 ci-haut. 256 Personen, cit., p. 9. Paulin Sabuy dicats aussi bien psychiques que physiques. Ainsi, cette tradition s’écarte du courant de pensée qui, à partir de Descartes, considère la personne comme “chose pensante”, tout court62. La deuxième orientation est celle de ceux qui voient dans la personne un statut exprimant la dignité d’un être, à qui l’on reconnaît la place unique qui lui revient parmi ses semblables63. 3.1. L’inversion de la téléologie Certes l’idée de personne a une connotation axiologique et implique, de ce fait, une référence à quelque chose comme un attribut sur lequel elle se fonde. Mais, pour Spaemann, la dignité de personne, en tant que prétention originaire, ne vient pas après la reconnaissance accordée sur la base d’un attribut particulier64, tel la rationalité, par exemple, mais en vertu de l’appartenance à l’espèce homo sapiens, dont les individus portent normalement cet attribut particulier, qui les distingue des êtres non personnels. «“Personne” n’est pas une notion descriptive»65. Pour comprendre cela, il est important de bien saisir les concepts qui se trouvent impliqués dans la définition de Boèce. Substantialité, nature, raison. Spaemann sent, notamment, la nécessité d’une «profonde réflexion sur l’histoire de la pensée qui commence avec le concept de “nature”, de “physis”»66. La reconstitution de l’histoire du concept revient alors à identifier les moments où se sont produits les glissements sémantiques et conceptuels qui sont à l’origine de l’acception qu’on en a aujourd’hui. Spaemann qualifie cette évolution d’“inversion de la téléologie”67. La notion de nature est téléologique de l’antiquité au moyen âge. Elle se défi62 Ibidem. 63 Ibidem. 64 «Sind alle Menschen Personen? Es zeigt sich, daß die bejahende Antwort Voraussetzungen hat. Sie setzt voraus, daß Personen zwar a priori in einer auf Anerkennung basierenden wechselseitigen Beziehung stehen, aber daß diese Anerkennung nicht dem Personsein als dessen Bedingung vorausgeht, sondern auf einen Anspruch antwortet, der von jemandem ausgeht. Sie setzt ferner voraus, daß wir diesen Anspruch zwar aufgrund gewisser Artmerkamle zuerkennen, daß es aber für die Anerkennung als Person nicht auf das tatsächliche Vorhandensein dieser Merkmale ankommt, sondern nur auf die Zugehörigkeit zu einer Art, deren typische Exemplare über diese Merkmale verfügen» (ibidem, p. 11). 65 Ibidem, p. 26. 66 R. SPAEMANN, Das Natürliche und das Vernünftige, cit., p. 21. Qu’on voit aussi cet autre texte: “Mein Vorschlag, die Prämisse in Frage zu stellen und den Gedanken der Teleologie auf anfänglichere, nicht “invertierte” Weise neu zu denken, ist bisher überwiegend auf höfkiche Skepsis gestoßen. Ich sehe zwar nicht, wie ohne einen solchen Neuanfang die Dialektik der zwei Kulturen, die esklariende Dialektik von Naturalismus und Spiritualismus zum Stehen gebracht werden kann, die die Humanität unserer Zivilisation in der Tiefe bedroht” (R. SPAEMANN, Reflexion und Spontaneität. Studien über Fénelon, KlettCotta, Stuttgart 1990, Préface à la deuxième édition, p. 14). 67 R. SPAEMANN, Reflexion und Spontaneität, cit., pp. 58ss. 257 studi nit par la fin. La notion biblique de création permet de porter la téléologie naturelle à son plus haut degré de compréhension68. La nature signifie alors la dotation d’origine reçue par chaque étant dans l’acte créateur qui le fait être. Les choses se renversent à partir de l’époque moderne, quand par nature on entend plus que la pure extériorité; acception certainement dominante à l’ère scientifique où, plus que de contempler la vérité des choses, on se propose surtout d’en découvrir l’utilité pour l’homme. La vérité scientifique est objective (alors que l’être est au delà de l’objet). La raison scientifique est avant tout une raison instrumentale69. Pour la raison scientifique comme telle — et pour la vision du monde qui en découle — la téléologie immanente de la nature (l’Aussein-auf70, l’être-tendu-vers des choses) est stérile et sans importance. Le vrai sens des choses est le rôle qu’elles peuvent avoir dans le cadre de nos actions71: leur utilité. Il s’agit d’une vision anthropocentrique qui semble conférer à l’homme une dignité illimitée, le plaçant au centre de l’univers dont elle lui promet une maîtrise croissante. En revanche, concevoir les choses comme si elles pouvaient avoir une fin propre, au delà de leur éventuelle utilité pour nous, c’est-à-dire les concevoir comme si elles avaient aussi un être-pour-soi en plus de leur être-pour-moi, est considéré comme de l’anthropomorphisme injustifiable. Et voici que, ironie du sort, cette vision des choses s’applique de plus en plus à l’homme lui-même, lorsqu’il fait l’objet d’étude des sciences positives, qui cherchent à déchiffrer les mécanismes de sa physiologie et de son comportement. La nature comme pure extériorité n’est rien d’autre qu’un matériau disponible dont on étudie les lois pour en avoir une telle maîtrise qu’on puisse prévoir les événements possibles. Cela est également vrai pour le corps humain. Ainsi, on se retrouve dans l’alternance de points de vue, qui fait que l’homme est tantôt exalté, tantôt humilié, selon qu’il est (actuellement) pensant ou réduit au rang d’une simple étendue, d’un simple objet de la nature (par opposition à la pensée). Dans ces conditions, la nature ne peut être une norme pour l’agir libre. Elle n’est jamais une mesure interne, tout au plus est-elle une limitation externe (et provisoire). Dans l’entre temps, on a pris conscience de la nécessité d’une redéfinition des rapports entre l’homme et la nature. L’espérance d’un progrès indéfini sur la voie d’une croissante domination de la nature, à laquelle on ne reconnaît plus de ressemblance avec l’homme — en tant qu’il est pensant —, s’est effritée. Tout au moins elle est devenue problématique: la conscience écologique en témoigne. Or, celle-ci ne peut être réduite à la surenchère d’une certaine qualité de vie. Ce n’est pas une mode passagère. Elle pose un problème strictement moral. Un 68 Cfr. R. SPAEMANN - R. LÖW, Die Frage Wozu? Geschichte und Wiederentdeckung des teleologischen Denkens, Piper, München-Zürich 1985, p. 97. 69 Cfr. ibidem, p. 103. 70 Cfr. R. SPAEMANN, Bonheur et bienveillance, cit., p. 117. 71 Cfr. R. SPAEMANN - R. LÖW, Die Frage Wozu, cit., p. 103. 258 Paulin Sabuy exemple simple pourrait en être le suivant: dans les environs d’une grande ville africaine, le feu de brousse détruit le bois et prive d’une source d’énergie importante les populations qui ont un accès limité ou même nul à l’électricité, l’obligeant à aller s’en procurer de loin en loin. Sans compter l’aspect esthétique, etc. Ce fait interpelle sans doute les responsables de l’administration du territoire, qui devraient prendre les mesures juridiques et de police nécessaires. Mais elle interpelle aussi la responsabilité individuelle de ceux qui, vivant près des aires à risque, devraient en prendre soin et éviter des comportements vicieux. On peut aussi citer les problèmes typiques de la bioéthique qui reviennent sans cesse dans la discussion publique, comme, par exemple, la manipulation génétique, l’expérimentation des produits pharmaceutiques nouveaux sur les patients, l’utilisation d’embryons pour la recherche scientifique, etc. 3.2. L’être comme Selbstsein On peut dire qu’après cette reconstitution critique de l’histoire du concept de nature, Spaemann nous propose de reprendre les choses à partir de cette simple constatation: les choses sont comme nous sommes. La substantialité des choses est analogue à la nôtre. Mais, comme c’était déjà le cas chez Platon et Aristote, nous devons affirmer que l’homme est le paradigme de toute substantialité72. L’être des choses signifie qu’elles sont indépendamment de nous; simplement nous les concevons par analogie avec notre propre être. Être signifie la persistance dans l’exister et une espèce de victoire permanente sur une certaine possibilité de retomber dans le néant. Aristote affirme: «Vivere viventibus esse»73. L’être est un dérivé de la vie, commente Spaemann74. Mais l’être n’est pas l’ensemble des phénomènes vitaux d’un vivant. Même si être pour un vivant signifie avoir les manifestations vitales typiques, la vie elle-même n’est pas cet ensemble de phénomènes vitaux mais ce qui les rend possible. Le vivre ne s’identifie avec aucune de ses manifestations typiques, il ne s’identifie pas non plus avec celles-ci dans leur ensemble, quoiqu’il ne devient visible que par elles. L’acte d’être est incommensurable avec les actions de l’étant. Et cela nous le disons par analogie avec la vie consciente. «Qui non intelligit, non perfecte vivit» dit saint Thomas75. À quoi Spaemann ajoute: «Qui non vivit, non perfecte existit»76. L’être-soi (Selbstsein) est l’être qui fonde une nature, c’est-à-dire, être c’est toujours être d’une certaine manière, avoir une nature déterminée. Les êtres 72 Cfr. R. SPAEMANN, Bonheur et bienveillance, cit., p. 143. 73 De Anima II, 4, 415b 13. 74 Cfr. R. SPAEMANN, Personen, cit., p. 80. 75 In X librorum ethicorum Aristotelis ad Nichomacum expositione, 76 R. SPAEMANN, Personen, cit., p. 80. Lib. IX, lect. 11, n. 1902. 259 studi vivants non raisonnables sont, dans chaque action, déterminés par l’instinct de conservation. Ils ne distinguent jamais la fin et le motif de leur action. Vivre, pour de tels êtres, est toujours uni-directionnel. Dans leurs rapports avec d’autres étants, ils occupent toujours un certain centre, un certain milieu par rapport auquel tout le reste est réduit à un simple entourage, qui est constamment interprété comme favorable ou non favorable à la fin propre de ces êtres vivants. Donc toujours dans la même direction, par rapport à la conservation. Par contre, la raison dévoile une autre direction, une perspective nouvelle, dans laquelle le déterminisme de la nature se dévoile comme tel, et se trouve ainsi relativisé. 3.3. La non-identité essentielle L’homme retrouve en lui ces deux perspectives. Mais la raison n’est pas pure transparence, pure conscience d’elle-même. La raison signifie avant tout découvrir (das An-den-Tag-Kommen) la vérité de la nature77, c’est-à-dire découvrir les choses telles qu’elles sont. Autrement la raison serait vide, sans contenu. Il va de soi que la raison ne découvrirait rien si la nature ne renfermait pas déjà un sens. Et ce sens n’est pas seulement l’utilité qu’une chose peut avoir dans le cadre de mes actions (ce que nous pourrions appeler sa téléologie transcendante) mais, avant tout, le sens qu’elle a en elle-même (sa téléologie immanente). C’est ainsi que pour le fermier, le sens du troupeau des vaches qu’il élève n’est pas seulement celui d’une marchandise à livrer au boucher, même si ce sens peut prédominer à un moment donné. Grâce à la raison, je découvre la téléologie de la nature, je découvre que les autres êtres vivants ont des intérêts qui ne dépendent pas de mes propres intérêts comme être vivant. Il devient alors possible d’en prendre soin. Car au delà des phénomènes par lesquels il se manifeste à moi, je peux découvrir, grâce à la raison pratique, l’être de tout être vivant en tant que tel. L’être et le bien se révèlent uno actu78. Parce que l’identité d’une chose comme Selbstsein, comme être-soi, est pensée à la manière d’un processus pour lequel il y va de quelque chose: c’est toujours son propre pouvoir-être qui est en jeu. Une telle affirmation de l’être et du bien a la forme d’une affirmation libre, de l’amor benevolentiae, autrement dit elle n’a vraiment lieu que dans un contexte pratique. Comment s’explique, donc, l’apparition de cette nouvelle perspective, qui contraste avec la perspective de l’être vivant que nous ne cessons guère d’être? Comme je l’ai dit plus haut, le statut ontologique que l’on accorde à cette double perspective est ce qui détermine l’approche du problème du dualisme de la personne et de la nature. 77 Cfr. 78 Cfr. 260 R. SPAEMANN, Das Natürliche und das Vernünftige, cit., p. 123. R. SPAEMANN, Bonheur et bienveillance, cit., p. X. Paulin Sabuy Pour Spaemann la raison humaine ne peut pas être une substance, au sens de la res cogitans cartésienne. La raison finie est plutôt un événement, «l’événement du devenir-substance d’un processus organique»79. Il ne s’agit pas d’un événement quelconque. C’est l’“événement” qui marque l’être même de l’homme. On voit ainsi réapparaître le paradoxe de l’animal rationale. Il y a une nonidentité essentielle dans l’homme80. Pour comprendre cela il faut se rappeler que nous concevons l’être par analogie à la vie, et donc comme un processus. En effet, la vie, en tant que vie, est toujours ce pour quoi il y va de quelque chose: son propre pouvoir-être. Être-vivant signifie être-porté-vers (Aussein-auf-Sein)81. Cela est également vrai pour l’homme. Mais l’apparition de la raison suppose un certain changement de perspective. L’immédiateté de l’inclination contraste avec un certain recul (par rapport à l’inclination) à travers la médiation de la “réflexion” qui caractérise la raison. Dans la réflexion, on rentre en soi, d’une certaine façon, au moment où l’objet apparaît dans la conscience, que l’on expérimente aussi comme conscience de soi. Mais, il s’en suit également la possibilité de penser un au-delà de l’objet. Si la pensée de l’au-delà-de-l’objet n’est encore qu’une pensée, un objet, l’au-delà lui-même, l’être (ou l’autre) devient perceptible, comme tel, dans la raison pratique, dans la bienveillance82, de même que le soi n’apparaît vraiment que dans le souci de soi. Aussi la “réflexion” n’implique-t-elle pas seulement la capacité de rentrer-en-soi (In-sich-gehen), mais elle renferme aussi la possibilité d’allerhors-de-soi (Aus-sich-heraustreten)83. Cette différence interne de la vie douée de raison est originaire, ai-je observé. Même si un certain nombre de fonctions de la raison peuvent être interprétées par rapport à la conservation de la vie, la possibilité essentielle de sortir-de-soi instaure une nouvelle perspective, qui met l’homme à part de la creatura naturalis: il a une natura intellectualis. L’homme n’est pas un simple être naturel. 79 «Endliche Vernunft ist nicht Substanz, sondern Geschehen, das Geschehen des Substanziell-werdens eines organischen Prozesses» (R. SPAEMANN, Glück und wohlwollen. Versuch über Ethik, Klett-Cotta, Stuttgart 1989, p. 117; traduction française: Bonheur et bienveillance, cit., p. 123). 80 «Niemand ist einfach und schlechthin das, was er ist. Selbstannahme ist ein prozeß, der Nichtidentität voraussetzt und als bewußste Aneignung des Nichtidentischen, als “Integration” (C. G. Jung) verstanden werden muß» (R. SPAEMANN, Personen, cit., p. 21). 81 Cfr. ibidem, pp. 117ss. 82 Cfr. R. SPAEMANN, Bonheur et bienveillance, cit., p. 130. 83 «Diese Differenz [des Menschen zu seinem eigenen Sosein] ist uns geläufig unter dem Titel der “Reflexion”. Aber Reflexion ist nur eine ihrer Erscheinungsformen. Die Differenz bestimmt unser Dasein, auch wenn wir nicht reflektieren. Sie ermöglicht die Reflexion, sie beruht nicht auf ihr. Reflexion ist ein In-sich-Gehen. Aber die Differenz kann ebenso als ein Aus-sich-Heraustreten beschrieben werden, als “exzentrische Position”» (R. SPAEMANN, Personen, cit., p. 23). 261 studi 3.4. La raison, forme de la vie Comment, dès lors, établir la conjonction entre les deux perspectives qui se font jour dans la vie douée de raison? Comment, suivant cette vision anthropologique, caractériser la double articulation de l’expérience fondamentale de l’homme? L’unité est fondée de la façon suivante: la raison est la forme de la vie84. Mais comment comprendre cette unité? Comment comprendre que “le processus organique» à partir duquel se réalise le “devenir-substance” qui a lieu dans l’avènement de la raison n’est pas déjà une substance? Les termes qui sont ici utilisés semblent suggérer un avant et un après. Comment comprendre cet avant et cet après, c’est-à-dire le changement, sans le réduire à un simple changement accidentel, au sens aristotélicien (alloiosis), et faire, du même coup, de la raison une simple fonction de la vie? Ou alors, comment le comprendre sans l’élever au rang d’un changement radical, ainsi qu’il advient par exemple dans la naissance (genesis) ou dans la mort, ce qui voudrait dire que “le processus organique” cesse et cède la place à la raison conçue comme une nouvelle substance? Il est toutefois problématique de faire dériver la raison d’un processus organique. Voilà un problème difficile qui, comme je l’ai déjà dit, ramène toute la question de l’hétérogénéité fondamentale de l’homme. Certes, il ne peut être question d’escamoter l’hétérogénéité, de supprimer le paradoxe. Mais est-il possible de mettre pleinement en lumière ce paradoxe? Peut-on caractériser de manière satisfaisante l’hétérogénéité, sans la moindre perte? 3.5. L’être de la personne et la liberté Pour Spaemann, «le caractère de personne (Personalität) de l’homme n’est rien au delà de son animalité. Cependant l’animalité de l’homme est dès le départ ce qui n’est pas une simple animalité, mais le substrat du déploiement de la personne»85. L’ouverture à la raison est originaire, et c’est en elle que devient effectif le rapport particulier de la personne avec sa nature. C’est-à-dire la non-identité essentielle dont il a été question plus haut. La personne est l’être de nature rationnelle. Dans cette affirmation, l’adjectif “rationnelle” n’est pas un prédicat au même sens que “volant” dans la proposition: la chauve-souris est un mammifère volant. La rationalité introduit, par rapport à la simple animalité, une nouveauté qui distingue radicalement l’animal rationale du reste des animaux, et inaugure un genre différent. C’est cela qui fait 84 «Vernunft ist vielmehr die “Form” unserer Lebendigkeit. Unser Leben ist nicht, wie alle außerpersonale Lebendigkeit, in sich zentriert» (ibidem, p. 124). 85 Ibidem, p. 256. 262 Paulin Sabuy qu’il n’est pas simplement sa nature mais qu’il la possède en quelque sorte86. Il ne se possède pas, il possède plutôt sa nature, ou, si l’on préfère, il ne se possède qu’en tant qu’il possède sa nature. La liberté ne signifie pas, en son sens primaire, autodétermination, mais pouvoir-laisser-être (Seinlassen)87. Alors seulement on peut caractériser adéquatement la personne comme l’être vivant “potentiellement moral”88, du fait de l’éventualité de la raison. Il n’y a pas de “personnes potentielles”, mais l’être humain est “potentiellement moral”. L’être capable de s’apercevoir du caractère absolu de l’être et du bien des autres étants acquiert du même coup le statut d’une fin absolue. Plus qu’une valeur, on lui attribue une dignité. Et le nom de cette dignité est: personne89. Mais, de même que la perception de l’être (Selbstsein) n’est possible que quand la raison devient pratique par la bienveillance, la personne comme personne n’est accessible qu’à travers l’acceptation et la reconnaissance (Anerkennung)90. Être personne signifie dès lors occuper sa propre place dans la communauté des personnes qui se reconnaissent mutuellement. Mais pas dans le sens où l’être-personne se baserait sur une telle réciprocité, ou sur l’acceptation et la reconnaissance de la part des autres91. C’est plutôt dans le sens où sa propre position — unique, il va sans dire —, par nature, ne se dévoile aux autres qu’au moyen d’un tel acte de reconnaissance. Et celui qui se refuse à une telle acceptation de l’autre se défigure, bien entendu, comme personne. En effet, en deçà de l’acte d’acceptation et de reconnaissance, l’homme demeure, mala fide, dans la simple perspective de la vie, centrée sur soi. Le bien, pour lui, ne l’est alors qu’au sens de bien-pour-moi, mais pas au sens absolu. 86 «Das, was existiert, ist eine Weise zu sein. Bei der Fledermaus scheint das Sein, das Lebendigsein, ganz in diese “Weise” versenkt zu sein, ganz in ihr aufzugehen. Menschen hingegen existieren, indem sie Sein unterscheiden von ihrer bestimmten Weise zu sein, also von einer bestimmten “Natur”. Sie sind nicht einfach ihre Natur, ihre Natur ist etwas, das sie haben. Und dieses Haben ist ihr Sein. Personsein ist das Existieren von “rationalen Naturen”» (ibidem, p. 40). C’est nous qui soulignons. 87 «Der Fundamentale Akt der Freiheit besteht in dem Verzicht auf die Bemächtigung, die in der Tendenz alles Lebendigen liegt. Positiv heißt dieser Verzicht: Seinlassen. Seinlassen ist der Akt der Transzendenz, der das eigentliche Signum der Personalität ist» (ibidem, p. 87). 88 R. SPAEMANN, Das Natürliche und das Vernünftige, cit., p. 105. 89 Cfr. R. SPAEMANN, Personen, cit., pp. 38ss. 90 Cfr. ibidem, p. 193. 91 «Personsein ist das Einnehmen eines Platzes, den es gar nicht gibt ohne einen Raum, in dem andere Personen ihre Plätze haben. Das Einnehmen dieses Platzes beruht nicht auf einer Zuweisung durch andere, die bereits vor uns da waren. Jeder Mensch nimmt diesen Platz als geborenes Mitglied kraft eigenen Rechtes ein. Aber er wird nicht empirisch am diesem Platz vorgefunden, sondern dieser Raum wird überhaupt nur wahrgenommen in der Weise der Anerkennung» (ibidem). 263 studi 3.6. Au delà de l’objectivation du langage La caractérisation métaphysique de la personne est complétée, chez Spaemann, par un traitement analytique du problème, mais qui renvoie sans cesse à ses fondements ontologiques. La différence que nous établissons entre les pronoms quelque chose (etwas) et quelqu’un (jemand), dans le langage quotidien, indique certainement notre intention de désigner une réalité différente, précisément personnelle, sous ce dernier. C’est ce que nous exprimons aussi par la forme interrogative “qui?”, ainsi que le montre Ricœur92. Par exemple, dans l’analyse linguistique de la phrase “Cette pomme est rouge”, nous pouvons procéder à une décomposition logique, donnant lieu aux membres suivants: “Cela est une pomme”, “Cela est rouge”, “Cela est une pomme rouge”, etc. Nous ne serions en aucune façon autorisés à identifier les “cela” dans les membres successifs de notre décomposition logique, si nous ne savions pas d’avance à quoi “cela” se réfère. Nous aurions le même problème de la référence, dans la proposition “Pierre est grand”. Je peux également faire une décomposition logique: “Celui-ci est Pierre”, “Celui-ci est grand”. Ce que je saisis comme réalité désignée sous les pronoms “cela” ou “celui-ci” n’est certainement pas indépendant du rapport que j’établis d’emblée avec le contexte dans lequel se réalise cet acte de désignation93. Si les deux pronoms jouent le même rôle grammatical, la réalité qu’ils désignent n’est pourtant pas la même. La pomme a sa position par rapport à moi, mais Pierre peut lui aussi être celui qui désigne. Or dans mon acte de désignation, “cela” et “celui-ci” le supposent déjà. La signification n’a vraiment lieu que dans un contexte pratique. C’est ainsi que, dans le langage habituel, il nous est possible de distinguer d’emblée quelqu’un (Jemand) de quelque chose (Etwas). Personne indique un modus existentiae94; ce n’est pas la notion générale ou un concept désignant une espèce, et par rapport à laquelle les individus ne sont qu’une concrétisation (instantiierung) indifférente. Par sa connotation axiologique, personne est avant tout un nomen rei, la désignation d’une réalité, et non pas un nomen intentionis95, une abstraction. 92 Cfr. P. RICOEUR, Soi-même comme un autre, cit., pp. 14ss et passim. 93 «Was Quine die “Unbestimmtheit der Referenz” genannt hat, hängt damit zusammen, daß wir in den ursprünglichen Akten der Benennung das zu benennende Dies-da anscheinend gar nicht eindeutig identifizieren können. Und jede Aussage vom Typ Fx scheint zirkulär zu sein, da wir, um etwas darüber aussagen zu können, schon wissen müssen, was dies x ist. Außerdem müssen wir wissen, wer über ein Dies-da spricht, um zu wissen, wovon er spricht. “Dies-da” stellt nämlich eine Relation zur Position des Zeigenden her. Sogar auf seine Geste muß man achten, wenn man ihn verstehen will. Singuläres kann nur in Relation zu jemandem identifiziert werden, der es identifiziert, und zwar als ein So-und-so. Das gilt nicht für den Zeigenden selbst…» (R. SPAEMANN, Personen, cit., pp. 43-44). 94 Cfr. ibidem, p. 39. 95 Ibidem, p. 41. 264 Paulin Sabuy 4. Conclusions Tout ce qui précède me suggère les conclusions suivantes: 1. La personne n’étant pas une notion empirique et descriptive mais l’expression d’une dignité ontologique, il faut reconnaître une personne en tout être appartenant à l’espèce dont les membres en manifestent d’ordinaire les caractéristiques typiques, c’est-à-dire nous avons à faire à une personne chaque fois qu’il y a une vie qui peut en être la représentation symbolique. Et c’est le cas de la vie humaine. 2. S’il est établi que la personne a une nature, on peut donc bien parler, à son sujet, d’une mesure interne. C’est-à-dire on peut reconnaître, dès le départ, que quelque chose doit être. Autrement dit, l’aptitude à se donner des normes ne signifie pas que ce qui est donné à l’origine — la nature — ne comporte aucune indication spécifique sur le contenu de celles-ci; elle ne signifie pas la pure autonomie. Bien entendu, la nature n’offre pas, de façon immédiate, un code au comportement humain. La nature de la personne est une nature raisonnable. Cela veut dire que l’homme lui-même se donne des lois, de telle sorte qu’elles peuvent être justes ou injustes. Et elles seront justes ou injustes en fonction d’un critère qui n’est pas le libre arbitre même. Le juste se distingue de l’injuste, physei, par nature. Et découvrir cela revient à la raison. 3. La raison peut encore être mise au service de la simple spontanéité naturelle; elle peut être réduite à la fonction de satisfaire la tendance. Mais la perspective qui lui est propre est celle du dévoilement de l’être et du bien, de sorte qu’elle rend possible la société, en tant que communauté des personnes, qui se reconnaissent mutuellement en vertu d’un droit inné. 4. Il s’en suit, avant tout, qu’il existe des limites inférieures en dessous desquelles la raison se dégrade, car elle se dérobe à la perception de l’être et du bien, offusquant ainsi la dignité de la personne. En revanche au dessus de ces limites, on trouve des modalités très variées de la bienveillance de l’être raisonnable, qui marque le commencement et le déroulement de tout acte moral. *** Abstract: La nostra esperienza fondamentale è articolata in modo duplice. Da una parte c’è la spinta dei nostri impulsi che tendono a manifestarsi immediatamente e dall’altra abbiamo una certa capacità di differirne l’esecuzione, di prenderne distanza. Come fondare l’unità della persona al di là di questa essenziale non-identità? Un tentativo per risolvere questo problema può essere trovato in alcuni autori contemporanei. Joseph de Finance e Paul Ricoeur cercano una soluzione partendo dalla critica del “Cogito”, seguendo due diverse tradizioni filosofiche. Dal canto suo, Robert Spaemann tenta di risolvere la questione di tale dualismo antropologico tramite il recupero della nozione di vita come Aussein-auf-Sein. 265 266 ACTA PHILOSOPHICA, vol. 9 (2000), fasc. 2 - PAGG. 267-275 note e commenti Eudaimonía e historicidad JAVIER ARANGUREN ECHEVARRÍA* ■ «Tampoco los juegos de la infancia a policías y ladrones dejarían presagiar el tumor o el automóvil que destrozarán a aquel niño ni las tiernas escaramuzas amorosas de una tarde llevarían a pensar en los mezquinos modos del médico que practicará el aborto o en las peleas que acabarán en los tribunales por un piso adquirido entre dos. E incluso cuando las cosas van mejor, el final de todas formas es un desastre» (C. MAGRIS, Microcosmos, Anagrama, Barcelona 1999, pp. 152-153). Buena parte del esfuerzo de la filosofía griega se dirige a la formación cabal del ciudadano de la polis. La noción de paideia es principalmente educativa, al tiempo que política. Educar es educar ciudadanos. Estos, de todos modos, son también imagen de esa otra totalidad que es el hombre: del mismo modo en que el gobernante sabe poner en juego a los distintos tipos de súbditos que dependen de él (guerreros, comerciantes, ciudadanos libres), así la razón debe someter de un modo político a las distintas instancias que componen al ser humano para conducirlo hacia un ideal de excelencia, hacia una vida buena. En este punto, tanto Platón como Aristóteles coinciden. De hecho, es bien sabida la estrecha conexión entre ética y política que aparece en los dos grandes autores del periodo clásico: la República es un tratado —entre otras cosas— sobre estas dos materias: saber gobernar y aprender a vivir superando el engaño de la apariencia. La Ética a Nicómaco empieza con referencias a la actividad política, y no parece buscar otra cosa que ésta y, de hecho, se continúa —y así lo propone el libro X de la obra— de un modo natural por la obra aristotélica que lleva ese nombre: política. ¿Cuál es la función de la investigación ética? No un conocimiento teórico sino práctico: alcanzar una sabiduría que se conforme a un modo de vida, lograr * Departamento de Filosofía, Universidad de Navarra, 31080-Pamplona, España 267 note e commenti la vida buena, lograr la excelencia. Aristóteles no es ajeno a las coordenadas de su tiempo. Se encuentra en una cultura en la que la imagen dominante es la del héroe. Homero ha impuesto de modo natural la figura de Ulises y la de Aquiles: prototipos ambos de autores de gestas heroicas, más allá de las toscas realidades cotidianas de aquellos hombres atados a la seguridad que impone el alma de comerciantes. El héroe, en cierta medida, se constituye como un objetivo hacia el que el hombre virtuoso debe dirigir la mirada con deseo de imitarlo. Pero los ideales que presentan ambos personajes no son sencillos. Aquiles es un medio dios, y es un solitario: su carácter difícil, su cólera indomable, el orgullo de su venganza puede llegar a convertirlo en un ser odioso1. Ulises inspira más confianza: él es completamente humano2. Su astucia es un medio clave de supervivencia, aunque puede llegar a parecer la suya una actitud un tanto rastrera en la medida en que no duda de servirse del engaño (por ejemplo, para escapar de Polifemo). Tal vez pueda decirse que es por esos defectos por lo que resulta tan cercano. Al mismo tiempo Ulises es un ser máximamente atractivo, pues tiene claras las metas ambiciosas que conforman su camino (volver a Ítaca, reencontrarse con Penélope), y por ellas está dispuesto a poner en riesgo su vida y la vida de los hombres que le acompañan. Como todo héroe, acabará su viaje en solitario, teniendo que reconquistar él mismo las posesiones que ha perdido y el reconocimiento de su esposa, su hijo, sus criados. Ahora bien: del mismo modo que Ulises se sirve del engaño (y cabe entonces preguntarse, ¿es que cualquier medio es válido para lograr una meta apetecible?), y del mismo modo en que se acaba convirtiendo en un personaje que está solo (¿merece la pena la lucha por una meta cuando ésta lleva a la pérdida de los amigos?), además, el premio que logra parece decepcionante: una casa, una mujer, encarar la vejez con garbo: éste es el ideal de vida burguesa. Mas no basta tal horizonte. Se desconoce cómo acabó sus días (¿viejo, enfermo, solo?). Y, lo que es peor, él es un personaje que ya sabe lo que le espera tras la muerte. El mismo Aquiles se lo ha dicho desde el Hades: «No pretendas, Ulises preclaro, buscarme consuelos de la muerte, que yo más querría ser siervo en el campo de cualquier labrador sin caudal y de corta despensa que reinar sobre todos los muertos que allá perecieron»3. La existencia de Ulises es interesante en la medida en que se encuentra de viaje. La obtención de la meta buscada implica el final de la historia, con él la 1 2 3 Cfr. C.M. BOWRA, Historia de la literatura griega, F.C.E., México 1963, pp. 17-20. Cfr. J. CHOZA y P. CHOZA, Ulises, un arquetipo de la existencia humana, Ariel, Barcelona 1996. HOMERO, Odisea, canto XI, vv. 487-491, ed. de J.M. Pabón, Gredos, Madrid 1982. A este texto hace referencia PLATÓN, La República, ed. de C. Eggers, Gredos, Madrid 1988, libro VII, 516d. 268 Javier Aranguren Echevarría narración cesa. ¿No resulta entonces esa meta (Ítaca y Penélope) una suerte de insulto en comparación con el apasionante viaje del héroe? Curioso: ese viaje se organiza en dirección al fin (el fin es el principio de la acción); y sin embargo, conseguir el fin trae consigo el cese de la narración y de todo interés por el devenir de Odiseo. Parece como si la consecución de la eudaimonía estuviera situada fuera del acontecer histórico del hombre, precisamente porque en ella se da la detención de toda historia: la felicidad supone la anulación del tiempo. Si éste sigue pasando, toda felicidad es aparente; si, por el contrario, se detiene, ya no se está hablando de la realidad humana. Esta paradoja se encuentra presente en Aristóteles. Además, no es sólo Homero quien domina el ambiente cultural del momento: la tragedia, otro género dado a los héroes, marca la mentalidad de la tradición cultural ateniense con un halo de amargura, de indefinición y de desconcierto que, seguramente, ha de aparecer en el fondo de la filosofía práctica del Estagirita: ¿qué pensar de un mundo que viene marcado por la presencia de la muerte o por el dictado del destino?, ¿cabe desde ese hecho hablar de vida buena?, ¿es posible sostener que el ideal ético-político-educativo de la gran filosofía griega llega a algún buen puerto? La conciencia que domina en la escena dramática parece querer defender que no es así. Edipo, Antígona, Penteo, todos lo confirman con la suerte que corren. Baste, por evitar una relación prolija de textos, con los siguientes versos de una tragedia que —en teoría— busca proponer cierta salida optimista: Edipo en Colono. «Sólo los dioses viven ajenos a la vejez y a la muerte; lo demás todo lo arrolla el tiempo omnipotente. Consúmese la lozanía de la tierra, consúmese la del cuerpo, muere la lealtad, germina la mala fe, y unos mismos vientos jamás soplan constantes, ni de corazón a corazón ni de ciudad a ciudad. Porque a unos ahora, a otros más tarde, lo dulce se les torna amargo y lo amargo dulce… ¡Ah!, el tiempo interminable engendra en su carrera muchos días y noches, y la lanza vendrá a romper lo que ahora son abrazos de paz»4. Desde tal tipo de universo, ¿qué posibilidades existen para lograr la eudaimonía? Parece que pocas. Mas, y es fundamental, se hace necesario caer en la cuenta de lo siguiente: si es cierto que todos los hombres, en todas sus actividades, lo que buscan es un horizonte de perfección al que todos llaman felicidad —aunque no estén de acuerdo acerca de en qué consiste tal cosa—5, pero también es cierto que tal ideal no se puede alcanzar jamás, aunque se persiguiera el objeto más 4 5 SÓFOCLES, Edipo en Colono, vv. 608-620, en Tragedias, ed. de I. Erradonea, Alma Mater, Barcelona 1959. Cfr. Ética a Nicómaco, libro I, cap. 1. 269 note e commenti conveniente para el ser humano —pues siempre se acabaría chocando con la dictadura de cronos, con la muerte6, o con la necesidad de trascender el tiempo y lo humano en una supuesta contemplación estática7—, entonces habrá que concluir que el hombre es un animal absurdo. Un moto fundamental en el mensaje aristotélico es que «la naturaleza no hace nada en vano»8. Mas, por lo que aquí aparece, habrá que decir nada, a excepción del ser humano, que no puede conseguir aquello que por inclinación natural le pertenecería (la felicidad, la vida buena). Y ocurre que de lo absurdo se sigue cualquier cosa (ex impossibile sequitur quodlibet), lo que hace sostener que el mismo ideal de eudaimonía, de paideia o de corrección política no es más que una quimera de un valor real tan nimio, contingente o convencional como el que se sostenía acerca de la moralidad en el planteamiento violento de Trasímaco o Calicles9. De ese modo, si se opta por derribar todas las convenciones morales el resultado será el mismo que si se lucha por su desarrollo, protección y defensa: nada, ninguno. O, quizás esta apreciación parezca más adecuada, se logra por lo menos distraer la atención de la muerte, la cual se constituye, a fin de cuentas, como la única realidad con la que debe contar el hombre con toda certeza. ¿Por qué se sostiene que el ideal de vida buena resulta irrealizable? El motivo es doble. Por un lado, en Acerca del alma, se da la conocida definición de que «la vida está en el movimiento»10: la acción práctica es temporal, pertenece a un contexto en el que todo se mide según el antes y el después, en el que no es posible detenerse sino que en él todo fluye. En la medida en que esas acciones pertenecen al ámbito de lo humano se puede hablar de historia: el hombre y los pueblos registran sus hechos, guardan memoria de sus acciones, conservan hazañas dignas de ser contadas11. Al señalar la primacía de lo histórico, parece como si la acción práctica excluyera por definición el gozo con lo obtenido: más se trata de un tender a la felicidad que de un poseer la felicidad. La posesión, en la medida en que renuncia al movimiento porque ya no busca, supondría una renuncia de la vida12. «La vida buena no puede consistir en una condición no activa porque la eudaimonía implica actuar»13. Ulises en Ítaca y con Penélope deja de tener una historia, para convertirse en cotidianeidad: allí se pierde en la noche del tiempo, como los demás. Sólo era inmortal cuando buscaba, es decir, cuando no tenía el 6 Los textos en este sentido son muy frecuentes a lo largo del primer libro de la Ética a Nicómaco. Cfr., por ejemplo, 1099b4-8; 1100a5-9; 1100b34-1101a9; etc. 7 Cfr. Ética a Nicómaco, libro X, cap. 7 y 8. 8 Cfr. Acerca de las partes de los animales 465a24; Analíticos posteriores, 72b 5-73a 20; etc. 9 Cfr. PLATÓN, República, libro I; Gorgias, 356-414. 10 Acerca del alma, 413a 25; cfr. ibidem, 415b13: «Para los vivientes vivir es ser». Es decir, moverse. 11 Cfr. H. ARENDT, La condición humana, Paidós, Barcelona 1993, cap. 5. 12 Ésta es la interpretación de la felicidad aristotélica que lleva a cabo H. ARENDT, o.c., pp. 30-33; p. 81. 13 M. NUSSBAUM, La fragilidad del bien, La balsa de la Medusa, Madrid 1995, p. 408. 270 Javier Aranguren Echevarría fin, la felicidad. La victoria práctica de Ulises supone la pérdida de su atractivo y una evocación nostálgica de un pasado glorioso14. Si se sostiene esa lectura del aristotelismo —que, por otro lado, parece más acorde con la sensibilidad griega que la afirmación tomista de la connaturalidad con Dios o el paulino «conocerse como sois conocidos»— hay que llegar a la conclusión de que el ideal felicitario es más un límite al que se tiene que tender infinitamente que un posible logro, ya que llegar a él sería dejar de vivir. Lograr la felicidad es dejar de ser hombre (quizás suponga devenir en una suerte de dios, pero implica perder lo humano). En ese sentido no es extraño deducir que la búsqueda del hombre resulta inútil y superflua y, de ese modo, también el hombre mismo carece de sentido: en cuanto tiende no ha logrado; y en la medida en que logra deja de ser propiamente humano. ¿Pertenece la felicidad a la vida humana? La duda queda suspensa como una espada sobre la doctrina aristotélica. El ideal de la vida buena aparece como irrealizable. El segundo motivo al que se hacía referencia se ve haciendo resaltar otra posible aporía que presenta la ética aristotélica en cuanto se la enfrenta —de nuevo— con el carácter social del agente moral y con la historicidad característica del ser humano. Respecto al carácter social: la adquisición de las virtudes se lleva a cabo por mor de la consecución de la vida buena (que, en gran medida, ya se constituye por y consiste en esa misma adquisición de hábitos virtuosos). Ahora bien, parece que surge un serio problema al constatar que la consecuencia de las virtudes es la obtención de una virtud —la magnanimidad— que se presenta como ornato de todas ellas15, y que resulta fuertemente criticable desde la perspectiva de la sensibilidad moderna. La magnanimidad es una virtud cuya consecuencia estriba en llevar al sujeto a bastarse por sí mismo, no dependiendo ya más de la existencia en la polis, sino llegando a una autarquía que se anunciaba en el orgullo de Aquiles o en la astucia de Odiseo, siempre en busca de sus propios fines. Pocos amigos, pocas palabras, autosuficiente: así es el magnánimo, frente al común de los hombres16. De todos modos, señala Nussbaum que «es extraño hacer al makarios solitario, pues nadie querría tener todas las cosas buenas del mundo a condición de estar solo. Porque el hombre es una criatura política y propensa naturalmente a la convivencia»17. Lo mismo dice el Estagirita al inicio del libro VIII de la Ética: nadie querría vivir sin amigos. Pero parece que el magnánimo lo consigue, y que de ese modo también logra no depender de la suerte, o de la fortuna de los otros. Así se libra de preocupaciones que constituyen un obstáculo para la felicidad en cuanto que atan al sujeto a los avatares de la historia: historicidad y autarquía se enfrentan. 14 Y por eso se narran las hazañas de los héroes. Cfr. W. SHAKESPEARE, Henry V, act IV, scene III, vv. 12-67. 15 Ética a Nicómaco, libro 4, cap. 3, 1124a1. 16 Cfr. Ética a Nicómaco, 1169a20-1169b2. Cfr. ibidem, 1124ass. 17 M. NUSSBAUM, o.c., p. 414. 271 note e commenti Eudaimonía y carácter histórico parecen incompatibles. La virtud dota al hombre de independencia respecto del tiempo, lo aleja de la condición animal y hace que se asemeje con lo divino. Pero también resulta que lo des-socializa. «El que no puede vivir en comunidad, o no necesita nada por su propia suficiencia, no es miembro de la polis, sino una bestia o un dios»18. ¿Lleva a eso la virtud? En ese caso, flaco favor es el que hace al deseo humano de plenitud. Si la consecuencia de la vida virtuosa es la obtención de una virtud que permite la independencia de lo social (dejar de ser un animal político para pasar a ser independiente, para bastarse a sí mismo), ¿no habrá que concluir que la ética aristotélica propugna la desaparición de lo propiamente humano? El ideal del magnánimo, que es el resultado al que se llega desde una vida virtuosa, no parece especialmente atractivo. ¿No será mejor dejar de lado la virtud?, ¿no será una salida más coherente? Peligra la consistencia del planteamiento aristotélico, en la medida en que esa vida perfecta se propone como una anulación de la historicidad del hombre, de su carácter social y, por lo tanto, de lo propio de la condición humana. Si, además, se tienen en cuenta las acusaciones de aristocratismo que suelen acompañar a la concepción magnánima del ideal virtuoso, ¿no será necesario declarar el fracaso de la explicación aristotélica acerca de lo que son los hombres? A fin de cuentas su doctrina sólo refleja la realidad de una exigua minoría, al tiempo que el propio Estagirita reconoce que «la mayoría de los hombres son malos, y están dominados por el afán de lucro, y son cobardes en los peligros»19. Y no parece adecuado sostener con Casey que sencillamente se trata de un fallo de atención del filósofo griego, que no llega a ser capaz de superar sus coordenadas culturales, y que por eso refleja un talante aristocrático20. Del mismo modo en que la apreciación de Nussbaum, de que quizás —ojalá, diría ella— los pasajes máximamente autárquicos de la obra del Estagirita tendrían que ser un añadido debido a una mano posterior21. Tal cosa no es posible, no ya en el caso del magnánimo, sino en el de la contemplación de Dios como realización máxima de la perfección del hombre (realización claramente solitaria, como ese mismo Dios hacia el que se tiende)22. Y eso aunque tales afirmaciones parezcan contradecir la coherencia interna de la Ética a Nicómaco, en la misma medida en que el ideal por excelencia de la vida plena queda puesto —precisamente— en la contemplación, es decir, en una actividad perfecta23 para la cual el movimiento no cuenta sino per accidens, de manera coincidental24. 