Salire sul caravan delle culture: il Marocco Per intraprendere il nostro cammino di conoscenza delle culture e delle religioni attraverso il racconto, credo sia opportuno partire dal bel libro della sociologa marocchina Fatema Mernissi, Karawan 1 . Non si tratta propriamente di un romanzo, quanto piuttosto di un resoconto, di un diario in cui l’autrice raccoglie impressioni sulla sua terra che condensa in descrizioni rapide ed efficaci. Per la sociologa marocchina, salire sul caravan significa decidersi a intraprendere un viaggio reale e, insieme, culturale, capace di attraversare tanto i luoghi quanto i pregiudizi. Un viaggio di conoscenza, appunto, in grado di strappare il viaggiatore alla sua condizione sonnacchiosa e passiva di “turista”, ma senza costringerlo a bruschi risvegli, anzi, accompagnandolo alla ricerca di guadi per superare le rapide di stereotipi e pregiudizi, a prima vista insormontabili. Non è un caso che il libro si apra con il racconto del soggiorno in Marocco di un viaggiatore eccellente, qual è George Orwell, che, nel 1938, trascorse un lungo periodo nel Paese per risolvere alcuni problemi di salute. La Mernissi osserva acutamente che Orwell è un visitatore attento proprio perché vive la condizione limite della malattia; è un “turista malato” che non si può far scudo con una presunta sanità fisica e culturale per ignorare il volto autentico del Marocco. La sua condizione di precarietà, infatti, lo costringe a cercare se stesso in quella terra lontana, spingendolo a domandarsi con insistenza in che modo sia possibile scavalcare il muro della differenza linguistica e di costumi per giungere a comprendere un mondo tanto indecifrabile. E l’impressione più forte che egli sperimenta continuamente è quella dell’incertezza, di una scivolosità di pensiero che rende difficile orientarsi lungo i sentieri dell’alterità marocchina, impastata com’è di elementi berberi e islamici, intrecciati a tal punto da risultare non decodificabili, quasi una sorta di rompicapo culturale. Il turismo dello scrittore è, quindi, venato di inquietudine di fronte ad un mondo che pare indeclinabile a partire da categorie occidentali. E’ ovvio che la Mernissi apra il libro con la figura di Orwell, perché il lettore possa scorgere in controluce nella sua esperienza l’idea secondo la quale ogni tentativo di comprendere un mondo “altro” obblighi il cercatore a far affiorare i sintomi della propria “malattia”, ossia della propria inadeguatezza a comprendere tutto in senso assoluto. Se si desidera veramente incontrare la diversità, quindi, occorre mettersi in marcia e farsi nomadi, lasciando affiorare in sé tutte le provocazioni che l’incontro con l’alterità produce e, nello stesso tempo, evitando, per quanto possibile, di rischiarare le zone di oscurità solo con la luce della propria visione del mondo. Ma, ancora più in filigrana, il pensiero della Mernissi lascia intravedere le suggestioni dell’antropologia interpretativa, che invita proprio a non 1 F. MERNISSI, Karawan. Dal deserto al web, Giunti, Firenze-Milano 2004 arrendersi mai davanti alle apparenti incongruenze di un mondo diverso. Come afferma Lotman, infatti, è necessario che ciascuno proceda con una lenta, ma ineludibile migrazione verso la frontiera della diversità, ponendosi lungo un cammino che impedisca di bollare come semplicemente esotico il diverso. L’idea di fondo che ispira Lotman 2 è molto suggestiva: secondo l’antropologo, ogni cultura possiede una logica interna che si sposta da un centro verso la periferia dei significati, esattamente come se la cultura fosse la mappa di una città italiana, col suo centro storico di antica origine, i suoi palazzi e i suoi monumenti perfettamente conservati, e la sua periferia, che inanella il centro con quartieri più ibridi e anonimi, in cui gli stili si confondono. Se si vuole capire cosa significhi vivere in periferia, occorre spostarsi in quei quartieri, perché, se si pretende di disvelare il senso della periferia rimanendo al centro, si finirà col proiettare su di essa una serie di stereotipi e di fraintendimenti. Per comprendere, cioè, occorre necessariamente spostarsi, ossia contaminarsi. Fuor di metafora, il discorso di