18 Política, libro I, cap. 1, 1152a14. 19 Retórica, 1382b5. 20 J. CASEY, Pagan virtues, Oxford U.P. 1990, p. 82. 21 Cfr. M. NUSSBAUM, o.c., pp. 463-468. 22 Cfr. Metafísica, libro XII, cap. 7, 1072b15-25 y ss. 23 Cfr. Metafísica, libro IX, cap. 7, 1048b28-35, donde distingue entre acto y movimiento; entre praxis y poiesis o kínesis. 24 Cfr. A. LLANO, El enigma de la representación, Síntesis, Madrid 1999, p. 112. 272 Javier Aranguren Echevarría La duda que cabe seguir planteando es si tal tipo de actividad es propia del hombre, o más bien de algo divino que hay en el hombre, pero que no coincide con lo que el hombre es (así lo pensaría Averroes, y quizás Aristóteles25). De ese modo, se quiere señalar que el mayor problema del ideal aristotélico de eudaimonia no estriba en que alcanzarlo suponga la anulación de lo humano del hombre, sino en que aunque se puede lograr en cierto modo, por la misma historicidad que caracteriza a la condición humana, al final resulta inalcanzable. La coincidencia del espíritu trágico con el contenido de la doctrina aristotélica es en este aspecto plausible. Se tratará de mostrar con un pasaje de una obra quizás poco conocida, que completa la filosofía práctica de Aristóteles: la Retórica26. A lo largo de los capítulos 12 y 13 del segundo libro de esa obra, traza Aristóteles, con una destacable habilidad fenomenológica, los rasgos propios del carácter de jóvenes, ancianos y hombres maduros. Su análisis de los jóvenes (que, por lo menos, ya tienen una racionalidad que los aleja del desprecio que el Estagirita siente hacia los niños) impide sostener que en ellos se dé la virtud. En todo caso parece como si la apariencia de virtud fuera fruto de la irreflexión, de la inmadurez: los ideales —parece indicarse— pertenecen a la edad de los que carecen de historia, de experiencia. Es decir, pertenecería a esa edad de los que todavía no saben que los arquetipos de lo virtuoso resultan en sí mismos, a la larga, insostenibles. Aristóteles subraya en el texto este aspecto, especialmente a raíz de su insistencia en las modalidades de tipo temporal que acompañan a muchas de sus descripciones. El mismo carácter histórico del hombre es el que se encargará de acabar con sus ilusiones. De este modo, los jóvenes – no son avariciosos, pero «por no haber experimentado todavía la privación»; – son cándidos, pero «por no haber presenciado muchas maldades»; – confiados, pero «por no haber sido engañados muchas veces»; – llenos de esperanza, pero porque se parecen a los borrachos y porque carecen de experiencia: no tienen idea de la verdadera dureza del camino; – son valerosos, pero por su mismo carácter esperanzado, «porque todavía no han sido rebajados por la vida», que aún no les ha forzado en la degustación del mal. – «Aman en exceso y odian en exceso»: la juventud es una edad de excesos, de carencia de medida y —por tanto— de irreflexión, de audacia, que deja la vía de la existencia en condiciones de ser perfectamente dirigida hacia el desengaño27. Los ancianos salen todavía peor parados: al menos en el joven queda la esperanza, hija de la falta de experiencia. Cuando se conoce la decadencia propia de la vejez, se puede caer en la cuenta de que todo logro fue prematuro, y que no 25 Cfr. 26 Cfr. Acerca de la reproducción de los animales, 736b23-29. Retórica, libro II, cap. 12, 1389a1- 1390b13. Existe un tratamiento similar en el estudio de los diferentes tipos de amistad que se lleva a cabo en Ética a Nicómaco, libro VIII, cap. 3, 1156a6-1156b33. 27 El texto al que aquí se hace referencia se encuentra en Retórica, 1389a1-1389b13. 273 note e commenti conducía sino a la pérdida de lo bueno o hacia la muerte. La apreciación de Aristóteles no es en absoluto optimista cuando dice que «los ancianos que han pasado la madurez tienen caracteres que en general se deducen de los contrarios a los anteriores, pues a causa de haber vivido muchos años y de haber sido muchas veces engañados y haber cometido errores, y por ser malas la mayoría de las cosas, no aseguran nada y en todo se quedan mucho más cortos de lo que se debe. Y opinan, pero no están ciertos, y cuando disputan añaden siempre el quizá y acaso, y todo lo dicen así y nada con seguridad. Y son maliciosos,… mezquinos,… cobardes,… más egoístas de lo que se debe,… viven mirando a la utilidad, y no al bien,… difíciles para la esperanza, por causa de su experiencia, pues la mayoría de las cosas salen mal, ya que todo en general va a lo peor… Y sus faltas las cometen por maldad, no por insolencia»28. La paradoja se presenta con toda desnudez: ¿es posible la eudaimonía en el carácter histórico del ser humano? Como se ha dicho, desde una perspectiva teórico-práctica no es posible, ya que la misma idea de felicidad aparece como un límite de la acción y por lo tanto de la vida. Desde un punto de vista prácticofenomenológico tampoco: cuando se tienen energías para la virtud, se carece de ésta por falta de experiencia; cuando se logra la experiencia se sabe que la vida virtuosa es una quimera. La única manera de evitar la vejez es muriendo pronto. Mas resulta claro que la muerte es lo que todo el mundo odia y, por lo tanto, no puede ser tomada como la plenitud de la vida. Morir joven es dejar sin realizar la obra bella, digna de ser recordada, que se incluye como promesa en toda vida humana. Es haber pasado sin dejar huella, sin participar en el diálogo que constituye el entramado de lo humanizante, de los ciudadanos de la polis. Nadie quiere morir, pues se ama la vida como el artista ama su obra29. Sin embargo, el precio de no querer morir es llegar a la vejez. Es verdad que en la Retórica se habla también del hombre maduro (aquellos que están en plenitud, que no tienen los excesos de ninguno de estos dos extremos, que juzgan conforme a lo verdadero, viviendo para lo adecuado, «templados con valor y valientes con templanza», teniendo lo bueno de las otras dos edades30), pero la madurez en el cuerpo va de los treinta a los treinta y cinco años y en el alma se sitúa en torno a los cuarenta y nueve31. Es un periodo breve, siempre demasiado corto, tras el cual viene irrevocablemente la senilidad, y con ella, la desconfianza, suspicacia, mezquindad, prudencia astuta, cobardía, egoísmo, utilidad, desvergüenza, desesperanza, maldad y tristeza. Así las cosas, ¿quién es verdaderamente feliz? No puede serlo quien sobrevive, ya que su carácter se acaba por lo general amargando; pero ¿acaso lo es quien 28 Retórica, libro II, c. 13, 1389b14-1390a24. 29 Ética a Nicómaco, lib. VIII, 1168a 5: «La obra el creador ama su obra porque ama el ser». 30 Cfr. Retórica, 1390a28-1390b13. 31 Ibidem, 1390b10. 274 es en cierto modo su creador en acto, y así Javier Aranguren Echevarría muere en combate? Basta recordar que el Aquiles de Homero se cambiaría por cualquier siervo o campesino con tal de no morar más en el Hades para contestar negativamente a esa posibilidad. Y eso es así si se afirma la pervivencia del alma tras la muerte. Mas ni siquiera es éste un tema claro —ni libre de polémica— en Aristóteles32. Él mismo afirma que tras la muerte «nada parece ser ni bueno ni malo para el muerto»33. Mas en ese caso, ¿de qué sirven las obras hechas en vida? La necesidad de una recompensa más allá del ahora parece una exigencia si no se quiere romper con el equilibrio de lo moral: empujar a ser virtuoso y que después resulte indiferente haberlo sido o no, ataca al principio de no contradicción, y con ello al fundamento de la misma realidad34. Parece necesario explicitar los problemas que acompañan a la interesante solicitud aristotélica de apostar por la virtud y la excelencia. Si bien desde ella en principio se presenta una concepción optimista del ser humano, no acaba de saber dar respuesta del para qué de tal comportamiento, del sentido del indudable esfuerzo que el ejercicio de su ideal comporta. No es hora de dar soluciones, sino simplemente de dejar planteados los problemas. El descubrimiento de un tipo de acto que no sea kinético, pero que sí sea vivir, altera la definición de Acerca del Alma de lo que es la vida, cosa que resulta pertinente para cualquier tipo de vivir que trascienda lo corpóreo. Si tal modo de vida (en cierta medida) se da en el ser humano, es lógico también que la eudaimonía que le corresponde a este tipo de ser no quede encerrada en la esfera del tiempo, aunque sí que pertenezca a la realidad de la vida (tal y como parece permitir la noción de praxis). Si no, y quizás sea necesario hacerlo así, no se puede separar a Aristóteles de la concepción trágica que caracteriza la cultura de su tiempo. 32 Sobre las diferentes interpretaciones de la inmortalidad del alma desde presupuestos aristotélicos (Tomás de Aquino, Averroes, Pomponazzi, etc.), cfr. J. ARANGUREN, El lugar del hombre en el universo, Eunsa, Pamplona 1997, pp. 49-60 y 92-106. 33 Ética a Nicómaco, lib. III, 1115a25ss 34 Cfr. PLATÓN, Gorgias 474b, 482b-483d; 508c-509b. También, N. BILBENY, Sócrates. El saber como ética, Península, Barcelona 1998, pp. 69-70. 275 276 ACTA PHILOSOPHICA, vol. 9 (2000), fasc. 2 - PAGG. 277-285 Aristotele e Solov’ëv sul significato dell’amore* GABRIEL CHALMETA** ■ «Il fecondo rapporto tra filosofia e parola di Dio — scrive Giovanni Paolo II in uno dei documenti forse più importanti del suo pontificato — si manifesta anche nella ricerca coraggiosa condotta da alcuni pensatori più recenti»1. Tra questi autori, anzi in cima all’elenco di coloro che appartengono all’ambito orientale, il papa ha voluto menzionare Vladimir S. Solov’ëv. Nel fare riferimento a questo come ad altri pensatori, aggiunge però subito dopo Giovanni Paolo II, «non intendo avallare ogni aspetto del loro pensiero, ma solo proporre esempi significativi di un cammino di ricerca filosofica che ha tratto considerevoli vantaggi dal confronto con i dati della fede. Una cosa è certa: l’attenzione all’itinerario spirituale di questi maestri non potrà che giovare al progresso nella ricerca della verità e nell’utilizzo a servizio dell’uomo dei risultati conseguiti. C’è da sperare che questa grande tradizione filosofico-teologica trovi oggi e nel futuro i suoi continuatori e i suoi cultori per il bene della Chiesa e dell’umanità»2. Nelle pagine che seguono mi sono proposto di ricordare, molto sinteticamente, il significato generico che sembrerebbe appropriato dare all’affermazione secondo la quale esiste un fecondo rapporto tra filosofia e parola di Dio, per poi passare subito — si tratta, infatti, del mio obiettivo principale — a illustrare in una forma molto più precisa la rilevanza pratica di questa dottrina generica mediante il paragone tra quanto Aristotele (il filosofo) e V. Solov’ëv (il filosofo cristiano) hanno detto riguardo all’importante argomento del significato dell’amore. * Relazione tenuta in occasione della “Giornata sul pensiero filosofico di Vladimir Solov’ëv. Nel primo centenario della sua morte”, organizzata dalla Facoltà di Filosofia della Pontificia Università della Santa Croce, il 12 maggio 2000. ** Facoltà di Filosofia della Pontificia Università della Santa Croce, Piazza di Sant’Apollinare 49, 00186 Roma 1 2 GIOVANNI PAOLO II, Lett. Enc. Fides et ratio, n. 74. Cfr. ibidem. 277 note e commenti 1. Vladimir Solov’ëv, filosofo cristiano Quello percorso da Vladimir Solov’ëv è un vero e proprio «cammino di ricerca filosofica»3. In questo senso, ciò che fa spiccare la voce di Solov’ëv nel dibattito filosofico-teologico russo dell’Ottocento non è lo stile o la tematica dei suoi scritti, ma il grado alto di lucidità, argomentazione e sistematicità impresso al discorso. Solov’ëv non è semplicemente uno tra i tanti “pensatori” russi dell’Ottocento, ma un vero e proprio filosofo. Va però subito precisato che la razionalità con cui Solov’ëv costruisce questa sua ricerca filosofica è una razionalità sui generis: vale a dire, una razionalità senza remore né riduzionismi, una razionalità postmoderna (nel senso positivo di questa parola). Essa, infatti, lungi dall’assumere un’intenzionalità neutrale, e tanto meno negativa nei confronti della rivelazione divina (cristiana), ha invece «tratto considerevoli vantaggi dal confronto con i dati della fede»4. Cosa si vuole però indicare quando si parla di una concezione completa (postmoderna in senso positivo) della razionalità perché aperta ai dati della rivelazione divina (cristiana)? Quali sono i vantaggi di questo modo di ragionare? Cercherò, come avevo già annunziato, di dare una risposta molto sintetica a questa domanda. In questo senso, un aiuto prezioso ci viene da R. Guardini, il quale, soprattutto nel saggio Spirito vivente, del 1927, ci ha lasciato in eredità alcune riflessioni che sono ancora oggi molto valide (sarà tutt’altro che sprecato il tempo che il lettore attento dedichi a consultare questa fonte)5. Ci sono alcune realtà costitutive del nostro mondo che appartengono alla sfera dell’esperienza e del pensiero a noi accessibile in quanto uomini (esseri razionali), ma che sono di fatto le più alte della sfera naturale, appartenenti al supremo rango dei valori morali; sono le più delicate, le più complicate; della più grande rilevanza per la nostra vita. Ora, proprio per questi motivi, il pensiero naturale, o piuttosto l’uomo singolare impegnato in questa attività conoscitiva trova grandi difficoltà per apprenderle. Vederle pone al suo intelletto le più alte esigenze, sia in termini di capacità naturali e di abilità acquisite, sia in termini di sforzo e di fatica psico-biologici. Inoltre, una volta apprese, è facile che il soggetto possa smarrirle in tutto o in parte, anche perché gli si manifestano piene di conseguenze etiche, spesso alquanto impegnative per la sua esistenza personale. Tra queste realtà spicca per R. Guardini la persona; e precisamente la reale, autentica persona: lo «spirito vivente». Essa, a differenza del soggetto astratto, semplice rappresentante della natura umana (quasi un mero elemento del tutto sociale o storico), è un essere unico ed irrepetibile, al quale va riconosciuto un valore assoluto, sia in termini di rispetto che — almeno in alcuni casi — di amore vero e proprio. Ora, tale affermazione “assoluta” dell’individuo umano si 3 4 5 Cfr. ibidem. Cfr. ibidem. Cfr. R. GUARDINI, Spirito vivente (1927), in Natura. Cultura. Cristianesimo, Morcelliana, Brescia 1983, pp. 93-117. 278 Gabriel Chalmeta sorregge sulla sua affermazione come “immagine di Dio”, e con questo non abbiamo ancora superato i limiti della ragione naturale. La realtà persona giunge però alla condizione univoca e piena di verità naturalmente conosciuta solo quando emerge nella Rivelazione la realtà soprannaturale ad essa “corrispondente” (la “filiazione divina”) ed è colta dalla fede. E resta puramente un dato naturale finché questa fede viene tenuta ferma. Non appena la fede scompare, la nozione di persona incorre nuovamente in quella particolare penombra della mente, si sposta lontano, scivola via. Nella stessa situazione gnoseologica della “persona” si troverebbero, sempre secondo l’opinione di R. Guardini (che condivido pienamente), tutta una serie di valori, di esigenze, di ordini intimamente connessi con questo dato: la libertà, l’amore, il matrimonio, l’amicizia, ecc. Ebbene, cercherò adesso di illustrare più in dettaglio dove sta la specificità nonché i “vantaggi” della ragione e della filosofia cristiana o, ancora meglio, del cristiano, attraverso l’esame di ciò che su uno di questi temi essenziali, l’amore quale senso o significato della libertà umana, è stato detto da due grandi filosofi. Il primo è quello forse più rappresentativo di quanti hanno fatto uso di una razionalità non-cristiana (anche se non pregiudizialmente contraria alla rivelazione), vale a dire Aristotele; l’altro, è il filosofo cristiano che abbiamo voluto far conoscere specificamente in questo saggio, V. Solov’ëv, nella speranza di contribuire alla diffusione e allo studio delle sue opere. Del resto, proprio perché gli autori scelti sono questi due, sembra ampiamente giustificata la scelta del “significato dell’amore” come tema di confronto: esso costituisce infatti il nucleo centrale della loro filosofia morale. 2. Il significato dell’amore nell’orizzonte filosofico non cristiano: Aristotele La questione del significato dell’amore interpersonale è presente negli scritti di Aristotele quando stabilisce che la nostra felicità dipende essenzialmente dai vincoli di amicizia che gli uomini riescono a stabilire con i loro simili. «Senza amici — scrive nell’Etica Nicomachea — nessuno sceglierebbe di vivere, anche se possedesse tutti gli altri beni»6. E nell’Etica Eudemia manifesterà — questa volta in senso positivo — la sua profonda convinzione «che l’amico sia uno dei più grandi beni, e che la mancanza di amicizie e la solitudine siano una cosa terribile. Per questo motivo, con gli amici trascorriamo la vita intera, e insieme ad essi stiamo di nostra piena volontà. Infatti, coi familiari, coi parenti, coi compagni passiamo il tempo, o coi figli, coi genitori, con la moglie»7. È tuttavia, aggiungerà immediatamente Aristotele, molto importante distin6 7 ARISTOTELE, Etica Nicomachea, VIII, 1, 1155a 5-6. ARISTOTELE, Etica Eudemia, VII, 1, 1234b 32 - 1235a 2. 279 note e commenti guere a questo riguardo l’amicizia buona o autentica dall’amicizia non buona o non autentica (apparente). La prima nasce quando il legame affettivo tra le persone (utilitarista o puramente piacevole) viene integrato, grazie alle umane capacità d’intendere e di volere, con l’amore verso la persona e verso il vero bene (la virtù) dell’altro. Infatti, spiegherà Aristotele, il legame affettivo basato sull’utilità o sul piacere sensibile, è certamente una condizione che rende possibile l’amore, l’amicizia autentica: un po’ come avviene con l’immagine sensibile e la conoscenza intellettuale (secondo l’adagio latino: “nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu”). Tuttavia, se la volontà del soggetto non va al di là dell’“oggetto” dell’affettività, se questi non ama secondo ragione ma soltanto secondo i sensi, tale volere non avrà per oggetto la persona e il vero bene (la virtù) dell’individuo amato. Quale sarà, invece, in questi casi la realtà amata? Ecco la risposta, netta e un po’ caustica, di Aristotele: «coloro che amano a causa dell’utile, amano a causa di ciò che è bene per loro stessi, e quelli che amano per il piacere lo fanno per ciò che è piacevole per loro stessi, e non in quanto l’amato è quello che è, ma in quanto procura un bene o un piacere. Per conseguenza, queste amicizie sono accidentali: infatti, non è in quanto è quello che è che l’amato è amato, ma in quanto procura un bene o un piacere»8. Il destino cui sembra condurre inevitabilmente la strada della pura affettività è dunque la strumentalizzazione in favore delle proprie emozioni positive o della propria utilità delle persone alle quali il soggetto è unito da tali legami affettivi. «L’amico [falso] — dirà Aristotele “sulla scia” di Kant e del suo principio personalista — è per i cattivi un’appendice delle cose, non già [come avviene per i buoni] le cose un’appendice degli amici»9. Per giungere a un’autentica amicizia, per creare una vera e propria comunione interpersonale in grado di rompere l’isolamento esistenziale in cui si trova l’uomo, sarà invece necessario che questi compia uno sforzo di natura intellettuale e volitiva per integrare i propri legami affettivi con l’amicizia vera o autentica, vale a dire con l’amore verso la persona e il vero bene di coloro che sono oggetto di tali affetti. Infatti, «amare è trattare l’oggetto dell’amore in quanto amico, per essere quello che è, e non in quanto musico [bene piacevole] o medico [bene utile]. Per questo motivo, il piacere dell’amicizia deriva dall’amico in quanto tale: il suo amico lo ama per sé stesso, e non per altra cosa»10. Se ci domandassimo però fino a quale punto, secondo l’opinione di Aristotele, potrebbe e dovrebbe arrivare l’unione amicale tra due persone; oppure, più precisamente ancora, se è razionale o no, nella logica aristotelica, arrivare fino all’unione (intenzionale, di amore) tra le persone stesse degli amici, la risposta da dare sembrerebbe dover essere molto chiara: se gli amici sono amici 8 Cfr. ARISTOTELE, Etica Nicomachea, VIII, 3, 1156a 10-19. 9 Cfr. ARISTOTELE, Etica Eudemia, VII, 2, 1237b 33-34. 10 Ibidem, VII, 2, 1237b 1-4. 280 Gabriel Chalmeta autentici, la loro amicizia dovrebbe giungere alla donazione reciproca, all’unione tra le persone in quanto tali. Un’unione, come ha scritto Aristotele parlando sempre dell’amicizia autentica, analoga a quella che esiste nell’uomo buono verso se stesso, e che ha come caratteristiche specifiche «l’augurare l’esistenza, il vivere insieme, il condividere gioie e dolori [“non gioire per altro motivo che non sia la gioia dell’altro”], essere un’anima sola, e non poter vivere separato l’uno dall’altro, ma se c’è bisogno morire insieme»11. Quindi, il vincolo di amicizia autentica dovrebbe operare una vera unione tra le persone stesse degli amici, che giungono in qualche modo (intenzionale e abituale)12 a «essere un’anima sola»13. Fin qui l’interpretazione dei testi aristotelici non sembra problematica. Ebbene, non sarebbe un corollario perfettamente congruente con tali premesse il riconoscimento di un valore assoluto alle persone in quanto tali, almeno nel senso che meriterebbero di essere amate come noi stessi? Ed il loro vincolo di amicizia, non dovrebbe avere in alcuni casi (per esempio, tra i coniugi) un carattere definitivo, in qualche modo indissolubile? Il fatto è che non risulta possibile trovare in Aristotele affermazioni esplicite in favore di queste ultime conclusioni. Anzi, non mancano i testi che sembrerebbero escluderle, anche se in maniera sofferta, quasi dubbiosa14. Perché? Perché nell’orizzonte aristotelico (non cristiano) è davvero molto difficile giustificare razionalmente il valore assoluto dell’altro (degli altri) e, dunque, la donazione definitiva in favore del suo bene. 3. Il significato dell’amore nell’orizzonte filosofico cristiano: V. Solov’ëv Nella riflessione filosofica di V. Solov’ëv, la questione che a noi interessa è stata l’argomento principale di una breve opera che ha proprio come titolo Il significato dell’amore (1892-1894)15, «forse il più penetrante dei suoi scritti» (P. Evdokimov). 11 Cfr. ibidem, VII, 6, 1240b 1-20. 12 Cfr. ibidem, 1, 1234b 28. 13 Cfr. ibidem, 6, 1240b 10. 14 Ecco, per citarne qualcuno, il seguente monologo, quasi una riflessione ad alta voce, che ci ha lasciato lo Stagirita: «Quando si accoglie nella propria amicizia uno che si ritiene buono, ma poi quello risulta malvagio e ce ne si accorge, si deve forse amarlo ancora? Non è forse vero che è impossibile, dal momento che non ogni cosa è amabile, ma solo ciò che è buono? […] Bisogna, dunque, sciogliere l’amicizia subito? Non è forse vero che non bisogna farlo con tutti, ma solo con quelli la cui perversità sia incorreggibile, mentre quelli che hanno la possibilità di raddrizzarsi si deve aiutarli a emendare il carattere, più che non a ricostruire il patrimonio, tanto più quanto ciò è più nobile e più proprio dell’amicizia? Chi, dunque, rompe un’amicizia siffatta pare che non faccia niente di strano, perché non era amico di un uomo di tale sorta: non essendogli possibile salvare l’amico che si è trasformato, se ne separa» (ARISTOTELE, Etica Nicomachea, IX, 3, 1165b 13-22). 15 Nelle citazioni seguirò l’ottima edizione di La Casa di Matriona, Opere, vol. 1, Milano 1983, pp. 53-107. 281 note e commenti C’è, scrive Solov’ëv nelle prime pagine di questo saggio, un solo tipo di rapporto che permette all’uomo di superare la solitudine esistenziale: il rapporto di amore, ossia di unione, con gli altri. C’è però anche, in ogni uomo, una forza che si oppone frontalmente a questa apertura: l’egoismo. Anzi, forse in nessuna concezione religiosa come in quella cristiana si è tanto consapevoli di quanto l’egoismo sia «una forza non solo reale ma fondamentale, radicata nel centro del nostro essere donde permea ed abbraccia tutta la nostra realtà; una forza costantemente attiva in tutti i particolari e in tutti i dettagli della nostra esistenza»16. Ora, proprio per questo motivo, nella concezione cristiana si è altrettanto consapevoli dell’importanza e della dignità dei legami affettivi interpersonali; molto di più di quanto non lo fosse, per esempio, Aristotele. Infatti, sosterrà Solov’ëv, per «sradicare realmente l’egoismo è necessario contrapporgli un amore [affettivo] che sia altrettanto concreto e indiscutibile, un amore che sia altrettanto capace di permeare e di dominare tutto il nostro essere»17. Il significato, la dignità dei legami affettivi fra soggetti umani, dipende proprio dal fatto che essi, in qualche modo, “ci costringono” a conoscere (con l’intelligenza) e a riconoscere (con la volontà) l’altro in quanto persona, vale a dire con quello stesso valore centrale e assoluto che, in forza dell’egoismo, noi ammettiamo soltanto a noi stessi. L’amore sentimentale «è importante non come uno qualsiasi dei nostri sentimenti, ma in quanto è il trasferimento di tutto il nostro interesse vitale da noi stessi nell’altro, lo spostamento del centro stesso della nostra vita personale»18. Questo spostamento «è proprio di ogni amore [affettivo], ma — preciserà Solov’ëv — essenzialmente lo è dell’amore [affetto] sessuale; esso si distingue da tutti gli altri generi di amore [affetto] per la maggiore intensità, per il carattere più onnicomprensivo, per la possibilità di una reciprocità più piena e completa»19. Infatti, tra i fenomeni costitutivi dell’affettività umana, un posto privilegiato — anche per ragioni strettamente legate alla Rivelazione — è stato assegnato dal pensiero cristiano in generale, e da V. Solov’ëv in particolare all’affettività sessuale. Questa, dirà il nostro autore, ha come “oggetto” un essere che, in quanto appartenente all’altro sesso, è «dotato della stessa realtà e concretezza che abbiamo noi ed è altrettanto pienamente oggettivato, e nello stesso tempo si distingue in tutto e per tutto da noi così da essere realmente altro; in altre parole, avendo tutto lo stesso contenuto essenziale che abbiamo anche noi, lo possiede però in una maniera o secondo un aspetto diverso, in un’altra forma, così che ogni manifestazione del nostro essere e ogni nostro atto vitale possono trovare in questo altro una manifestazione corrispondente ma non identica, così che la loro relazione sia uno scambio pieno e costante, una affermazione piena e costante di sé nell’altro, un’interazione e una comunione perfette»20. 16 V. SOLOV’ËV, Il significato 17 Ibidem. 18 Ibidem, 3, 1, p. 72. 19 Ibidem. 20 Ibidem, 2, 3, pp. 68-69. 282 dell’amore, cit., 2, 3, p. 68. Gabriel Chalmeta Lo spostamento del centro stesso della nostra vita personale, l’affermazione piena di sé nell’altro mediante la comunione di amore perfetta con lui o lei di cui parla Solov’ëv in questo contesto, non sono tuttavia conseguenze dell’innamoramento, ma piuttosto prefigurazioni e promesse in qualche modo implicite in questo fenomeno affettivo (cfr. § 3.1.); prefigurazioni e promesse che l’affettività, in quanto tale, non può né capire né compiere da sola (cfr. § 3.2.). 3.1. Le prefigurazioni e le promesse dell’innamoramento È una tesi pacifica che Il significato dell’amore sia stato un saggio scritto in polemica esplicita con Schopenhauer, il quale riteneva che la continuazione della specie è nell’uomo, come negli animali, la sola o la principale giustificazione della sessualità. Ritengo, tuttavia, che ad un livello più profondo l’interlocutore principale di Solov’ëv in quest’opera sia stato I. Kant. L’autore russo avrebbe infatti cercato con questo scritto di «superare (in linea di principio) l’abisso che secondo i presupposti di Kant, separava il mondo morale da quello fisico», giacché in quest’ultimo mondo — sosteneva Kant — non esisterebbe — nulla che la volontà possa amare universalmente e incondizionatamente21. La risposta di Solov’ëv, come lasciano indovinare le riflessioni che poco fa abbiamo riportato, sarà che, pur esistendo veramente un tale abisso tra il mondo fisico e quello morale, quest’ultimo «è già prefigurato nel sentimento amoroso stesso che, prima di qualsiasi realizzazione [libera e attiva], colloca necessariamente il proprio oggetto nella sfera della individualità assoluta, lo vede in una luce ideale e crede nella sua assolutezza […]»22. Infatti, «tutti sanno che nell’amore si ha una particolare idealizzazione dell’oggetto amato, che agli occhi dell’amante si presenta in una luce completamente diversa da quella in cui lo vedono gli estranei. Io parlo qui della luce non solo in un senso metaforico. In questo caso […] si tratta di una specifica percezione sensibile: l’amante vede realmente e visivamente percepisce qualcosa di diverso dagli altri. È vero che questa luce d’amore si spegne anche per lui, e ben presto, ma questo significa forse che era qualcosa di falso, che si trattava solo di un’illusione soggettiva?»23. Come si spiega questa visione? In un primo approccio, si potrebbe rispondere nel modo seguente. La sensibilità dell’uomo non è mai una realtà puramente psicofisica, ma si trova sempre più o meno “contaminata” dalle facoltà spirituali. Né i suoi sensi, né la sua affettività scattano quindi solo di fronte alle caratteristiche strettamente materiali dell’altro (“le sue misure e proporzioni fisiche”), ma piutto21 Cfr. V. SOLOV’ËV, Profili di filosofi: Immanuel Kant, in Opere, vol. 2, La Casa di Matriona, Milano 1989, p. 289 (si tratta della traduzione della voce “Kant” che Solov’ëv scrisse per l’Enciclopedia Brockhaus-Efron (1891 ss.), vol. XXVII, pp. 321-339). 22 V. SOLOV’ËV, Il significato dell’amore, cit., 3, 2, p. 76. 23 Ibidem. 283 note e commenti sto di fronte a quel modo singolare in cui lei o lui sono belli e che — per l’appunto — solo l’occhio innamorato riesce a cogliere. Mi riferisco concretamente alla particolare percezione che gl’innamorati hanno del modo di parlare e di guardare proprio dell’altro, del peculiare tono e delle inflessioni della sua voce, dei movimenti delle mani, del suo sorriso, ecc.; e come compendio e giustificazione più che altro intuitivamente percepiti di queste caratteristiche dosate in maniera unica e irrepetibile, di fronte al suo essere “una tale persona”. Tutto questo comunque non giustifica, ovviamente, il suo valore assoluto, unico e irrepetibile. La spiegazione, in ultima analisi, è che «la vera essenza dell’uomo in genere e di ogni singolo uomo non si esaurisce nella datità delle sue manifestazioni empiriche; e che non esiste alcun punto di vista dal quale si possa contrapporre a questa affermazione una qualche obiezione ragionevole e consistente […]». Noi sappiamo, più precisamente ancora, «che l’uomo, oltre alla sua natura materiale e animale, ne possiede anche una ideale, la quale lo unisce alla verità assoluta, cioè a Dio. Oltre al contenuto materiale o empirico della propria vita, ogni uomo racchiude dentro sé l’immagine di Dio». Ora, è proprio questa la verità che ci rivela la luce dell’innamoramento, «trasfigurando e spiritualizzando la forma dei fenomeni esterni […]»24. «Ma a questo punto, aggiunge immediatamente Solov’ëv, siamo noi che dobbiamo agire: siamo infatti proprio noi che dobbiamo comprendere questa rivelazione e servircene perché non rimanga il momentaneo ed enigmatico balenio di un mistero non meglio identificato»25. 3.2. Il significato dell’amore: il compimento delle promesse dell’innamoramento Fin qui le prefigurazioni e le promesse del fenomeno affettivo dell’innamoramento; promesse, dicevo, che l’innamoramento, in quanto tale, non può comprendere né realizzare da solo. «A questo punto, siamo noi che dobbiamo agire»: il superamento del proprio isolamento da parte dei soggetti che sono legati affettivamente, per essere reale, esige in ogni caso — come aveva già notato Aristotele — uno sforzo speciale per trascendere l’oggetto specifico dell’affetto, in modo che la verità sulla persona e il vero bene dell’altro si converta nell’oggetto dell’amore reciproco. Siamo infatti proprio noi che, usando della nostra libertà, della nostra capacità di intendere e di volere, «dobbiamo comprendere questa rivelazione e servircene perché non rimanga il momentaneo ed enigmatico balenio di un mistero non meglio identificato»26. 24 Ibidem, 3, 3, pp. 76-77. 25 Ibidem. 26 In rapporto diretto con queste considerazioni vanno notate le seguenti riflessioni tipicamente aristoteliche, sempre però insufficienti come spiegazione ultima del valore assoluto della persona. Il pensiero e le operazioni ad esso connesse sono irriducibili alla vita sensitiva, ma 284 Gabriel Chalmeta Sempre sulla scia di Aristotele, possiamo però chiederci ancora: fino a che punto deve giungere questo amore verso la persona del prossimo se si desidera realizzare il significato dell’affettività, e in particolare dell’affettività sessuale, fino alle ultime conseguenze? Fino alla donazione definitiva in favore degli altri, o di alcuno/i di essi, sarà la risposta di Solov’ëv. Solo nella misura in cui sia possibile impegnarsi per tutta la vita, si può infatti amare veramente qualcuno (nella sua identità); se invece quest’impegno non fosse possibile, neppure si potrebbe realmente amare qualcuno (nella sua identità). In questo senso, come ha scritto M. Buber, la parola “Esso” è collocata nel contesto dello spazio e del tempo; invece, la parola “Tu” non è posta nel contesto di nessuno dei due. È vero: questo “uscire definitivamente da se stessi” per ottenere il miglioramento dell’altro e nell’altro, si presenta spesso soggettivamente come una rinuncia costosa e non facilmente comprensibile. Si direbbe, quasi, un “atto di fede” negli altri: in lui o in lei, nel caso dell’amore coniugale. Dico fede perché l’altro, «nella sua esistenza empirica, soggetta alla percezione sensibile e reale, non ha un valore assoluto: esso è imperfetto per quanto riguarda la sua dignità e transeunte per quanto riguarda la sua esistenza. Possiamo quindi attribuirgli un valore assoluto in forza di una fede che è fondamento di ciò che speriamo e prova delle cose che non vediamo. Ma che c’entra la fede nel nostro caso? Che significa propriamente credere nel valore assoluto, e per ciò stesso infinito, di un determinato essere individuale? Affermare che esso in sé e in quanto tale, nella sua particolarità e nel suo isolamento, ha un valore assoluto, sarebbe assurdo e addirittura sacrilego. È ben vero che la parola “adorazione” è molto usata nella sfera delle relazioni amorose, ma è altrettanto certo che in questo ambito anche la parola “follia” ha un suo uso legittimo. Quindi, in ossequio alle leggi della logica […], ed in omaggio al comandamento della vera religione, che vieta l’idolatria, quando parliamo di fede nell’oggetto del nostro amore dobbiamo intendere l’affermazione di questo oggetto come qualcosa che esiste in Dio e che solo in questo senso acquista un valore infinito»27. Non riconoscere le difficoltà di comprendere e realizzare questo significato dell’amore significa negare l’esperienza stessa. Tuttavia, fa pure parte della comune esperienza percepire che questa rinuncia all’indipendenza lungi dal comportare una diminuzione o un impoverimento della persona, è anzi motivo di un arricchimento oggettivo del suo essere e della sua esistenza. contengono un “plus”. Questo “plus” è spiegato da Aristotele mediante il ricorso alle categorie metafisiche di potenza e atto. L’intelligenza è, di per sé, capacità e potenza di conoscere le pure forme; a loro volta, le forme sono contenute in potenza nelle immagini della fantasia; occorre, pertanto, qualcosa che traduca in atto questa doppia potenzialità, in modo che il pensiero si attualizzi cogliendo in atto la forma, e la forma contenuta nell’immagine diventi concetto colto e posseduto in atto. In questo modo, sorse quella distinzione divenuta fonte di innumerevoli problemi e discussioni sia nella Antichità sia nel Medioevo fra “intelletto potenziale o possibile” ed “intelletto attuale o attivo”. 27 V. SOLOV’ËV, Il significato dell’amore, cit., 4, 6, p. 91. 285 286 ACTA PHILOSOPHICA, vol. 9 (2000), fasc. 2 - PAGG. 287-311 Tre proposte di società cristiana (Berdiaeff, Maritain, Eliot) MARIANO FAZIO* ■ 1. La crisi della cultura della Modernità Il XIX secolo, almeno dal punto di vista della storia delle idee, è stato un periodo di ottimismo. Le ideologie politiche che lo caratterizzano — liberalismo, nazionalismo, marxismo — in quanto figlie dell’Illuminismo, hanno come uno degli elementi decisivi della loro cosmovisione la nozione di progresso, riproposta più modernamente dallo scientismo positivista. Nel pensiero ideologico riveste particolare importanza anche l’elemento escatologico o utopico: il trionfo dell’ideologia e l’avanzare della scienza avrebbero portato con sé l’avvicinarsi di un futuro felice e più degno dell’uomo. Fatte queste premesse, è facile rendersi conto che l’avvento della Prima Guerra Mondiale è stato un autentico shock culturale: invece di pace, libertà, giustizia e benessere, la Modernità sboccava in un conflitto bellico di dimensioni mai viste nella storia. Logicamente, il 1919 segnerà l’inizio di una consapevolezza sempre più acuta della crisi della cultura. Lo storico delle idee, abituato a convivere con interpretazioni dei processi culturali molto diverse, si sorprende nel constatare che attorno alla fine della Grande Guerra tra gli intellettuali esiste una quasi unanimità nell’affermare che la crisi c’è. Ovviamente le diagnosi sono differenti, ma è importante sottolineare questa consapevolezza generalizzata della crisi. Seguendo Gonzalo Redondo diciamo che «negli anni immediatamente successivi al 1919 i filosofi, i teologi, gli storici, i poeti o gli artisti parlarono ampiamente della crisi culturale. Si occuparono della crisi culturale Paul Valéry — che nello stesso 1919 scriveva: «Noi, le civiltà, sappiamo ora di essere mor* Pontificia Università della Santa Croce, Piazza di Sant’Apollinare 49, 00186 Roma 287 note e commenti tali»1— Franz Kafka, André Malraux, Oswald Spengler, Guglielmo Ferrero, José Ortega y Gasset, Arnold Toynbee, Christopher Dawson, Max Scheler, Nicolai Hartmann, Edmund Husserl, Martin Heidegger, Thomas Mann, Marcel Proust, Aldous Huxley, Max Horkheimer, Theodor Adorno, Max Pollock, Walter Benjamin, Erich Fromm, Herbert Marcuse, Antonio Gramsci, Jacques Maritain, Thomas S. Eliot… l’elenco, per essere completo, dovrebbe includere tutti i pensatori del periodo compreso tra le due guerre — dal 1919 al 1939. Nell’elenco completo figura anche il Papa Pio XI che resse la Chiesa durante la maggior parte di questi anni»2. Unanimità nel constatare la crisi, diversità nell’interpretarne le cause. Di fronte alla tragedia della guerra si aprivano diverse strade per lo spirito umano. Alcuni si resero conto che si trattava di una crisi di valori; altri pensarono che la causa era eminentemente economica; altri, infine, arrivarono alla conclusione che bisognava spingere le ideologie fino alle ultime conclusioni. Attorno a questi anni si verificò un movimento di avvicinamento al religioso, alla trascendenza. Ci furono conversioni al cattolicesimo o ad altre confessioni cristiane da parte di alcuni intellettuali occidentali (T.S. Eliot, G.K. Chesterton, J. Maritain, G. Marcel, E. Waugh, S. Undset, ecc.), originate in parte dal rifiuto dell’essenza delle ideologie moderne, cioè l’affermazione dell’autonomia assoluta dell’uomo. Ci furono correnti filosofiche che “ossigenano” l’atmosfera chiusa del positivismo, dell’idealismo e del materialismo decimononico, quali lo spiritualismo, il personalismo, la filosofia dell’azione, il neotomismo; altri proposero “filosofie dei valori” come tentativi per arginare la decomposizione sociale e spirituale dopo la Grande Guerra (M. Scheler, N. Hartmann); contemporaneamente, alcuni storici guardarono al passato per trovarvi punti di riferimento che potessero servire per costruire sulle macerie della guerra (W. Jaeger, J. Huizinga, C. Dawson). Caratteristica comune di questi critici è il rendersi conto che la causa ultima della crisi era una sbagliata concezione della natura umana. Se l’affermazione assoluta dell’autonomia dell’uomo, con la sempre più generalizzata libertà di 1 2 Riportiamo di seguito la citazione completa di Paul Valéry: «Noi, le civiltà, sappiamo ora di essere mortali. Abbiamo sentito parlare di mondi completamente scomparsi, di imperi sprofondati, con i propri uomini e le proprie opere; sepolti sotto lo strato inesplorabile dei secoli con i propri dei e le proprie leggi, con le proprie accademie e le proprie scienze pure ed applicate, con le proprie grammatiche ed i propri dizionari, con i propri classici, con i propri romantici e i propri simbolisti, con i propri critici ed i propri critici dei critici. Sappiamo bene che tutta la terra visibile è fatta di cenere e che la cenere significa qualcosa. Scorgevamo, attraverso lo spessore della storia, i fantasmi di immensi vascelli carichi di ricchezza e di ingegno… Elam, Ninive, Babilonia, erano nomi che affascinavano, ma indeterminati e la scomparsa totale di quei mondi aveva per noi lo stesso poco significato che aveva la loro stessa esistenza. Francia, Inghilterra, Russia saranno un giorno nient’altro che nomi affascinanti. […] Così ci accorgiamo che l’abisso della storia è divenuto tanto grande da accogliere tutto il mondo…» (P. VALÉRY, La crise de l’esprit, Paris 1919, in Varieté I, pp. 11-12). G. REDONDO, Historia Universal, Eunsa, Pamplona 1984, vol. XIII, p. 28. 288 Mariano Fazio coscienza — la coscienza non avrebbe nessun parametro oggettivo con cui misurarsi, e quindi rimane completamente libera e padrona di sé —, portò allo scontro tra milioni di uomini, era forse perché l’uomo non è un individuo assolutamente autonomo, o perché le diverse nazioni, idolatrate dal nazionalismo, in realtà non incarnano i valori più alti. Questa consapevolezza della mancata fondazione antropologica delle ideologie post-illuministiche portava come conseguenza una crisi nella concezione dello Stato, dell’economia — crisi che il crollo di Wall Street nel 1929 si occuperà di rendere ancora più evidente —, della stessa funzione della scienza, che prima si considerava come medicina per rimediare tutti i problemi dell’umanità. Nel periodo tra le due Guerre Mondiali, alcuni intellettuali cristiani hanno pensato e scritto su possibili modi di organizzare cristianamente la società. Per molti, l’unica soluzione alla crisi della cultura era il ritorno all’impostazione religiosa dell’esistenza umana e dei rapporti tra gli uomini. Abbiamo scelto tre di questi autori: Nicola Berdiaeff (1874-1948), Jacques Maritain (1882-1973) e Thomas Stearns Eliot (1888-1965). La scelta non è casuale: penso che si tratta di tre autori rappresentativi di questo periodo chiave del XX secolo. Questi tre autori si sono convertiti al cristianesimo dopo aver militato nell’ambito delle ideologie post-illuministiche: Berdiaeff supera un primo periodo marxista per approdare nell’Ortodossia russa, anche se manterrà alcuni elementi della sua filosofia della storia non completamente ortodossi; Maritain milita nel socialismo ed è uno scientista convinto, prima di sentire le lezioni di Bergson al Collège de France e di conoscere il poeta cattolico Léon Blois, che lo spinse verso la conversione al cattolicesimo; T. S. Eliot si converte all’anglo-cattolicesimo della High Church anglicana, dopo un periodo di scetticismo. I tre autori rappresentano culture diverse: la russa, la francese e l’anglosassone. I tre si conoscono, ed è noto l’influsso di Berdiaeff su Maritain e di Maritain su Eliot. Nelle seguenti pagine presenteremo le riflessioni di questi autori sulla necessità di rifondare la società su basi cristiane. Ci limiteremo ad esporre il contenuto di tre libri scritti nel periodo fra le Guerre. Il primo è del 1924 (Un Nuovo Medioevo, di Berdiaeff), il secondo del 1936 (Umanesimo integrale, di Maritain) e l’ultimo del 1939 (L’idea di una società cristiana, di Eliot)3. 3 La bibliografia su questi tre autori è molto vasta. Per lo scopo di questo articolo ci limitiamo a suggerire i seguenti titoli: su Berdiaeff, O. CLEMENT, Berdiaev. Un philosophe russe en France, Desclée de Brouwer, Paris 1991; F. COPLESTON, Russian Religious Thought. Selected Aspects. University of Notre Dame, Indiana 1988; G. PIOVESANA, Storia del pensiero filosofico russo, Paoline, Cinisello Balsamo 1992. È molto utile la “scheda biografica” in N. BERDJAEV, Filosofia dello Spirito Libero. Problematica e apologia del cristianesimo, ed. it. a cura di Giuseppe Riconda, San Paolo, Cinisello Balsamo 1997, pp. 62-66. Su Maritain, J.-L. BARRÉ, Jacques et Raïsa Maritain. Les Mendiants du Ciel, Stock, Paris 1996; J.M. B URGOS , Cinco claves para comprender a Jacques Maritain, «Acta Philosophica», 4/I (1995), pp. 5-25; G. CAMPANINI, L’utopia di una nuova cristianità. Introduzione al pensiero politico di J. Maritain, Morcelliana, Brescia 1975; I DEM , Cristianesimo e Democrazia, Morcelliana, Brescia 1980; IDEM, La filosofia politica del 289 note e commenti 2. Un Nuovo Medioevo, di Nicola Berdiaeff (1924) Nel 1924 Nicola Berdiaeff pubblica un saggio intitolato Un Nuovo Medioevo. Lì, il filosofo russo analizza la crisi della cultura della Modernità, sia nell’Occidente europeo che in Russia, e propone alcune soluzioni per uscirne. 2.1. La fine del Rinascimento Secondo Berdiaeff, il momento culturale del suo tempo segna la fine del Rinascimento. Cos’è per il nostro autore il Rinascimento? È un nuovo sentimento della vita e un nuovo rapporto dell’uomo con l’universo, che si fonda sull’umanesimo antropocentrico e autonomo che segna la fine del Medioevo. Il modello rinascimentale si è esaurito, e l’autoaffermazione dell’uomo finì con la sua autodistruzione: «L’umanesimo non ha rafforzato l’uomo, ma lo ha indebolito: questo è lo sviluppo paradossale della storia moderna. Attraverso la sua autoaffermazione, l’uomo si è perso, invece di trovarsi. Se l’uomo europeo entrò nella storia moderna pieno di fiducia in se stesso e nelle sue potenze creatrici, se negli albori di quest’epoca gli sembrò che tutto dipendeva dalla sua arte, la quale veniva considerata senza frontiere né limiti, adesso ne esce per penetrare in un’epoca inesplorata, con una grossa depressione, con la sua fede a pezzi — quella fede che l’uomo aveva nelle proprie forze e nel potere della sua arte — minacciato dal pericolo di perdere per sempre il nucleo della sua personalità»4. L’uomo nuovo voleva essere l’autore e l’ordinatore della vita, sperimentare la sua libertà. L’umanesimo tentò di liberarsi dai lacci che lo legavano al centro religioso della sua esistenza, onnipresente durante i secoli medioevali. Si pensò che l’epoca moderna aveva scoperto l’uomo: in realtà, in questo processo di autoaffermazione l’uomo ha perso il suo centro e la sua profondità esistenziale e si limitò a vivere nella superficie. Il progetto rinascimentale privò l’uomo di molte ricchezze vitali: «Per ingrandire l’uomo, l’umanesimo lo privò della sua somiglianza divina e lo sottomise alla necessità naturale» (p. 21). Le prime manifestazioni del Rinascimento sono molto feconde e belle. Non si trattò di un semplice tornare all’Antichità, dato che tornare indietro nella storia è impossibile. I primi umanisti erano dei cristiani che avevano un’eredità culturale permeata dalla fede cattolica. Secondo Berdiaeff, l’attività creatrice dell’uomo si 4 Novecento in Francia e in Italia, in AA.VV., Stato Democratico e Personalismo, Vita e Pensiero, Milano 1995. Su Eliot, P. ACKROYD, T.S. Eliot, Hamish Hamilton, London 1984; A. AUSTIN, T.S. Eliot: The Litterary and Social Criticism, Indiana University Press, Bloomington 1971; W. LITZ, Eliot in his Time, Princeton University Press, New Jersey 1972; J. PEARCE, Litterary Converts, Harper Collins, London 1999. N. BERDIAEFF, Una Nueva Edad Media, Club de Lectores, Buenos Aires 1946, pp. 12-13. La traduzione italiana è nostra. 290 Mariano Fazio trovava già nella sua pienezza durante il Medioevo cattolico. Anzi, fu il cattolicesimo medioevale a trasmettere la cultura classica alla posterità. Il cattolicesimo sempre ha avuto una forza umana molto grande: non conduceva l’uomo soltanto al cielo, ma suscitava anche la bellezza e la gloria sulla terra: «La tendenza verso il cielo e la vita eterna genera bellezza e produce il potere nella vita temporale terrestre […]. L’ascetismo medioevale era una straordinaria scuola per l’uomo: dava all’uomo una tempra sublime. E l’uomo europeo della storia moderna ha vissuto grazie a quanto aveva acquisito in quella scuola. Tutto lo deve al cristianesimo […]. Il cristianesimo è continuato a vivere in lui sotto una forma secolarizzata, preservandolo dalla decomposizione» (p. 23). Il primo Umanesimo era antico e cristiano, beveva dalla tradizione classica e da quella cristiana. Non era antireligioso: anzi, rappresentava una più completa manifestazione della rivelazione cristiana grazie alla rivalutazione di alcuni aspetti della soggettività, quale la libertà. Ma quando l’umanesimo voltò le spalle a Dio, avvenne la rottura interiore dell’uomo, l’apparizione della superficialità e la perdita dei valori antichi e medioevali. L’umanesimo del XIX e XX secolo manifesta l’esaurimento del progetto rinascimentale. Berdiaeff elenca le manifestazioni più importanti della distruzione umanista dell’uomo: si perde la concretezza dell’uomo spirituale, e si passa all’astrattezza dell’uomo individualista, semplice atomo dove la personalità si disperde. Berdiaeff sottolinea che dall’individualismo liberale assoluto si è passato al collettivismo comunista assoluto, due forme di atomizzazione, di decomposizione astratta sia della società che della personalità. Nietzsche e Marx illustrano genialmente l’autonegazione e l’autodistruzione dell’umanesimo. L’umanesimo comportò anche la perdita della struttura organica della vita, con le sue gerarchie e i suoi punti di riferimento esistenziali. Come conseguenza si scatenò un processo di crescente meccanizzazione della vita, che arrivò al suo apogeo con la Rivoluzione industriale: «La macchina ha distrutto la struttura secolare della vita umana, organicamente vincolata con la vita della natura. La meccanizzazione della vita rompe la gioia del Rinascimento, rendendo impossibile l’espansione creatrice della vita. La macchina uccide il Rinascimento» (p. 37). L’uomo rinascimentale contempla la natura, impara dalle sue forme, ricerca scientificamente i suoi misteri. Ma a poco a poco con la meccanizzazione della vita che uccide sia l’uomo che la natura, l’uomo si separa dalla natura e lotta contro di essa. Berdiaeff unisce questo processo ad alcune forme dell’arte contemporanea quale il futurismo, dove si perde l’immagine naturale dell’uomo, che si degrada a livello delle cose inanimate. Anche nell’àmbito filosofico l’immagine dell’uomo si perde nella gnoseologia critica. Quando l’uomo dimentica il suo centro spirituale e nega l’origine spirituale del suo essere, perde se stesso e perde la sua immagine eterna. Possiamo finire questa descrizione di Berdiaeff della Modernità — o meglio, sul processo di decadenza del Rinascimento — con le seguenti parole: «Il Rinascimento iniziò con l’affermazione dell’individualità creatrice dell’uomo e 291 note e commenti terminò nella negazione di questa individualità. L’uomo senza Dio smette di essere uomo: questo è il senso religioso della dialettica interna della storia moderna, storia della grandezza e della decadenza delle illusioni umanistiche. L’uomo in stato di disperazione, svuotata la sua anima, diventa schiavo non delle forze superiori, sovrumane, ma degli elementi inferiori e infraumani. Lo spirito umano si copre di tenebre, e viene posseduto da spiriti inumani. L’elaborazione della religione umanista, della definitiva divinizzazione dell’uomo e dell’umano, costituisce precisamente i prodromi della fine dell’umanesimo, la sua autonegazione, l’esaurimento delle sue forze creatrici» (p. 50). 2.2. Il nuovo Medioevo Per Berdiaeff, una volta esaurito il progetto rinascimentale, si aprirà una nuova epoca nella storia dell’umanità, dopo una congiuntura di barbarie, la cui manifestazione più tragica è stata la Prima Guerra Mondiale. In concreto, il filosofo russo parla di un nuovo Medioevo. Questa espressione deve essere capita nel suo senso giusto: Berdiaeff non è un nostalgico che vuole tornare indietro nella storia. Non lo vuole perché si rende conto che questo è impossibile: nemmeno il Rinascimento è stato un ritorno all’Antichità. Il Medioevo nuovo avrà alcune somiglianze con l’antico, come il Rinascimento ne ha rispetto all’Antichità, ma sarà un’epoca nuova. Il nostro autore distingue tra periodi storici diurni e notturni. Commentando alcune poesie di Tiutcheff, Berdiaeff considera che i periodi diurni sono quelli superficiali e razionalisti, come i tempi moderni: il sole espande un velo di luce che non lascia guardare la realtà in profondità. I periodi notturni, invece, sono quelli profondi, caratterizzati da un sopra-razionalismo, o se si vuole, dal pensiero metafisico ed ontologico. Il Medioevo cristiano è stato un periodo notturno, e ci avviamo verso un’altra epoca tenebrosa, intesa non nel senso in cui il Secolo dei Lumi giudicava la cristianità medioevale, ma in questo appena accennato della profondità metafisica. In altre parole, il nuovo Medioevo sarà un’epoca sacra, religiosa. I tempi moderni ci hanno insegnato che senza Dio l’uomo scompare. I nuovi tempi non possono accettare una visione della religione propria della cosmovisione individualistico-liberale, cioè la considerazione della fede come qualcosa di privato. No, la religione sta diventando qualcosa di generale, di collettivo. In concreto, Berdiaeff pensa che si arriverà a stabilire una lotta frontale tra la religione del Vero Dio, di Cristo, e quella dell’Anticristo, identificata, quando scrive questo libro, con il comunismo sovietico. Con la Rivoluzione del 1917, Russia è già entrata nel nuovo Medioevo. Perciò, ribadiamo, Berdiaeff non è un nostalgico ingenuo che sogna un passato aureo: il carattere religioso della nuova epoca significa una società permeata dallo spirito cristiano, ma dove il peccato non è scomparso e dove la lotta tra il bene e il male si fa più drammatica. Come già è stato segnalato, i tempi moderni sono caratterizzati da una visione 292 Mariano Fazio dell’uomo individualista e autonoma: il Rinascimento doveva liberare, emancipare l’uomo dalla teocrazia e dalle imposizioni medioevali. Liberalismo, democrazia, parlamentarismo, filosofia razionalista, industrialismo, positivismo, socialismo, comunismo e tanti altri movimenti culturali si autoproclamarono liberatori. Ma l’uomo moderno arriva alla fine del Rinascimento senza sapere qual è lo scopo, la finalità della libertà e del suo agire. Perciò, le nuove forme sociali e la nuova cultura devono indicare le strade da seguire, gli scopi da raggiungere. Berdiaeff — che scopre nel capitalismo e nel socialismo la stessa matrice ideologica, cioè l’economicismo — considera che uno degli ambiti al quale si deve prestare più attenzione per segnalare gli scopi esistenziali è quello del lavoro. Dopo la Grande Guerra il capitalismo entrò in crisi, e sarà difficile ritrovare la disciplina di lavoro delle società capitalistiche. Il socialismo non sarà capace di farlo. «Le ragioni spirituali del lavoro si sono corrotte, senza che se ne trovassero altre. La disciplina del lavoro è una questione vitale per le società contemporanee. Ma si tratta della santificazione e della giustificazione del lavoro. Il capitalismo e il socialismo non si pongono la questione, perché non si interessano del lavoro in quanto tale» (p. 87). Berdiaeff prospetta un mondo economicamente più povero, meno abitato perché sarà doverosa una limitazione della crescita della popolazione mondiale. Sarà un mondo più vicino alla natura, con una proprietà privata più limitata e spiritualizzata. «La fine del capitalismo è la fine della storia moderna e l’inizio del nuovo Medioevo. La grandiosa impresa della storia moderna deve essere liquidata, gli affari non sono ben riusciti» (p. 88). Un altro ambito che cambierà volto nel nuovo Medioevo sarà quello del rapporto tra cittadino e nazione. L’individualismo portò verso il nazionalismo, un’altra manifestazione dell’atomizzazione moderna. Il nazionalismo è una religione pagana, che mette la nazione al posto di Dio. Il cristianesimo, invece, è universalista. L’apparizione della religione cristiana significò la fine del particolarismo pagano. I tempi moderni, con l’allontanarsi dal centro religioso, sono ritornati al nazionalismo pagano. Ma le circostanze attuali sono diverse: il dolore della Grande Guerra finì per unire i popoli nella stessa sofferenza, i rapporti si sono accresciuti, gli interessi sono ormai mondiali: «Il mondo distrutto della storia moderna, fatto a pezzi dalle sanguinose lotte fra le nazioni, le classi e gli individui, incline anche al sospetto e all’odio, si incammina adesso verso l’unificazione universalista, verso la vittoria sul particolarismo nazionale esclusivo che ha portato le nazioni alla caduta e alla decomposizione» (p. 91). I movimenti che tendono verso questa universalizzazione appartengono già al nuovo Medioevo. In questo senso, l’internazionalismo comunista è una forza medioevale, come lo è anche il cristianesimo universalista. Il nuovo Medioevo sarà un’epoca religiosa, come religiosa è stata l’epoca medioevale precedente. Comunque, ci saranno delle differenze. Berdiaeff sostiene che ogni cultura si manifesta mediante simboli. Per il filosofo russo il primo Medioevo fu un periodo fortemente simbolico e figurativo. Ora, la simbologia 293 note e commenti medioevale creò confusione tra il Regno di Dio e le società terrene. La teocrazia medioevale finì per essere un simulacro del Regno di Dio in questa terra, che provocò violente reazioni contrarie, giacché questo Regno non si può imporre con la forza. Nel Medioevo «non si è tenuta in considerazione la libertà dello spirito umano che consente volontariamente alla realizzazione del Regno di Cristo sulla terra» (p. 183). Il filosofo russo è convinto che è impossibile tornare all’antico Stato Teocratico, che in realtà è stato un insuccesso, dato che «non ha realizzato effettivamente la verità di Dio, ma solamente ha simulato di realizzarla medianti segni esteriori» (p. 185). Il nuovo Medioevo, invece, deve realizzare una autentica trasfigurazione della vita, cioè la religione deve penetrare in ogni ambito della vita umana, trasfigurando la propria esistenza: «Nessuna sfera della creazione, nessuno degli aspetti della cultura e della vita sociale può restare neutrale in materia religiosa, vale a dire completamente laici. La filosofia non si propone di diventare serva della teologia, né la società ha l’intenzione di sottomettersi alla gerarchia ecclesiastica. Ma all’interno della conoscenza, all’interno della vita sociale si sveglia una volontà religiosa. Le forme della conoscenza e della società dovranno scaturire dall’interno, zampillare dalla libertà dello spirito religioso» (pp. 95-96). Berdiaeff, ribadiamo, non vuole un ritorno alla teocrazia medioevale. La religione dovrà ispirare l’intera esistenza umana, ma non per l’imposizione di alcune forme sociali: anzi, le forme sociali sorgeranno dalla fede fatta vita negli uomini neo-medioevali. Il rifiuto dell’eteronomia della teocrazia medioevale portò verso l’autonomia moderna, che in realtà cadde in una completa anomia morale. Berdiaeff propone un terzo concetto, la teonomia libera, che manifesterà la volontà di raggiungere realmente — e non solo simbolicamente — il Regno di Dio. «La conoscenza, la morale, le arti, lo Stato, l’economia, devono diventare religiose, ma liberamente, dall’interno, non per coazione e dall’esterno. Nessuna teologia regge dall’esterno il processo della mia conoscenza, né mi impone nessuna norma. La conoscenza è libera. Ma io non posso realizzare le finalità della mia conoscenza senza indirizzarmi verso l’esperienza religiosa, senza una iniziazione filosofica nei misteri dell’essere. In questo io sono ormai un uomo del Medioevo, non sono più un uomo della storia moderna. Io non cerco l’autonomia della religione, ma la libertà entro la religione. Nessuna gerarchia regge né regola oggi la vita sociale né la vita dello Stato. Nessun clericalismo potrà appropriarsi della forza esterna. Ma io non posso creare di nuovo lo Stato e la società che sono in processo di decomposizione se non in nome di principi religiosi. Io non cerco l’autonomia dello Stato e della società di fronte alla religione, ma il fondamento e il rafforzamento dello stato e della società entro la religione. Per nulla al mondo voglio essere libero rispetto a Dio; voglio essere libero in Dio e per Dio. Nel terminare il movimento di allontanamento da Dio, inizia il movimento di avvicinamento a Dio; quando il movimento stesso di allontanamento da Dio prende il carattere di un movimento verso il diavolo, allora inizia il Medioevo, ponendo fine ai tempi moderni. Dio deve tornare ad essere il centro di tutta la nostra vita; il 294 Mariano Fazio nostro pensiero, il nostro sentimento, il nostro unico sogno, la nostra unica fede, la nostra unica speranza. La mia sete di una libertà senza limiti deve essere compresa come un conflitto con il mondo, non con Dio» (pp. 96-97). Berdiaeff auspica la fine di una cultura laicista, che non voleva fondarsi su basi trascendenti. La religione, nei tempi moderni, era rimasta isolata nel tempio. La Chiesa, invece, è cosmica. Di conseguenza, la fede deve permeare tutti gli aspetti della vita individuale e sociale. «La crisi della cultura consiste precisamente che essa (la cultura) non può restare in una neutralità umanista nel terreno religioso, ma deve diventare, inevitabilmente, o una civiltà atea e anticristiana, ovvero una cultura sacra totalmente animata dalla Chiesa, una trasfigurazione cristiana della vita» (p. 99). Non si tratta di un ritorno al clericalismo medioevale, ma di mettere in atto una reale trasformazione della vita. Il filosofo russo considera che per fare questo «si dovrà elaborare un tipo speciale di vita monastica nel mondo, una sorta di ordine religioso nuovo. Si porrà finalmente il problema del senso religioso, della santificazione religiosa del lavoro, sul quale l’epoca moderna non ha voluto sapere nulla» (p. 106). Finiamo la nostra esposizione della dottrina di Berdiaeff con le parole con cui chiude la seconda parte del suo libro. Un’altra volta si comproverà che il nostro autore non è un sognatore di paradisi futuri né un nostalgico di paradisi perduti: «L’avvenire è doppio e non crediamo indispensabile né obbligatorio sperare in un avvenire ridente e brillante. Gli aneliti di felicità terrestre non esercitano alcun potere su di noi. Il sentimento del male è più forte e più acuto nel nuovo Medioevo. La forza del male crescerà e prenderà nuove forme per causare nuovi dolori. Però all’uomo è stata data la libertà di spirito, la libertà di scegliere il suo cammino. I cristiani devono indirizzare la loro volontà verso la creazione di una società cristiana e di una cultura cristiana, mettendo al di sopra di ogni cosa la ricerca del Regno di Dio e la sua verità. Molte cose dipendono dalla nostra libertà, cioè dagli sforzi creatori dell’uomo. Perché difatti si possono seguire due cammini. Prevedo una spinta delle forze del male nell’avvenire, ma ho voluto determinare gli elementi positivi possibili della società futura. Siamo gente del Medioevo, non soltanto perché tale è il destino, la fatalità della storia, ma anche perché lo vogliamo. Voi siete ancora gente della storia moderna perché non volete scegliere. E nel presentimento della notte bisogna armarsi spiritualmente per la lotta contro il male, fare più acuta la capacità di discernere, elaborare una nuova cavalleria: Il flusso cresce e ci trascina / verso una immensa oscurità… / mentre navighiamo per l’abisso / accerchiati da tutti i lati» (pp. 109-110). 3. Umanesimo Integrale, di Jacques Maritain (1936) Nell’agosto del 1934 Jacques Maritain tenne sei lezioni ai corsi estivi dell’Università di Santander. In Spagna si pubblicò il testo delle lezioni con il titolo Problemas espirituales y temporales de una nueva cristiandad. Maritain decise 295 note e commenti di rielaborare il testo e di ampliarlo. Così, nel 1936 pubblicò in Francia l’opera più caratteristica del suo pensiero nel periodo fra le due guerre: Humanisme intégral. Molte delle tematiche sviluppate dal filosofo francese in questo libro erano già state analizzate in altre opere precedenti: Religion et culture (1930); Du Régime temporel et de la Liberté (1933); Science et Sagesse (1935). 3.1. Medioevo e Modernità Maritain analizza ciò che lui chiama “la tragedia dell’umanesimo”, cioè la progressiva perdita di una visione trascendente dell’uomo nei secoli della storia moderna, e propone una uscita dai totalitarismi comunista e fascista, che sono l’ultima conseguenza dell’antropocentrismo moderno5. L’uscita o l’alternativa è una nuova cristianità, che manterrà il primato dello spirituale della cristianità medioevale, ma aggiungerà elementi nuovi, moderni, che supereranno gli elementi clericali e tendenzialmente teocratici medioevali. Il filosofo francese afferma che «la nozione di umanesimo integrale esprime il carattere distintivo della nuova cristianità»6. Ciò vuol dire che la nuova società si dovrà fondare su una visione dell’uomo diversa da quella medioevale e diversa anche da quella antropocentrica moderna. L’immagine medioevale dell’uomo è quella propria di un essere insieme naturale e sovrannaturale, creato da Dio e destinato all’eternità. Questi elementi non sono medioevali ma cristiani senza aggettivi. La nota caratteristica della visione medioevale è l’atteggiamento troppo oggettivo della sua prospettiva: Maritain parla di “una certa inumanità teologica” che non riesce a scoprire i lati soggettivi e più intimi della persona, per mancanza di riflessione (p. 19). Non è che questi manchino completamente, dato che «il medioevo ha avuto un senso profondo e eminentemente cattolico della parte del peccatore e delle iniziative a lui proprie, delle sue resistenze, e delle misericordie di Dio nei suoi confronti nella economia provvidenziale. Ha avuto un senso profondo della natura, della sua dignità come della sua debolezza; ha conosciuto, più d’ogni altra epoca, il prezzo della pietà umana e delle lagrime. Ma tutto ciò era vissuto più che cosciente, più che oggetto di conoscenza riflessa. E se noi considerassimo soltanto i documenti della tradizione teologica media (non parlo di S. Tommaso che è troppo grande per caratterizzare un’epoca) potremmo credere, e sarebbe un errore, che il pensiero medioevale ha conosciuto la creatura umana solo in funzione dei problemi soteriologici e delle esigenze divine nei riguardi dell’uomo, in funzione delle leggi oggettive della moralità richiesta da lui, e non in funzione delle risorse soggettive delle sue grandezze e del determinismo soggettivo delle sue miserie» (p. 20). 5 6 Cfr. A. PAVAN, Maritain: da “Umanesimo integrale” a “L’uomo e lo Stato”, in AA.VV., Stato Democratico e Personalismo, cit., p. 63. J. MARITAIN, Umanesimo Integrale, Studium, Roma 1946, p. 224. 296 Mariano Fazio Come reazione a questo oggettivismo medioevale, le correnti di pensiero moderne si indirizzeranno verso le analisi soggettive, verso la riflessione sulla condizione umana. Questo elemento riflessivo era senz’altro positivo e poteva arricchire la visione medioevale dell’uomo. Purtroppo, il progetto rinascimentale che si presentava pieno di speranza sfociò in un antropocentrismo sempre più chiuso alla Trascendenza. Maritain parla di tre periodi della cultura moderna: 1) il XVI e il XVII secolo, periodo di umanesimo cristiano, dove Dio svolge solo un ruolo di garante; 2) il XVIII e il XIX secolo, periodo dell’ottimismo razionalista, dove Dio diventa un’idea; 3) il XX secolo, caratterizzato dal rovesciamento materialista dei valori, dove Dio muore (cfr. pp. 34-35). Alla stregua di Berdiaeff, il nostro autore lamenta che la crescita della consapevolezza della soggettività propria della Modernità, sia stata fatta non sotto il segno dell’unità, ma sotto il segno della divisione. La opposizione radicale tra grazia e libertà dell’antropologia protestante, e tra res cogitans e res extensa del razionalismo cartesiano portarono verso un antropocentrismo che finì per essere autodistruttivo. «L’uomo, dimenticando che nell’ordine dell’essere e del bene, è Dio che ha l’iniziativa primaria e vivifica la nostra libertà, ha voluto fare del movimento suo proprio di creatura il movimento assolutamente primario, dare alla sua libertà di creatura l’iniziativa primaria del proprio bene. Era quindi necessario che il suo movimento d’ascensione fosse da allora separato dal movimento della grazia, ed è perciò che l’età in argomento è stata un’età di dualismo, di dissociazione, di sdoppiamento, un’età d’umanesimo separato dall’Incarnazione, nella quale lo sforzo del progresso doveva prendere un carattere fatale e contribuire esso stesso alla distruzione dell’umano. In breve, che il vizio radicale dell’umanesimo antropocentrico è stato d’essere antropocentrico e non d’essere umanesimo» (p. 31). 3.2. Umanesimo teocentrico e umanesimo antropocentrico L’alternativa che resta dopo questo processo storico è tra un umanesimo teocentrico e un umanesimo antropocentrico. Il primo riconosce che Dio è il centro dell’uomo, e considera l’uomo come peccatore e redento; il secondo crede che l’uomo stesso sia il centro dell’uomo, e implica un concetto naturalistico dell’uomo e della libertà. Quest’ultima visione dell’uomo autoreferenziale subirà le conseguenze delle teorie riduttive di Darwin e di Freud, che distruggono la concezione razionalista dell’essere umano. Maritain è contundente al momento di trarre le conseguenze di quest’alternativa: «Giunti al termine d’una evoluzione storica secolare, ci troviamo in presenza di due posizioni pure: la posizione atea pura e la posizione cristiana pura» (p. 36). La posizione atea pura viene rappresentata dal comunismo sovietico. Maritain concepisce il comunismo come una religione sostitutiva, fondata sull’ateismo. Nell’analizzare le cause dell’apparizione del comunismo, il filosofo si sofferma lungamente sull’insuccesso dei cristiani del XIX secolo, i quali non crearono un 297 note e commenti mondo veramente cristiano, che implica la giustizia sociale. Di qui il risentimento comunista contro il mondo cristiano. La fede cristiana non si fece vita nelle strutture del mondo temporale. Il mondo cristiano «ha rinchiuso la verità e la vita divina in una parte limitata della propria esistenza — nelle cose del culto e della religione e, almeno fra i migliori, nelle cose della vita interiore. Quelle della vita sociale, della vita economica e politica, le ha abbandonate alla loro legge carnale, sottratte alla luce di Cristo» (p. 43). Se questo è vero per il mondo occidentale borghese e liberale, all’oriente dell’Europa l’atteggiamento esistenziale dell’Ortodossia russa non aiutò a migliorare le cose: «da una parte, la natura e la ragione non vi hanno mai preso il loro posto rispettivi. L’ordine naturale come tale non v’è stato mai riconosciuto; il razionale v’è stato sempre tenuto in sospetto» (p. 61). Dall’altra parte, ci sarebbero tendenze nazionalistiche paganizzanti all’interno dell’Ortodossia, che hanno bisogno di purificazione. Se il comunismo sovietico rappresenta la posizione atea pura, ci sono due possibili posizioni cristiane. L’una è tornare al pessimismo puro del protestantesimo primitivo: l’uomo è un nulla e bisogna ascoltare solo Dio. Sarebbe la posizione sostenuta da Karl Barth. La seconda, quella condivisa dal nostro autore, è la posizione tomistica: bisogna arrivare alla trasformazione sostanziale delle strutture culturali moderne, passando ad una nuova età della civiltà (p. 63). Maritain considera che la filosofia di san Tommaso ha degli strumenti metafisici e gnoseologici adatti per servire da base ad una filosofia sociale ispirata ai valori del Vangelo. Tra questi elementi spiccano il realismo gnoseologico e la distinzione tra ordine naturale e ordine soprannaturale. Si tratta di formare una nuova età di cultura cristiana, fondata su una riabilitazione della creatura in Dio. Con altre parole, Maritain propone un umanesimo dell’Incarnazione, che dà valore al mondo del creato non mediante il distacco da Dio, come pretese l’umanesimo antropocentrico, ma attraverso il riconoscimento della sua giusta autonomia e al contempo della sua finalizzazione in Dio. La nuova età della cultura cristiana sarà — a differenza del Medioevo —, un’epoca riflessa, dove l’uomo prende coscienza di sé. «Una tale coscienza di sé implica un rispetto evangelico della natura e della ragione, di queste strutture naturali che l’umanesimo moderno ha aiutato a scoprire ma non ha saputo preservare, e della grandezza originaria dell’uomo mai completamente oscurata dal male» (pp. 67-68). L’umanesimo dell’Incarnazione potrebbe superare, da una parte, la radicale separazione tra religione e mondo del liberalismo borghese, e dall’altra l’unità medioevale, che era simbolica e figurativa. Maritain delinea questa nuova età, permeata dall’umanesimo integrale (che è un umanesimo dell’Incarnazione) nel seguente modo: «Se una nuova cristianità riesce a instaurarsi, il suo carattere distintivo sarà, crediamo, che questa trasfigurazione — mediante la quale l’uomo, consentendo a essere mutato e sapendo che è mutato dalla grazia, lavora a divenire e a realizzare quell’uomo nuovo che egli è da parte di Dio — questa trasfigurazione dovrà raggiungere realmente, e non solo in modo figurativo, le strutture della vita sociale dell’umanità e comportare così — nella misura in cui 298 Mariano Fazio è possibile quaggiù per tale o talaltro clima storico — una verace realizzazione sociale-temporale del Vangelo. Una nuova età di cultura cristiana capirà senza dubbio un po’ meglio di ciò che non sia avvenuto sinora (e mai il mondo avrà finito di comprenderlo, cioè di respingere dal suo seno il lievito dei farisei) sino a qual punto importi dare ovunque il passo al reale e al sostanziale sull’apparente e il decorativo, al realmente e sostanzialmente cristiano sull’apparentemente e decorativamente cristiano; capirà anche che si afferma in vano la dignità e la vocazione della persona umana se non si lavora a trasformare le condizioni che l’opprimono, e a fare in modo che essa possa degnamente mangiare il proprio pane» (pp. 79-80). 3.3. La missione temporale del cristiano La nuova cristianità implica una concezione della missione del cristiano nel mondo e del rapporto tra lo spirituale e il temporale. Secondo Maritain, la distinzione tra l’ordine temporale e l’ordine spirituale è essenzialmente cristiana. Distinzione non implica opposizione o separazione arbitraria. Un ambito in cui il problema del rapporto tra questi due ordini si pone in forma urgente riguarda la realizzazione del Regno di Dio. Che parte bisogna riconoscere allo spirituale e al temporale in questa realizzazione? Il Regno di Dio è escatologico, ma si prepara nel tempo, nella storia. E nella storia umana si incontrano la Chiesa, che è il Regno di Dio crocifisso, e il mondo, che per raggiungere il Regno deve mutare essenzialmente. La Chiesa è il Regno, ma in uno stato peregrinante e velato. Il mondo, invece, è nel tempo e del tempo. Il suo fine non è escatologico ma la vita temporale della moltitudine umana. Qual è il rapporto del mondo con il Regno di Dio? Maritain afferma che ci sono tre errori al momento di rispondere a questa domanda. Il primo errore sarebbe la concezione satanocratica del mondo e della città politica, considerati come intrinsecamente corrotti. Il secondo errore, ha una versione europea orientale (teofanica) e una versione occidentale (teocratica). Secondo i sostenitori di queste due versioni il mondo è già realmente salvato: si chiede al mondo e alla politica l’effettiva realizzazione del Regno di Dio. Il filosofo francese non identifica cristianità medioevale con teocrazia, ma afferma che quest’ultima è stato l’angelo tentatore della cristianità. Questo secondo errore può rivestire una veste secolarizzata: il comunismo è un impero teocratico ateo. Il terzo errore sarebbe quello proprio dell’umanesimo antropocentrico: il mondo avrebbe una autonomia assoluta, che volta le spalle alla Trascendenza. Si tratta in realtà di una laicizzazione del Regno di Dio. Per superare questi tre errori bisogna approdare alla soluzione cristiana: «Per il cristianesimo, la vera dottrina del mondo e della città temporale, è nel riconoscere che sono il regno insieme dell’uomo, di Dio e del diavolo. Così appare l’ambiguità essenziale del mondo e della sua storia; è un campo comune ai tre. Il mondo è un campo chiuso che appartiene a Dio per diritto di creazione; al diavo299 note e commenti lo per diritto di conquista, a causa del peccato; a Cristo per diritto di vittoria sul primo conquistatore, a causa della Passione. Il compito del cristiano nel mondo è di disputarne al diavolo il dominio, di strapparglielo; deve sforzarsi a ciò, ma, sinché durerà il tempo, vi riuscirà solo in parte. Il mondo è bensì salvato, è liberato in speranza, è in marcia verso il regno di Dio, ma non è santo, è la Chiesa ad essere santa: è in marcia verso il Regno di Dio ed è perciò un tradimento verso questo regno non volere con tutte le forze una realizzazione — proporzionata alle condizioni della storia terrena, ma così effettiva quanto possibile, quantum potes, tantum aude — o, più esattamente, una rifrazione nel mondo, in un modo o in un altro, deficiente o contestata. E nello stesso tempo che la storia del mondo è in cammino — è la crescita del frumento — verso il Regno di Dio, è anche in cammino — è la crescita dell’erba folle, inestricabilmente mescolata al frumento — verso il regno della riprovazione» (pp. 90-91). Quindi il cristiano ha una missione temporale. La Chiesa è sempre più liberata dall’amministrazione temporale e i cristiani si devono trovare sempre più impegnati, non in quanto membri della Chiesa, ma in quanto membri cristiani della città temporale, nel lavoro di instaurazione di un nuovo ordine temporale nel mondo. Questo impegno implica l’elaborazione di una filosofia politica, sociale ed economica capace di discendere fino alle realizzazioni concrete. L’ispirazione cristiana di questa filosofia non significa omogeneità di idee e di vedute sociali. Ci saranno diverse scuole di politica cristiana o di economia cristiana, ma tutte devono ispirarsi ai valori del Vangelo. Questa trasformazione cristiana della società temporale, comunque, non sarà il frutto del solo cambiamento della filosofia sociale. Trattandosi di un cambiamento temporale, sì, ma con forte risonanze etiche e spirituali, i mezzi che si devono adoperare sono anche mezzi spirituali. Maritain è convinto che «un rinnovamento sociale vitalmente cristiano sarà opera di santità o non sarà» (p. 100). Di quale santità si tratta? Il nostro autore parla di un nuovo stile di santità. Maritain critica l’interpretazione comune dell’età umanista classica, che identificava santità o perfezione evangelica con lo stato religioso, lasciando ai laici solamente la possibilità di una vita cristiana imperfetta. Il nuovo stile di santità è caratterizzato dalla santificazione del profano: «l’uomo impegnato in questo ordine profano o temporale d’attività può e deve, come l’uomo impegnato nell’ordine sacro, tendere alla santità — e per giungere lui stesso alla unione divina e per attirare verso il compimento delle volontà divine l’ordine tutto intero al quale appartiene. Di fatto, quest’ordine profano, in quanto collettivo, sarà sempre deficiente, ma noi dobbiamo tuttavia, e dobbiamo tanto più, volere e sforzarci affinché sia ciò che deve essere. Perché la giustizia evangelica domanda da sé di tutto penetrare, di impadronirsi di tutto, di scendere sino al più profondo del mondo» (p. 102)7. 7 Inaspettata è l’aggiunta di Maritain alle parole appena citate: «È tutt’al più nell’ordine delle cose che questo nuovo stile e questa nuova spinta di spiritualità comincino ad apparire non 300 Mariano Fazio 3.4. L’ideale storico concreto di una nuova cristianità La proposta maritainiana di trasformazione delle strutture temporali prende il nome di «ideale storico concreto di una nuova cristianità». Per il filosofo francese, un ideale storico concreto è un’immagine prospettica significante il tipo particolare, il tipo specifico di civiltà al quale tende una data età storica (cfr. p. 105). Non è quindi un essere di ragione, come le utopie, ma una essenza ideale realizzabile. Quali sono gli elementi caratteristici di questo ideale storico concreto denominato “nuova cristianità”? Maritain elenca cinque note caratteristiche: 1) il pluralismo; 2) l’autonomia del temporale; 3) la libertà delle persone; 4) l’unità di razza sociale — espressione che spiegheremo dopo — e 5) l’opera comune: una comunità fraterna da realizzare. Prima di analizzare questi elementi, Maritain afferma che l’ideale storico di una nuova cristianità comporta una concezione profana cristiana e non sacrale cristiana del temporale (cfr. p. 131). L’ideale storico concreto della cristianità medioevale comportava invece una concezione sacrale cristiana, caratterizzata dalla tendenza ad una unità organica massimale; dalla predominanza effettiva del compito ministeriale del temporale; dall’impiego dell’apparato temporale per fini spirituali; dalla diversità di “razze sociali” e dall’opera comune: un impero di Cristo da edificare. Il pluralismo è la prima nota caratteristica della nuova cristianità. Una città pluralistica riunisce nella sua unità organica una diversità di gruppi e di strutture sociali incarnanti libertà positive. Nella nuova tappa storica ci dovrà essere pluralismo economico, che superi i mali del capitalismo e del comunismo mediante una certa collettivizzazione della proprietà industriale e un rinnovamento e vivificazione dell’economia famigliare. Ci dovrà essere anche pluralismo giuridico che regoli la tolleranza religiosa: l’unità della città temporale della nuova cristianità non è quella massimale della cristianità medioevale. La città temporale ha solo una unità di orientamento, che procede da una comune aspirazione verso la forma di vita comune meglio accordata agli interessi sovratemporali della persona. L’agente di unità è la parte più evoluta politicamente e più devota del laicato cristiano e delle élites popolari. La città temporale della nuova cristianità ha una unità minimale, incentrata sulla persona in quanto membro della città. Perciò una unità temporale, civile, non richiede l’unità di fede o di religione, e implica la tolleranza civile (che impone allo Stato il rispetto delle coscienze, cosa diversa dalla libertà dogmatica, che ritiene la libertà dell’errore come un bene a sé). Maritain vuole essere chiaro nella sua proposta pluralistica: «È necessario insistere sulla portata della soluzione pluralistica della quale parliamo: essa è così lontana dalla concezione liberale in auge nel XIX secolo — poiché riconosce la nella vita profana stessa, ma in certe anime nascoste al mondo, le une viventi nel mondo, le altre alla sommità delle più alte torri della cristianità, cioè negli Ordini più altamente contemplativi, per espandersi di là sulla vita profana e temporale» (p. 103). Dico inaspettata, giacché il nuovo stile di santità “profana” verrebbe importato dallo stile religioso di santità, il che potrebbe far perdere il suo carattere “profano”. 