Lotman ci porta a concludere che, se ci si ostina a guardare una differenza rimanendo al centro dei propri significati, essa sarà sempre più assoluta e fraintesa; viceversa, se si è disposti a spostarsi, ad avvicinarsi verso il confine della cultura, trasformandosi in periferia, forse si potrà comprendere meglio quel modo di pensare. Trasferendosi, quindi, alla periferia dei significati, non solo la periferia stessa ci sembrerà meno estranea, ma riusciremo ad avvertire come meno lontano anche ciò che si protende oltre il confine della città, ossia oltre l’orizzonte della propria cultura. Nel libro della Mernissi, poi, sembra muoversi sullo sfondo un’altra intuizione molto suggestiva, elaborata da Talal Asad, docente di antropologia alla John Hopkins University, secondo cui, per comprendere l’alterità culturale, è necessario diventare degli esperti traduttori3 . Come, quando si è di fronte ad una poesia in lingua straniera, occorre cercare di penetrare il contenuto poetico per riversarlo nella propria lingua madre, compiendo un esercizio difficilissimo che comporta decine e decine di traduzioni e ri-traduzioni, così bisogna fare con una cultura diversa dalla propria, paragonabile, in ultima analisi, ad un universo poetico estremamente complesso. Optare per la prima traduzione che ci viene alla mente, significa quasi con certezza scegliere una mistificazione o una formula che generalizza. E’ necessario, invece, tentare e tentare ancora di comprendere, per dare spazio a tutte le sfumature, cercando una risonanza profonda con il mondo lontano. In sostanza, Asad – e con lui la Mernissi - ci invitano a prendere coscienza delle eccedenze di significato di una cultura rispetto al proprio mondo di riferimento, fino ad aprirci alla comprensione che una cultura è una foresta di significati, di simboli e di segni – per usare 2 Cfr. J. M. LOTMAN – N. A. USPENSKIJ, Tipologia della cultura, Bompiani, Milano 1995, p. 145 e ss. T. ASAD, Il concetto di traduzione di culture nell’antropologia sociale britannica, in: J. CLIFFORD – G. E. MARCUS (a cura di), Scrivere le culture. Poetiche e politiche in etnografia, Meltemi, Roma, p. 183 e ss. 3 la bella metafora di V. Turner 4 - in cui è estremamente difficile districarsi, se ci si rifiuta di individuare uno dei suoi sentieri interni e ci si ostina a volersene creare uno proprio. Per la Mernissi, quando si parla del Maghreb, e in particolare del Marocco, le frontiere da attraversare e le traduzioni da compiere sono molteplici e coincidono con l’individuare, prima, e con il superare, poi, tutta una serie di pregiudizi che offuscano la vista dello straniero. Per l’esattezza, la sociologa individua sette stereotipi forti sul Marocco, fra cui particolarmente provocatori all’occhio del lettore europeo risultano il secondo: “l’istruito occidente tecnologicamente avanzato è superiore a un Oriente indebolito dall’analfabetismo e fermo all’Età della Pietra”; e il quarto: “il conflitto tra uomini e donne è eterno” 5 . Per superare la fitta trama dei pregiudizi che, come un grande mito inconsapevole, gli occidentali proiettano sul Maghreb, la Mernissi prende il lettore per mano e, con una scrittura agevole, lo conduce dentro il mondo marocchino, facendogli incontrare persone e luoghi concreti. Così, il primo stereotipo occidentale è contestato con il racconto di casi particolari ambientati nella città di Marrakesh, in cui negli ultimi anni sono fiorite librerie e internet café frequentati da migliaia di giovani, per nulla attratti dalle lusinghe del fondamentalismo, quanto piuttosto sedotti dai linguaggi della modernità. Per questo la Mernissi invita il turista occidentale a lasciare da parte il folklore macchiettistico di chi prende il calesse per recarsi a Jama’ al-fna (Piazza alla fine del Mondo) a vedere gli incantatori di serpenti, invitandolo, invece, ad entrare in una libreria, magari quella gestita da Jamila Hossoune, descritta nella prima parte del libro. In questo modo si sarebbe costretti a porre in relazione i propri pregiudizi con un Marocco di cui non parla nessuno ma che, eppure, esiste, e in cui si muovano giovani che leggono, si informano, usano internet e il web. Un Marocco in sé visibilissimo