301 note e commenti necessità da parte della città temporale d’avere una specificazione etica e in ultima analisi religiosa — come dalla concezione medioevale, poiché questa specificazione ammette eterogeneità interne e si attiene solo a un senso o ad una direzione, a un orientamento d’assieme. La città pluralistica moltiplica le libertà; la misura di queste non è uniforme, e varia secondo un principio di proporzionalità» (pp. 138-139). La seconda caratteristica, che getta più luce sull’interpretazione maritainiana del pluralismo, è l’affermazione dell’autonomia del temporale in qualità di fine intermedio infravalente. Per Maritain, l’ordine temporale fondato sulla ragione è comunitario e personalistico. Che sia comunitario significa che il bene comune a cui tende la società temporale è specifico, cioè diverso dalla pura somma dei beni individuali. Questo bene comune consiste nella retta vita terrena della moltitudine riunita in società. Personalistico significa che il bene comune è fondamentalmente rispettare e servire i fini sovra-temporali della persona umana. Perciò il bene comune temporale non è un fine ultimo, dato che è ordinato al bene intemporale della persona. Maritain utilizza un altro concetto per spiegare la stessa realtà: il bene comune temporale è un bene intermedio o infravalente. Ha una specificazione propria, che la distingue dal fine ultimo e dagli interessi eterni della persona umana, «ma nella sua stessa specificazione è avviluppata la sua subordinazione a quei fini e a quegli interessi da cui riceve le sue misure dominanti. Ha consistenza propria e bontà propria, ma precisamente a condizione di riconoscere questa subordinazione e di non erigersi come bene assoluto» (p. 110). L’autonomia del temporale consiste nel riconoscere questa consistenza propria del bene comune della città. La cristianità medioevale concepiva il compito del temporale come meramente strumentale rispetto allo spirituale. Nella Modernità si sottolineò la specificità propria del bene comune temporale —alle volte con esagerazioni proprie dell’umanesimo antropocentrico chiuso alla Trascendenza — in modo tale da escludere di fatto la strumentalità. Questo processo è sostanzialmente positivo se si riconosce la subordinazione del fine temporale al fine ultimo personale. «Così si trae e si precisa la nozione di città laica in modo vitale cristiana, o di Stato laico, cristianamente costituito, cioè di uno Stato nel quale il profano e il temporale abbiano pienamente il loro compito e la loro dignità di fine e di agente principale — ma non di fine ultimo e di agente principale il più elevato. È questo il solo significato che un cristiano può riconoscere alla parola “stato laico” che altrimenti ha solo un significato tautologico, la laicità dello Stato volendo dire in questo caso che lo Stato non è la Chiesa — o un senso errato, la laicità dello Stato volendo dire allora che lo Stato è neutro o antireligioso, cioè al servizio di fini puramente materiali o d’una contro-religione» (p. 142). Il carattere personalistico della nuova cristianità implica la libertà delle persone (terza nota caratteristica). Maritain parla della extraterritorialità della persona nei confronti dei mezzi temporali e politici. Questi mezzi devono essere messi al 302 Mariano Fazio servizio della persona, e non alla rovescia. La persona ha una dignità tale da non poter mai venire strumentalizzata. In questo ambito si inserisce la quarta nota caratteristica della nuova cristianità: l’unità della razza sociale, che non vuol dire altro che tutti, governanti e governati, ricchi e poveri, godono in quanto persone della stessa dignità. Il quinto e ultimo carattere elencato da Maritain è l’opera comune: una comunità fraterna da realizzare. Il principio dinamico della vita comune della nuova cristianità non è la Classe, né la Razza né la Nazione o lo Stato, «ma la dignità della persona umana, la sua vocazione spirituale e l’amore fraterno che le è dovuto» (p. 161). Il filosofo francese parla della comunità fraterna come un ideale eroico da realizzare: si cerca di creare le condizioni politico-sociali che rendano più facile tendere verso l’amicizia fraterna. Ribadendo il carattere profano cristiano della nuova cristianità, Maritain scrive che «l’opera comune non apparirebbe più come un’opera divina da realizzare dall’uomo sulla terra, ma piuttosto come un’opera umana da realizzare sulla terra mediante il passaggio di qualcosa di divino, che è l’amore, nei mezzi umani e nello stesso lavoro umano» (p. 161). È possibile creare le condizioni di realizzazione dell’ideale storico di una nuova cristianità? «L’avvenire di una nuova cristianità dipende anzitutto dalla realizzazione interiore e plenaria d’una certa vocazione profana cristiana in un certo numero di cuori» (p. 180). I mezzi per instaurare una nuova cristianità devono essere proporzionati al fine. Un fine degno dell’uomo deve essere raggiunto con mezzi degni dell’uomo. Maritain fa un lungo excursus sull’utilizzo della violenza, che ammette solo nei casi limite seguendo la dottrina di san Tommaso, per concludere sulla liceità di ogni mezzo temporale che non sia opposto alla dignità della persona umana. Per rendere possibile la nuova cristianità, il cristiano «non deve essere assente da alcun campo dell’agire umano, egli è richiesto ovunque. Deve lavorare insieme — in quanto cristiano — sul piano dell’azione religiosa (indirettamente politica) e — in quanto membro della comunità spirituale — sul piano dell’azione propriamente e direttamente temporale e politica» (p. 202). Per quanto riguarda più in concreto l’attività politica, Maritain non desidera partiti politici ad etichetta religiosa, ma gruppi diversi ispirati allo spirito cristiano, senza un’artificiale unità nelle scelte libere. Ciò che sì importa è la vera ispirazione cristiana di questi gruppi: Maritain distingue tra la politica fatta dai cristiani — mero dato di fatto — e l’attività politica cristianamente ispirata, ordinata ad un ideale temporale cristiano, che richiede la partecipazione dei cristiani che si fanno del mondo, della società e della storia moderna una certa filosofia, e dei non cristiani che riconoscono la fondatezza di quella filosofia. Questi cittadini costituiranno formazioni politiche autonome, possono fare alleanze, ma mantenendo la loro indipendenza, in modo da far nascere il germe di una politica in modo vitale cristiano. Maritain sostiene fermamente che la trasformazione delle strutture temporali è l’opera dei semplici cristiani, e non del clero: «Conviene guardarsi dal riprendere qui antichi errori in forme nuove. Se la Chiesa medioevale ha direttamente 303 note e commenti formato e ingentilito l’Europa politica, lo ha fatto perché aveva dovuto allora far sorgere dal caos l’ordine temporale stesso: lavoro in soprannumero, al quale non poteva rifiutarsi, ma al quale non è rassegnata inizialmente senza legittima apprensione. Oggi l’organismo temporale esiste e altamente differenziato. Non spetta alla Chiesa ma in modo diretto e prossimo ai cristiani in quanto membri temporali di questo organismo temporale, di trasformarlo e rigenerarlo secondo lo spirito cristiano. In altri termini, non spetta al clero tenere le leve di comando dell’azione propriamente temporale e politica» (p. 210). La nuova cristianità, come il nuovo Medioevo di Berdiaeff, non propone un ritorno al passato, ma si apre al futuro con un ideale profano cristiano derivante dall’umanesimo dell’Incarnazione che svela l’autonomia e al contempo la subordinazione del temporale allo spirituale. 4. L’idea di una società cristiana, di T. S. Eliot (1939) T.S. Eliot pronunciò nel marzo 1939 tre conferenze a Cambridge, che furono pubblicate subito dopo, con il titolo The Idea of a Christian Society. Si tratta di un’opera breve, in cui il poeta angloamericano propone un modello di società cristiana che permetta di risolvere le difficoltà in cui si trovava la società inglese — e più ampiamente, la civiltà occidentale — a causa della perdita di una visione religiosa della vita e dell’esistenza umana. 4.1. Gli elementi di una società cristiana Eliot tenta di trovare l’idea di una società cristiana, cioè cerca di individuare gli elementi specifici di una società cristiana, che la distinguono da una società neutra. Secondo Eliot, quest’ultima società, che ha una matrice ideologica materialista, non si allontana troppo dalla società pagana, che in quell’epoca si identificava nell’opinione pubblica inglese con la Germania nazista e la Russia comunista. Il nostro autore analizza la situazione a lui contemporanea del cristianesimo nella società inglese: «Ora noi possiamo individuare tre momenti positivi nella storia: quello in cui i cristiani sono una minoranza nuova in una società di tradizione positivamente pagana (una situazione che non potrà presentarsi in un futuro prevedibile); quello in cui tutta la società può chiamarsi cristiana, sia riunita in un solo corpo, sia divisa in sette (e la fase della divisione potrà seguire o precedere quella dell’unione); e finalmente il momento in cui i cristiani non possono essere considerati che una minoranza statica, o in corso di estinzione, entro l’àmbito di una società che ha cessato di essere cristiana. Abbiamo noi raggiunto il terzo momento? Tanti saranno i pareri quante le persone che si porranno il quesito. Ma a me pare che anzitutto due sono i punti di vista. Il primo, che la società 304 Mariano Fazio cessa di essere cristiana quando vengono abbandonate le pratiche religiose, quando gli altri atti degli uomini non sono più regolati da princìpi cristiani, ed il benessere mondano, individuale o collettivo, diviene l’unica ambizione cosciente. L’altro punto di vista, più difficile ad essere compreso, è che la società non cessa d’essere cristiana finché non diventa qualcosa di positivamente diverso. Io credo che oggi la nostra cultura sia generalmente negativa, ma che, per quel poco ch’essa ha di positivo, sia tuttora cristiana. Non ritengo che possa perdurare così, perché una cultura negativa perde qualsiasi capacità di realizzazione in un mondo dove energie economiche e spirituali dimostrano l’efficienza di culture forse pagane, ma positive; e ritengo che la nostra scelta sia fra la creazione di una nuova cultura cristiana e l’accettazione della cultura pagana»8. Eliot intende per cultura negativa in questo contesto la cultura liberale. Il liberalismo è un’ideologia antitradizionale e rivoluzionaria, che distrugge in nome della libertà, ma che non propone i fini a cui questa libertà deve tendere. In questo senso è negativo. Una cultura positiva, invece, significa una cultura che propone un ideale di vita, sia questo pagano o cristiano, vale a dire una cultura propositiva. Molti dei contemporanei considerano che la società occidentale così com’è non cambierà molto in futuro. Ma Eliot pensa che gli ideali “santificati” del mondo occidentale, il liberalismo e la democrazia, possono finire in un totalitarismo autoproclamatosi democratico. In Inghilterra la gente si autodefinisce come cristiana, e dà del pagano agli altri, in particolare ai russi e ai tedeschi. Ma bisogna esaminare nei particolari quel cristianesimo che il popolo inglese si vanta di conservare: in realtà, si tratta di un cristianesimo minoritario in una società liberale negativa con tendenze paganizzanti. «L’idea liberale secondo cui la religione è una questione di fede e di etica personali, così che nulla impedisce ad un buon cristiano di adattarsi ad ogni ambiente che gli dimostri una certa benevolenza, diventa sempre meno sostenibile» (pp. 29-30): la supposta società neutra è sempre meno neutra, e tende a trasformarsi in non-cristiana, e il cristiano «diventa ogni giorno meno cristiano sotto l’insensibile pressione di un’infinità di elementi, giacché il paganesimo controlla tutti i più efficaci mezzi di propaganda. Ogni forma di tradizione cristiana, trasmessa di generazione in generazione, nell’ambito familiare, è condannata a sparire, e la piccola comunità cristiana finirà per consistere interamente di anziani» (pp. 30-31). Perciò, la scelta tra l’apatia di chi si lascia portare verso una società pagana e la fatica che comporta cambiare la società affinché diventi positivamente cristiana, è un’alternativa tra l’inferno e il purgatorio, giacché una società cristiana non significa un paradiso terrestre: il Regno di Dio, che già si trova sulla terra, si compierà definitivamente alla fine dei tempi. Arrivato al secondo capitolo delle sue riflessioni, Eliot riassume quanto finora ha esposto: «La mia tesi è stata semplice: una società liberale o negativa non può che avviarsi ad un declino di cui non vediamo la fine, oppure (sia come risultato 8 T.S. ELIOT, L’idea di una società cristiana, Edizioni di Comunità, Milano 1948, pp. 18-19. 305 note e commenti di una catastrofe o no) ritornare ad una forma positiva che con ogni probabilità sarà efficiente e laica. Per provar timore di fronte ad una simile evoluzione non occorre pensare che questo laicismo somiglierà da vicino ad un qualsiasi sistema politico passato o presente: la capacità degli anglosassoni di diluire la propria religione supera certamente quella di ogni altra nazione. Ma a meno di accontentarsi di una o dell’altra di queste prospettive, l’unica alternativa che ci resta è la creazione di una società cristiana positiva. Questa terza soluzione farà presa soltanto su coloro che sono uniti in un comune giudizio della situazione presente, e che capiscono come le conseguenze di una società completamente laica sarebbero rifiutate anche da chi non dà un’importanza capitale alla sopravvivenza del cristianesimo di per se stesso» (pp. 33-34). Eliot considera — come Berdiaeff e Maritain — che non si può tornare al Medioevo né a nessun periodo del passato. Bisogna ideare una società cristiana per il futuro. Quali sono gli elementi essenziali di una simile società? Sono lo Stato cristiano, la Comunità cristiana e la Comunità dei Cristiani. Lo Stato cristiano è la società cristiana considerata nelle sue leggi, nella sua amministrazione, nella sua tradizione giuridica. Eliot non intende per Stato cristiano uno stato dove i capi siano cristiani eminenti: «Un governo di Santi finirebbe per diventare troppo scomodo» (p. 35). Il fatto che i governanti siano buoni è importante, ma il fattore decisivo è la mentalità del popolo che governano: «quel che conta non è tanto il cristianesimo degli uomini di Stato quanto che essi siano obbligati, dal carattere e dalle tradizioni del popolo che governano, a realizzare le loro ambizioni e contribuire alla prosperità ed al prestigio del loro Paese entro una cornice cristiana. Potranno trovarsi spesso costretti a compiere atti non cristiani; ma non dovranno mai tentare una difesa delle loro azioni facendo ricorso a princìpi non cristiani» (p. 36). Qual è il rapporto tra la fede e gli elementi essenziali di una società cristiana? Gli uomini di Stato devono portare avanti un comportamento conforme ai princìpi cristiani; la comunità cristiana deve conformarsi con essi al meno inconsapevolmente; la Comunità dei Cristiani — di cui parleremo dopo — lo deve fare consapevolmente ed in un modo esigente. Per la grande massa degli uomini si esigono due condizioni: «la prima, che essendo limitata la loro capacità di pensare alle cose della fede, il loro cristianesimo si manifesti quasi interamente negli atti, sia nelle pratiche religiose usuali e periodiche, sia in un codice tradizionale che regoli la loro condotta nei rapporti con gli altri uomini. La seconda che, pur comprendendo quanto i loro atti siano lontani dall’ideale cristiano, la loro vita sociale e religiosa formi una naturale unità, e che perciò la difficoltà di comportarsi come veri cristiani non li costringa ad uno sforzo intollerabile. In realtà queste due condizioni non sono che una sola, formulata diversamente. Ai nostri giorni sono ben lontane dall’essere realizzate» (p. 38). Secondo Eliot, per formare una società cristiana ci deve essere unità tra fede e vita ordinaria. La società neutra e paganizzante offre una resistenza molto forte a questo ideale, e obbliga il cristiano a vivere eroicamente. Nella società cristiana non dovrebbe succedere 306 Mariano Fazio così: «la religione dev’essere anzitutto una questione di comportamento e di abitudini, qualcosa di integrato alla vita sociale, agli affari ed ai piaceri, così che le emozioni più particolarmente religiose debbono rappresentare una sorta di estensione e di santificazione delle emozioni domestiche e sociali» (p. 40). Se l’unità tra fede e vita ordinaria rimane l’ideale, bisogna constatare che l’organizzazione materiale della vita moderna ha creato un mondo al quale si adattano male le forme sociali cristiane. Di fronte a questa constatazione, ci sono due possibili tentazioni che l’intellettuale cristiano dovrebbe evitare: rifugiarsi in un passato che si presume migliore, o adattare il cristianesimo ai tempi moderni. Ma se un ritorno alla vita rurale e contadina è impossibile, considerare che le forme cristiane si devono adattare alla società è rinunciare a pensare che il cristianesimo ha la capacità di creare nuove forme sociali. Leggiamo le forti parole di Eliot: «una gran parte del meccanismo della vita moderna serve soltanto a sanzionare scopi non cristiani; che esso non è solo ostile ad un’aspirazione sincera dei pochi verso la vita cristiana, ma alla conservazione stessa della società cristiana in tutto il mondo. È ora di abbandonare l’opinione che il cristiano debba considerarsi soddisfatto solo perché gode della libertà di culto e non è soggetto ad alcuna discriminazione a causa della sua fede. Per quanto settario io possa sembrare, dirò che non vi è null’altro che possa soddisfare il cristiano se non una organizzazione cristiana della società (il che non equivale ad una società composta esclusivamente di cristiani devoti). Sarebbe una società dove il diritto a conseguire il fine naturale dell’uomo — cioè la virtù ed il benessere condiviso con il prossimo — verrebbe riconosciuto a tutti, ed il diritto al fine ultraterreno — la beatitudine — a coloro che hanno occhi per vederlo» (pp. 44-45). Nella società cristiana, i governanti accetteranno il cristianesimo come il sistema entro il cui ambito dovranno governare; il popolo farà del cristianesimo il modo di vita e di costume. Ma per la coesione e la permanenza di una società cristiana ci vuole una “Comunità dei Cristiani”, formata da cristiani che si distinguono per la loro intelligenza e spiritualità. Così definisce Eliot la suddetta Comunità: «non è un’organizzazione, ma un corpo senza contorni ben definiti, composto di ecclesiastici e di laici, degli uomini che, di entrambe le classi, sono i più coscienti e più preparati spiritualmente ed intellettualmente. La loro identità di vita e d’aspirazioni, la comune esperienza di cultura e di educazione li metteranno in grado di influenzarsi reciprocamente e di formare collettivamente la mentalità e la coscienza della nazione» (p. 56). 4.2. Possibilità di una società cristiana Eliot considera che per l’esistenza di uno Stato cristiano, di una Comunità cristiana e di una Comunità dei Cristiani, è necessario che ci sia un rapporto armonico tra Chiesa e Stato. L’anglo-americano difende la convenienza di una Chiesa stabilita nazionale, non chiusa in se stessa ma consapevole di appartenere alla 307 note e commenti Chiesa Universale. Molte delle argomentazioni di Eliot sono legate alla vicenda storica della Chiesa d’Inghilterra, considerata l’unica istituzione ecclesiastica capace di stabilire un rapporto efficace con la società politica nell’Inghilterra del suo tempo. Se Eliot paga il suo tributo verso la tradizione inglese, farà altrettanto quando riproporrà il dilemma tradizionale britannico tra patriottismo e universalità cristiana: «Occorre, tuttavia, rendersi conto che anche in una società cristiana organizzata nel modo più perfetto che sia immaginabile su questa terra, la conquista massima sarebbe la creazione di una armonia fra la nostra vita temporale e la spirituale: ad una identificazione vera e propria non si arriverebbe mai. Rimarrebbe sempre una duplice fedeltà, verso lo Stato e verso la Chiesa, verso i propri compatrioti e verso i cristiani di tutto il mondo: e quest’ultima fedeltà prevarrebbe sempre sull’altra. Ma esisterebbe sempre una tensione. Questa tensione è essenziale all’idea di una società cristiana ed è un segno che la distingue da una società pagana» (p. 72). Eliot finisce le sue riflessioni sottolineando il legame che c’è tra una società cristiana e l’ordine stabilito dalla natura umana. La società proposta dal poeta anglosassone non è una società degli eletti o dei puri: «nel quadro che ho fatto di una società cristiana ho cercato di limitare le mie esigenze, nei riguardi dei suoi ipotetici membri, ad un minimo di qualità sociali: io non prevedo una società di santi ma di uomini comuni, per i quali il cristianesimo è un’esperienza collettiva prima che individuale» (p. 76). La società cristiana è per uomini comuni a cui si deve rendere possibile la vita secondo natura: «Possiamo dire che la religione, in quanto distinta dal paganesimo moderno, è essenzialmente legata ad una condotta di vita conforme alla natura. Si potrebbe anche osservare che la vita naturale e la soprannaturale hanno una corrispondenza reciproca che nessuna delle due ha nei riguardi della vita concepita secondo criteri meccanicistici; ma la nostra idea del naturale è stata deformata a tal punto che persone, le quali ritengono innaturale, e quindi ripugnante, che un uomo o una donna conducano una vita di celibato, giudicano perfettamente naturale limitare ad uno o due i figli in una famiglia. Forse sarebbe più naturale, ed anche più conforme alla volontà di Dio, se vi fossero più celibi e se coloro che sono sposati avessero prole più numerosa» (pp. 78-79). La società contemporanea si allontana dalle norme naturali non solo nell’ambito della morale familiare: il materialismo e l’economicismo che stanno alla base della società capitalista stanno creando problemi ecologici gravi, che devono svegliare le coscienze dei cittadini: «per troppo tempo abbiamo creduto soltanto nei valori che sono il prodotto di una vita dove gli elementi fondamentali sono la macchina, il commercio, la metropoli: forse sarebbe bene che riflettessimo sulle condizioni immutabili alle quali Dio ci permette di vivere su questo pianeta» (pp. 79-80). L’Inghilterra sta attraversando una crisi di valori. Di fronte alla crisi del settembre del 1938, provocata dalle ambizioni territoriali di Hitler, la nazione britannica non trovò argomenti morali convincenti per fermare il dittatore. «Non 308 Mariano Fazio potevamo opporre una convinzione ad un’altra, non avevamo idee che potessero farsi incontro né opporsi alle altre che ci stavano di fronte. La nostra società, che è sempre stata così certa della propria superiorità ed onestà, così fiduciosa nelle sue premesse mai approfondite, ci sembrò all’improvviso raccolta attorno a nient’altro di più permanente che una catena di banche, compagnie di assicurazioni ed industrie, sì che parve che nessun’altra fede l’animasse, se non quella nell’interesse composto e nell’intangibilità dei dividendi» (pp. 82-83). La società occidentale ha bisogno di una cura radicale, che cambi le radici materialistiche su cui si fonda. Eliot non propone i mezzi per arrivare a questo cambiamento, ma è sicuro del fine: «Vi è una sola alternativa all’organizzazione rapida e semplice della società per il raggiungimento di fini che, essendo soltanto materiali e mondani, si riveleranno transitori come ogni successo mondano. Poiché la filosofia politica riceve la sua sanzione dall’etica, e l’etica dalla verità religiosa, soltanto col ritorno alle fonti della verità possiamo sperare in un’organizzazione sociale che non ignori, pena la sua stessa distruzione, alcun aspetto essenziale della realtà […]. Chi non desidera Dio (ed è un Dio geloso) non ha che da inchinarsi davanti ad Hitler o a Stalin» (pp. 81-82). 4. Conclusione Il periodo tra le due guerre è ricco di fermenti spirituali. Le conversioni al cristianesimo manifestano la sete di molti intellettuali di trovare risposte alle domande ultime dell’esistenza umana. La fede si presenta sia per Berdiaeff che per Maritain ed Eliot come l’ambito in cui la vita degli uomini si può sviluppare completamente. Perciò, tutti e tre gli autori denunciano con forza la mancata unione tra fede creduta e vita vissuta nei cristiani del XIX secolo e dell’inizio del XX secolo. La religione degli ultimi due secoli si era rifugiata nel tempio e nell’interiorità delle coscienze. Gli autori studiati propongono di capovolgere questa situazione: Berdiaeff parla di trasfigurazione cristiana della società; Maritain di scambiare l’apparentemente cristiano e decorativamente cristiano con un cristianesimo autenticamente incarnato nelle strutture temporali; Eliot propone di formare collettivamente una mentalità cristiana. Le proposte dei nostri autori non sono di un ritorno alla cristianità medioevale: tutti sono convinti che non si può fare marcia indietro nella storia. In questo senso, Berdiaeff, Maritain ed Eliot prendono le distanze dalle proposte economico-sociali di altri due pensatori cristiani di questo periodo, più vicine ad un ritorno al Medioevo cristiano: mi riferisco alle idee distribuzionistiche di Gilbert K. Chesterton e di Hilaire Belloc. Del Medioevo si deve mantenere il teocentrismo — la primauté du spirituel, come direbbe Maritain —, ma bisogna lasciar da parte il modello simbolico e figurativo della teocrazia per arrivare ad una società autenticamente cristiana. Questa società non sarà clericale, dato che si riconoscerà l’autonomia del temporale. Più timidamente in Berdiaeff, con più chiarezza 309 note e commenti in Maritain ed in Eliot, l’autonomia del temporale appare per questi autori come un dato di partenza. Non l’autonomia assoluta dell’umanesimo antropocentrico, ma una autonomia relativa, che non misconosce le radici trascendenti di ogni realtà creata. Unire fede e vita in una società che riconosce l’autonomia del temporale implica che la cristianizzazione della società non è una cosa che si può fare dall’alto, dalle strutture politiche, sociali ed economiche già esistenti. Per Berdiaeff, Maritain ed Eliot il movimento è l’inverso: dal basso verso l’alto. Sono gli uomini di fede che trasformeranno le strutture sociali, se sono coerenti con i valori a cui credono. Questo è principalmente un compito dei cristiani normali, che sono inseriti nei diversi ambiti della vita sociale, e non principalmente un compito della Gerarchia. Trasformare una cultura in decadenza e ridare vita ad una società in crisi esige mezzi non solo materiali ma soprattutto spirituali. Berdiaeff parla di un’epoca di eroismo, Maritain di un nuovo stile di santità, Eliot fa riferimento al ruolo di lievito che ha la Comunità dei Cristiani nella società. L’esigenza dell’eroismo va unita alla santificazione della vita ordinaria, a questo ricucire lo strappo tra fede e vita che quattro secoli di umanesimo dualista hanno operato nel mondo occidentale. I tre autori si rendono conto di quest’esigenza, anche se i mezzi proposti forse non sono del tutto adatti al fine: per santificare la vita ordinaria Berdiaeff intravede tra le ombre la necessità di fondare un nuovo ordine religioso, Maritain considera che il nuovo stile di santità sta nascendo negli ordini contemplativi, Eliot ha un concetto di santità lontano dalla santificazione della vita ordinaria: le masse devono conformarsi con una ispirazione cristiana, senza andare fino alle ultime conseguenze della loro fede, perché incapaci di comprendere in profondità. Berdiaeff e Maritain — più che Eliot — vedono con chiarezza la necessità della santità in questo periodo della storia. Ciò nonostante, manca ancora un concetto pieno di santificazione della vita ordinaria attraverso la vita ordinaria stessa. Le idee di Berdiaeff, Maritain e Eliot su una nuova società cristiana sono state suggestive e stimolanti per la loro epoca: la necessità di unire fede e vita, il riconoscimento dell’autonomia relativa del temporale, l’esigenza di santità erano idee che non appartenevano come oggi alla dottrina cristiana comune. In un periodo in cui il clericalismo e il laicismo erano ancora molto presenti, i saggi qui studiati svegliarono le coscienze di molti intellettuali cristiani. Nello stesso periodo tra le due Guerre, nel 1928, il Beato Josemaría Escrivá ricevette una luce interiore, con la quale vide un panorama spirituale inedito: la santificazione nel lavoro attraverso le circostanze ordinarie della vita quotidiana. Anche lui era consapevole della profonda crisi della cultura della modernità, e delle possibili cure. Nel 1939 scrisse: «Queste crisi mondiali sono crisi di santi»9. Anche lui, lontano dal clericalismo, avrà chiara coscienza dell’autono9 Beato J. ESCRIVÁ, Cammino, Ares, Milano 199320, n. 301. 310 Mariano Fazio mia relativa del temporale, e conierà un termine per riferirsi alla necessità di unire fede e vita: il Beato Escrivá si riferirà all’unità di vita quale elemento caratterizzante per un cristiano coerente con la sua fede. Evidentemente il fondatore dell’Opus Dei va studiato da un’altra prospettiva, dato che non è principalmente un pensatore cristiano scrittore di saggi. Ma si muove nella stessa epoca, nello stesso ambiente di crisi culturale e partecipa a molte delle preoccupazioni di Berdiaeff, di Maritain e di Eliot. Perciò volevamo finire questo articolo con un riferimento sintetico alla dottrina del Beato Escrivá, che vuol essere la promessa di uno studio futuro. 311 312 ACTA PHILOSOPHICA, vol. 9 (2000), fasc. 2 - PAGG. 313-317 Brief comments on Capaldi’s “We Do” interpretation of humean ethics JUAN A. MERCADO∗ ■ Several years ago, summarizing the ideas presented in previous articles, Prof. Capaldi claimed that Hume’s “We Do” way of explaining moral life resembled a Copernican Revolution1. Contrary to the rationalist view, this critical Revolution proposes that sympathy complements the passions, other times opposes them. This, together with the acquisition of refined manners which results from living together, serves the needs of society better than mere reason. Sympathy is the “door” towards others, the way we communicate and perceive their sentimental life. Communal living teaches us how changing society maintains some steady characteristics and shows the best ways of ordering and developing the community. Everyone, as a member of his or her society, develops a kind of “We do”, anti-rationalistic and anti-individualistic sense of morality. Within this perspective —Capaldi claims— we discover a more effective theory to explain the norms of social life than the one presented by rationalist philosophers who cannot, for example, perceive the role of tradition as a moral value. ∗ 1 Pontificia Università della Santa Croce, Piazza di Sant’Apollinare 49, 00186 Roma. E-mail: [email protected] Nicholas CAPALDI, Hume’s Place in Moral Philosophy (Hume’s Place), Peter Lang, New York 1992, pp. 20 ff. He refers frequently to some of his antecedent works, especially David Hume: The Newtonian Philosopher, Boston: Twayne, 1975; “Hume as Social Scientist” in The Review of Metaphysics 32 (1978); “The Copernican Revolution in Hume and Kant”, in Proceedings of the Third International Kant Congress, ed. Lewis White Beck, Dordrecht: Reidel 1972; “Copernican Metaphysics”, in New Essays in Metaphysics, ed. Robert C. Neville, Albany: SUNY Press, 1978. Capaldi’s main claim is that the humean “We Do” (social, intersubjective and evolutive) proposal for understanding the fundamentals of moral life is stronger than the “I Think” rationalist systems. This new system implies a Copernican Revolution in moral philosophy. 313 note e commenti In addition to the intrinsic problems of explaining the sources of sympathy in the Treatise2, there are ambiguities which need clarification in the evolution of this term from that work to the Enquiries and the Dissertation on the Passions. An attentive reading of the latter provides important details for a better comprehension of the whole Treatise and a deeper understanding of Hume’s philosophical evolution3. In Hume’s later works, states Capaldi, sympathy seems less dependent on the exchange of force and vivacity among ideas and becomes a social sentiment4. It is restated as a sense of humanity or, simply, humanity. Hume also spares himself the effort of explaining the relation of sympathy with benevolence, a term which he uses more often in his later works. For Capaldi, Hume’s intellectual path deserves special attention as it is there that one can find the motives for his interest in social improvements instead of the concern for harmonizing the elementary notions of an abstract philosophical system5. Practical life is the safety exit for the skeptical philosopher6. Research on the foundations of social phenomena is less important than the explanation of the 2 3 4 5 6 See for example the connections of sympathy and complex sentiments as “love of fame” (2.1.11.), “Our esteem for the rich and powerful” (2.2.5.), “Of the mixture of benevolence and anger with compassion and Malice” (2.2.9., esp. pp. 381-389). Capaldi explains some other problems in the paragraph “Difficulties in the Sympathy Mechanism”, in Ch. 6 of Hume’s Place, pp. 225-236. All quotations and references to A Treatise of Human Nature are from the Selby-Bigge edition (Clarendon Press, Oxford 1973). Books, Parts and Sections are always in arabic numerals and in decimal fractions (Treatise 2.3.5.= Book II, Part 3, Section 5). Quotations to other works are from the Green and Grose edition of David Hume. The Philosophical Works, Scientia Verlag Aalen, Darmstadt 1964 (repr. of the new edition, London 1882), vol. 4. CAPALDI presents —Hume’s Place, pp. 270-271, and 324-5 (note 52 to p. 27)— the evidences of a shift in Hume’s system from the Newtonian mechanical conception of morals in the Treatise (1739-40) to a “cultural account” in the Enquiry concerning the Principles of Morals (EPM, 1751). One of the most important concerns of Hume in the Treatise is to reduce many of the mental phenomena to the “energy” of the impressions, their source. For sympathy we note in 2.2.9, pp. 386-7: “Sympathy being nothing but a lively idea converted into an impression, ‘tis evident, that, in considering the future possible or probable condition of any person, we may enter into it with so vivid a conception as to make it our own concern” (bold mine). Besides the less conditioned style of the Enquiries one find sympathy almost as taken for granted in several instances of practical life or historical personages. See EPM, pp. 208-209; 210, compared with Treatise, pp. 592-593. We find sympathy mentioned just three times in A Dissertation on the Passions (pp. 152, 156 and 157). In the Enquiry concerning Human Understanding (EHU) it is used only twice in notes to clarify secondary aspects of discourses (pp. 20-22). See also Capaldi’s remarks in Hume’s Place, pp. 241-247 and 264-265. Hume’s Place, pp. 309-313 and notes 49-50 in pp. 370-371. See Treatise 1.4.7., pp. 183-187 and 269-274. Also EPM, pp. 245-253, and EHU, p. 130: “The great subverter of Pyrrhonism or the excessive principles of skepticism, is action, and employment, and the occupations of human life”. 314 Juan Andrés Mercado immediate causes and finalities of human behaviour. An active life offers not just relief for human reason but also proposes wide-range solutions to theoretical problems: if every honest citizen knows what is right for his community, why philosophers have to spend more time producing new concepts to explain the most intimate sources of our conduct? History has taught us the futility of this line of research7. Let us trust in custom and good sense to make judgments concerning human actions8. Let sympathy flow and be justly balanced by general rules, and we will see that the socially committed and responsible individual acts in the best way9. This is a selection of the conclusions we can infer from Capaldi’s reading of Hume. I consider that Capaldi’s position valuable. Not least because he is a true proponent of certain aspects of Hume’s philosophy. He uses the original texts and within the social context of the Scottish Enlightenment, clarifying erroneous positions based on differing humean or anti-humean interpretations. He further insists on the unity of the three Books of the Treatise, as a response to some interpretative proposals which lack harmony with its form or structure10. Perhaps the most valuable claim of Capaldi’s approach is to blend different positions — the so called humean utilitarianism, his skepticism or his hedonism— by setting them in a wider framework11. His position is not merely useful to correct the traditional interpretations of Hume’s way of conceiving the practical reason, but also to connect it with classical doctrines such as the Aristotelian position12. In Aristotle’s Ethics there are several attempts to explain moral life in terms of practical performance. One can find the inclusion of an “extra-rational” way of judging morals with the seeming paradoxical claim that whoever is already acting in the right way can justly evaluate an action13. Hume as well as Aristotle emphasizes the role of education and custom in this 7 8 See EPM, pp. 187 ff. Against the utopia of the “golden age”, see pp. 184-186. EPM, pp. 179-194: custom and common sense as part of the background for justice. See CAPALDI, Hume’s Place, p. 312. 9 Hume’s Place, pp. 262-265. He quotes there EPM, pp. 182-183; 257 and 278 as remarkable texts supporting his proposal. 10 See his discussion of Norton’s view, which only considers the Treatise, in Hume’s Place, pp. 151-152. For his view on the role of the passions for understanding Hume’s system, see pp. 155-162, “Present State of the Literature on the Passions”. He insists both in the unifying value of the second Book within the framework of the Treatise and in the development of Hume’s later works. 11 CAPALDI summarizes the main subjects in chapter one of Hume’s Place, pp. 2-19, “The Historical Treatment of Hume’s Theory of Moral Judgment”, pp. 131-152. Also pp. 92-94 and 294-297. For “Naturalism”, see p. 297; utilitarianism, pp. 303-304; for “egoism” and “hedonism”, pp. 304-305. 12 See Hume’s Place, pp. 275 and 307. 13 See for example Nic. Eth. 1105a17-1105b18 and 1113a29-b2. The treatment of practical wisdom deserves special attention in 1106b36-1107a2; 1140a24-b30; 1142a12-30. 315 note e commenti kind of judgments and it occurs to me that Capaldi’s position could be enriched by this comparison14. It is clear that Hume was acquainted with some of Aristotle’s works, including the Nicomachean Ethics, yet it is equally evident that they did not serve as one of his main sources15. Capaldi also notes the differences between Hume’s and Aristotle’s philosophies, and is correct to indicate the significance of finality in Aristotle’s ethical system as an obstacle to the humean empiricist mentality16. In a sense the “We Do” perspective generates the moral norms and is not linked with an everlasting framework as Kant’s or Aristotle’s system17. Nevertheless we can seek a reason for Hume’s faith in “general rules” and the validity of one’s “sense of reality”. The latter is associated with the whole problem of belief, one of the fundamental concepts in Hume’s Treatise, almost taken for granted in the Enquiries18. Traces of the notion of general rules occur in several texts of the Treatise and is explained in some important passages of the Enquiries and the Dissertation. General rules are the statistical outcome of our daily experience and are for Hume an important aspect of the wider notion of custom. They carry out a very important role in the retrenchment of movements arising from the passions and in moral evaluations19, and act in a similar way to the Aristotelian virtues. What supports these rules or, at least, our confidence in them? I believe that a partial answer can be traced back to the idea of preestablished harmony and an avowed confidence in our perception of the course of nature. It is true that the term preestablished harmony is used just once in the Enquiry concerning Human Understanding20, and never in the Treatise or the Dissertation on the Passions, however some excerpts of these works can be read in this sense, for example his discussion against radical skepticism, claiming the uniformity of natural 14 For education in Hume’s works, see Treatise, pp. 116, 295, 472 and 500. EPM, pp. 118, 185 and 196. In Aristotle, see Eth. Nic. 1104b11-13; 1119b10-13 and 1130b26-27. 15 See Hume’s EPM, p. 285. There is a generic reference to Aristotle’s Ethics within a long discourse where Hume evaluates attentively the contributions of Cicero’s position and those of other moral philosophers. 16 Hume’s Place, pp. 275-276. 17 See Hume’s Place, p. 261 and the last parts of chapter 8, pp. 302-314. 18 The entire Part 3 of the First Book of the Treatise —“Of Knowledge and Probability”— deals in essence with the nature of belief. Many of the discussions undertaken in this Part are not represented in EPM. See Capaldi Hume’s Place, Chapter 7, esp. pp. 237-240 and 264-266. 19 Especially remarkable is their role in “correcting” the appearances of the senses to make the difference between serious conviction and poetical enthusiasm —Treatise, pp. 147, 374 and 631-632—, also correcting the variations in our sympathies to steady our moral sentiments —pp. 581 and 602—; influencing imagination and sympathy —p. 371— , conditioning moral obligation —p. 551—, and passions —pp. 293 and 309. Capaldi underlines the role of general rules in pp. 27, 122, 193, 218-220, 230, 242 and 244-246. 20 EHU, 5.2., p. 46: “Here, then, is a kind of pre-established harmony between the course of nature and the succession of our ideas”. 316 Juan Andrés Mercado events21, and his explanations of the basis of custom and inference22, or the coincidences between corporal beauty and utility23. It appears that in Hume’s intellectual development the appeal to the regularity of nature —even to the wisdom of nature24— provides a firm ground for the foundations of moral enquiry and allows the philosopher to abandon the sterile abstract discussions of some philosophical systems25. It is interesting to view the inclusion of such a “rationalistic” approach to nature in Hume’s system as symptomatic of the intrinsic incapacity to create a self-supporting ethical proposal within a merely empiricist philosophy. I think that Hume’s endeavours in explaining a new way of understanding morals offer an original perspective by including some important elements of human life. I agree with Capaldi’s claim that the humean proposal admits the integration of active social elements —especially tradition and social evolution— that can hardly be comprehended within strictly rationalist ethical frameworks. On the other hand, I consider that it is legitimate to emphasize that there are some undemonstrated principles in Hume’s empiricist system and to note the need for at least some extra or meta-empirical concepts to complete the ethical behaviour explanation. It seems that Capaldi’s agreement with Hume is so complete that he is unable to perceive the necessity for such an account. If it could be affirmed that Aristotle had to risk the rationality of his system by introducing some empirical principles, it is also valid to affirm that Hume had to anchor his skeptical and empiricist proposal to some meta-empirical foundations. 21 EHU, p. 36 and 67 (our idea of necessity and causality derived from the uniformity in the operations of nature) and Treatise, pp. 105, 134, 363, 379. Human nature is also determined by the regularity of Nature, as explained in EPM, pp. 172 and 271, and Treatise, p. 359. 22 See for example, EHU, pp. 39, 43 (nature has established connections among particular ideas), Treatise, p. 379. 23 See Treatise, pp. 576 and 615, and EPM, p. 227. 24 Cfr. EHU, p. 48. 25 Hume describes one species of philosophers that “regard human nature as a subject of speculation; and with a narrow scrutiny examine it, in order to find those principles, which regulate our understanding (…) and think themselves sufficiently compensated for the labour or their whole lives, if they can discover some hidden truths, which may contribute to the instruction of posterity”, EHU, pp. 3-4. For Hume, modesty becomes in his mature works a sistematical maxim against everyone’s rationalistic tendencies: “What is the foundation of all conclusions from experience? this implies a new question, which may be of more difficult solution and explication. Philosophers, that give themselves airs of superior wisdom and sufficiency, have a hard task, when they encounter persons of inquisitive dispositions (…) The best expedient to prevent this confusion, is to be modest in our pretensions; and even to discover the difficulty ourselves before it is objected to us. By this means, we may make a kind of merit of our very ignorance” EHU, pp. 28-29. Cfr. also p. 47. 317 318 ACTA PHILOSOPHICA, vol. 9 (2000), fasc. 2 - PAGG. 319-338 Una aproximación al Curso de Teoría del Conocimiento de Leonardo Polo JOSÉ IGNACIO MURILLO* ■ 1. La teoría del conocimiento como jalón de un proyecto filosófico La propuesta filosófica de Leonardo Polo despierta cada vez más interés entre un número creciente de filósofos. Durante bastante tiempo, este interés se había visto prácticamente reducido al ámbito de los que habían tenido la fortuna de conocerlo personalmente. Sin embargo, desde la publicación del primer tomo del Curso de Teoría del Conocimiento, en 1984, la continua sucesión de escritos del autor que han ido viendo la luz ha permitido que sus aportaciones sean conocidas por un público más numeroso, a la vez que han mostrado la novedad y el interés de sus tesis fundamentales y de su original modo de afrontar la investigación filosófica. El tomo I de su Antropología trascendental, que lleva como subtítulo La persona humana, recientemente publicado1, constituye, como el autor mismo señala en su prólogo, el vértice de su proyecto, cuyas líneas fundamentales están suficientemente esbozadas, aunque no del todo recorridas, ya que todavía falta por ver la luz el tomo II, que tiene como tema la esencia del hombre para culminar el proyecto original. Desde el principio, Leonardo Polo se propuso elaborar una antropología que no se redujera a una ontología regional y estuviera en condiciones de abordar adecuadamente un estudio trascendental de la persona humana, convencido de que la persona no sólo se distingue de los seres no personales en virtud de sus * Departamento de Filosofía, Universidad de Navarra, 31080 Pamplona (Spain). e-mail: [email protected] 1 Antropología trascendental. Tomo I: La persona humana, Eunsa, Pamplona 1999. Una buena introducción a esta obra se encuentra en L. POLO, El descubrimiento de Dios desde el hombre, «Studia Poliana», 1 (1999), pp. 11-24. 319 note e commenti propiedades, sino que se distingue de ellos trascendentalmente, es decir, en el orden del ser. Por eso, para él, el método de la antropología debe ser distinto del de la metafísica. Para Polo esta convicción es lo más positivo del intento moderno, que, sin embargo, ha naufragado por un error de método, unido a la depresión de la metafísica que heredó de la baja Edad Media; una depresión que, en último extremo, se fundaba en un error en la comprensión de la naturaleza y alcance del conocimiento humano. La preocupación por el método late, por tanto, en el fondo de su propuesta. No es extraño, por tanto, que haya dedicado desde el principio una atención especial al conocimiento humano, y hasta se haya llegado a definir a sí mismo en ocasiones por esta dedicación, es decir, como un teórico del conocimiento. El núcleo de dicha propuesta y sus primeros desarrollos fueron expuestos en los años sesenta en algunas obras. La primera de ellas es El acceso al ser2, donde se expone el método que el autor pretende desarrollar en su intento de continuar la filosofía tradicional. Se trata de detectar el límite que el pensamiento introduce en nuestro conocimiento de la realidad, en condiciones tales que quepa abandonarlo. Las cuatro dimensiones de ese abandono constituirán el método para aproximarse a los grandes temas de la filosofía: el ser y la esencia del universo y el ser y la esencia del hombre. Esa primera obra, junto con la dedicada al estudio del ser del universo, se revelaron difícilmente comprensibles3; algo que el autor atribuye a lo abrupto del modo de abordar los temas y a la aparente desconexión de la exposición con los planteamientos habituales. El hecho es que fueron poco comprendidas y su repercusión fue mínima. Pero, con el correr de los años, Polo va a encontrar un modo más accesible de formular su propuesta, que consiste en desarrollar detenidamente el estudio del conocimiento humano partiendo de la perspectiva aristotélica. Las observaciones precedentes tienen como propósito advertir acerca del carácter singular de la obra que vamos a intentar esbozar. Evidentemente, tanto por su título como por su contenido, los cuatro tomos del Curso de Teoría del Conocimiento son un tratado acerca del conocimiento humano (en el que, no obstante, no se abordan todas sus dimensiones, pues, por ejemplo, sólo ocasional o indirectamente se alude en él al conocimiento de la persona). Sin embargo, el interés de esta obra desborda el tema que trata, pues, al mismo tiempo, constituye seguramente la más conseguida propedéutica para abordar el núcleo del pensamiento de su autor. El presente estudio se propone ofrecer una visión sintética de la obra, que permita una perspectiva de conjunto de los temas abordados y pueda servir como guía para su lectura4. 2 3 4 El acceso al ser, Eunsa, Pamplona 19642. Se trata, sobre todo, de El acceso al ser y de El ser I. La existencia extramental, Eunsa, Pamplona 1966 (2ª ed. 1998). La obra en cuestión se encuentra dividida en cuatro tomos (Curso de Teoría del Conocimiento, Eunsa, Pamplona; tomo I, 19872; tomo II, 19983; tomo III, 19992; tomo IV/1, 1994; tomo IV/2, 1996), el último de los cuales ha sido editado en dos partes. En este 320 José Ignacio Murillo 2. Hacia una axiomática del conocimiento Puesto que el conocimiento busca no sólo la claridad sino también el orden en los temas que trata, Polo propone un enfoque axiomático de la teoría del conocimiento. Los axiomas de la teoría del conocimiento son evidencias —en modo alguno postulados— que no dependen de ninguna otra y que vertebran la aproximación a las diversas dimensiones del conocimiento que deben ser tratadas5. Pero es preciso aclarar que los axiomas no son meros enunciados lingüísticos. Por eso no basta formularlos, sino que es preciso penetrar en su contenido: entenderlos. Una vez conseguido, se ve que su formulación no es lo más importante. La razón de este carácter no lingüístico de la teoría del conocimiento estriba en la diferencia entre conocimiento y lenguaje. En el conocer humano no todo es lenguaje, sino que hay niveles infralingüísticos, como el conocimiento sensible, y niveles supralingüísticos. Además el lenguaje no es puro conocimiento porque lo anima la intención comunicativa, que no es teórica y que, en el caso del hombre, comporta recurrir a realidades inferiores al pensar como vehículo de expresión6. Por eso, el lenguaje, cuando se usa para comunicar los resultados de una 5 6 trabajo será citada abreviadamente como CTC, seguido del número de tomo y, en su caso, de la parte a que corresponda la cita (p. ej.: CTC, IV/2, p. 154). Para no recargar excesivamente de notas el trabajo se ha evitado la referencia exhaustiva a los diversos lugares donde se tratan los temas expuestos. Por otra parte, las consulta de los diversos temas puede hacerse siguiendo el índice de los volúmenes. Como orientación general, la distribución de la obra es como sigue: el primer tomo está dedicado a la axiomática, la intencionalidad cognoscitiva y el conocimiento sensible; el segundo, al objeto intelectual y la presencia mental, y a la operación incoativa (abstracción y conciencia); el tercero se detiene en el estudio de la prosecución generalizante o negativa del pensar; y el cuarto, en la prosecución racional, que conoce la realidad física causal, y en el logos u operaciones unificantes de ambas líneas prosecutivas. Lógicamente, las dimensiones de este trabajo impiden dedicar a cada uno de los puntos que se van a tratar el espacio que requieren para dar de ellos una explicación cabal. Esta es la razón de que a veces el tono parezca más descriptivo que argumentativo. Más bien se pretende ofrecer una idea de conjunto, a modo de presentación, para aquellos que no conocen la obra, y trazar un plano general, que sirva para orientarse en ella, dirigido a aquellos que ya han abordado alguna de sus partes. Aparte de los artículos y libros que la tienen por objeto, algunos de los cuales serán citados, se puede consultar, para una visión sinóptica, dos manuales introductorios a la teoría del conocimiento, declaradamente inspirados en la de Polo: J.A. GARCÍA, Teoría del conocimiento humano, Eunsa, Pamplona 1998 y J.F. SELLÉS, Curso breve de teoría del conocimiento, Universidad de la Sabana, Santafé de Bogotá 1997. Una exposición introductoria que puede complementar la presente es la de J.A. GARCÍA, El abandono del límite y el conocimiento, en AA.VV., El pensamiento de Leonardo Polo, Cuadernos de Anuario Filosófico (11), Servicio de Publicaciones de la Universidad de Navarra, Pamplona 1994; y la de J.J. PADIAL, Las operaciones intelectuales según Polo, «Studia Poliana», 2 (2000), pp. 113-144. La distinción entre axioma y postulado y la explicación de cómo este planteamiento no es afectado por el teorema de Gödel se trata en CTC, I, pp. 1-27. «El lenguaje es un descenso del conocimiento hacia la práctica. Y en este sentido es instrumental» (Ser y comunicación, en AA.VV., Filosofía de la Comunicación, Eunsa, Pamplona 1986, p. 71). 321 note e commenti investigación acerca de la naturaleza del conocimiento, sólo puede cumplir su papel de un modo alusivo u oblicuo, es decir, intentando conducir al interlocutor a que entienda lo que hemos entendido. De este modo Polo se distancia de aquellas corrientes contemporáneas que identifican el conocimiento intelectual con el lenguaje. La teoría del conocimiento se enfrenta con el estudio de una actividad de la que tenemos experiencia interna. Es a nuestra actividad cognoscente adonde debemos dirigirnos para saber qué es el conocer. Pero es preciso hacer una advertencia: no es conveniente introducir precipitadamente el sujeto en este estudio. Para Polo, la teoría del conocimiento y su axiomática giran de entrada en torno a la noción de operación. Es ésta la que intenta axiomatizar. La noción de facultad, en cambio, no parece consentir la axiomática7; de hecho, no parece posible reducir el elenco de facultades sensibles a una deducción necesaria. Y, por su parte, el tratamiento adecuado del sujeto cognoscente corresponde a la antropología8. 3. La operación cognoscitiva Polo presenta esta investigación como una continuación del estudio del conocimiento emprendido por Aristóteles. La razón fundamental de esta filiación estriba en que su punto de partida es la noción aristotélica de operación, la enérgeia. Según Polo el sentido más aristotélico de la aristotélica noción de acto es el acto de conocer9. En ella se cifra gran parte de lo que en el pensador griego hay de inventivo. La enérgeia es el acto ejercido. La exposición de esta noción está ligada al enunciado del primer axioma de la teoría del conocimiento, el axioma A, que afirma que el conocimiento es acto. En primer lugar, este axioma excluye que el conocimiento sea pasividad. Es el caso de quienes lo describen como una intuición, y atribuyen la actividad a lo conocido y no al conocer. No es correcto permitir que lo inteligible centre de tal modo nuestra atención que nos haga olvidar que no hay inteligible sin el acto que lo conoce. Esta crítica afecta, por ejemplo, a Platón, que describe el conocer como una aspiración a lo inteligible, y, a este último, como inteligible en sí, al margen de cualquier acto de conocerlo. Se podría añadir que, al menos en el nivel intelectual, no hay inteligible sin alguien que lo entienda, pero, como hemos dicho, no hay que apresurarse a introducir al sujeto en la teoría del cono7 8 9 M.J. FRANQUET, La relación entre la axiomática y la facultad cognoscitiva orgánica, «Studia Poliana», 2 (2000), pp. 145-163. Cfr. J.F. SELLÉS, La extensión de la axiomática según Leonardo Polo, «Studia Poliana», 1 (2000), pp. 77-111. Cfr. El conocimiento habitual de los primeros principios, Cuadernos de Anuario Filosofico (10), Servicio de Publicaciones de la Universidad de Navarra, Pamplona 1993; R. YEPES, La doctrina del acto en Aristóteles, Eunsa, Pamplona 1993. 322 José Ignacio Murillo cimiento. No hay un único acto de entender, sino varios: en concreto, uno para cada inteligible. Pero ante todo hay que caer en la cuenta de qué quiere decir que el conocimiento es acto. Para Kant, afirmar que el conocimiento es activo es referirse a su carácter constructivo. Sin embargo, esta concepción pasa por alto el descubrimiento aristotélico. Como hemos dicho, no puede darse conocimiento sin actividad, y esto es aplicable a todo conocimiento; pero, puesto que el conocimiento humano es, de entrada, operación, tanto en el nivel sensible como en el intelectual, es preciso exponer cómo es acto esta última. Ante todo la operación no es ninguna de las categorías, no es sustancia ni un accidente que inhiera en ella, y, por tanto, no basta situarla entre ellas para describirla en lo que tiene de más propio10. Para hacerlo es preciso mostrar qué la caracteriza en cuanto actividad. Aristóteles distingue netamente entre dos tipos de acto: la kínesis y la práxis teléia. La primera es la actividad que no posee su fin. El construir es de este tipo, puesto que mientras se da tal actividad, su fin, lo construido, no existe. Es más, una vez logrado el fin, la acción desaparece. Pero no ocurre lo mismo con la práxis teléia. El ver es simultáneo con su fin, y se ejerce en esa medida. No hay ver sin objeto visto, ni objeto visto sin ver. Por eso el ver no se agota al llegar al fin, sino que lo posee: veo, ya he visto y sigo viendo. Aquí aparece claramente el carácter posesivo del conocer. Dice la física que no hay velocidad infinita, que todo movimiento exige tiempo, pues ninguno puede superar la velocidad de la luz; pero esta limitación no vale para el conocimiento, ya que, entre el conocer y lo conocido no hay tiempo, sino simultaneidad; se trata de un acto que, desde el principio, ya ha alcanzado su fin. Esto da lugar a enunciar un axioma lateral11 del axioma A, el axioma E, que dice que no hay operación sin objeto, y al que se puede dar la vuelta (axioma E’), pues tampoco hay objeto sin operación. Como se ve, se trata para el autor tan sólo de caer en la cuenta de algo que de suyo es evidente, pero que podemos pasar por alto. De hecho, no son pocas las doctrinas acerca del conocimiento que se han levantado de espaldas a este descubrimiento aristotélico. Pero, ¿qué se puede decir del objeto? Nuestro conocimiento ¿alcanza con él la realidad? El conocimiento operativo es aspectual. Al ver, conozco colores, y al oír, sonidos. Pero ninguna de estas operaciones agota lo real ni lo muestran qua real. Las operaciones objetivan esos aspectos y no la realidad en sí misma. Además una descripción cabal del objeto revela que éste no es autorreferente. Esto se expresa en otro axioma lateral del axioma A, el axioma F, que dice que el objeto es intencional. 10 La consideración de la realidad desde las categorías no es la única ni la definitiva. En concreto, en ella no comparecen nociones como la de naturaleza y operación, ni mucho menos la de acto de ser. Ya en Aristóteles la consideración de la realidad desde el acto y la potencia no se agota en aquélla. 11 Los axiomas laterales explicitan y aclaran los axiomas principales de la teoría del conocimiento, es decir, los axiomas A, B, C y D. 323 note e commenti En el conocimiento, lo intencional es el objeto y no la operación. En esto se diferencia de la voluntad, que ejerce actos intencionales12. El acto de conocer es, en cambio, posesivo. Lo que remite a la realidad, o versa sobre ella, es el objeto que es en ella poseído. Es más, el objeto no es sino esa remitencia que, aunque incapaz de iluminar por completo la realidad, nos ofrece alguno de sus aspectos. Polo ilustra esta propiedad con algunos ejemplos. Uno de ellos es el del retrato. No es posible ver un retrato como retrato sin ver en él al retratado. Captar el retrato es ir más allá de él. Salvando la imperfección del ejemplo, la intencionalidad cognoscitiva es como un retrato, pero sin soporte: la pura remitencia. El axioma E nos indica que la operación y el objeto se conmensuran exactamente. No existe la operación, ni ninguna parte o incoación siquiera de ésta, hasta que hay objeto. Por lo tanto, todo acto de conocer es heterorreferencial, y esto excluye la reflexión: la operación no se puede conocer a sí misma. Pero una vez vista la naturaleza de las operaciones cognoscitivas, es preciso dar cuenta de la distinción entre ellas. A esta exigencia responde el axioma B, que es el axioma de la distinción. Si atendemos a las operaciones como actos, no nos basta decir que su diferencia es numérica o que depende de la materia. La respuesta la ofrece el contenido del axioma, diciendo que la distinción entre las operaciones es jerárquica. Si hay distinción entre ellas, debe correr a cargo de su carácter de acto, es decir, unas tienen que conocer más que las otras. En este sentido el ver conoce más que el oír; y también es preciso distinguir de este modo entre los diversos objetos de cada facultad, pues tampoco es lo mismo para la vista conocer el color rojo que conocer el azul. Polo ilustra este axioma comentando una de sus conculcaciones más notables. Es el caso de Hegel. Para este filósofo toda distinción en el conocimiento es provisional, pues lo verdadero es el todo. Al final del proceso sólo habrá un objeto en el que todo será conocido. Pero esto supone ignorar que a cada objeto le corresponde una operación, y que éstas son diversas entre sí, y, a su vez, contradice, según Polo, el axioma C, llamado también axioma de la unificación, que afirma que las operaciones, los niveles cognoscitivos, son insustituibles, aunque también unificables. De entrada, insustituibles: en el conocimiento no cabe tirar la escalera, una vez que se ha ascendido: que una operación sea superior a otra no quiere decir que la incluya o la haga superflua. Pero, por otra parte, el conocimiento no es mera proliferación anárquica, pues permite la unificación entre lo conocido por las operaciones. 12 L. POLO, La voluntad y sus actos (I), Cuadernos de Anuario Filosófico (50), Servicio de Publicaciones de la Universidad de Navarra, Pamplona 1998, pp. 54 ss. 324 José Ignacio Murillo 4. El conocimiento sensible El axioma A impide admitir el innatismo. Los inteligibles, las ideas, no pueden estar en la mente como en un recipiente, al margen de su ser pensadas. Esto orienta nuestro estudio hacia la actividad sensible como origen de todo conocimiento. Por eso parece conveniente recurrir a la sensibilidad para comenzar desde el principio la consideración de nuestra experiencia cognoscitiva. Además esto nos permite ir describiendo la intencionalidad propia de cada uno de los niveles de nuestro conocimiento, evitando el peligro de formular esta noción de un modo demasiado general. En la sensibilidad externa, el acto es precedido por una inmutación física en la sensibilidad. Es lo que la filosofía aristotélica denomina especie impresa13. Pero conocer no es ser inmutado, sino la actividad que la facultad ejerce. La operación no es afectada por el agente físico, sino que posee una forma. Polo denomina este fenómeno cambio de signo. El cambio de signo es propio de la vida desde el nivel vegetativo. Se trata del aprovechamiento para sus fines de los influjos que el viviente recibe del exterior, como es patente en la nutrición, el crecimiento y la reproducción. En el conocimiento, el primer cambio de signo que cabe detectar es el aprovechamiento de la inmutación como ocasión para ejercer un acto posesivo de un fin. Y esto ocurre ya en los cinco sentidos que tradicionalmente han sido llamados externos: el tacto, el gusto, el olfato, el oído y la vista. En este primer nivel la intencionalidad es resbalante o plural formal. Esto significa que las formas sentidas no tienen referente: se limitan a aparecer. Para conocer las sensaciones como «sensación de» se precisa el sensorio común, o conciencia sensible, que objetiva los actos de la sensibilidad externa. Gracias a él se puede percibir la diferencia entre dichos actos y sus respectivos objetos. Las formas sentidas, cuando se siente también el acto que las conoce, aparecen destacadas, y, de este modo, como referidas a un apoyo, que es la sustancia como sensible per accidens14. Ahora bien, el conocimiento no puede progresar ya en esta línea. Por esta razón la estrategia que despliega comporta un nuevo cambio de signo respecto de la percepción. Se trata del acto de la imaginación. La imaginación es una facultad distinta de las otras facultades sensibles: su órgano no es previo a su ejercicio, sino que previamente sólo está esbozado y se constituye mediante él. Por eso la imaginación puede crecer y ejercer progresivamente actos superiores. Estos actos consisten en una reobjetivación de lo obtenido mediante los sentidos exter13 El axioma G afirma que el objeto es formal si es precedido en el órgano por una especie impresa o retenida. 14 La declaración de la incomparabilidad entre el acto y la forma sensible «es el sensible per accidens, la referencia reforzada según la cual las formas se destacan del acto. El destacarse es conocido por el sensorio común como referencia […] Como el acto se siente a la vez que las formas conmensuradas con él, la incomparabilidad de las formas es lo terminal» (CTC, I, p. 406). 325 note e commenti nos. La imaginación no suple los actos de los sentidos externos —si afirmáramos lo contrario, estaríamos conculcando el axioma C—, pero es capaz de volver a objetivar lo alcanzado por ellos. Al hacerlo no reitera la intencionalidad de aquéllos, sino que obtiene una intencionalidad distinta. La imaginación capta formas, pero en ella éstas no aparecen como «formas de», sino como contenidos. Esto se debe a que la forma imaginada está autorreferida. Podemos entender qué significa esto si consideramos que los objetos de la imaginación pueden ser tomados como reales, como ocurre en las alucinaciones. En este sentido se puede decir que esta facultad es representativa. Entender el conocimiento como una representación de la realidad ha sido una de las características de las teorías del conocimiento que no han admitido la intencionalidad. Si lo conocido es siempre una representación, resulta imposible que el conocimiento lo compare con la realidad. Para hacerlo tendría que recurrir a una instancia no cognoscitiva. Polo, en cambio, considera que la única facultad representativa es la imaginación, pero no porque no conozca intencionalmente, sino por lo peculiar de su intencionalidad, que hace que el objeto no remita fuera de sí mismo. Pero esta facultad no es suficiente para garantizar el control cognoscitivo de la conducta animal. Es preciso añadir los actos de la memoria y de la cogitativa, que aportan unos nuevos sensibles per accidens, que refuerzan la intencionalidad de la imagen según una alusión a la realidad. La memoria es una perfección del viviente correlativa a una imperfección suya: la discontinuidad de la retención. Esto da lugar a la intención de pasado. Por su parte, la intención de la cogitativa es una proyección finita particular: una intención de futuro. Con la ayuda de estas nuevas intenciones se puede aprovechar la experiencia y emplearla para el logro de los objetivos de las tendencias. La imaginación en los animales no sobresale por encima de la memoria y de la cogitativa, sino que está a su servicio. Pero en el ser humano, la hegemonía de estas últimas no es total. La imaginación humana es capaz de reobjetivaciones que no tendrían ningún sentido para la conducta animal y que, por tanto, preludian la inteligencia. Así ocurre, por ejemplo, con el espacio como pura extensión y el tiempo como flujo incesante. Para Polo, no obstante, hay una imagen superior a estas dos que marca el máximo hasta el que da de sí esta facultad en el hombre: la circunferencia, como curvatura ajustada consigo misma. De todos modos, esta relativa superioridad de la imaginación sobre las otras facultades sensibles no le permite articular el tiempo del viviente, porque los sensibles per accidens no son reobjetivaciones15, y, por tanto, no pueden ser captados por la imaginación. En el ser humano esta articulación es posible en virtud de un nuevo cambio de signo, que inaugura la actividad propiamente intelectual. Se trata de la primera operación de la inteligencia, que Polo denomina, con Aristóteles, abstracción. 15 Esto no excluye una cierta conexión entre los sensibles per accidens, pero para ello «tiene que reducir la referencia intencional» de éstos. Cfr. CTC, I, pp. 409-410. 326 José Ignacio Murillo 5. La operación incoativa de la inteligencia Con la abstracción comienza el conocimiento intelectual humano. A diferencia del conocimiento sensible, la inteligencia es una facultad inorgánica. Por eso no puede ni tener especies impresas al modo de los sentidos externos, porque no puede ser afectada por lo material, ni retenidas, como la imaginación, porque no tiene un órgano que las conserve por medio de su crecimiento. A diferencia de las facultades sensibles, el comienzo de la actividad intelectual se debe a una iluminación por parte del acto de que depende: el entendimiento agente. El conocimiento no procede extra se inspiciendo, sed intra se considerando16, lo que, en el caso de la inteligencia, implica que ésta no desciende a la sensibilidad para encontrar en ella su objeto, sino que se retrae hacia la iluminación de la sensibilidad que le proporciona el entendimiento agente. Ahora bien, el objeto de la operación abstractiva es intencional, y esa intencionalidad se vierte sobre los objetos de la sensibilidad intermedia. Esto es lo que se llama conversio ad phantasmata: los fantasmas son el término de la intencionalidad abstractiva. Al versar la intencionalidad abstractiva sobre la sensibilidad intermedia, aporta el presente, desde el cual se articulan las intenciones de pasado y de futuro de la memoria y la cogitativa. Según esta conversión, los abstractos pueden ser definidos como una articulación del tiempo de la sensibilidad interna. Pasado y futuro son articulados desde la presencia. La presencia mental es la operación intelectual17, el acto que presenta los abstractos. Pero es preciso notar que en la articulación temporal no comparece la presencia. Lo contrario supone afirmar que la operación versa sobre sí misma, y esto anularía la estricta conmensuración con su objeto (que se formula en el axioma E) y haría imposible la intencionalidad de este último (axioma F). Ahora bien, no todos los abstractos son articulaciones temporales, pues hay una imagen que se puede abstraer sin que esté reforzada por las intenciones de la memoria y de la cogitativa. Esta imagen, por ser una forma pura, es presente a la operación sin resquicios, sin guardar ninguna reserva18. Se trata de la circunferencia. La operación que la abstrae es denominada conciencia objetiva, pues, frente a los otros actos abstractivos, goza de una especial prerrogativa, ya que su objeto se con16 Polo cita esta afirmación de Juan de Santo Tomás, que pertenece al Cursus theologicus, disp. 32, art. 5, nº 11: cfr. CTC, I, p. 78; ibidem, p. 279; CTC, II, p. 228. 17 «La presencia articulante es mental y, por tanto, no temporal. Si la presencia no es “exterior”, o superior, al tiempo, no cabe hablar de articulación del tiempo. Ahora podemos rectificar a Heidegger: la presencia como discurso no es un miembro del ék-stasis temporal. Es preciso subir de nivel, pues en otro caso no es posible aunar pasado y futuro respetando su carácter no formal. Si la presencia pertenece al tiempo, no lo articula y hay que formalizar pasado y futuro» (CTC, II, p. 201). 18 La circunferencia abstracta no es una imagen, ni mucho menos una figura trazada en el espacio y en el tiempo. Polo explica cómo la circunferencia se puede considerar al margen del espacio y el tiempo en CTC, II, pp. 191-2. 327 note e commenti mensura de tal modo con la operación que en ella se hace patente el axioma A: conoce su objeto en tanto que conmensurado con la operación que lo conoce. El acto de conciencia se describe así: «conozco lo que conozco, como lo conozco, porque lo conozco». La conciencia tiene que ser una, pero si es operación, esta unidad no se mantiene para una pluralidad de objetos, pues a cada objeto le corresponde una operación distinta. Por eso, su correlato intencional tiene que ser uno y único, y el objeto que cumple esa condición no es otro que la circunferencia pensada. Los abstractos, que son articulaciones temporales de las imágenes unidas a las intenciones de la memoria y la cogitativa —que, a diferencia de la imaginación, no son intenciones formales— no muestran de este modo su conmensuración con la operación que los conoce. Por eso a ellos no les conviene el apelativo de conciencia. Sin embargo, son de extraordinaria importancia en la prosecución intelectual, es decir, en el posterior despliegue de la inteligencia. ¿En qué sentido se puede hablar de prosecución intelectual? No es posible admitir que la inteligencia conozca más sin aceptar otras operaciones distintas19 de las descritas, pero que correspondan a la misma facultad. Pero esto plantea algunos problemas que hay que resolver. En primer lugar, la inteligencia no extrae conocimiento de otras fuentes diversas de la abstracción20. Por otro lado, no cabe una nueva recombinación, comparación o profundización en lo conocido sin aportar un acto distinto —que debe ser superior si aporta una ganancia de conocimiento—, pues lo contrario supondría admitir o bien que una operación puede conocer mejor su objeto —lo que conculcaría el axioma E, pues negaría la conmensuración entre la operación y su objeto—, o bien que se pueden suscitar operaciones de un modo ciego, entendiendo la inteligencia como sede de tendencias cognoscitivas, que buscan su objeto, conculcando así el axioma A. Estas dificultades incitan a revisar la teoría clásica de la abstracción y del entendimiento agente. Para la tradición aristotélica, el entendimiento agente es una pieza teórica para explicar el paso del conocimiento sensible al intelectual. La inteligencia es una potencia inmaterial, y, por tanto, su acto no puede ser precedido por una inmutación material. La solución de esta dificultad es la existencia de un acto intelectual que no es una operación (el intelecto agente), que ilumina la sensibilidad, convirtiéndola en especie impresa de la inteligencia. Ya hemos visto que Polo acepta esta explicación. Ahora bien, la inteligencia humana no se detiene en la abstracción, sino que es capaz de conocer más. Es más, ésta es la diferencia axiomática entre ella y la sensibilidad (el axioma D): la inteligencia es operativa19 Nótese la diferencia entre la pluralidad operativa a que aquí se alude y las diferentes operaciones de otras facultades. La imaginación, por ejemplo, ejerce operaciones distintas, unas más perfectas que las otras; pero siempre objetiva imágenes. En cambio, para conocer lo real como real es preciso que la inteligencia no conozca tan sólo abstractos. 20 No nos referimos aquí al conocimiento de nuestra realidad espiritual, que, ciertamente, no puede proceder de la abstracción, sino más bien del conocimiento de nuestra actividad cognoscitiva y voluntaria. 328 José Ignacio Murillo mente infinita; no hay un último objeto que sature la inteligencia humana, de tal modo que no se pueda pensar más allá de él. Para Polo, esto exige que el acto iluminante que la pone en marcha no la abandone a lo largo de su ejercicio. En lo sucesivo su influjo no consistirá en iluminar la sensibilidad. Pero no acaba ahí la exigencia de iluminación. Recordemos que, salvo en la conciencia objetiva —y en este caso del modo peculiar que hemos indicado—, la conmensuración de la operación abstractiva con su objeto impide que la operación comparezca ante la inteligencia. Lo que comparece mediante la operación es su objeto, en este caso el abstracto, que se obtiene precisamente en la medida en que la operación se oculta al presentarlo. Por eso cabe denominar a la presencia mental, es decir, a la operación intelectual, límite mental. Este ocultamiento es una detención del conocer en el objeto, que, de no ser manifestada, nos podría llevar a confundir lo pensado tal como lo pensamos con lo real. De ahí que, si la inteligencia debe continuar, y no puede ser de otro modo, pues, de lo contrario, su mismo comenzar carecería de sentido21, es preciso que el entendimiento agente ilumine la operación, la presencia mental, desocultándola. Este desocultamiento es más que una especie impresa. Se trata de un hábito que faculta a la inteligencia para operaciones ulteriores. A diferencia de la voluntad, la inteligencia adquiere sus hábitos con un solo acto y, sólo gracias a ellos, puede seguir conociendo22. De lo dicho se desprende que Polo propone también una rectificación y ampliación de la teoría clásica de los hábitos intelectuales. Según él, éstos deben ser considerados, no como unas meras perfecciones potenciales, sino ante todo como actos cognoscitivos intelectuales distintos de las operaciones, posibilitados por el intelecto agente, que iluminan la operación previamente ejercida y permiten otra superior. Son los hábitos los que explican que la inteligencia sea infinitamente operativa y que nunca conozca de tal modo que no pueda conocer más. Algo que enuncia el axioma H, lateral del axioma D, que afirma que la inteligencia no es un principio fijo, sino que puede crecer en cuanto principio gracias a los hábitos23. 21 Como se desprende del axioma D. Al respecto, Polo afirma: «La inteligencia no empezaría si hubiese una última operación intelectual. […] por eso, aunque el primer acto no es provisional, tampoco está destinado a consumarse en sí mismo» (CTC, III, p. 4). 22 Sobre la continuidad con la doctrina tomista sobre de los hábitos, cfr. Operación, hábito y reflexión. El conocimiento como clave antropológica en Tomás de Aquino, Eunsa, Pamplona 1998. 23 «El axioma que dice que la inteligencia es susceptible de hábitos tiene que añadir enseguida que adquiere cada hábito con un solo acto, porque de otro modo el carácter jerárquico de la infinitud operativa no podría justificarse. Pero hay que añadir también lo siguiente: la inteligencia no comenzaría si no fuese susceptible de hábitos. En este sentido, los hábitos son cuasi innatos: la inteligencia es potencia respecto de ellos y no sólo respecto de las operaciones; en rigor, más respecto de ellos que respecto de las operaciones, por cuanto sin hábitos no prosigue, y si no prosigue, no empieza» (CTC, III, p. 4). Sobre los hábitos en Polo puede consultarse J.F. SELLÉS, Los hábitos intelectuales según Polo, «Anuario Filosófico», XXIX/2 (1996), pp. 1017-1036. 329 note e commenti Según esta propuesta, el entendimiento agente no es un mero suministrador de especies impresas, sino que acompaña a la inteligencia a lo largo de su ejercicio. Otro problema es determinar cuál es el lugar del intelecto agente en el cognoscente. Para Polo no es aceptable entenderlo como un acto de entender externo al sujeto, ni basta concebirlo como una mera facultad. Pero cabe que este acto que permite conocer la realidad en toda su amplitud se identifique con el acto de ser del sujeto intelectual: el esse hominis24. El estudio de este acto de conocer escapa de los límites de la teoría del conocimiento y debe ser tratado por la antropología. En concreto, para Polo, se trata de uno de los trascendentales personales25. Gracias a esta iluminación, la conciencia operativa da lugar al hábito de conciencia. La absoluta carencia de implícitos del objeto de esta operación hace que este hábito no posibilite ningún desarrollo posterior. En cambio, la iluminación de la operación articulante, la abstracción, es, a su vez, un hábito articulante: el hábito abstractivo. Para Polo el tema26 desvelado por este hábito es la articulación verbo-nombre, y, por lo tanto, es el hábito lingüístico por excelencia27. 6. Las declaraciones de insuficiencia del abstracto y la doble prosecución de la inteligencia El tratamiento de las operaciones que suceden a la abstracción es difícil de condensar en unas pocas páginas. Sin embargo, pienso que puede ser provechoso, asomarse al menos a su planteamiento, para conocer sus líneas maestras y hacerse una idea ordenada de sus contenidos. Advierto, por tanto, al lector que 24 «Si el intelecto agente está en el orden del esse hominis y admitimos la distinción real, el intelecto agente no puede ser más humano: pertenece al orden personal. Por consiguiente, ha de iluminar a la presencia en su ocultamiento. No por eso se eliminan los actos de la inteligencia ni son substituidos por el sujeto. El sujeto comparece en el momento justo y como tiene que comparecer, es decir, sin eliminar la operación intelectual ni los hábitos; al revés, justificando los hábitos. Además, en este planteamiento el intelecto agente deja de ser una mera pieza teórica colocada en el inicio de la actividad de la inteligencia y se entiende como la unidad del esse hominis en orden al crecimiento intelectual» (CTC, III, p. 12). 25 Cfr. Antropología trascendental, cit., pp. 212-216. 26 Polo reserva el término objeto para lo conocido por la operación, mientras que usa el de tema para lo conocido por actos superiores. 27 Se trata de una articulación en la que el verbo no se separa del nombre. Por tanto no explica formas lingüísticas como los verbos copulativos. La presencia desocultada en el hábito se describe en la forma lluvia-llueve, blanco-blanquea, etc. «Este doble valor nominal verbal corresponde a la articulación temporal en presencia. Una articulación temporal en presencia no deja de ser una articulación. Si se quiere, lo que tiene de presencia es lo que tiene de nominal; lo que tiene de articulación es lo que tiene de verbal. Pero no puede separarse la presencia de su valor articulante sin caer en la mudez lingüística de la presencia pura» (CTC, II, p. 210). 330 José Ignacio Murillo las explicaciones serán en ocasiones demasiado sumarias, y que me resigno a dejar muchos cabos por atar, con la esperanza de que lo expuesto sirva como una breve introducción a lo que en la obra de Polo es extensamente tratado. En virtud del desocultamiento de la presencia en el hábito abstractivo, la inteligencia es capaz de declarar la insuficiencia del abstracto en dos sentidos. De una parte, cabe declarar que el abstracto no satura la capacidad de conocer, pues se puede conocer más; y, de otra, que no basta en orden al conocimiento de la realidad. Comenzaremos por exponer la primera de dichas declaraciones de insuficiencia. Con ella la inteligencia muestra que ningún contenido es todo lo pensable. Su infinitud operativa es aquí patente. Polo denomina a las operaciones que se abren desde esta declaración con el nombre de vía negativa, generalización o reflexión objetiva. El hábito abstractivo desoculta la presencia mental, que objetiva los abstractos, y permite advertir que los abstractos no son unificables en su nivel, pues cuando se piensa uno no se piensa otro. Es éste un problema que preocupó a la filosofía griega desde sus orígenes. Según Anaximandro, las cosas se pagan mutuamente una deuda28. Pero la concepción de lo real de este filósofo presocrático supone una extrapolación de la presencia a la realidad, es decir, entender que la presencia es el fundamento de los entes; y se debe a una detención apresurada del conocimiento intelectual. La solución más drástica a este problema es la de Parménides, que declara impensable la diferencia: «ente-es» es la última palabra de la inteligencia, aun a costa de dejar impensados el movimiento y la pluralidad. Parménides rechaza así la prosecución negativa de la inteligencia29. En cambio, cuando, una vez conocida la operación que lo piensa, se cae en la cuenta de que el abstracto no es lo real, sino un objeto, cabe unificar los abstractos en otro nivel, sin recurrir directamente a lo real. Así, por ejemplo, si «perro» y «gato» son unos abstractos determinados, es claro que ninguno de ellos es todo lo pensable30. La noción de «todo lo pensable» es la que orienta la búsqueda de una idea que los abarque a ambos, y que se objetiva como una idea general: animal. Pero una de las notas del objeto pensado es la constancia. Todo lo pensado, 28 Simplicio reporta la siguiente enseñanza de Anaximandro: «(los seres) se pagan mutua pena y retribución por su injusticia según la disposición del tiempo». Cfr. G.S. KIRK - J.E. RAVEN - M. SCHOFIELD, Los filósofos presocráticos, Gredos, Madrid 1987, p. 177. 29 «Pues bien, yo te diré (y tú, tras oír mi relato, llévatelo contigo) las únicas vías de investigación pensables. La una, que es y que le es imposible no ser, es el camino de la persuasión (porque acompaña a la Verdad); la otra, que no es y que le es necesario no ser, ésta, te lo aseguro, es una vía totalmente indiscernible, pues no podrías conocer lo no ente (es imposible) ni expresarlo» (G.S. KIRK - J.E. RAVEN - M. SCHOFIELD, o.c., p. 354). 30 El término pensamiento es usado por Polo tan sólo referido al conocimiento intelectual de objetos, es decir, a aquel que obtiene la presencia mental. Por eso la inteligencia no es sólo capaz de pensar, pues, como hemos visto, conoce también mediante los hábitos y, como veremos, mediante operaciones que, gracias a los hábitos, abandonan en cierta medida la presencia mental. 