e, nel contempo, oscuro, perché mai narrato dai mass-media occidentali che, per la Mernissi, “… sono troppo occupati a cercare i terroristi, gli unici personaggi che delle telecamere intrappolate nel loro razzismo trovano fotogenici” 6 . Per attraversare il guado della diversità, non si può solo respirare la polvere dei libri, ma occorre anche farsi imbrattare da quella delle strade reali, lasciando che le schegge della normalità e della quotidianità di un popolo producano delle leggere scalfitture nell’ebano delle nostre certezze. Ovviamente, la Mernissi non vuole sostenere che il Marocco non sia anche un Paese ricco di contraddizioni e di nostalgie; non è tanto ingenua da dimenticarsi dei problemi reali, impastati di analfabetismo, discriminazione delle donne, fanatismo, conservatorismo e sfruttamento. Ma il suo intento è diverso, ossia coincide con il voler mettere in rilievo quel torrente inarrestabile di persone che si pongono come soggetti attivi nella società marocchina, che 4 V. TURNER, La foresta dei simboli. Aspetti del rituale Ndembu, Morcelliana, Brescia 1976 F. MERNISSI, op. cit., p. 18 6 F. MERNISSI, op. cit., p. 67 5 interpellano la cultura e la religione di riferimento affinché siano recepite alcune istanze di trasformazione, sottolineando il vivo fermento sociale provocato da individui impegnati in un cambiamento che non comporti necessariamente la rinuncia alle proprie tradizioni. Emblematico, a questo proposito, è il caso di Regraguia, una donna di Essaouira che ha avuto il coraggio di non spegnere in lei il desiderio di dipingere, abbandonando il suo lavoro di tessitrice per dedicarsi alla pittura e venendo sostenuta nelle mille difficoltà di questa scelta dalla solidarietà attiva di centinaia di giovani. “E’ stato il fatto che dei giovani tenessero di nuovo alta la fiaccola del tadàmun, della solidarietà tradizionale, per aiutare una donna che aveva l’età delle loro madri, a ridare alla città fiducia nella propria capacità di impedire l’esclusione dei più fragili” 7 . E così, quando il padrone di casa, un professore, la sfratta, preoccupato più per la provocazione cultural-religiosa che Regraguia con la sua scelta aveva suscitato che per mere ragioni economiche, i giovani squattrinati della città, ragazzi e ragazze – si coalizzano, attivando una rete che è stata in grado di sostenere Regraguia nel suo tentativo di emancipazione. E lei, che ha continuato a vestirsi con l’abito tradizionale delle donne delle classi lavoratrici, un drappo bianco e un velo nero, è diventata il simbolo di una cultura del riscatto che non desidera rinnegare quella Tradizione, di cui la solidarietà, il tadàmun, è un esempio vivissimo, ma la vuole semplicemente ancorare alla modernità. Regraguia, così, si è trasformata anche nel simbolo di un paese che non si riconosce per intero nello stereotipo maschilista che gli viene attribuito ma in cui è forte la volontà di collaborare affinché tutti – e soprattutto le donne – possano essere liberi di seguire le proprie inclinazioni. Questo riscoprire nel proprio passato elementi capaci di dialogare con la modernità, stemperando l’uno nell’altra, proviene – secondo la Mernissi – dalla natura composita della cultura maghrebina, sospesa tra l’anima berbera e quella musulmana. Tale amalgama, da molti indicato come un impasto ibrido, è per la sociologa la grande ricchezza del Marocco da non disperdere, un patrimonio composto di lingue ed usi apparentemente differenti, ma, proprio perché così eterogenei, in grado di accostare il marocchino alla diversità, fino a renderlo capace di annodare in profondità quei fili della differenza che, in superficie, sembrano sempre irrimediabilmente recisi. Un Marocco, quello della Mernissi, in cui le contraddizioni permangono, ma in cui si agitano anche tante storie, tante biografie eccezionali, tante realtà sorprendentemente sconosciute; un Marocco in cui si sta realizzando, accanto a tante incoerenze, anche la pacifica rivoluzione voluta da chi crede profondamente nel dialogo, anche con l’occidente, ma è caparbiamente risoluto a ricercare nelle viscere della propria Tradizione le radici della trasformazione e della democrazia. 7 Ib., p. 160 e ss.