331 note e commenti por serlo, es constantemente objeto, cualquiera que sea el contenido objetivado. Luego en el conocimiento no cabe un pensar más que no se corresponda con un pensar menos: no hay ganancia sin pérdida. Esto es lo que Polo denomina pugna y compensación en las operaciones que siguen a la abstracción. En el caso de la generalización, la pugna se entabla entre la idea general obtenida y los abstractos a que se refiere. Los abstractos se pueden describir como un complejo de notas. En cambio, la idea general es homogénea —consta de lo que Polo llama una mononota—, y no puede ser objetivada al margen de los abstractos que unifica. La idea general comporta una ganancia en claridad, pero, a su vez, una pérdida de contenido respecto a los abstractos. La idea general unifica los abstractos iluminándolos intencionalmente, es decir, versando intencionalmente sobre ellos, y, de este modo, conectándolos. Pero, como, según el axioma C, las operaciones son insustituibles, no se puede sostener que la idea general —que, por otra parte, no es una operación, sino un objeto intencional— ilumine todo el abstracto. Su versión intencional es parcial, y, respecto de ella, el abstracto aparece sólo como un caso particular de la idea. Polo distingue la consideración del abstracto desde la idea general de la que ejerce la operación de abstraer denominando a esta última determinación primera y a aquella determinación segunda. Desde la idea general, el abstracto, no es una determinación primera, como en la operación de abstraer, sino una determinación segunda. A la determinación primera, el abstracto tal como comparece en la operación de abstraer, Polo le denomina lo vasto. Se trata de un objeto cuya unidad significativa se da sin conectivos lógicos o, dicho de otro modo, es pura semántica sin sintaxis. Por eso el abstracto es prelógico, pues la lógica implica conexión entre los contenidos del conocimiento. La prosecución negativa objetiva, en cambio, un conectivo lógico entre objetos, es decir, la idea general como conectivo de los abstractos. En la generalización es patente la imposibilidad de culminación del conocimiento operativo. En cada nueva objetivación la presencia torna a ocultarse y es desocultada por el hábito posterior, que manifiesta que tampoco ese nuevo objeto la satura. El objeto último es imposible, impensable, pues la presencia de que dependen todos los objetos no comparece en ninguno y se puede separar de todos ellos. No existe, por tanto, el máximo pensable31. Pero, como decíamos, la inteligencia puede declarar también la insuficiencia del abstracto en orden al conocimiento de la realidad. Esto se consigue explicitando lo que en él se encuentra implícito. Todos los abstractos guardan implícita una diferencia. Esta diferencia es la responsable de que no haya un solo objeto. No se trata de una oposición negativa entre los abstractos. Tampoco contradice el axioma A, es decir, no se trata de algo en el objeto que quede por pensar, porque 31 En esto basa Polo su crítica al argumento a simultaneo de San Anselmo. Cfr. M.A. BALIBREA, La crítica de Polo al argumento anselmiano, «Anuario Filosófico», XXIX/2 (1996), pp. 373380. 332 José Ignacio Murillo todo lo que tiene el objeto de objeto es conocido por la operación. Esta diferencia remite más bien al estatuto anterior respecto del cual el abstracto ha sido obtenido. La progresiva explicitación de esta diferencia es llevada a cabo por la inteligencia en varias fases, que permiten irlo conociendo tal como se da fuera de la mente, es decir, devolverlo a la realidad desde la que se ha objetivado por intermedio de la sensibilidad. Esta devolución progresiva nos conduce a conocer las causas físicas y es llamada por Polo vía racional o razón. El abstracto representa un valor formal, pero se trata de una forma pensada. La operación que objetiva esta forma la exime precisamente de existir. Este es otro modo de notar el carácter de límite de la presencia mental gracias al hábito abstractivo. El abstracto es unum in praesentia. Si el hábito permite una operación posterior que mantenga el desocultamiento de la presencia —en lugar de reponerla, como ocurre en la generalización—, la inteligencia puede pugnar con los principios reales en los cuales la forma es un principio extramental. Polo sostiene que estos principios son las causas físicas, que se van conociendo a medida que avanza la explicitación. Éstas no pueden ser causas por separado —esa separación sólo puede ser fruto de la introducción de la presencia mental—, el valor causal de una es inseparable de las otras: las causas físicas lo son siempre ad invicem, y sólo pueden ser conocidas como causas en su mutua respectividad32. El principio a que se puede devolver el abstracto en primer lugar no es otro que la causa material. Al hacerlo, el unum in praesentia se explicita como unum in multis, como concepto. Pero es preciso tener en cuenta que la simultaneidad es propia de lo pensado. Mientras la presencia pugna con la materia, la unidad del concepto se da entre unos muchos que no son simultáneos; es más, son inestables. Por tanto, aparece un sentido causal que permite conectarlos, que es la causa eficiente extrínseca, que plasma la forma en la materia. A esta operación le sigue a su vez un hábito que desoculta la operación: el hábito de analogía. Gracias a él es posible conjurar la amenaza de ignorancia que comportaría detener en este punto la explicitación. Esta primera fase de la explicitación se muestra insuficiente por su incapacidad de dar razón del primer movimiento de que dependen las sucesivas transformaciones. Esto puede precipitar en el enigma objetivo: la admisión de un proceso al infinito. Además el abstracto no se explicita en el concepto: la sustancia bicausal —hilemórfica— que se explicita en él es incapaz de enviar especie impresa, pues ni siquiera tiene accidentes (lo que comportaría que la causa eficiente le fuera intrínseca). Se trata de la sustancia elemental o el sentido mínimo de la sustancia física. El hábito de analogía permite avanzar en el conocimiento de la realidad física, al manifestar (no se trata de una explicitación, pues no es una operación, ni, por tanto, conlleva pugna) la insuficiencia de la operación de concebir. Acerca de 32 Nos referimos a las cuatro causas aristotélicas: material, formal, eficiente y final. Polo las reconsidera desde la explicitación racional, rectificando en ocasiones la física de Aristóteles. 333 note e commenti la realidad extramental permite conocer de qué modo son ordenables los explícitos conocidos en el concepto. La causa del orden no es otra que la causa final. En el hábito de analogía se manifiesta el modo en que la causa final llega hasta las concausalidades hilemórficas, que es el movimiento circular, la circunferencia física. Mediante ella, la causa final es concausa extrínseca de esas concausalidades. Ese influjo de la causa final es la ordenabilidad. Pero de este modo la unidad no se comunica a la pluralidad. Esto es lo que se consigue con el juicio, como explicitación que constituye la segunda fase de la vía racional de la inteligencia. En él lo explicitado no sólo depende de la causa final, sino que es concausal con ella. Explicitar la analogía es ampliar su unidad. Ahora la causa formal aparece en concausalidad con la causa final; se trata de una analogía de analogados. Así, en el juicio comparece la concausalidad completa, es decir, las cuatro causas. Se trata de una pugna especialmente intensa, porque explicita la causa final, mientras que, recordemos, el abstracto era poseído precisamente como fin de la operación. En esta ocasión, la diferencia que cada abstracto guarda implícita es explícita como analogado. Los analogados son afirmados porque cumplen el orden. En esta fase se conoce la sustancia tricausal, en la que la causa eficiente es intrínseca, y, por tanto, aquella que tiene accidentes. Por eso, en el juicio se explicitan las categorías33. Sigue al juicio el hábito judicativo, que Polo denomina hábito de ciencia. En él se manifiesta el balance de la explicitación de los sentidos causales: el universo. Se trata de un balance completo pues recoge no sólo el conjunto de explicitaciones judicativas, jerarquizadas de acuerdo con la medida en que se amplía la intervención de la causa final, sino también el de las conceptuales. Ese balance conduce a una aparente afirmación: un universo es. Se trata de una aparente afirmación porque esta expresión no traduce una explicitación judicativa, sino una manifestación habitual. Hasta ahora, las causas físicas se han explicitado en la medida en que la inteligencia separaba su prioridad de la prioridad de la presencia, por medio de la pugna de esta última. Ahora, el hábito judicativo manifiesta el carácter potencial del universo: el universo así conocido no comparece como acto. Pero ese carácter potencial no puede deberse tan sólo a que se distingue de la actualidad de los objetos pensados34. Por eso este hábito obliga a poner a prueba la presencia, para ver si su pugna con la realidad física da más de sí y puede proporcionar un nuevo explícito que dé razón de esa potencialidad. La nueva operación que permite el hábito no es sino la guarda definitiva del implícito, la declaración de que la presencia no da más de sí en orden a conocer prioridades extramentales. Se trata de la operación de fundar o fundamentación, 33 Polo propone una rectificación de las categorías aristotélicas, pues considera que Aristóteles las ha logificado, al extraerlas de la proposición y no del juicio como acto racional. Cfr. CTC, IV/2, pp. 301 ss. 34 Polo distingue entre la actualidad, que corresponde a lo pensado, y la actuosidad o actividad, que corresponde a lo real. 334 José Ignacio Murillo que declara a la presencia incapaz de pugnar con principios más altos. Esta declaración es una pugna que aporta un último explícito: el fundamento. Pero éste es explícito como exclusividad, es decir, como exclusivamente fundamento. A partir de aquí la presencia no aporta nada más. De hecho, no puede ni siquiera mantenerse insistentemente en este último explícito. Esta situación sólo se puede subsanar si a la última operación racional le sigue un hábito al que ya no sigue ninguna operación. Se trata del hábito de los primeros principios. El ser sólo se puede conocer con el ser. Por tanto, este hábito ya no puede ser entendido como una perfección de la inteligencia, sino como la coexistencia del ser cognoscente (el ser personal) con el ser del universo, y permite una intelección que se deja llevar por la actividad real sin suponerla, es decir, sin objetivarla, y que entiende el ser creado en dependencia del Creador35. 7. La reposición de la presencia mental en las operaciones racionales Las diversas fases por las que pasa la explicitación racional se corresponden con sendas amenazas de ignorancia, es decir, con modos distintos de detener la explicitación obteniendo un nuevo objeto. Como hemos visto, la prosecución requiere un despojo por parte de la presencia, que ha de ejercerse sin poseer un objeto. La ausencia de objeto es ineludible si queremos conocer una prioridad distinta de la presencia mental pues, al ser objetivado, lo real es conocido en el nivel de la operación, y, por eso mismo, no como es en la realidad, mientras que lo conocido en la prosecución racional es de un nivel inferior a la presencia. Por tanto, los explícitos no son objetos, sino progresivos abandonos de la objetividad. 35 Ya hemos señalado que la presencia exime al objeto de existir. Esto se debe a que lo supone, al sustituir la actividad real que lo funda por la operación intelectual. Esta suposición hace imposible que la actividad real misma comparezca de modo objetivo. Dicho de otro modo, se puede pensar (objetivamente) la esencia, pero nunca el ser, pues la actividad de pensar lo oculta al presentar. Por otra parte, el acto de ser del universo físico como primer principio no puede entenderse adecuadamente como mero fundamento de la esencia. Tampoco cabe entenderlo como principio de un modo aislado. En el hábito de los primeros principios éstos comparecen en su mutua vigencia. Para Polo estos principios son la no contradicción y la identidad reales y la causalidad trascendental. El autor menciona en su apoyo a una afirmación de Tomás de Aquino: «esse quod rebus creatis inest non potest intelligi nisi ut deductum ab esse divino» (De Potentia, q. 3, a. 5, ad 11). Cfr. L. POLO, El conocimiento habitual de los primeros principios, Cuadernos de Anuario Filosófico (10), Servicio de Publicaciones de la Universidad de Navarra, Pamplona 1993; S. PIÁ, Los primeros principios en Leonardo Polo. Un estudio introductorio de sus caracteres existenciales y su vigencia, Cuadernos de Anuario Filosófico, Serie de Filosofía española (2), Servicio de Publicaciones de la Universidad de Navarra, Pamplona 1997. Acerca de la compatibilidad entre la perspectiva de Polo y la de Tomás de Aquino, puede consultarse J.I. MURILLO, Operación, hábito y reflexión. El conocimiento como clave antropológica en Tomás de Aquino, Eunsa, Pamplona 1998. Allí se aborda el estudio de estas nociones tomistas, reconsideradas desde la inspiración de Polo. 335 note e commenti Pero la presencia se puede introducir después de cada una de las explicitaciones, y entonces logra un objeto nuevo en el que lo ganado aparece en presencia. Si describimos las causas reales conocidas en pugna, como una sintaxis sin semántica, estos nuevos objetos son reposiciones de la semántica, que aportan nuevas conexiones lógicas, y que son traducciones objetivas de las pugnas racionales. Reciben el nombre de compensaciones. Esto permite matizar la descripción, en apariencia peyorativa, que de ellos hemos dado. Se trata de amenazas de ignorancia sólo en la medida en que son detenciones y pueden invitar a una extrapolación que los confunda con el estatuto de lo real. Es lo que Polo denomina metafísica prematura. Las compensaciones racionales no son objetos en el sentido pleno de esa noción, puesto que su unidad es muy débil. Por eso, para ser objetivadas deben consolidarse. Su consolidación consiste en su referencia intencional a objetos inferiores de la propia línea prosecutiva. Cuando estos últimos son iluminados por aquéllos aparecen al margen de la intencionalidad que les corresponde. Al iluminar esos objetos, las compensaciones suplen a la presencia, pero, como otorgar la condición de objeto corresponde sólo a ella, las compensaciones otorgan a aquello sobre lo que versan tan sólo el valor de término de la intencionalidad. La primera de estas compensaciones es el universal lógico. En él los muchos en que se encuentra el uno aparecen como simultáneos. Éste es un signo de que se reintroduce la presencia mental, pues la simultaneidad no corresponde a las causas físicas. Se consolida remitiendo intencionalmente al abstracto, que, desprovisto de su intencionalidad, no es otra cosa que la especie impresa intelectual. El universal recupera el valor semántico del abstracto, y permite la deíctica, es decir, su atribución a singulares. La ampliación del explícito en el juicio sólo permite una compensación por partes, que se consolida también por partes. Se trata de la proposición, que es la conexión de las consolidaciones de los predicamentos: las categorías. El término que necesita para consolidarse dicha conexión es la noción de ente; mientras que los conectados se consolidan por su cuenta con objetos sensibles tomados como términos. A su vez, la operación de fundar también se puede compensar. Es más, dada su naturaleza, la pugna es especialmente cercana a la compensación. Dicha compensación recibe el nombre de base. Ésta indica al fundamento en tanto que funda, pero de un modo meramente lógico; se trata de la vuelta demostrativa desde el fundamento hacia lo fundado. El complemento que precisa la base para consolidarse es el raciocinio. Pero, como decíamos, las operaciones de la vía racional —concepto, juicio y fundamentación— son unificables con la generalización. Esta unificación, que recibe el nombre de logos, se consigue cuando las compensaciones racionales versan sobre las ideas generales aclarándolas. En primer lugar, la versión intencional del concepto sobre la idea general permite poner en el mismo nivel los 336 José Ignacio Murillo casos conectados por ésta. El objeto así obtenido, que Polo denomina conceptoide, es una forma pura, una pura relación. Se trata del estatuto intelectual del número. A su vez, la versión de la conexión predicativa sobre las ideas generales dan lugar al judicoide, en el que se aclara lo que de conexión tiene el objeto del logos. «La aclaración desde la compensación judicativa es lo que se llama función: cualesquiera que sean los cuantos, hay relación determinada con cuantos»36. La intencionalidad de los objetos del logos es llamada hipotética, porque éstos son hipótesis sobre los números físicos. Son estos objetos los que permiten la matemática y la física matemática. Los números pensados nunca pueden traducir directamente los números físicos, pero no por su imperfección, sino por su superioridad respecto de estos últimos. Por eso la física matemática no conoce la realidad física en el nivel propio de esta última, a diferencia de las operaciones racionales37. 8. La teoría del conocimiento como rehabilitación de la filosofía En estas páginas hemos expuesto algunos de los puntos más importantes de la teoría del conocimiento de Polo. En mi opinión, uno de los méritos principales del autor es su matizada y coherente aproximación a la noción de intencionalidad: la atribución de la intencionalidad cognoscitiva al objeto, y no a la operación, y la descripción de sus características. Aunque no nos hemos detenido en ello, una de las partes más interesantes del tomo II es la descripción de las notas del objeto pensado, y, junto con él, de la presencia mental. El conocimiento intencional es valorado positivamente, pero esto no impide denunciar claramente su limitación, conectada con su índole aspectual, de la que no se libra la intencionalidad intelectual, a pesar de su superioridad sobre la sensible. Esta clara delimitación de lo intencional permite al autor proponer una nueva explicación del juicio y de otras operaciones intelectuales, cuya ganancia no consiste en aportar objetos intencionales. En este punto se ofrece un buen complemento a la teoría clásica del juicio, mediante una propuesta que respeta y ordena las tres dimensiones que clásicamente se le asignan: afirmación, composición y conciencia38. El autor pone a prueba su teoría intentando dar razón de las deficiencias que se pueden señalar en otros autores. Para Polo, el error en filosofía consiste en intentar conocer un tema determinado con unas operaciones que no le corresponden. En este sentido, señala que la filosofía clásica ha demostrado su preferencia 36 CTC, IV/1, 37 Un estudio p. 79. acerca del estatuto de la física matemática en Polo se puede encontrar en J.M. POSADA, La física de causas en Leonardo Polo. La congruencia de la física filosófica y su distinción y compatibilidad con la física matemática, Pamplona, Eunsa 1996. 38 Cfr. CTC, IV/2, p. 29. 337 note e commenti por las operaciones racionales. El mismo progreso de la filosofía clásica se debe a la progresiva tematización filosófica de lo adquirido por las diversas operaciones racionales. En cambio, la filosofía moderna, parece optar unilateralmente por las operaciones generalizantes o negativas. Esto explica, para Polo, sus quiebras en metafísica: las causas reales y el fundamento no pueden ser pensados con ideas generales, si bien éstas son de gran importancia para la acción transformadora del hombre. Respecto de la metafísica, conviene señalar una notable aportación de esta obra. Uno de sus objetivos fundamentales es evitar la confusión de lo mental con lo real, lo que implica detectar los peligros que tiene nuestra mente de investir a lo real de los atributos de su objeto. Como hemos señalado, la posibilidad de esta extrapolación se debe a las diversas detenciones de la explicitación, que comportan otras tantas amenazas de ignorancia, porque sustituyen el tema extramental de la operación por un objeto intencional. Esto comporta una revisión de la teoría clásica de la sustancia y de las causas, y una más clara formulación de la distinción real entre la esencia y el acto de ser. Una de las más interesantes contribuciones de Polo a la teoría del conocimiento humano es, sin duda, su replanteamiento de los hábitos intelectuales. Si bien es cierto, que la axiomática por él propuesta se centra en torno a la noción de operación, se puede decir que el conocimiento habitual es la clave explicativa del conocimiento intelectual humano. El hábito aparece como un acto intelectual, que permite explicar el progreso intelectual a partir de la abstracción, el conocimiento de la operación y la posibilidad de deshacer la confusión de lo mental con lo real. En último extremo, los hábitos intelectuales innatos (hábito de los primeros principios y sabiduría) son los que permiten emprender un estudio de los trascendentales tanto metafísicos como antropológicos. La teoría del conocimiento conecta en este punto con la antropología trascendental. Como conclusión final, tan sólo quisiera resaltar algo que espero que hayan permitido traslucir, aunque sea tenuemente, estas páginas: el gran calado de los temas que se abordan y de las soluciones que se proponen, y su interés para enriquecer la aproximación filosófica a algunos de los temas más actuales: desde la rehabilitación del pensamiento metafísico y la elaboración de una antropología que formule claramente la distinción del acto de ser del hombre respecto del acto de ser del universo, hasta las cuestiones filosóficas que plantea la investigación científica en física, biología y matemáticas. 338 cronache di filosofia a cura di Juan A. MERCADO L’estetica della formatività: due saggi recenti A nove anni dalla sua morte, avvenuta nel 1991, Luigi Pareyson resta tuttora un autore che attrae gli studiosi e suscita dibattiti. In questi anni, però, l’attenzione del mondo filosofico si è prevalentemente concentrata sulle sue ultime proposte speculative, ovvero l’ontologia della libertà e l’ermeneutica dell’esperienza religiosa. Ciò è comprensibile, perché si tratta del punto culminante del suo itinerario, ma forse tale interesse predominante ha indotto a trascurare i suoi studi sull’estetica e a dimenticare che non li si può lasciare da parte se si vogliono comprendere a pieno la genesi e la portata delle opere date alla stampa nel periodo a noi più vicino. Perciò mi è sembrata opportuna la recente pubblicazione di due saggi sull’estetica pareysoniana, che viene presa in esame anche alla luce degli scritti successivi, mettendo in evidenza le linee guida di un pensiero che non ha conosciuto inversioni di rotta. Ne darò di seguito una breve presentazione. Alla fine dello scorso anno, è uscito in Italia il libro di Rosanna FINAMORE, Arte e formatività. L’estetica di L. Pareyson (Città Nuova, Roma 1999, pp. 234), che ha il pregio della chiarezza e della linearità. Come osserva nella prefazione X. Tilliette, amico e studioso di Pareyson, ad una prima impressione l’estetica della formatività può sembrare una teoria quasi astratta, per il suo rigore, la sua severità e l’estrema sobrietà nei riferimenti e negli esempi (cfr. p. 7). Ma forse proprio per questo essa si presenta scorrevole e convincente, e permette comunque di intuire la grande ricchezza della cultura artistica (musicale, letteraria, pittorica) di chi l’ha elaborata. Nei capisaldi dell’estetica pareysoniana si rivela la vena esistenzialistica e personalistica del suo pensiero, perciò l’autrice del volume (che insegna nella Pontificia Università Gregoriana) sin dall’introduzione, in cui delinea l’itinerario filosofico pareysoniano attraverso le sue principali opere, non perde di vista queste caratteristiche di fondo. Il saggio è strutturato in due parti: la prima, che offre una veduta d’insieme, risale al 1976 e fu letta dallo stesso Pareyson, benché sia stata rivista e integrata per la pubblicazione; la seconda parte è stata elaborata successivamente e traccia un raffronto tra Pareyson e Maritain, ricollegando l’estetica pareysoniana alla sua teoria dell’interpretazione. Le due parti hanno come cerniera una lettera autografa dello stesso Pareyson, che costituisce un elemento di notevole interesse. 339 cronache di filosofia In effetti, nel suddetto manoscritto il professore dell’Università di Torino loda il valore della ricerca della prof.ssa Finamore e rettifica o chiarisce un proprio giudizio riguardante la presenza dell’estetica nella filosofia antica e medioevale. Vale la pena trascrivere il brano della lettera in questione perché contiene un’ammissione fino ad allora per certi versi inaspettata: «Lei mi attribuisce l’idea che prima dell’età moderna non ci fosse estetica. Certo, se questa parola si prende nel significato moderno, a rigore non si può giungere se non a questa conclusione; ma è in fondo una questione di parole, giacché nell’antichità e nel medio evo c’era pure una teoria del bello e una filosofia dell’arte. Sono ben lontano dal mettere in dubbio questa elementare verità (vedi ad esempio Conversazioni di estetica, p. 57 ss.); anzi devo dire che la mia estetica è tutta una rivalutazione del concetto antico e medievale dell’arte come fare; sul concetto di forma, poi, so bene d’essere per molti aspetti d’accordo con Aristotele e S. Tommaso. Le sarà di qualche interesse sapere che uno dei testi su cui nella mia giovinezza più meditai è Art et scholastique di Maritain; e del resto è molto significativo che ai miei due migliori alunni in estetica, Umberto Eco e Gianni Vattimo, assegnai come tesi di laurea rispettivamente S. Tommaso e Aristotele, e ne vennero fuori due lavori molto seri, entrambi pubblicati, intesi a mettere in luce in questi grandi pensatori concetti a me cari, come il concetto di forma in S. Tommaso e i concetti di fare e di organismo in Aristotele» (pp. 143-144; la lettera è del 2 febbraio 1977). L’ammissione cui mi riferivo concerne la frequentazione dell’opera del filosofo francese e furono proprio queste parole di Pareyson a spingere l’autrice a proseguire la sua riflessione: se già aveva tentato di tracciare un confronto tra la nozione pareysoniana di forma e quella di bellezza in Tommaso d’Aquino (cfr. pp. 63-66), nella nuova parte del suo studio avvia il confronto diretto tra J. Maritain e L. Pareyson, con particolare riferimento alle soluzioni da loro proposte riguardo al problema dei rapporti tra arte e moralità. L’esposizione dei capitoli è chiara e vigile, attenta a mostrare sintonie e rilievi critici. Tra l’altro, l’autrice osserva, a mio avviso giustamente, che la teoria estetica pareysoniana non sembra attribuire la dovuta importanza alla crescita umana dell’artista in quanto persona (cfr. pp. 46-47, 87-89, 136-137). Volendo cercare un chiarimento in merito (e penso sia possibile trovarlo) bisognerebbe coglierlo nei saggi più strettamente personalistici dell’autore studiato. Circa un anno prima del libro della prof.ssa Finamore, in Spagna è stato pubblicato il volume di Pablo BLANCO SARTO, Hacer arte, interpretar el arte. Estética y hermenéutica en Luigi Pareyson (Eunsa, Pamplona 1998, pp. 338). Si tratta di un saggio frutto della ricerca dottorale svolta nella Pontificia Università della Santa Croce e pertanto possiede le caratteristiche proprie di un lavoro del genere: copiosi riferimenti bibliografici e costante confronto con la letteratura critica. Ciò nonostante, l’autore ha affrontato l’argomento con tale congenialità e passione da imprimere al testo un buon ritmo espositivo. Dopo un’accurata presentazione della figura di Pareyson, ben inquadrata nel contesto storico-culturale, si cerca di offrire al lettore una risposta alle due 340 cronache di filosofia seguenti domande: come si forma l’arte? come si interpreta l’arte? Al primo interrogativo è dedicata la prima parte del libro, che esamina il rapporto tra l’arte e la natura, il ruolo della materia nelle opere d’arte, la nozione di forma, il ruolo dell’artista con la sua libertà, la sua personalità e la sua eticità. Al secondo quesito è dedicata la seconda parte, in cui vengono analizzati il problema del giudizio estetico, il gusto artistico, l’intervento della personalità nell’interpretazione, l’esecuzione e la contemplazione; chiudono questa sezione alcune pagine in cui si parla di Pareyson interprete di Dostoevskij (cfr. pp. 279-289). Il volume è corredato da un’utile cronologia storico-biografica e da un’esauriente bibliografia delle opere di Pareyson e su di lui. Visti i numerosissimi rinvii, sarebbe forse stato utile anche un indice analitico, che avrebbe reso più facile la consultazione e rispecchiato ancor di più l’ampiezza della ricerca. Francesco RUSSO LEZIONI E CONFERENZE ■ Nel periodo marzo-maggio 2000 si è svolto un programma di lezioni (Lecturae Christianorum) presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma in cui è stato preso in esame il tema del dialogo dei cristiani con i non cristiani. Sono stati affrontati come momenti fondamentali Paolo, Giustino e Origene, Agostino, Abelardo, Tommaso, Bonaventura, Lullo e Cusano. In ogni lettura, dopo una breve introduzione storica e storiografica, segue la lectio vera e propria dei brani prescelti per poi avviare il dibattito fra i partecipanti. Alcuni degli incontri sono stati, Agostino, Contro gli accademici (Marta Cristiani, 30 marzo); Abelardo, Dialogo tra un filosofo, un giudeo e un cristiano (Giulio D’Onofrio, 13 aprile); Tommaso, Le ragioni della fede; Bonaventura, I sei giorni; Lullo, Dialogo del Gentile e dei tre savi (Andrea Di Maio e Marta Romano, 4 maggio); Levinas, Un Dio Uomo? [in Tra noi], Rosenzweig, La stella della redenzione (Francesco Paolo Ciglia, 11 maggio); Lecturae di filosofia ortodossa e luterana (Antonis Fyrigos e Stefano Leoni, 18 maggio). In collegamento con questo ciclo sono state proposte alla comune discussione alcune questioni sui diversi possibili approcci del cristiano filosofo al dibattito attuale (il 23 marzo: Philippe-André Holzer, C’è intelligenza nei calcolatori?; il 6 aprile, una tavola rotonda con Sara Bianchini, Simone D’Agostino, Mario Piazza, Pavel Rebernik, Come “rendere ragione” oggi della “follia della ragione”?). ■ Il Centro di Studi Filosofici della Libera Università Maria SS. Assunta ha organizzato un ciclo di conferenze su La filosofia nel Novecento, fra l’8 marzo e il 12 aprile 2000. La prima conferenza è stata del prof. Armando Rigobello (Esiste un’unità filosofica nel Novecento?, 8 marzo); il 15 marzo il prof. Marco M. Olivetti ha parlato su Il problema dell’“umanesimo” nella filosofia contem- 341 cronache di filosofia poranea (Husserl, Heidegger, Levinas); il prof. Luigi Alici ha spiegato il tema La libertà e il bene: volti dell’etica contemporanea (30 marzo); infine, il prof. Dario Antiseri ha chiuso il ciclo con la conferenza Epistemologia e ermeneutica. Karl Popper e Hans Georg Gadamer: diversità e somiglianza (12 aprile). CONVEGNI ● Nei giorni 6-7 aprile 2000 si è tenuto un colloquio internazionale su L’Europe. Ses valeurs et ses défis a Leuven e Lovain-la-Neuve con i seguenti relatori: L. Dupré (Europe’s Spiritual Identity); D. Janicaud (L’humanisme: des malentendues à l’enjeu) e E.W. Orth (Humanisme et science: leur rapport conflictuel au sein de la culture. Réflexions à partir de E. Husserl et E. Cassirer); Ch. Larmore (The Moral “We” That We Are), G. Vattimo (Pluralisme religieux et sécularisation). Inoltre si sono svolte le seguenti tavole rotonde: Humanisme et religion (con la partecipazione di H. de Dijn, W. Desmond, L. Dupré, M. Maesschalck, J. van der Veken), L’humanisme aujourd’hui (con la partecipazione di R. Bernet, O. Depré, M. Dupuis, D. Janicaud e E.W. Orth), Le pluralisme a-t-il besoin de fondements? (con la partecipazione di Chr. Arnsperger, A. Berten, P. Canivez, E. Clemens, Ch. Larmore, G. Vattimo, R. Visker) e Le religieux doit-il / peut-il lutter contre le pluralisme? (con la partecipazione di A. Burms, L.L. Christians, W. Lesch, J. Reding, A. van de Putte, G. Vattimo). ● Il Dipartimento di filosofia dell’Università degli Studi Federico II, di Napoli, ha organizzato un convegno su Levinas e la cultura del XX secolo nei giorni 1012 aprile 2000. I relatori sono stati Stephane Moses (Levinas e Rosenzweig), Irene Kajon (Hermann Cohen ed Emmanuel Levinas come innovatori del linguaggio della filosofia), Silvano Petrosino (Levinas e l’ebraismo contemporaneo), Emilia D’Antuono (Filosofia del paganesimo. Tra Rosenzweig e Levinas); Mario Signore (Levinas interprete di Husserl. Ontologia e modo di essere della coscienza), Marlène Zarader (L’essere e l’altro. Heidegger e Levinas), Jacques Rolland (De la persistance: Sartre, Adorno et Levinas), Danielle Cohen-Levinas (Levinas e l’estetica prima e dopo Auschwitz); Jacques Colette (Levinas et Kierkegaard. Deux philosophies de la subjectivité. Emphase et paradoxe), Guy Petitdemange (Patience, Révolution, Messianité. Levinas et Benjamin), Emilio Baccarini (Levinas e il pensiero cristiano), David Banon (Levinas et Leibovitz), Paolo Amodio (Levinas e Bloch); Elena Arseneva (Un Levinas russe?), Ethan Levine (Levinas and the Talmud), Fabio Ciaramelli (Il desiderio dell’altro tra Merleau-Ponty e Levinas), Mariangela Caporale (Un uomo Dio. Il Gesù di Levinas), Gianluca Giannini (Scoprire l’altro con Ricoeur e Levinas). ● Le XXXIX “Reuniones filosóficas” del Dipartimento di Filosofia dell’Università di Navarra (Spagna) hanno avuto come argomento un Esame del neoplatonismo (Revisión del neoplatonismo) e si sono svolte nei giorni 3, 4, e 342 cronache di filosofia 5 maggio 2000. I relatori sono stati Giovanni Reale (Fundamentos y estructura de la metafísica en Plotino), John Cleary (El rol de las matemáticas en la teología de Proclo), Juan Arana (¿Es el mundo un libro escrito en caracteres matemáticos?), Maria Bettetini (El neoplatonismo en Agustín de Hipona: a propósito del mal y de la materia), Juan Cruz Cruz (Emanación: un concepto neoplatónico en la metafísica de Tomás de Aquino), Werner Beierwaltes (Lo neoplatónico en el pensamiento de Schelling), Jan A. Aertsen (Pensamiento cristiano: ¿primacía del ser “versus” primacía del bien?), Rafael Alvira (“Unidad” y “diversidad” en el neoplatonismo cristiano), Ysabel de Andía (Teología platónica y teología cristiana en Dionisio el Areopagita), Francisco García Bazán (Antecedentes, continuidad y proyecciones del pensamiento neoplatónico), Zeev W. Harvey (Filosofía y poesía en Ibn Gabirol), Miguel Cruz Hernández (La teología del Pseudo Aristóteles y la estructuración del neoplatonismo islámico), Agnieszka Kijewska (El fundamento epistemológico en el sistema de Eriúgena), Giuseppe Girgenti (La metafísica de Porfirio entre la henología platónica y la ontología aristotélica: neoplatonismo cristiano medieval), María Jesús Soto (Causalidad, expresión y alteridad. Neoplatonismo y modernidad). ● L’Istituto di Antropologia ed Etica dell’Università di Navarra ha organizzato il suo II Simposio Internazionale su Fede cristiana e Cultura contemporanea dal titolo Comprender la religión, nei giorni 15-16 maggio 2000. I relatori sono stati Salvatore Abbruzzese (Religión y cultura en la sociedad laica), José Morales (Secularización y religión), Linda Zagzebski (Diversidad religiosa y responsabilidad civil), Paul C. Vitz (Los orígenes psicológicos del ateísmo), Víctor Sanz (Religión y verdad: un punto de vista filosófico), Massimo Introvigne (El renacer de una religiosidad sin Iglesia), Juan Arana (La fe del sabio: actividad científica y creencia religiosa), Luis Romera (La experiencia humana y la apertura religiosa a Dios). ● Dal 3 al 10 settembre 2000 è previsto a Roma l’Incontro Mondiale dei Docenti Universitari, comprendente numerosi convegni. Ne informeremo, riguardo alle attività di carattere filosofico, nel prossimo fascicolo. ● È indetta per i giorni 6-7 ottobre 2000 la “St. Louis University Graduate Conference” dal titolo I filosofi americani classici (The Classical American Philosophers). Il relatore principale sarà Vincent Colapietro (Pennsylvania State University). Le relazioni verteranno sui diversi aspetti delle proposte filosofiche di Peirce, Royce, James, Santayana, Dewey, Mead e Whitehead; le comunicazioni sono di tipo interdisciplinare. Ulteriori informazioni si possono chiedere a Kevin S. Decker ([email protected]). ● Per il mese di novembre del 2000 (22-25) si sta organizzando presso l’Università Complutense (Madrid) il congresso dal titolo A Cent’anni dalla teoria quantistica: Storia, fisica e filosofia (100 Years of Quantum Theory: History, Physics and Philosophy). Il programma provvisorio prevede le 343 cronache di filosofia seguenti relazioni: prof. Juan Arana (Las paradojas de un cuántico de la cuántica: Erwin Schrödinger y la noción de causalidad), prof. José Campos (Miguel Catalán y el descubrimiento de los multipletes en física atómica) prof. Nancy Cartwright (Causation, Models and Equations), prof. Brigitte Falkenburg (Correspondence, Complementarity and the Unity of Physics), prof. Antonio Fernández-Rañada (El espacio, el vacío cuántico y la expansión del universo), prof. Alberto Galindo (Quanta e Información), prof. Manuel García Doncel (La revolución cuántica: nueva visión en física y filosofía), prof. Peter Mittelstaedt (Universality and Consistency of Quantum Physics. New problems of an old theory), prof. Michel Paty (Quantum physics or the drift of physical thought by mathematical forms), prof. Franco Selleri (The Einstein, Podolsky and Rosen Paradox: Truth and Fiction), prof. Ana Rioja (Sobre ondas y corpúsculos: Un punto de vista lingüístico). Informazione su altri particolari è reperibile nel sito web del congresso: http://fs-morente.filos.ucm.es/centenario/index.htm. SOCIETÀ FILOSOFICHE Dal 2 al 5 gennaio 2000 si è svolto a Paestum (SA) il XVIII Convegno Nazionale dell’A.D.I.F. (Associazione Docenti Italiani di Filosofia) sul tema Filosofia e religione: riposte all’uomo del terzo millennio. L’argomento è stato affrontato da sette relazioni principali: Religione e religioni, P. Giustiniani (Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale “San Tommaso d’Aquino”); Filosofia e filosofie, A. Masullo (Università di Napoli); Filosofia e religione, A. Molinaro (Pontificia Università Lateranense); Filosofia ed esperienza religiosa, S. Sorrentino (Università di Salerno); Filosofia, religione e progetti politici, U. Pellegrino (Milano); Filosofia, mondo giovanile e scuola, R. Serpa (Cosenza); Eredità e speranza, F. Russo (Pontificia Università della Santa Croce). Alle relazioni si sono unite diverse comunicazioni, che hanno arricchito ulteriormente i dibattiti. Nel corso del convegno l’Assemblea dei Soci ha eletto Presidente il prof. Aniceto Molinaro e Presidente Onorario il prof. Battista Mondin; è stato nominato un nuovo Vicepresidente (il prof. G. Schiff) e sono state rinnovate le nomine dei Consiglieri Nazionali. L’Associazione Filosofica Ligure ha organizzato nei giorni 4 e 5 maggio 2000 un convegno su Donne e filosofia. Per la prima giornata si è scelto il tema La presenza femminile nella storia del pensiero e sono intervenuti i seguenti relatori: Vidgis Songe Møller (Matter, Gender and Death in Aristotele); Paolo Aldo Rossi (L’immagine filosofica della donna tra Medio Evo e prima età moderna); Paola De Cuzzani Solbakk (Essere donna e cittadinanza. La differenza sessuale nella filosofia di Spinoza); Mirella Pasini (Eva moderna: l’immagine della donna nel lessico dei positivisti); Silvana Castignone (Le donne e il diritto); Luisa Montecucco (Donne, scienza e filosofia della scienza). La seconda giornata è stata dedicata al tema Femminismo e pensiero contemporaneo con le 344 cronache di filosofia seguenti relazioni: Arianna Betti (La donna nella filosofia analitica mitteleuropea); Flavio Baroncelli (Femminismo e multiculturalismo); Luisella Battaglia (L’etica femminile della cura); Pieranna Garavaso (La varietà delle epistemologie femministe); Margherita Benzi (Alcune critiche all’epistemologia femminista); Nicla Vassallo (Teoria della conoscenza: tradizionalismo e femminismo); Anna Grazia Papone (Donne e filosofia nel secolo breve); Rosangela Barcaro (Bioetica al femminile); Luciana Di Serio (Le donne come soggetti di conoscenza); Valeria Ottonelli (Femminismo e libertarismo). Per informazioni rivolgersi a Michele Marsonet, Univesità di Genova, Dipartimento di Filosofia, Via Balbi 4, I-16126 Genova - tel. +39-010-209-9793; fax. +39-010-209-9864; e-mail [email protected]. Il World Phenomenology Institute ha organizzato il suo XLVII Congresso Internazionale nella città di Puebla (Messico) dal titolo La passione per la verità: realtà, conoscenza, illusione e falsità riesaminate (The Passion for Truth: Reality, Cognition, Deceit, Illusion Revisited) dal 20 al 22 maggio 2000. La North American Patristics Society, seguendo le discussioni sorte durante la XIII International Patristics Conference (Oxford, 1999) ha tenuto il suo incontro annuale nei giorni 25-27 maggio 2000 su La Città di Dio, di Sant’Agostino per promuovere gli studi sui molteplici temi passati in rassegna nella monumentale opera di Sant’Agostino: storia, filosofia, filologia e archeologia, insieme ai collegamenti con altre opere del Vescovo di Ippona sono state messe in rapporto per cercare di comprendere meglio l’ambiente della tarda Antichità. L’incontro si è svolto presso la Loyola University of Chicago. Ulteriori informazioni si possono chiedere a Stanley P. Rosenberg, Ph.D. ([email protected]) e a Peter Burnell, Ph.D.: ([email protected]). L’Università di Oviedo (Spagna) in collaborazione con la Sociedad Española de filosofía analítica ha organizzato un convegno sui diversi Aspetti della filosofia di Barry Stroud nei giorni 22-24 giugno 2000. L’evento è stato coordinato dal prof. Luis M. Valdés e si è svolto alla presenza del prof. Stroud. La Aristotelian Society e la Mind Association hanno avuto la loro sessione congiunta nei giorni 7-10 luglio 2000 presso l’Università di Sheffield (Gran Bretagna), con la partecipazione dei soci. La relazione inaugurale è stata tenuta da Jane Heal (Other Minds, Rationality and Analogy) e gli interventi sono stati moderati da David Wiggins. Le conferenze successive si sono svolte attorno ad un tema sul quale hanno parlato due relatori, con l’intervento di un moderatore per le discussioni. I relatori sono stati: Peter Simons e Joseph Melia (Continuants and Occurrents, moderatore Hugh Mellor); Frances Kamm e John Harris (The Doctrine of Triple Effect, mod. Adam Morton); Brian McLaughlin e David Owens (Self-Knowledge, Externalism, and Skepticism, mod. Jennifer Hornsby); il 9 luglio hanno partecipato Stephen Makin e Nicholas Denyer (Aristotle on Modality, mod. David Evans), Peter Lipton e John Worrall (Induction, mod. 345 cronache di filosofia Dorothy Edgington), Elliot Sober e Peter Hylton (Quine, mod. Christopher Hookway), Tim Scanlon e Jonathan Dancy (Intention and Permissibility, mod. Peter Carruthers). Dal 1º al 4 agosto 2000 si è svolta la conferenza Linguaggio, pensiero e realtà: proposte scientifiche, religiose e filosofiche della Society for Indian Philosophy and Religion, di Calcutta. Per ulteriori informazioni ci si può mettere in contatto con Chandana Chakrabarti, Campus Box 2336, Elon College, Elon College, NC 27244 [email protected]. La International Association for Greek Philosophy (IAGP), l’International Center for Greek Philosophy and Culture, la Society for Ancient Greek Philosophy (SAGP-USA) e il Dipartimento di Filosofia della Università di Atene hanno organizzato la XII Conferenza Internazionale di filosofia greca sul tema La ricerca della verità: la filosofia greca e l’epistemologia (The Quest for Truth: Greek Philosophy and Epistemology) nei giorni 20-27 agosto 2000. Nei giorni 9-10 settembre 2000 si è svolto l’incontro inaugurale del Central Canada Seminar for the Study of Early Modern Philosophy presso l’Università di Toronto, coordinato dal prof. James M. Morrison (St. Michael’s College, University of Toronto, 81 St. Mary St., Toronto, Ontario, M5S 1J4; email: [email protected]). La Society for European Philosophy (SEP) ha organizzato la sua terza conferenza annuale dal titolo Tempo, verità e storia (Time, Truth and History) nei giorni 6-8 settembre 2000. Hanno partecipato come relatori Etienne Balibar (Parigi), Catherine Malabou (Parigi), Joanna Hodge (Manchester). Ulteriori informazioni si possono chiedere al dott. David Corfield o al dott. Jon Williamson (Department of Philosophy, King’s College London, Strand, London WC2R 2LS, tel. 020-7848 2327; email [email protected]). Dal 25 al 28 ottobre 2000 si terrà a Bologna un convegno internazionale dal titolo Frontiere della transculturalità nell’estetica contemporanea. È un’iniziativa congiunta del Dipartimento di Filosofia dell’Università di Bologna e dell’Associazione Italiana per gli Studi di Estetica (A.I.S.E.), al fine di allestire un foro di discussione sugli apporti cruciali che la transculturalità, l’interdisciplinarietà e il comparativismo forniscono all’estetica teorica del tempo presente. Si prevede la partecipazione di quaranta relatori provenienti da vari continenti. Il dibattito avrà come punto di riferimento la tensione fra il cosiddetto “particolarismo etnocentrico” e l’“universalismo multicentrico”. Tra gli obiettivi, c’è quello di avviare, tramite studi comparativi in ambito europeo ed extra-europeo, la revisione dello statuto dell’estetica, facendo di questa disciplina, intesa non più restrittivamente come “filosofia dell’arte”, il baricentro speculativo di indagini 346 cronache di filosofia interdisciplinari in ambito sia scientifico che umanistico. Per maggiori informazioni è possibile rivolgersi a Roberta Giacomini, via S. Stefano, 97 - I-40125 Bologna, tel +39-051.302980; fax+39-051.309477; e-mail [email protected]. Per il mese di dicembre del 2000 (14-16) è indetto il congresso Tommaso d’Aquino come autorità? (Aquinas as authority?) organizzato dal Thomas Instituut di Utrecht. Per ulteriori ragguagli, ci si può rivolgere al comitato organizzatore: Thomas Instituut, c/o Harm Goris, PO Box 80101, NL-3508 TC Utrecht, Olanda. Revista de Filosofía ANALOGÍA es una revista de investigación y difusión filosóficas del Centro de Estudios de la Provincia de Santiago de México de la Orden de Predicadores (Dominicos). ANALOGÍA publica articulos de calidad sobre las distintas áreas de la filosofia. Director: Mauricio Beuchot. Consejo editorial: Ignacio Angelelli, Tomás Calvo, Roque Carrión, Gabriel Chico, Marcelo Dascal, Gabriel Ferrer, Jesús García, Jorge J. E. Gracia, Klaus Hedwig, Angel Muñoz García, Lorenzo Peña, Livio Rosetti, Philibert Secretan, Enrique Villanueva, Luis Flores H. Colaboraciones (artículos, notas, reseñas) y pagos enviarse a: Gabriel Chico, O.P. Apartado 23-161, Xochimilco 16000 México, D. F. MEXICO Suscripción anual (2 números): México: $200.00, M.N. Otros países: US $ 35.00 347 348 bibliografia tematica Pubblichiamo una sintetica rassegna bibliografica, curata dal prof. Antonio MALO, su alcuni libri recenti riguardanti l’affettività dal punto di vista dell’antropologia filosofica. Antonio R. DAMASIO, L’errore di Cartesio: emozione, ragione e cervello umano (titolo originale: Descartes’ Error. Emotion, Reason and the Human Brain), Adelphi, Milano 1995, pp. 252. L’autore, professore di neurologia e preside del Dipartimento di neurologia presso il College of Medicine della Università di Iowa, è noto per le sue ricerche sulla neurologia della visione, della memoria e del linguaggio. In quest’opera prende in esame, sulla base non soltanto di argomentazioni speculative ma anche dell’analisi di casi clinici e della valutazione di fatti neurologici sperimentali, le infauste conseguenze della separazione cartesiana fra emozione e intelletto. Tutte le linee della ricerca dell’autore convergono verso uno stesso risultato: l’essenzialità del valore cognitivo del sentimento. La sua tesi si può riallacciare così alla tesi classica della conoscenza per connaturalità. L’aspetto più interessante del libro è la distinzione fra il sentire di base e il sentire delle emozioni: distinzione che qui è fondata su osservazioni di architettura anatomico-funzionale del sistema nervoso centrale e non su motivazioni di solo funzionalismo psicologico. Anche se l’autore interpreta il sentire delle emozioni in riferimento al solo scopo della sopravvivenza, non evita di parlare di sentimenti che rispecchiano conflitti individuali e sociali, le cui cause restano un mistero. Juan Antonio MARINA, El laberinto sentimental, Anagrama, Barcelona 1996, pp. 280. L’opera è il quarto saggio dell’autore. Come nei libri precedenti, Marina tenta di elaborare un modo nuovo di fare filosofia, in cui le riflessioni teoretiche si intersecano con le vicende dei personaggi di un romanzo. Nel labirinto sentimentale si trovano illustri visitatori: Rilke, Kafka, Proust, Sartre, Rimbaud, Kierkegaard, Don Nepomuceno Carlos de Cárdenas, e un misterioso personaggio chiamato G.M. Le conclusioni di questo viaggio attraverso il labirinto mettono in rilievo che i grandi temi della psicologia girano attorno ai sentimenti: la conoscenza, il desiderio, i progetti, il carattere, l’azione..., per cui la scienza del sentimento appare come una scienza pratica. Forse il prezzo da pagare per adoperare la tecnica del romanzo in ambito filosofico è la mancan349 bibliografia tematica za di profondità e di rigore nel modo di affrontare i temi. D’altro canto anche se ci sono molti spunti validi per un’ulteriore riflessione su questi argomenti, alcune conclusioni sono poco fondate; ad esempio, l’affermazione che l’origine dell’etica non è altro che un’intelligenza messa al servizio dell’affettività. Quentin SMITH, The Felt Meanings of the World. A Metaphysics of Feeling, Purdue University Press, West Lafayette 1986, pp. 324. Il libro offre un’esauriente tassonomia dei sentimenti, all’interno di uno schema generale che permette l’organizzazione della variegata ricchezza del mondo affettivo. Il pregio principale dell’opera è la descrizione della molteplicità dei fenomeni affettivi in termini di flusso delle intenzioni secondo una certa direzionalità e determinati modi (ogni specifica qualità di piacere o di dolore ha un proprio flusso affettivo analizzato accuratamente dall’autore). Lo scopo dell’opera non è però la semplice descrizione dei sentimenti, bensì quella di sostenere la tesi che l’unica metafisica possibile è quella basata sui sentimenti, invece di quella fondata sulla ragione. L’esistenza umana non sarebbe accessibile alla ragione, ma soltanto alla comprensione di situazioni emozionali. Nel ridurre la metafisica ai significati affettivi, l’autore sembra accettare le tesi centrali del nichilismo postmoderno. W. George TURSKI , Toward a Rationality of Emotions: An Essay in the Philosophy of Mind, Ohio UP, Athens 1994, pp. 158. L’opera è una raccolta di articoli di diversa lunghezza, in parte già pubblicati, su differenti temi. Sebbene il libro tratti dell’integrazione dell’affettività nella totalità della coscienza, il titolo potrebbe suggerire un approccio datato e superato, cioè la falsa riduzione dell’intenzionalità dell’affettività a quella della ragione. Ma così non è, poiché l’affettività ha un’intenzionalità che corrisponderebbe all’interazione vissuta con il mondo, per cui nel sentire non si può staccare l’aspetto passivo da quello attivo. L’intenzionalità affettiva viene intesa — sulla scia dell’esistenzialismo — come co-determinazione del se stesso e dell’altro, sicché ogni emozione implicherebbe responsabilità nei confronti dell’altro. Infatti — sostiene l’autore — le emozioni sono costituite dalle risposte che ci fanno sempre essere degli interlocutori. Anche se è vero che attraverso la riflessione e gli abiti siamo responsabili dei nostri sentimenti, pensiamo tuttavia che non possa essere annullata la differenza fra il sentire e l’acconsentire, per cui non si può affermare — come fa Turski — una totale responsabilità nei confronti dei nostri sentimenti. Xavier ZUBIRI, Sobre el sentimiento y la volición, Alianza Editorial, Madrid 1992, pp. 457. Il volume raccoglie alcuni testi non pubblicati appartenenti a tre corsi: “Acerca de la voluntad” (1961), “El problema del mal” (1964) e “Reflexiones filosóficas sobre lo estético” (1975). Tutt’e tre hanno in comune lo studio del sentimento e della volizione, per cui costituiscono il complemento indispen- 350 bibliografia tematica sabile delle analisi fatte sull’intelligenza nella trilogia dell’autore (Inteligencia sentiente: Inteligencia y realidad; Inteligencia y logos, e Inteligencia y razón). La riflessione zubiriana si dirige a scoprire l’essenza del sentimento estetico attraverso una triplice domanda: Che cosa è il sentimento? Qual è il rapporto fra sentimento e realtà? Che cosa è il sentimento estetico? L’autore individua l’aspetto formale del sentimento nell’ atemperamiento, cioè nel modo di trovarsi in un adeguamento tonico con la realtà, per cui si tratta di un atto del soggetto contenente in modo formale un momento di realtà. Anche se lo stile è scorrevole, il libro non è di facile lettura sia per quanto si riferisce alla terminologia adoperata sia per quanto si riferisce alla densità concettuale. Ciò nonostante, l’opera è ricca di spunti in ambito antropologico. Si veda anche su questa rivista la nota El sentimiento en la Noología de Zubiri, fascicolo I, vol. 8 (1999), pp. 193-197. 351 352 ACTA PHILOSOPHICA, vol. 9 (2000), fasc. 2/recensioni recensioni Rafael ALVIRA, La razón de ser hombre. Ensayo acerca de la justificación del ser humano, Rialp, Madrid 1998, pp. 205; Filosofía de la vida cotidiana, Rialp, Madrid 1999, pp. 112. ■ Rafael Alvira è autore di diversi titoli di carattere metafisico e antropologico e curatore di molteplici opere collettive. In questi due saggi raccoglie gli aspetti più importanti della sua visione dell’uomo, e anche se nel primo si offre una visione complessiva dei grandi temi della vita umana, non si può pensare ad un’opera di tipo manualistico. I quattro lunghi capitoli in cui è diviso il lavoro costituiscono profonde riflessioni dell’autore, che si ispira al pensiero di filosofi moderni e antichi per confrontare le loro posizioni e ricavare un insieme di nozioni con le quali ritrarre le sembianze della persona nel mondo contemporaneo. Il primo capitolo — Cómo se conoce el hombre a sí mismo — presenta diversi approcci per la considerazione dei problemi umani. Siccome l’uomo non è un mero “oggetto” da studiare dall’esterno, bisogna sviluppare certe capacità di riflessione e di considerazione dei “fenomeni interni” dello spirito. È necessario imparare a ricononoscere e a riconoscersi nel proprio agire per capire gli altri e l’ambiente sociale di cui si fa parte. Inoltre, si propone un’armonizzazione dei diversi livelli di conoscenza, cioè quello razionale-filosofico, quello religioso e quello estetico. L’ultima parte del capitolo mette in rapporto questi tipi di conoscenza con la triade classica dei trascendentali, il bello, il bene e il vero. El planteamiento antropológico filosófico, titolo del secondo capitolo, rispecchia il suo scopo, che è quello di circoscrivere l’oggetto di studio della filosofia dell’uomo, partendo dal problema della posizione della persona come argumento per se stessa. Si passa in rassegna il problema della oggettività kantiana per esporre il rapporto realtà-conoscenza e infine l’approccio conoscitivo all’esistenza. Nel terzo capitolo, Alvira presenta la sua analitica antropologica, e riprende i temi classici della composizione anima-corpo, dei rapporti fra il naturale e il soprannaturale, la storicità umana, la sessualità, e la cultura. 353 recensioni Il quarto capitolo intitolato Sintética antropológica presenta la dinamicità della vita umana sotto quattro aspetti: il processo di diventare essere umani, la proiezione umana davanti all’inevitabile questione del fine ultimo, la strutturazione della vita nell’ “abitare” e nel “produrre”, e infine un abbozzo di filosofia del quotidiano che è presentato come l’autentico palcoscenico dell’autorealizzazione. È in occasione degli argomenti di questo quarto capitolo che mi sembra opportuno aggiungere una breve presentazione di una seconda opera di questo autore, Filosofía de la vida cotidiana. Pur essendo un libro basato su varie conferenze tenute negli ultimi dieci anni, riprende i grandi temi dello sviluppo della persona nel processo del quotidiano, e ripropone a livello filosofico gli argomenti dell’abitare e del produrre come ambiti di scambio della persona con la natura, che resta sempre umanizzata dopo questo commercio con l’umano. Altri argomenti di non facile esame filosofico che l’autore riesce a tematizzare sono l’arte di invitare come punto di partenza del donare e dello scambio che ogni rapporto umano esige: dire, insinuare, condividere un festeggiamento, partecipare alla gioia di una nuova nascita, sono tutte manifestazioni della spiritualità umana. Il gioco, i suoi rapporti con la festa, lo spirito sportivo — la sportività spiegata come una spinta nei diversi ambiti dell’agire umano oltre allo sviluppo delle virtù agonistiche — chiudono gli argomenti della prima parte. Nella seconda si trattano la noia, la felicità abbinata alla sofferenza, lo spirito di finesse, e una reinterpretazione del tema del cuore. Sorprende come da una sola parola (la noia) si possa tessere un discorso filosofico sui desideri e i bisogni umani, visti nella prospettiva della storia e presentati ad un pubblico che oggi ha troppe cose da desiderare e poche idee direttrici per comprendere quali fra di loro siano all’altezza della sua condizione spirituale. Negli altri temi si ritrova come filo conduttore il condividere (compartir), sia nelle forme dell’amicizia per quanto riguarda la felicità e la sofferenza, sia nella capacità di capire gli altri per comunicare e per andare incontro ai loro bisogni (la finesse ovvero finura de espíritu in spagnolo), nonché nella concezione del cuore come l’ubi della mediazione, della conciliazione con gli altri per poterli accogliere e servire. Tutti questi sviluppi mirano ad offrire elementi affettivi e razionali — nell’agire umano devono sempre andare insieme, secondo la prospettiva dell’autore — perché ognuno possa imparare a valutare criticamente e a gestire in prima persona i molteplici elementi di una società in continua evoluzione. Juan A. MERCADO 354 ACTA PHILOSOPHICA, vol. 9 (2000), fasc. 2/recensioni Mariano ARTIGAS, Filosofía de la ciencia, Eunsa, Pamplona 1999 pp. 291. ■ Vivimos en una civilización fuertemente modulada por la ciencia. Gran parte de los problemas humanos se encuentran mezclados con nuestras ideas sobre el alcance y el valor del conocimiento científico. Por eso comprender la naturaleza de la ciencia y su valor es hoy una exigencia ineludible. Filosofía de la ciencia de Mariano Artigas se nos ofrece como una ayuda para este cometido. En los últimos decenios, la publicación de ensayos, manuales, monografías y artículos sobre filosofía de la ciencia se ha multiplicado. Sin embargo, la imagen de la ciencia que emerge de toda esta literatura es poco homogénea y, muchas veces, contrastante. En algunos casos prevalece un enfoque logicista, en otros se da primacía a los aspectos históricos o sociológicos y, en muchos trabajos, se advierten todavía residuos de la mentalidad positivista. Esta situación resulta poco favorable para formarse una representación cabal de la naturaleza de la ciencia. Especialmente en el sector de la manualística es donde más se advierte la ausencia de exposiciones equilibradas que reflejen —en lo sustancial— toda su riqueza y complejidad. Reconociendo los méritos que indudablemente tienen algunos manuales, el de Artigas cubre una laguna importante que advertirán rápidamente quienes conozcan lo que se ha escrito sobre el tema. Esquemáticamente, la obra se ajusta al siguiente plan. Una Introducción en la que se sitúa la importancia de la ciencia en la vida actual y se explican a grandes rasgos los temas y métodos de la filosofía de la ciencia. Los dos capítulos siguientes, que prolongan de algún modo la introducción, tratan del desarrollo histórico de la ciencia y de la filosofía de la ciencia, con especial atención a las corrientes más influyentes del período contemporáneo. Los capítulos IV y V se dedican respectivamente a la naturaleza y método de las ciencias. En el siguiente capítulo titulado Las construcciones científicas, se analizan los resultados a los que conduce la aplicación del método científico. Lo que hasta aquí ha considerado Artigas, puede entenderse como preámbulo necesario para el último capítulo 355 recensioni titulado El valor de la ciencia, en el que se estudian las tres cuestiones fundamentales de la filosofía de la ciencia: la verdad científica, la relación entre ciencia y filosofía, y la relación entre ciencia y valores. Una primera característica que salta a la vista es su amplitud temática. Toca, en efecto, todas las cuestiones esenciales de la filosofía de la ciencia, y en su lectura se advierte, además, que combina de modo equilibrado los enfoques lógico, histórico y sociológico; el resultado es una presentación ordenada de la ciencia real en todas sus dimensiones. A mi entender, el marco del manual parece estar constituido por dos ideas centrales. La primera es la concepción de la ciencia como actividad humana que se propone unos objetivos y utiliza para lograrlos unos métodos que, en su aplicación, producen unos resultados. Artigas supera así —incluyéndola— la perspectiva lógica de la ciencia, centrada exclusivamente en el ideal de pureza metodológica que, siendo válida, resulta parcial e insuficiente. Su enfoque, en cambio, permite abrir cauces para el encuentro recíprocamente beneficioso de las ciencias con las humanidades. Su concepción de la racionalidad científica no se presenta como algo cerrado que, sólo en un segundo momento, hay que relacionar o integrar con otras perspectivas; es en la misma racionalidad científica donde Artigas ve dimensiones filosóficas implícitas que no comprometen la legítima autonomía de las ciencias. Estas consideraciones nos llevan a la segunda idea-marco que es precisamente la perspectiva filosófica con la que Artigas aborda el estudio de la ciencia. Se trata de una perspectiva realista en la que tienen cabida los aspectos convencionales y las construcciones de la ciencia, así como la enorme dosis de creatividad que comporta. Como ha desarrollado más ampliamente en otros escritos, el realismo al que se refiere Artigas no significa poner a la ciencia en dependencia de una base filosófica sobre la que existen discrepancias, sino que se trata únicamente del realismo filosófico implícito en la actividad científica. Respecto a los contenidos, merece destacarse el espacio que concede a las ciencias humanas. Como es sabido, la mayor parte de los manuales existentes de filosofía de la ciencia se limitan a las ciencias de la naturaleza y, dentro de éstas, casi exclusivamente a las de método experimental-matemático, concretamente a la física. Mérito de esta obra de Artigas es presentar un panorama completo de la racionalidad humana, incluyendo también la teología e indicando cauces muy oportunos para el diálogo entre ciencia y fe cristiana. Asistimos aquí a una recuperación del concepto analógico de ciencia que comienza a revelar su fecundidad en el deseado diálogo interdisciplinar. Otro aspecto que merece destacarse —por ser tema poco contemplado en la mayor parte de los manuales— es el estudio de las dimensiones éticas de la ciencia, que el autor realiza desde la explicación de los valores constitutivos de la actividad científica. Yendo más puntualmente a algunos temas, destacaría, entre otros, la excelente caracterización de la novedad de la ciencia moderna. También la argumentación que ofrece del carácter auténtico de la verdad científica, aunque se trate de una verdad parcial y contextual; en este punto —como señala explícitamente el autor 356 recensioni y lo evidencian las numerosas referencias— Artigas es deudor en bastantes de estas consideraciones de la obra de Agazzi. Por último, cabe mencionar también la sistematización que presenta de los diferentes niveles en los que las ciencias se articulan con la filosofía. Desde el punto de vista pedagógico, la obra destaca por la exposición lúcida de los temas. Abundan los ejemplos, siempre oportunos. La sistematización está bien lograda y la división en apartados es equilibrada. Puede decirse que el manual tiene densidad científica y filosófica, pero no resulta teórico ni, mucho menos, formalista. Dentro de la sobriedad propia del género, tiene el vigor y la vitalidad que puede darle quien conoce bien y con experiencia personal el tema del que habla. Además, Artigas sabe ver en la ciencia un reflejo de la racionalidad del Creador y una manifestación de la capacidad cognoscitiva del hombre. Se muestra también buen conocedor de los autores y planteamientos más significativos de la filosofía de la ciencia y sabe aprovechar sus aportaciones más valiosas. Da muestras con esto de lo que se ha considerado siempre característica de los buenos maestros: la apertura y la capacidad de aprender de todo aquél que tenga algo verdadero que decir. Aunque buena parte del contenido del manual está recogido en otras obras de Artigas, principalmente en Filosofía de la ciencia experimental (2ª ed., 1992), El desafío de la racionalidad (1994) y La mente del universo (1999), el manual es una nueva síntesis que esperamos ver pronto traducido a las principales lenguas. Por último, cabe añadir que el trabajo está en perfecta sintonía con una de las temáticas principales de la Encíclica Fides et ratio. En efecto, la Encíclica supone una llamada a recuperar el vigor de la razón, su capacidad de conocer la verdad, también en el ámbito de las verdades últimas. En esta desconfianza en la razón, tan característica de nuestra época, que ha abocado en el clima generalizado de relativismo y escepticismo, ha tenido históricamente mucho que ver la interpretación y valoración que se ha dado al conocimiento científico. Por eso, devolver al hombre la confianza en la capacidad de su razón ha de pasar necesariamente por la recuperación de la verdad científica. No cabe duda de que este manual de Artigas cumplirá una función especulativa y pedagógica importante en esta línea. Por la síntesis que hace de muchas de las mejores aportaciones sobre el tema y por la originalidad de su enfoque y propuestas, esta obra de Artigas puede considerarse, a la vez, un manual clásico y de vanguardia. Ma. Angeles VITORIA 357 ACTA PHILOSOPHICA, vol. 9 (2000), fasc. 2/recensioni Gabriel CHALMETA, La giustizia politica in Tommaso d’Aquino [Studi di Filosofia n. 19], Armando, Roma 2000, pp. 155. ■ Gabriel Chalmeta, professore di Etica e filosofia sociale della Pontificia Università della Santa Croce, ci offre un saggio molto originale su alcuni aspetti della filosofia politica di Tommaso d’Aquino. Il prof. Chalmeta aveva già dimostrato la sua originalità nel manuale Etica applicata. L’ordine ideale della vita umana (Le Monnier, Firenze 1997), fondato sui principi della philosophia perennis, e con approcci propri della sociologia relazionale che permettevano un’analisi realistica dei problemi posti dalla società contemporanea. In questo caso, si tratta di un breve saggio che, partendo dalla consapevolezza della crisi dello Stato liberal-democratico, tenta di gettare nuove luci su una possibile nuova configurazione della società, ispirandosi ad alcuni principi presenti nella filosofia politica di san Tommaso. Secondo Chalmeta, le due correnti di pensiero politico più influenti nell’attuale dibattito politico — e che sono elementi teorici indispensabili per capire la configurazione odierna della società —, sono l’utilitarismo e il contrattualismo. Entrambe le correnti rappresentano tentativi di fornire una razionalità etico-politica all’umano vivere insieme. Se la società del Welfare è in crisi, si tratta soprattutto di una crisi di questa razionalità. Le risposte dell’utilitarismo e del contrattualismo sono unilaterali, e non risolvono il problema di una razionalità eticopolitica che possa fondare la vita in società. Chalmeta afferma che la caratteristica specifica di ogni teoria utilitarista è la struttura teleologica del seguente ragionamento: «il bene del cittadino viene definito prima e indipendentemente dal politicamente giusto, e il politicamente giusto (lo Stato giusto) è definito successivamente come quel sistema di relazioni politiche (di leggi, di istituzioni, di costumi, ecc.) che massimizza il bene dei cittadini all’interno della società» (p. 13). L’utilitarismo identifica nozioni quali il “dover essere” o la “giustizia della società politica” con quelle di “massima soddisfazione dei nostri desideri” e di “benessere massimamente diffuso”. Secondo 358 recensioni tale teoria queste categorie ammetterebbero un’espressione in termini matematici tale che la loro realizzazione pratica si ridurrebbe fondamentalmente a un problema di natura tecnica. Chalmeta non nega che l’utilitarismo che si trova alla base del Welfare State abbia ottenuto importanti risultati riguardo alla libertà individuale e alla solidarietà politica, ma considera che l’esaurimento dell’attuale configurazione politica della società si deve all’impiego «della logica matematica per la determinazione di ciò che è politicamente giusto, quando, in realtà, la rilevanza in questo ambito umanistico delle nozioni ed i valori aritmeticamente espressa è molto secondaria, quasi esclusivamente indiziaria» (p. 15). Per quanto riguarda il contrattualismo, Chalmeta lo considera alternativo all’utilitarismo. La sua essenza sarebbe costituita dall’applicazione analogica all’ambito politico della teoria del contratto propria del Diritto privato: la giustizia politica si basa sul consenso di tutte le parti. Ognuno è libero di seguire il proprio progetto di felicità; pertanto la società non deve privilegiare nessun concetto di vita buona. Secondo il contrattualismo che, al contrario dell’utilitarismo, difende la priorità del giusto sul bene, la giustizia politica si raggiungerebbe mediante il consenso e il dialogo razionale. «Di fatto, se nella visione utilitarista veniva riconosciuta una priorità assoluta alla nozione di bene su quella di giustizia politica, nel senso che l’ultima deriverebbe interamente dalla prima per via di semplice massimizzazione aritmetica, il neocontrattualismo sosterrà invece la priorità della nozione di giustizia su quella di bene; oppure, per dirlo con il significativo titolo di un’opera di Rorty, la priorità della democrazia sulla filosofia. Si vuole indicare, con questa idea, che i rapporti sociali dovrebbero essere ordinati secondo una serie di principi di giustizia politica tali da non presupporre alcuna concezione etica specifica nei cittadini; oppure, detto in forma positiva, occorre che i principi di giustizia che modellano la vita politica siano condivisi da tutti i cittadini, quale che sia la concezione etica professata, vale a dire, la rispettiva visione sulla vita buona e, in ultima analisi, sulla natura della felicità umana» (p. 18). Chalmeta valuta negativamente il neocontrattualismo perché, se si riconosce il valore autonomo delle pretese dei cittadini per il mero fatto di trarre origine dal loro volere, e non quali espressioni di un ordine etico oggettivo, è molto improbabile, se non impossibile, trovare un terreno comune su cui giungere all’accordo. Se né l’utilitarismo né il contrattualismo presentano soluzioni soddisfacenti al problema politico contemporaneo, è legittimo volgersi indietro, al passato, per cercare motivi di ispirazione. Chalmeta lo fa guardando a san Tommaso d’Aquino, ma è consapevole che la filosofia politica di Tommaso non offre una risposta completa ai problemi contemporanei. L’Aquinate è condizionato dal suo tempo. Infatti, la cosmovisione dei suoi coetanei era molto diversa da quella di oggi, e inoltre, «la concezione politica di Tommaso, in quanto teologo cattolico, può essere pienamente compresa solo da quanti ne condividono la fede in Cristo, o perlomeno in un’altra vita cui è destinato l’uomo, mentre a tanti cittadini del Welfare State, che questa fede non hanno, tale concezione apparirà in tutto o in buona parte irrazionale» (p. 20). Ciononostante, Chalmeta considera che, da una 359 recensioni certa lettura di Tommaso, potrebbero scaturire alcuni principi molto generali di giustizia politico-giuridica idonei a superare l’alternativa utilitarismo-contrattualismo, nonché a contribuire positivamente alla soluzione dei problemi del Welfare State. L’autore divide il suo saggio in tre parti. Nella prima — Presupposti storici e dottrinali — si descrive il panorama politico, giuridico e culturale del contesto storico di san Tommaso. Chalmeta, allontanandosi dai clichés storiografici che considerano il Medioevo come un’epoca oscura e intellettualmente sterile, situa san Tommaso in un periodo di rinascimento culturale (XII e XIII secolo), che lascerà tracce profonde nell’ambito delle teorie e delle istituzioni politico-giuridiche. Poi presenta brevemente la personalità del Dottore Angelico — un figlio del suo tempo, pienamente inserito nelle preoccupazioni e interessi dei suoi coevi — nonché i suoi scritti politici. Secondo Chalmeta, nell’avvicinarsi all’opera politica tommasiana è necessario rispettare alcuni principi ermeneutici: fondamentalmente il principio d’interpretazione dei singoli testi alla luce del tutto, e poi la subordinazione delle opere di commento ad Aristotele alle dottrine espresse in opere completamente sue. Chalmeta conclude la prima parte presentando le fonti della filosofia politica di san Tommaso: oltre alla Sacra Scrittura — utilizzata, nelle opere politiche, con un approccio filosofico —, spiccano le figure di Aristotele e di Agostino, di cui Chalmeta sottolinea rispettivamente gli elementi tendenzialmente utilitaristici e contrattualistici. L’autore considera la filosofia politica di Tommaso d’Aquino una sintesi della concezione “utilitarista” di Aristotele e della concezione “contrattualista” di Agostino. Dunque, essendo presenti in germe le due dottrine politiche contemporanee, la filosofia politica di Tommaso può offrire elementi di riflessione sulla problematica politica attuale. Nella seconda parte — Determinazione dialettica della concezione tomista della giustizia politica — Chalmeta adopera un metodo dialettico per arrivare alla nozione di giustizia politica secondo san Tommaso. Il metodo “deduttivo”, o più strettamente filosofico, lo utilizzerà nella terza parte. Seguendo lo schema prefissato sin dall’introduzione, l’autore fa dialogare la teoria politica tomista con quella utilitarista e con quella contrattualista. L’elemento principale che accomuna san Tommaso all’utilitarismo è la concezione teleologica della teoria della giustizia politica. Fedele in questo aspetto all’insegnamento del suo maestro Aristotele, Tommaso considera l’uomo come naturalmente sociale e politico. Il fine ultimo della società è orientato alla felicità dei singoli. Se lo schema fondamentale delle due teorie è simile, il contenuto della felicità è diverso, dato che la concezione tomista è imperniata sulla dottrina aristotelica delle virtù. La somiglianza si ferma qui. La considerazione matematizzante dell’utilitarismo non ha nessun spazio nella teoria politica di Tommaso. La “massimizzazione del bene” di Stuart Mill e di altri utilitaristi misconosce il valore unico della persona umana, che trascende una trattazione meramente matematica della felicità. Secondo Chalmeta, il concetto di dignità della persona opera la più radicale rottura tra la posizione tomista e quella utilitarista. L’uomo naturaliter liber e prop- 360 recensioni ter seipsum existens — e ancora di più l’uomo in quanto immagine di Dio — non ammette l’oppressione delle minoranze e dei più deboli, inevitabile in un’ottica utilitarista matematizzante. L’uomo non è solo parte di un tutto: «non sarà mai eticamente razionale considerare l’uomo come una semplice unità al servizio del maggior bene per il maggior numero, una parte che si possa sacrificare al servizio del tutto sociale» (p. 77). Riguardo al contrattualismo, Chalmeta considera che Tommaso d’Aquino riconosce alcune delle sue “buone ragioni”, ad esempio, nell’apprezzamento da lui dimostrato per la libertà o autonomia come un bene prezioso e irrinunciabile dell’uomo, anche quale membro della società politica. Se per Tommaso il fine ultimo di tale società è la vita virtuosa dei cittadini, la libertà o autonomia è una condicio sine qua non per l’agire secondo virtù. L’autore cita passi dell’opera tommasiana, da cui si evince una forte simpatia per l’assetto politico-istituzionale più favorevole all’autodeterminazione dei cittadini (ad es. S.Th. I-II, 97, 3, ad 3; ivi, 90, 3,c). San Tommaso non esita a far sua la definizione “contrattualista” di società in Agostino: “moltitudine legata da un accordo giuridico” (S.Th. I-II, 105, 2, c). Per Chalmeta, c’è un altro punto importante sul quale Tommaso si sarebbe trovato d’accordo con il contrattualismo: il fatto che «la libertà degli altri costituisce, in linea di massima, un limite all’esercizio della legittima libertà da parte di ciascun uomo. Anzi, proprio come in questa teoria moderna, nella filosofia dell’Aquinate tale esigenza si fonda su un’istanza morale oggettiva presente nella ragione umana: la legge naturale» (p. 82). Malgrado questi aspetti comuni, la teoria politica di Tommaso si allontana dal contrattualismo in un punto centrale: Tommaso ha una visione della vita buona piena di contenuto e ricca di conseguenze sociali, e in ciò si oppone al rifiuto contrattualista di fondare la società su un concetto completo della vita buona. Per l’Aquinate, la vita buona individuale è rivolta essenzialmente alla promozione del bene comune di tutti. Tommaso dunque non può essere d’accordo con il contrattualismo che concepisce la vita sociale soltanto in base ad un consenso dove si devono rispettare le libertà individuali nella misura in cui non ledano le libertà altrui. Non basta un saggio “non fare”, poiché la giustizia implica favorire la vita buona delle altre persone, contribuendo così al bene comune della società. Dalla concezione di giustizia politica di Tommaso risulta «che la società dispone di un criterio razionale per valutare le varie rivendicazioni di libertà e per risolvere i relativi conflitti. Dovrà ritenere giuste quelle libertà dei cittadini che contribuiscano positivamente alla vita buona (virtuosa) degli altri, e dunque fare il possibile per garantirle e promuoverle di più o di meno, a seconda dell’importanza di questo contributo. Altre libertà, invece, perché a tale fine irrilevanti, dovranno semplicemente essere valutate non ingiuste, e comunque meritevoli di rispetto. Infine, le libertà contrarie alla creazione o sussistenza di questi rapporti di collaborazione positiva tra i concittadini, saranno considerate ingiuste, e verranno punite o, nel migliore dei casi, tollerate» (p. 86). Una volta analizzata la concezione della giustizia politica di san Tommaso, a partire dalle “buone ragioni” e dai “torti” che il Dottore Angelico darebbe sia 361 recensioni all’utilitarismo che al contrattualismo, Chalmeta affronta l’ultima parte del suo studio, abbandonando il metodo dialettico. Nella parte terza, intitolata La sintesi tomista: il bene comune politico, l’autore cambia prospettiva: se prima ha sottolineato l’aspetto “umanista” della dottrina tomista, in cui si afferma che il fine ultimo della società politica dovrebbe essere la vita buona dei suoi membri, adesso si analizza la teoria tomista asserendo che il singolo, per vivere bene, dovrebbe proporsi come fine la realizzazione del bene comune della comunità, ossia la vita virtuosa di tutti i suoi membri. Secondo Chalmeta, entrambe le letture sono valide, sulla base del De regno I, 15, dove l’Aquinate scrive che “bisogna che il fine della comunità coincida con quello del singolo”. L’autore dà grande importanza all’affermazione tomista homo homini naturaliter amicus (S.Th. II-II, 114, 1 ad 2): Tommaso considera il bene umano come bene comune in quanto tale. Non è solo l’utilità (ambito dei mezzi) che fa sì che l’uomo sia naturalmente socievole e politico, ma è la stessa natura umana ad implicare che la collaborazione fra gli uomini si dia persino nell’ambito dei fini: gli uomini desiderano una felicità comune, che deriva dal desiderio della propria felicità. Perché? Per il fatto che ciascun uomo è per natura amico di tutti gli uomini. «Per il nostro autore, l’amicizia, ossia l’amore verso l’altro che mette a frutto questa inclinazione naturale dell’uomo fa sì che la cosa (o la persona) stessa che è amata venga ad unirsi in qualche modo a chi l’ama: il bene o la virtù altrui diventa in questo modo un bene anche mio, un bene comune» (pp. 98-99). San Tommaso si rende conto che c’è una distinzione ed una gerarchia nella costituzione dei vincoli di amicizia tra persone. Ci sono diversi sistemi di relazioni sociali, cui corrispondono diversi tipi di amicizia e diversi tipi di beni comuni. Per Chalmeta ci sono fondamentalmente tre tipi di beni comuni: il bene comune della famiglia, quello dei rapporti di lavoro, e il bene comune politico. Quest’ultimo, fondato sull’amicitia concivium, viene studiato nell’ultimo capitolo di questo saggio: L’attuazione del bene comune politico: dall’ideale alla realtà. Chalmeta sostiene che da un’ottica tomista, il compito di attuare esistenzialmente il fine ultimo della vita appartiene in modo incomunicabile a ciascuno. Nel contempo, la vita buona del singolo può crescere solo nel “clima” di una comunità amicale. Perciò, la realizzazione esistenziale della vita buona spetta anche ai gruppi amicali, in particolar modo alle famiglie. Poiché i legami amicali dell’uomo virtuoso non devono però escludere nessuno, tendenzialmente abbracciano tutti i membri della comunità politica. A sua volta, tale società è chiamata a contribuire alla vita virtuosa dei propri cittadini. Come agiscono sia i cittadini virtuosi, sia la società, per raggiungere lo scopo della vita buona? Principalmente creando le condizioni di possibilità della vita virtuosa, che sono l’unità della pace e il bene materiale. Inoltre, Chalmeta considera che il fine specifico del bene comune politico è, con parole di Tommaso, “stimolare i sudditi a diventare virtuosi”. Questo fine specifico, «pur essendo incombenza principale di ogni cittadino in quanto tale e dell’intera società politica, lo è soltanto in modo sussidiario ed indiretto. Da parte loro, più che altro, richiederà un serio sforzo per creare quelle condizioni più idonee, affinché altri agenti sociali, specialmente le fami- 362 recensioni glie, possano occuparsene direttamente e con successo» (pp. 113-114). Chalmeta presenta i due strumenti fondamentali per creare tali condizioni: l’influsso benefico degli usi e costumi sociali e gli interventi mirati dell’autorità pubblica (soprattutto le leggi). Dalla presente lettura della filosofia politica di san Tommaso emerge un progetto di società dove ogni membro della comunità gode di un valore incommensurabile, in virtù della sua dignità. Ma tale dignità è relazionale: la libertà umana è una libertà “per” gli altri, che deve creare reali possibilità di autodeterminazione. Il bene comune politico tomista ha compiti etici, ma san Tommaso non crea uno Stato etico more hegeliano: fa parte dell’essenza del bene comune politico favorire la libera autorealizzazione dei cittadini, uniti da legami di amicizia civica. Secondo Chalmeta, Tommaso oggi raccomanderebbe di applicare il principio di sussidiarietà per porre rimedio al malessere della società del benessere: lo Stato deve favorire l’iniziativa dei gruppi del Terzo settore (famiglia, volontariato, scuola), che creano le condizioni adeguate per l’amicizia civica (o solidarietà). Il saggio del prof. Chalmeta è realmente profondo ed originale. Attraverso le frequenti analisi dei testi di Tommaso, e senza forzature, Chalmeta pone dei problemi di scottante attualità, quali il diritto alla vita, il rispetto delle minoranze, il problema del fondamentalismo. Questo saggio è un esempio di tomismo ben inteso: non è la semplice riproposta di teorie medioevali caduche, ma la riflessione, a partire dai principi tomisti, sui problemi della società attuale. Tommaso dialogò con tutte le correnti culturali del suo tempo. I discepoli dell’Aquinate dovrebbero seguire la stessa strada. Chalmeta lo fa e con successo. Mariano FAZIO 363 ACTA PHILOSOPHICA, vol. 9 (2000), fasc. 2/recensioni Alejandro LLANO, Humanismo cívico [Ariel Filosofía], Ariel, Barcelona 1999, pp. 219. ■ La constatazione da cui muove questo saggio è ogni giorno che passa più palese: la crisi strutturale, e non puramente congiunturale, del Welfare State o Stato sociale classico. Tutti noi abbiamo purtroppo potuto sperimentare, in prima persona, le carenze che in numero sempre crescente manifesta questa forma di organizzazione politica: sia quelle più di fondo, che riguardano importanti aspetti della nostra libertà in quanto cittadini comuni oppure in quanto minoranze; sia quelle forse meno gravose, ma quotidiane, imputabili all’inflazione giuridica, al vecchio problema della burocratizzazione, ecc. Anzi, non è assolutamente da escludere che possiamo riconoscere in noi stessi i sintomi di quella grave “malattia”, causata da tutte queste circostanze negative, che si è soliti denominare anomia: la disaffezione o persino il malcontento e la ribellione verso tutto ciò che è politico. Di conseguenza, diventa sempre più difficile trovare persone spontaneamente propense a sacrificare alcune delle loro libertà a favore dell’affermazione attraverso gli automatismi dello Stato sociale delle libertà degli altri. Le più gravi conseguenze di questa malattia sociale sono state finora evitate grazie ad alcuni interventi trasformisti, miranti alla realizzazione del cosiddetto «Stato del welfare sostenibile». Esistono diverse interpretazioni sulle caratteristiche precise che dovrebbe avere questo Stato sociale in versione ridotta. Mentre alcuni (perché più socialisti, ossia “lab”) chiedono solo il ridimensionamento di alcune prestazioni sociali, l’impedimento di abusi e duplicazioni, lo spostamento delle risorse dai gruppi sovraprotetti a quelli sottoprotetti, la migliore armonizzazione tra assicurazione statale, aziendale e privata, altri (perché più liberali, ossia “lib”) vorrebbero invece che venisse operata una demolizione quasi totale dello Stato sociale, riducendo il sistema pubblico di sicurezza sociale alla garanzia dei minimi vitali ed a cure mediche assolutamente fondamentali. Quando però si esamina il nocciolo filosofico e sociologico di ciascun programma, spesso, troppo spesso si scopre che in entrambi i casi si tratta di un 364 recensioni semplice tentativo di matrice ancora una volta utilitarista (con qualche spruzzatina di contrattualismo) volto mantenere in piedi alcuni degli elementi del vecchio impianto politico: infatti, «el planteamiento lib/lab no pasa de ser una fina reelaboración de la visión moderna que sitúa en el vértice y en el centro de la sociedad, respectivamente, al Estado y al mercado» (p. 13); l’ultimo nel ruolo di motore della società, il primo in quello di detentore del «monopolio de la benevolencia» (p. 17). Ma questo vecchio palazzo, secondo l’opinione (a mio avviso più che giustificata) di Alejandro Llano, sarebbe ormai inagibile, a meno di pagare un prezzo troppo alto in termini di diritti sociali (dei malati terminali, dei prigionieri, degli handicappati, degli anziani...) nonché, soprattutto, di disumanizzazione dei diversi settori della vita, a cominciare da quello del lavoro (con effetti negativi sul lavoratore e, di rimbalzo, sulla propria famiglia) (cfr. Conclusión). Ci vuole, dunque, dirà il nostro autore, un impegno serio da parte di tutti per cambiare rotta; ma per operare questo cambiamento non sono più sufficienti le misure palliative: dobbiamo abbandonare definitivamente il moderno paradigma della giustizia politica e del Diritto, cercando da qualche altra parte un modello nuovo. L’augurio del prof. Llano è che il modello scelto sia quello che lui a voluto chiamare, sulla scia di Hans Baron e dei suoi studi sulla Firenze rinascimentale, Civic humanism o Humanismo cívico; un lemma che in italiano dovremmo forse tradurre come “Umanesimo civile”. Esso, in estrema sintesi, propugna una società contrassegnata da tre caratteristiche inseparabili. «La primera y más radical es, sin duda, el protagonismo de las personas humanas reales y concretas, que toman conciencia de su condición de miembros activos y responsables de la sociedad, y procuran participar efectivamente en su configuración política. En segundo lugar figura la consideración de las comunidades humanas —en sus diferentes niveles— como ámbitos imprescindibles y decisivos para el pleno desarrollo de las mujeres y de los hombres que las componen, los cuales superan de esta forma las actitudes individualistas, para actuar como ciudadanos dotados de derechos intocables y de deberes irrenunciables. Por último, el humanismo cívico vuelve a conceder un alto valor a la esfera pública, precisamente porque no la concibe como un magma omniabarcante, sino como ámbito de despliegue de las libertades sociales como instancia de garantía para que la vida de las comunidades no sufra interferencias indebidas ni abusivas presiones de poderes ajenos a ellos» (p. 15). Due autori contemporanei, fra tutti, sembrerebbero aver avuto un influsso più determinante nella configurazione di questo umanesimo civile: il sociologo italiano Pierpaolo Donati, senz’altro uno dei più attenti e penetranti osservatori della società attuale, ed il filosofo Alasdair MacIntyre. A quest’ultimo riguardo è però opportuno notare (anche se forse la stessa osservazione potrebbe essere sottoscritta da MacIntyre), che la proposta del prof. Llano si mantiene sempre lontana dai binari comunitaristi, «en cuyo curso acontece un error categorial consistente en la pretensión de aportar un sentido comunal y humanamente abarcable al propio aparato administrativo del Estado-nación; tarea indeseable, a fuer de contradictoria» (p. 192). La riflessione scorre veloce, amena (a tratti, quasi ridente) e piena di spunti e suggerimenti che spronano continuamente il lettore a riflettere per conto proprio. 365 recensioni Il prezzo di tutto questo è un certa mancanza di sistematicità nell’esposizione, la quale però non è sinonimo di disordine né, tanto meno, di incoerenza o confusione. Avviene semplicemente che essa, come si suol dire, ha un suo ordine, che sfugge ad ogni tentativo di razionalizzazione. In questo senso, i quattro capitoli attorno a cui appare strutturato il discorso non rispecchiano bene né il numero né la varietà e ricchezza degli argomenti trattati. Più che altro per dovere di cronaca, riporto i titoli dei capitoli in questione: Cap. I: «¿Qué es el humanismo cívico?» (pp. 15-53); Cap. II: «La razón pública» (pp. 55-97); Cap. III: «Democracia y ciudadanía» (pp. 99-143); Cap. IV: «Imagen humanista del hombre y del ciudadano» (pp. 145-193). Chiudono il saggio alcune brevi e molto gustose considerazioni conclusive (più che una vera e propria esposizione sintetica dei risultati raggiunti), riunite sotto il titolo: «El valor de la verdad como perfección del hombre» (pp. 195-207). In questo panorama ricco e variegato, preziose mi sono sembrate le considerazioni che l’autore dedica specificamente a (ri)pensare la libertà moderna e postmoderna (specialmente nel capitolo II, nn. 3-4). Già Ch. Taylor, in un articolo non recentissimo al quale sembra riallacciarsi almeno idealmente il prof. Llano (What’s Wrong with Negative Liberty, 1979), aveva indicato i limiti e le contraddizioni della concezione negativa della libertà (o “libertà da…”), tipicamente contrattualista, nonché di una determinata concezione positiva di questa capacità umana (“libertà di…”), che sarebbe invece tipica dell’utilitarismo. Ora, la proposta specifica del nostro autore, che in questo punto si spinge ben al di là di Taylor, appare così formulata: «aunque parezca inverosímil, este trance histórico [ossia, il nostro] nos ofrece una oportunidad única de alcanzar un sentido de la libertad que supere y englobe los que hasta ahora he venido considerando, o sea, la libertad-de y la libertad-para, […] al que podríamos llamar liberación de sí mismo» (p. 87). A prescindere dalla discutibile scelta terminologica (non ci piace davvero questa «liberazione da se stessi»), ritengo che la proposta di fare della libertà in questo terzo senso la struttura portante della società politica postmoderna sia più che plausibile, nel duplice significato (sociologico ed assiologico) di questa parola. Questa idea di libertà, segnala espressamente il prof. Llano, ha molto a che vedere con l’agostiniano «amor meus, pondus meus»; ma anche, aggiungerei io parafrasando V. Solov’ëv, col potere di conoscere la verità degli altri non in maniera astratta ma essenziale, e di trasportare effettivamente grazie all’amore il centro della propria vita al di là dei limiti della nostra particolarità empirica. In questo modo, infatti, «riveliamo e realizziamo la nostra verità e il nostro valore assoluto che consistono appunto nella capacità di trascendere i limiti della nostra esistenza fattuale e fenomenica, nella capacità di vivere non solo in noi stessi ma anche negli altri» (cfr. Il significato dell’amore: II, 3). Utopia, sogno? Può darsi. È però altrettanto vero che l’incontro con la realtà (anche politica) avviene in modo compiutamente umano, solo se noi riusciamo ad avviarci in essa senza abbandonare il sogno. La vita, infatti, dà risposte soddisfacenti solo a chi sa formulare le domande e le richieste giuste. Gabriel CHALMETA 366 ACTA PHILOSOPHICA, vol. 9 (2000), fasc. 2/recensioni Alfredo Luigi TIRABASSI (a cura di), Compendio di Semantica del Dolore. 7: Filosofia del dolore, Istituto per lo Studio e la Terapia del Dolore, Firenze 1998, pp. XVI + 277. ■ Il prof. Luigi Zucchi sta coordinando, da ormai diversi anni, il programma di pubblicazione del Compendio di Semantica del Dolore, avvalendosi della consulenza di un Comitato Editoriale composto da settantotto studiosi di diverse nazioni. Finora erano stati pubblicati sei volumi: “Il dolore: basi anatomiche e fisiologiche”, “Bioetica”, “Teologia” (in due volumi), “Semeiologia del dolore” (in due volumi). Il settimo tomo è dedicato alla “Filosofia del dolore” ed è un importante complemento all’intero progetto del Compendio, che «affrontando l’articolata fisionomia del sintoma dolore sotto un profilo multidisciplinare, vuol considerare la complessità della persona umana nella sua unità psico-fisica inscindibile. È proprio per questo che compaiono nelle diverse sezioni anche le branche umanistiche che completano in maniera corale quelle scientifiche sensu strictiore» (p. 5). La convinzione del prof. Zucchi, che immagino sia condivisa dai suoi consulenti e collaboratori, è che per un corretto approccio medicopaziente siano necessarie nel primo un’adeguata formazione interiore e una visione globale dell’uomo (cfr. ibidem), raggiungibili grazie a una preparazione culturale non settoriale. Al volume che sto recensendo hanno lavorato A. Benaglia, N. Della Casa, R. Melli e F. Negri, sotto la direzione di A.L. Tirabassi, autore dell’Introduzione. Come nelle pubblicazioni precedenti, tutti i testi, compreso l’indice dei nomi, sono in italiano e in inglese. L’impostazione scelta è quella di un dizionario, che presenta in ordine alfabetico quarantuno concezioni del dolore umano, situate in un arco di tempo che va dalla cultura greca ad un libro di S. Natoli, pubblicato nel 1986. Ho utilizzato il termine generico di “concezioni” perché talune voci si riferiscono a un’intera corrente di pensiero, quali l’Illuminismo francese, il Mito greco, i Presocratici, lo Scetticismo e lo Stoicismo. Originale ed utile la conclusiva “Tavola sinottica sto- 367 recensioni rico-filosofica”, in cui sono inquadrate le concezioni esposte, accanto ad una colonna degli eventi storico-politici (comprendenti però anche alcuni fatti culturali e religiosi) e ad un’altra colonna con i momenti principali dell’evoluzione della scienza medica. Nell’introduzione viene offerta un’utile chiave di lettura, ricordando che attualmente sta cambiando l’atteggiamento di fronte al dolore anche a causa della mentalità tecnologica imperante: «l’uomo contemporaneo non ha più la percezione immediata dell’ineluttabilità del dolore; di fronte alla eventualità del dolore la prima domanda non è più una ricerca di senso, la domanda di Giobbe, ma il quesito tecnologico sulla possibilità di eliminarlo o almeno di ridurlo. Si è aperta quella che, con un po’ di enfasi, potremmo chiamare era analgesica, un’era in cui il dolore non è un dato ma una frontiera da spostare sempre più lontano» (p. 13). Malgrado ciò, il problema della sofferenza resta in tutta la sua profondità, perché comprende non solo il dolore fisico ma anche quello psicologico e morale. Ma volendo anche limitarsi al dolore fisico, l’approccio esclusivamente “analgesico” «non può donarci nessun Giobbe perché impedisce quel corpo a corpo col dolore che solo può rafforzarci e renderci più solidi di fronte ad esso. Il paradosso di tutto ciò è che la tecnologia è meno forte di quanto vorremmo e la convivenza col dolore, benché occultata, è ancora quotidiana, mentre l’illusione di una battaglia già vinta ci ha spogliati molto più rapidamente delle nostre difese morali. Il dolore è poco meno forte e noi molto più deboli» (p. 15). Tale diagnosi si ricollega con le riflessioni di S. Natoli, secondo il quale la tecnica rimuove il dolore ma non lo supera e pertanto lo lascia emergere come ansia, in una cultura secolarizzata in cui viene meno l’offerta di senso all’esperienza dolorosa (cfr. p. 175). Per inquadrare le diverse concezioni presentate in queste pagine è utile la panoramica storica dell’introduzione, sintetica ma precisa; rilevo solo una coloritura forse eccessivamente fosca dell’epoca medioevale (cfr. p. 19). In questa sezione viene spiegato che era oggettivamente difficile operare una scelta tra gli autori di circa ventisette secoli, ma mi sembra che quelli proposti siano effettivamente tra i più rappresentativi riguardo all’argomento in esame. Mi è parsa adeguata, inoltre, la formula adottata per le singole presentazioni: non una semplice antologia né una mera interpretazione critica, ma un’esposizione equilibrata in cui la parola è data soprattutto ai testi di alcune opere, sobriamente imbastiti. Trattandosi di un dizionario, non viene offerta una valutazione delle varie tesi, che talvolta, come nel caso di Nietzsche, appaiono in tutta la loro contraddittorietà. Certamente, il periodo per il quale era più complesso operare una cernita è il Novecento, anche perché ci è più vicino; personalmente, alla presentazione della teoria di D.C. Dennett (che non appare molto significativa) avrei preferito quella delle opere di G. Marcel o di L. Pareyson; mi è sembrata, invece, quasi inattesa e sorprendente la forza dei testi di Simone De Beauvoir, almeno nella selezione offerta. A parte ciò, comunque, il risultato finale va giudicato senz’altro positiva- 368 recensioni mente, tenendo presente che si è trattato di un compito non facile. Lo studioso di filosofia potrà probabilmente trovare in talune voci qualche semplificazione o piccola imprecisione, ma va ricordato che l’opera non è stata concepita per soddisfare gli specialisti, bensì per rendere più agevole a quanti sono impegnati nello studio e nella terapia del dolore l’approccio con la visione filosofica del problema. I volumi non sono in vendita; gli studiosi dell’argomento possono richiederli all’Istituto per lo Studio e la Terapia del Dolore, Via Venezia 10, 50121 Firenze. Francesco RUSSO 369 ACTA PHILOSOPHICA, vol. 9 (2000), fasc. 2/recensioni Jeremy J. WHITE, A Humean Critique of David Hume’s Theory of Knowledge, edited by John A. Gueguen, University Press of America, Oxford 1998, pp. IX+180. ■ Quest’opera è stata pubblicata postuma da John A. Gueguen che ne ha curato l’edizione e aggiunto una prefazione, in cui spiega che il suo intervento sull’opera di White si è limitato a piccole correzioni e miglioramenti stilistici senza nulla aggiungere o togliere al libro che, stando al progetto originale, avrebbe dovuto contenere altri due capitoli. Comunque, ci spiega lo stesso Gueguen, il manoscritto nello stato in cui lo lasciò l’autore — deceduto nel 1990 — si presenta come un’opera completa e coerente. Inserisce inoltre una breve nota biografica sull’autore, nato in Inghilterra nel 1938 e laureato a Cambridge e che volse la sua attività docente per più di venti anni in Kenya e in Nigeria. L’opera parte dallo schema della Enquiry Concerning Human Understanding (Ricerca sull’intelletto umano, 1748), che si presenta come il lavoro fondamentale per capire la filosofia della conoscenza della maturità di Hume. I riferimenti al Treatise of Human Nature (Trattato sulla natura umana, 1739-1740) sono frequenti e dimostrano una dimestichezza notevole con la massiccia opera giovanile del filosofo scozzese. Sono anche frequenti i collegamenti con altre opere dello stesso Hume, ma il pregio maggiore di questo libro è la prospettiva aperta che ci offre delle idee humeane. Infatti, con le frequenti osservazioni sulla “filiazione” delle nozioni humeane rispetto alle diverse tradizioni filosofiche — che sebbene attingano principalmente alle correnti empiristiche non sono prive di un’importante eredità cartesiana — ci propone una “mappa” abbastanza riuscita della proposta globale di Hume, guidandoci sia dall’interno del sistema humeano che a partire dalla storia delle nozioni che condivide con i filosofi che lo hanno preceduto. Allo studioso di Hume mancheranno i riferimenti alle interpretazioni più recenti dello scetticismo humeano (Norton, Baier), ma invece troverà spunti interessanti di altri critici di Hume, o di pensatori che vedono da prospettive diverse 370 recensioni i problemi fondamentali dell’empirismo, come Maritain, S.L. Jaki, Gilson, Fabro, Tommaso d’Aquino e Aristotele. Ai tre brevi capitoli introduttivi — “Introduzione”, “Influenze su Hume”, “Il Trattato sulla Natura Umana nell’insieme della filosofia di Hume” — fa seguito uno molto lungo, che in realtà comprende dieci brevi capitoli, presentati come sections, riproponendo i titoli delle singole sezioni della Ricerca sull’intelletto umano. In realtà l’opera di Hume è composta da dodici sezioni, e White non arriva nella sua critique ad una valutazione indipendente delle ultime due, che trattano temi molto importanti: da una parte la considerazione della Provvidenza divina e della vita eterna, e dall’altra una valutazione della filosofia scettica (sezioni 11 e 12 della Ricerca di Hume). Ciononostante, White fa nelle sezioni precedenti molte osservazioni che riguardano questi problemi, perché sono intimamente collegati alle sezioni 4 e 5 per quanto riguarda lo scetticismo, e alla sezione 10 per i problemi di fondo della concezione della religione nelle opere di Hume. Nel primo capitolo, White fa un riassunto della vita e delle opere di Hume, rintracciando i fatti fondamentali della biografia intellettuale del filosofo. I riferimenti alla tuttora insuperata biografia di Mossner (The life of David Hume, 1954) vengono complementati con informazioni tratte dall’autobiografia dello stesso Hume e dal suo epistolario. Nel secondo capitolo — sulle influenze di altri filosofi sul pensiero di Hume — l’autore ripercorre sinteticamente le strade del nominalismo per rapportarle all’empirismo inglese, senza trascurare gli sviluppi dello scetticismo francese del seicento — dagli antecedenti in Montaigne fino all’Illuminismo, passando per Bayle —, i tentativi di superazione del razionalismo cartesiano, e il grande influsso della rivoluzione scientifica sui filosofi dei secoli XVII-XVIII. I diversi atteggiamenti dei filosofi nei confronti della fede, divenuti più un problema di psicologia della religione che di verità e di fondazione delle istituzioni religiose, sono affrontati direttamente. Il capitolo sulle linee generali del Trattato sulla natura umana è una breve introduzione ai grandi temi della filosofia humeana (custom, habit, belief) con i quali il filosofo scozzese si oppone al razionalismo. Segue la spegazione di alcune delle interpretazioni più importanti del pensiero di Hume. Nel capitolo quarto si inizia lo sviluppo della Ricerca sull’intelletto umano, con la discussione sui diversi tipi di filosofia, tema di una sezione che non è altro che una dichiarazione di principi sulla superiorità delle filosofie di stampo pragmatico su quelle speculative. La vera metafisica dovrà avere una missione morale e lasciare da parte gli sterili problemi delle polemiche scolastiche (per Hume, scolastico vuol dire soprattutto razionalistico). Il ruolo dello scetticismo sarà fondamentale nella mentalità del filosofo, perché un giusto dosaggio di incredulità, abbinato alle tendenze della nostra natura che si traducono in un senso morale — molto vicino alle dottrine del senso comune dell’epoca — gli darà una visione equilibrata dei problemi umani. Con queste ultime annotazioni, White ricollega l’inizio della ricerca alla sezione conclusiva, che come si è detto non ha avuto un capitolo proprio. Vale la pena sottolineare la critica che White indica 371 recensioni nella nota numero 7, che riprende la nozione classica di facoltà per far vedere come si impoverisce lo studio della conoscenza se il punto di vista sono le idee come cose reali, e non come oggetti dipendenti dall’atto di conoscere, e quindi come oggetti intenzionali, che hanno una essenza semplicemente polarizzata verso le cose reali. Nel capitolo successivo si entra nella discussione sull’origine delle idee, e si sottolinea il carattere cartesiano della nozione di idea in Hume, tramandata da Locke e molto legata alle funzioni dell’immaginazione, descritta da molti autori come una concezione pittorica (pictorial) della conoscenza. L’associazione delle idee, principio rapportabile alla gravitazione della fisica di Newton, è descritta da Hume come una gentle force nel Trattato, e nella Ricerca mantiene il suo ruolo di motrice delle idee, che senza di essa resterebbero come esistenze isolate. Così i collegamenti causali — il cemento dell’universo — si possono spiegare in poche parole. Nel capitolo sulle soluzioni scettiche ai problemi delle sezioni precedenti (corrispondente alla sezione quarta della Ricerca), vengono messe in relazione diverse critiche sui limiti della posizione humeana. Brentano, Anscombe, Flew e Aristotele offrono le basi per aprire il discorso della causalità e dell’induzione oltre i confini della proposta fenomenalistica di Hume. Nel capitolo successivo si descrive il cosiddetto naturalismo humeano, che si presenta come uno sfondo metafisico indimostrabile che ci permette di fidarci della regolarità dei fenomeni perché è la natura stessa a provvedere una meccanica stabile. Così l’assuefarsi alla sequenza uniforme dei fenomeni trova un riferimento saldo e l’uomo può prevedere e calcolare i movimenti della natura, e degli altri uomini in quanto appartenenti alla stessa natura. Il capitolo seguente, sulla probabilità, è molto legato a questa concezione della natura. Il carattere regolare dei processi naturali percepiti è il limite delle nostre ricerche. Da lì si passa al capitolo sulla connessione necessaria, nel quale si ricorda la concezione della libertà nel pensiero di Hume. Seguendo il filo del discorso delle sezioni 5 e 6, nella settima e nell’ottava si presenta la natura come limite alle nostre ricerche perché i fenomeni interni della mente sono misteriosi quanto quelli esterni, e dobbiamo assoggettarci ai risultati delle statistiche per “calcolare” il comportamento umano. White rivolge una critica seria a questa nozione “provvidenzialistica” della natura, facendo vedere quanto sia vicina ad alcune posizioni classiche che però attribuivano tale qualità ad un Creatore della natura. Gilson è chiamato in causa in questo argomento, per sottolineare gli estremi cui è pervenuto Hume nel criticare la posizione malebranchiana e cartesiana, che svalutando la natura rende inintelligibile il rapporto anima-corpo. Per Hume, basta sentire (to feel) che abbiamo un dominio sul nostro corpo, senza moltiplicare le spiegazioni di tipo metafisico. La critica di Anscombe, che distingue fra necessità e causalità dimostra che la nozione humeana della causalità è riduttiva. La sezione 9, Sulla ragione degli animali riprende quasi letteralmente la sezione 16 della parte terza del libro 1 del Trattato. Con il lavoro delle sezioni 372 recensioni precedenti si può affermare senza esitazioni che le differenze fra gli animali e l’uomo non sono qualitative, perché la ragione si trova al livello degli istinti e delle passioni. Sebbene le dichiarazioni di Hume in questo senso abbiano molte volte un carattere retorico, partendo dalle sue premesse è facile arrivare a posizioni comportamentistiche come quella di Skinner. White si limita a mostrare, seguendo Flew, come sia ancora una volta il dualismo cartesiano a produrre posizioni così divergenti dalla sua, e facendo riferimento a Fabro ricorda come una precisa analisi delle operazioni della mente umana porta alla scoperta della spiritualità come irriducibile ai fenomeni dipendenti dalla materia. Nella sezione 10 — sui miracoli — si presenta la credenza nei fatti straordinari come qualcosa di inaccettabile secondo lo schema spiegato in precedenza: secondo Hume, le testimonianze su fatti che vanno contro “la media” sono da ritenere false, e l’uomo saggio sa di doversi regolare secondo quelle regole statistiche e di moderare le credenze in fatti che le contraddicano. Il popolino dovrebbe aderire a questa posizione, e non lasciarsi trascinare dal piacere che producono i racconti straordinari o le prediche di ferventi ministri delle diverse sette. White riporta le critiche di Lewis e di Newman che vanno contro questa riduzione humeana delle credenze religiose alla nozione generale di credenza. Nella prima si denuncia il carattere circolare dell’argomentazione, e in quella di Newman si ribadisce la possibilità di trovare una regolarità nell’agire divino, se non si rinuncia a priori agli sviluppi di una teologia naturale. White riassume i problemi collaterali della posizione humeana, che vuole togliere autorità alle religioni istituzionalizzate in quanto basate su fatti soprannaturali e miracolosi che si possono mettere assieme ai “miracoli” attribuiti agli imperatori romani o agli dèi del paganesimo antico, e collega il discorso della Ricerca alla Storia di Inghilterra in cui Hume esercita il suo criterio di interpretazione con i fenomeni religiosi, sulla scia delle concezioni illuministiche della storia. White non fa riferimento all’opera fondamentale di Hume a questo riguardo, la Storia naturale della religione. Alla fine è stato inserito a modo di Appendix il testo della conferenza inaugurale del seminario della Faculty of Arts dell’Università di Lagos (Nigeria), sostenuta dall’autore nel 1986. Nel titolo — Le scienze umane, strada verso la saggezza — si rispecchia ciò che è ribadito nel contenuto della conferenza: la concezione della filosofia e degli altri saperi liberali quali poli di gravitazione per ridare all’insieme delle scienze una guida e una finalità coerenti. Juan A. MERCADO 373 374 schede bibliografiche ■ Jorge J.E. G R A C I A (a cura di), Concepciones de la metafísica [Enciclopedia Iberoamericana de Filosofía 17], Trotta, Madrid 1998, pp. 357. La collana “Enciclopedia Iberoamericana de Filosofía” ha pubblicato il primo dei due volumi previsti di metafisica: uno studio delle principali caratterizzazioni che la metafisica ha ricevuto lungo la storia della filosofia (il secondo invece si intitolerà “Questioni metafisiche”, e si annuncia come una considerazione più sistematica). Come il resto dei volumi della collana, il libro è un’opera collettanea, nella quale diversi autori iberoamericani scrivono sugli argomenti di cui sono specialisti. L’opera comincia con l’articolo di Santa Cruz su Platone e il neoplatonismo — che dà una spiegazione soprattutto cronologica — e quello di Gómez-Lobo su Aristotele, in cui si fa attenzione principalmente al rapporto fra ontologia e teologia. Di seguito, nel suo contributo sul medioevo Bazán sottolinea lo sforzo fatto in quell’epoca per unificare la concezione platonica e quella aristotelica, e si sofferma sulle diverse spiegazioni che si diedero dell’oggetto della metafisica e, di conseguenza, sui diversi rapporti che si stabilirono tra Dio e l’ente, e fra teologia naturale e ontologia. Nel suo articolo su Suárez, Gracia — che è il curatore dell’opera e l’autore anche di un’interessante introduzione — si propone di studiare il ruolo di questo pensatore spagnolo come precedente del processo di “mentalizzazione” proprio del pensiero moderno: la tesi sostenuta da Gracia sarà che Suárez stesso non sarebbe caduto in nessuna sorta di mentalismo. Tocca poi esporre le conseguenze che sulla concezione della metafisica ebbero l’ottimismo razionalista (Madanes) — i cui autori si domandano come dev’essere il mondo perché sia comprensibile — e l’empirismo britannico (Junqueira): considerando il modo in cui Locke, Berkeley e Hume comprendono la metafisica, si cerca di correggere in alcuni punti l’interpretazione tradizionale, che vede nell’empirismo insulare un avversario di essa; l’autore invece ci tiene a sottolineare, da una parte, la discontinuità fra questi tre pen- 375 ACTA PHILOSOPHICA, vol. 9 (2000), fasc. 2/schede satori, e dall’altra, che, almeno in Berkeley e Hume, si tratta più di un tentativo di riformulare la metafisica che semplicemente di negarla. Torrevejano studia il modo in cui la trasformazione della filosofia operata da Kant si ripercuote sulla sua opinione riguardo alla metafisica. Così, sebbene egli sia un severo critico delle formulazioni razionaliste della metafisica, allo stesso tempo ammette un altro senso in cui essa è accettabile: un sapere che ha anche la libertà, Dio e l’immortalità dell’anima come oggetto, ma che li considera solo come idee regolatrici. Non potevano certamente mancare i contributi su Hegel (Díaz) e su Husserl (Presas); e in un’opera rivolta principalmente al pubblico di lingua spagnola risulta anche opportuna la scelta di due spagnoli assai significativi per i loro contributi alla metafisica: Ortega e Zubiri (Cerezo). Non poteva neanche mancare un riferimento alle più importanti critiche rivolte alla metafisica nei due ultimi secoli: il positivismo del secolo XIX (Martí) e il positivismo logico (Blasco); e per finire si aggiunge il contributo di Velarde sulla filosofia analitica, che oscilla da decenni fra una posizione originaria antimetafisica e una riscoperta di alcune delle tesi aristoteliche. Come qualsiasi opera di questo genere, i contributi sono di diverso valore, ma il risultato complessivo è abbastanza soddisfacente, e può essere utile a chi, avendo già una formazione di base in storia della filosofia, vuol studiare più in particolare le “concezioni della metafisica” che hanno i più importanti filosofi. M. PÉREZ DE LABORDA 376 Luigi PAREYSON, Kierkegaard e Pascal, Mursia, Milano 1998, pp. 277. Prosegue la pubblicazione delle Opere complete di Luigi Pareyson, promossa dal Centro Studi filosofico-religiosi a lui intitolato. Nel presente volume, curato da Sergio Givone, sono raccolti tre scritti introvabili: L’etica di Kierkegaard nella prima fase del suo pensiero, del 1965; L’etica di Kierkegaard nella “Postilla”, del 1971; infine, L’etica di Pascal, del 1966. L’autore li aveva elaborati perché fossero dei sussidi per gli studenti dei suoi corsi universitari, ma non hanno nulla dei difetti che possono accompagnare quanto viene chiamato una “dispensa”: secondo il suo stile, il professore dell’Università di Torino non viene meno all’estrema precisione e illustra tutto ciò che serve per capire gli argomenti esposti e soltanto ciò che serve, fornendo un esempio di matura capacità didattica. Si tratta pertanto di tre saggi indipendenti, ma il comitato editoriale della collana ha giustamente deciso di presentarli assieme non solo per le evidenti affinità dei due autori esaminati, ma anche perché entrambi sono ispiratori di quell’esistenzialismo, dai caratteri ben precisi, in cui lo stesso Pareyson si riconosceva. In effetti, queste pagine permettono di capire meglio la genesi dei densi saggi pubblicati in Esistenza e persona e illuminano le diverse intonazioni del pensiero pareysoniano, dal personalismo ontologico fino alla filosofia della libertà (a quest’ultimo riguardo, è significativo quanto si legge a p. 135). Il curatore del libro ha inserito una utile premessa ai due scritti su ACTA PHILOSOPHICA, vol. 9 (2000), fasc. 2/schede Kierkegaard e un’altra a quello su Pascal, precisando alcune circostanze storiografiche ma soprattutto sintetizzando le tesi pareysoniane di fondo. Inoltre, con la collaborazione della dott.ssa F. Barigelli, ha messo a disposizione dei lettori una completa appendice di riferimenti bibliografici delle opere del filosofo danese. Con un’esposizione piacevole e gratificante, Pareyson presenta molti degli aspetti più interessanti del pensiero di Kierkegaard (la contrapposizione tra vita estetica e vita etica, la soggettività e l’esistenza, la critica alla speculazione e la scelta per il cristianesimo) e di Pascal (la nozione di scienza e di morale filosofica, il problema dell’esistenza di Dio e dell’immortalità dell’anima, il rapporto tra ragione e fede, il concetto di “cuore”); non si attarda in valutazioni o giudizi critici, anche se affiorano qua e là, con discrezione, il suo consenso o le sue riserve su determinate affermazioni. La sua opera è un esempio di corretta ermeneutica, aderente ai testi e guidata da una congenialità intellettuale con gli autori studiati. F. RUSSO TOMÁS DE AQUINO, Comentario al libro de Aristóteles “Sobre la interpretación”, traducción e introducción de Mirko SKARICA, estudio preliminar y notas de Juan C R U Z C R U Z , Colección de pensamiento medieval y renacentista, Eunsa, Pamplona 1999, pp. LI + 202. La “Colección de pensamiento medieval y renacentista” di Eunsa giunge al suo quinto titolo ed al secondo per quanto riguarda una traduzione di opere di San Tommaso, dopo le Cuestiones disputadas sobre el alma. Il celebre commento di San Tommaso al Perihermeneias di Aristotele è presentato da Mirko Skarica in versiona spagnola, corredata da abbondanti e precise note e commenti storico-filosofici del prof. Juan Cruz che, assieme alle due introduzioni, mette a disposizione una miniera straordinaria per lo studio di un’opera profonda e di non facile assimilazione, che affronta molti problemi filosofici che stanno alla base di quasi tutte le proposte ermeneutiche e della filosofia del linguaggio. Dopo l’introduzione di stampo teoretico di Juan Cruz (Ontología de la palabra), nella quale viene riproposta in termini classici la filosofia del linguaggio e della parola, in rapporto alle facoltà conoscitive (sensi esterni, immaginazione, intelletto), l’autore della traduzione fa un resoconto del percorso storico del testo di S. Tommaso, dei diversi manoscritti e delle traduzioni antiche e moderne, e subito dopo offre un quadro dei problemi fondamentali dell’opera di Aristotele e del commento tommasiano. Non presenta, però, il testo latino. Le note a piè di pagina completano i riferimenti di S. Tommaso e rimandano ai passi paralleli della stessa opera o di altre, sia di Aristotele che dello stesso Aquinate; talune annotazioni hanno un tono decisamente esplicativo, riportando le interpretazioni di altri commentatori e presentando riassunti delle diverse posizioni con le quali si possa completare il senso delle spiegazioni più profonde del commento medievale. Forse sono tali collegamenti 377 ACTA PHILOSOPHICA, vol. 9 (2000), fasc. 2/schede il pregio maggiore di questa edizione, che oltre a rendere più accessibile il testo in se stesso, offre una visione panoramica dei problemi trattati. In questo modo, il lavoro comune di Skarica e Cruz si presenta come un valido strumento per coloro che si avviano alla ricerca dei problemi dell’ermeneutica classica, e come una fonte di consultazione per chi vi si è già inoltrato. J.A. MERCADO Aldo VENDEMIATI, In prima persona. Lineamenti di etica generale, Urbaniana University Press, Roma 1999, pp. 140. L’autore del presente manuale, ben consapevole di insegnare etica in quel Villaggio Globale Multietnico che contraddistingue l’attuale società postmoderna in cui ci troviamo a vivere, ha voluto mettere a frutto in questo prezioso, breve manuale di etica fondamentale, tutta la sua esperienza didattica. La sua scelta di campo viene dichiarata fin dal titolo (Etica di prima persona: ovvero a partire dalla prospettiva del soggetto agente; oppure, se si preferisce, etica delle virtù versus etiche della legge), e dal prologo, in cui si indica nell’opzione fenomenologica il taglio più adeguato ed efficace all’insegnamento della materia nelle circostanze attuali. Insomma, partiamo dal metodo induttivo per attrarre il pubblico più vasto possibile alla riflessione ed alle problematiche dell’etica, risalendo fino ai principi. Specialmente in campo morale, comprendere quale sia l’essere di chi mi sta di fronte (ovvero che tipo 378 di persona sia, e quindi la sua consistenza morale) dipenderà innanzitutto dal suo comportamento, dalla sua corrispondenza tra dire e fare, logos e praxis. Agere o operari sequitur esse. Iniziamo dunque dall’agere. La struttura del libro mantiene fede a questa impostazione anche quando, descrivendo l’esperienza morale, sceglie di partire innanzitutto dal dovere; ma non per restarvi kantianamente ancorato, bensì per scoprire che l’esperienza del dovere implica un perché. Proprio tale ulteriore perché (che non si spiega con il dovere stesso) è rivelativo della felicità umana, ovvero del movente basilare dell’agire volontario conforme a ragione: l’agire che arricchisce la persona attraverso la libera scelta di una condotta razionale, virtuosa e non viziosa. Pertanto, potremmo dire che debere sequitur felix esse aut felix fieri. Tradiamo l’eperienza morale e la riflessione etica quando scindiamo l’agostiniano ordo amoris. Ci sono etiche non corrispondenti alla persona, ma caso mai individualistiche, che possono nascere da un bene disordinatamente amato (fuori da un ordo); oppure di un ordine che risulta fine a se stesso (non si giustifica a tutela del bene personale, ovvero dell’amor). In fondo queste sono le due alternative del male, riconducibili ai due figli della parabola del figliol prodigo. Si parte da analisi di atteggiamenti quale stupore, rispetto, ammirazione, desiderio, scandalo, rimorso, gratificazione, ecc., per fornire in modo breve e completo, comprensivo di rapidi ed efficaci esempi, una guida etica che non trascura nessuno degli aspetti morali rilevanti, tipici di ogni manuale, ACTA PHILOSOPHICA, vol. 9 (2000), fasc. 2/schede ma descritti in modo accessibile e breve. Preziose alcune schematizzazioni, come quella che oppone le etiche oggi più diffuse, quelle universalistiche (prevalenza dell’oggettivismo, l’ordo), a quelle relativistiche (prevalenza del soggettivismo, l’amor). L’ordo resterà unito all’amor se la volontà cercherà il bene conforme a ragione, e non in un modo qualsiasi, ma attraverso la pratica libera delle virtù etiche. Proprio esse ci ricordano che non siamo angeli disincarnati, ma persone in carne ed ossa. Il vero bene, pertanto, può essere oggettivamente determinato dalla ragione, ma poi deve anche essere soggettivamente voluto dalla volontà (ed in modo virtuoso): proprio per questo un tale bene, a maggior ragione dovrà risultare anche soggettivamente attraente (con buona pace di Kant). Il che significa che anche l’inclinazione naturale al piacere (comprensiva di tutte le gradazioni fino alla gioia ed inclusiva di emozioni e passioni) ha una sua ragion d’essere, che richiede di non venire né assolutizzata, né demonizzata. Come l’autore fa giustamente notare, il tema aristotelico della felicità si trova incluso alla fine del trattato sul piacere, parte integrante dell’Etica Nicomachea. Oltre alle accurate citazioni dei classici, si nota l’attenzione che l’autore ha prestato nel redigere questa efficace guida all’etica, ad alcuni autori contemporanei quali: F. Rivetti-Barbò (specialmente per l’approccio fenomenologico), G. Abbà (cui si deve l’importante demarcazione tra etiche di prima e terza persona), M. Rhonheimer (per la organicità, chiarezza e profondità delle osservazioni sui fenomeni etici), ed altri ancora. G. FARO 379 Pubblicazioni ricevute L. ALICI, L’altro nell’io. In dialogo con Agostino, Città Nuova, Roma 1999. L. ALICI - R. PICCOLOMINI - A. PIERETTI (a cura di), Esistenza e libertà. Agostino nella filosofia del Novecento/1, Città Nuova, Roma 2000. ANONIMO, Il monaco e la regina, Giorgio Barghigiani Editore, Bologna 1999. J. ARANGUREN ECHEVARRÍA, Resistir en el bien. Razones de la virtud de la fortaleza en Santo Tomás de Aquino, Eunsa, Pamplona 2000. A. BLANCO, Historia del confesonario, Rialp, Madrid 2000. A. CAMPODONICO, Etica della ragione. La filosofia dell’uomo tra nichilismo e confronto interculturale, Jaca Book, Milano 2000. A. CRUZ PRADOS, Ethos y polis. Bases para una reconstrucción de la filosofía política, Eunsa, Pamplona 1999. L. 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Consalvi), Bonomi, Pavia 2000. 380 Indice del vol. 9 (2000) Studi Andrea Aiello La conoscenza intellettiva dell’individuale: note alla soluzione di Guglielmo de la Mare p. Daniel Gamarra Un caso di platonismo ed agostinismo medievale. Matteo d’Acquasparta: conoscenza ed esistenza p. 197 Fernando Inciarte Heidegger, Hegel, and Aristotle: A Straight Line? p. 223 Angel Rodríguez Luño Pensiero filosofico e fede cristiana. A proposito dell’enciclica Fides et ratio p. 33 Antonio Ruiz-Retegui El hombre como criatura p. 59 Paulin Sabuy La question du dualisme anthropologique. Une analyse d’après Robert Spaemann p. 241 Giuseppe Tanzella-Nitti L’enciclica Fides et ratio: alcune riflessioni di teologia fondamentale p. 87 5 Note e commenti Javier Aranguren Echevarría Eudaimonía e historicidad p. 267 Gabriel Chalmeta Aristotele e Solov’ëv sul significato dell’amore p. 277 Marco D’Avenia L’aristotelismo politico di A. MacIntyre p. 111 Giorgio Faro Anatomia del fine ultimo in Robert Spaemann p. 121 Mariano Fazio Tre proposte di società cristiana (Berdiaeff, Maritain, Eliot) p. 287 Patrick Gorevan Aquinas and Emotional Theory Today: Mind-Body, Cognitivism and Connaturality p. 141 Juan Andrés Mercado Brief comments on Capaldi’s “We Do” interpretation of humean ethics p. 313 381 José Ignacio Murillo Una aproximación al Curso de Teoría del Conocimiento de Leonardo Polo p. 319 Cronache di filosofia Estetica della formatività: due saggi recenti (F. RUSSO) Lezioni e conferenze Convegni Società filosofiche Vita accademica p. 339 p. 341 pp. 153 e 342 pp. 154 e 344 p. 157 Bibliografia tematica Sui diversi tipi di amicizia Affettività p. 161 p. 349 Recensioni R. ALVIRA, La razón de ser hombre e Filosofía de la vida cotidiana (J.A. Mercado) M. ARTIGAS, La mente del universo (M. A. Vitoria) M. ARTIGAS, Filosofía de la ciencia (M.A. Vitoria) G. CHALMETA, La giustizia politica in Tommaso d’Aquino (M. Fazio) A. LLANO, Humanismo cívico (G. Chalmeta) A. MALO, Antropologia dell’affettività (F. Russo) J. MORALES MARÍN, John Henry Newman. La vita (1801-1890) (F. Russo) A.L. TIRABASSI (a cura di), Compendio di Semantica del Dolore. 7: Filosofia del dolore (F. Russo) J.-P. TORRELL, Tommaso d’Aquino maestro spirituale (A. Aiello) J.J. WHITE, A Humean Critique of David Hume’s Theory of Knowledge (J.A. Mercado) p. 353 p. 165 p. 355 p. 358 p. 364 p. 168 p. 171 p. 367 p. 175 p. 370 Schede bibliografiche F. CONESA- J. NUBIOLA, Filosofía del lenguaje (M. Pérez de Laborda) J. FERRER ARELLANO, Metafísica de la relación y de la alteridad: Persona y relación (A. Malo) J.J.E. GRACIA (a cura di), Concepciones de la metafísica (M. Pérez de Laborda) J. NUBIOLA, El taller de la filosofía (J. A. Mercado) L. PAREYSON, Kierkegaard e Pascal (F. Russo) TOMÁS DE AQUINO, Comentario al libro de Aristóteles “Sobre la interpretación” (J.A. Mercado) A. VENDEMIATI, In prima persona. Lineamenti di etica generale (G. Faro) 382 p. 181 p. 182 p. 375 p. 183 p. 376 p. 377 p. 378 STUDI DI FILOSOFIA a cura della Facoltà di Filosofia della Pontificia Università della Santa Croce 1. J.J. SANGUINETI, Scienza aristotelica e scienza moderna, pp. 240, L. 33.000 2. F. RUSSO, Esistenza e libertà. Il pensiero di Luigi Pareyson, pp. 255, L. 35.000 3. G. CHALMETA (a cura di), Crisi di senso e pensiero metafisico [scritti di A. Aranda, S. Belardinelli, B. Kiely, A. Rodriguez Luño, J.J. Sanguineti], pp. 117, L. 22.000 4. M. RHONHEIMER, La prospettiva della morale. Fondamenti dell’etica filosofica, pp. 368, L. 42.000 5. A. MALO, Certezza e volontà. Saggio sull’etica cartesiana, pp. 200, L. 29.000 6. R. MARTÍNEZ, Unità e autonomia del sapere. Il dibattito del XIII secolo [scritti di I. Biffi, S.L. Brock, A. Livi, A. Maierù, J.I. Saranyana, L. Sileo], pp. 200, L. 28.000 7. R. MARTÍNEZ, La verità scientifica, pp. 135, L. 23.000 8. F. RUSSO – J. 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