Bioterapie in oncoematologia - Istituto di Ematologia La Sapienza

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EMATOLOGIA
1
direttori della collana
Franco Mandelli, Giuseppe Avvisati
BIOTERAPIE IN ONCOEMATOLOGIA
Robin Foà, Giovanni F. Torelli, Gigliola Reato,
Enrica Orsini, Anna Guarini
Dipartimento di Biotecnologie Cellulari ed Ematologia,
Università degli Studi “La Sapienza” - Roma
Dipartimento di Scienze Biomediche ed Oncologia Umana,
Università degli Studi di Torino
12
EMATOLOGIA
DIRETTORI DELLA COLLANA
Franco Mandelli, Giuseppe Avvisati
Dipartimento di Biotecnologie Cellulari ed Ematologia
Università “La Sapienza”, Roma
ACCADEMIA NAZIONALE DI MEDICINA
REDAZIONE
P.zza della Vittoria, 15/1 - 16121 Genova
Tel. 010/5458611 - Fax 010/541761
E-mail: [email protected]
http: //www.accmed.net
DIREZIONE
Luigi Frati - Stefania Ledda
COORDINAMENTO EDITORIALE
Gabriella Allavena
PROGETTO GRAFICO
Giorgio Prestinenzi
IMPAGINAZIONE
Maria Grazia Granata
SERVIZIO STAMPA
EFFE di Ugo Fraccaroli - Via Cesiolo, 10 - 37126 Verona
© 1999 Forum Service Editore s.c.a r.l.
P.zza della Vittoria, 15/1 - 16121 Genova
Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte del libro può
essere riprodotta o diffusa senza il permesso scritto dell'editore
INDICE
INTRODUZIONE
1
IMMUNOTERAPIA NON SPECIFICA: CITOCHINE E CHEMOCHINE
2
INFUSIONE DI LINFOCITI DA DONATORE
3
MINITRAPIANTO
4
ANTICORPI MONOCLONALI
5
IMMUNOTERAPIA SPECIFICA: VACCINOTERAPIA
E CELLULE DENDRITICHE
6
OLIGONUCLEOTIDI ANTISENSO
7
TERAPIA GENICA
8
ACIDO RETINOICO NELLA LEUCEMIA ACUTA PROMIELOCITICA
9
ANTI-TIROSINO CHINASI NELLA LEUCEMIA
MIELOIDE CRONICA
10
MONITORAGGIO BIOLOGICO DELLA MALATTIA MINIMA RESIDUA
11
IMPATTO DI UNA ESTESA CARATTERIZZAZIONE
BIOLOGICA DELLE CELLULE NEOPLASTICHE ALLA DIAGNOSI
12
IDENTIFICAZIONE DEI PROGENITORI EMATOPOIETICI
13
CONCLUSIONI
14
BIBLIOGRAFIA GENERALE
15
LE DIAPOSITIVE
ABBREVIAZIONI
ADCC
ATRA
BCR
CLMF
CTL
DC
DLI
EBV
GM-CSF
GvHD
GvL
HCL
IFN
Ig
IL
KLH
LAK
LAP
LLA
LLC
LMA
LMC
MDR
MHC
NK
NKSF
OA
PCR
Ph
PKCa
POD
RARa
TCR
TNF
VEGF
citotossicità cellulare anticorpo-dipendente
acido retinoico all-trans
recettore per gli antigeni delle cellule B
fattore di maturazione dei linfociti citotossici
linfociti T citotossici
cellule dendritiche
infusione di linfociti da donatore
virus di Epstein-Barr
fattore stimolante la crescita di granulociti-macrofagi
graft-versus-host disease
graft-versus-leucemia
hairy cell leukemia
interferone
immunoglobuline
interleuchina
keyhole limpet hemocyanin
lymphokine activated killer
leucemia acuta promielocitica
leucemia linfoide acuta
leucemia linfoide cronica
leucemia mieloide acuta
leucemia mieloide cronica
multidrug resistance
complesso maggiore di istocompatibilità
natural killer
fattore stimolante la crescita delle cellule NK
oligonucleotidi antisenso
polymerase chain reaction
cromosoma Philadelphia
proteina chinasi C alfa
PML oncogenic domain
recettore per l’ormone nucleare a dell’acido retinoico
T-cell receptor
tumor necrosis factor
fattore di crescita vascolare endoteliale
Ringraziamenti
Lavoro effettuato con il supporto dell’Associazione Italiana per la Ricerca sul
Cancro (AIRC), Milano e Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica
(MURST), Roma. Gigliola Reato è assegnista presso l’Università di Torino.
Giovanni F. Torelli e Enrica Orsini sono beneficiari di una borsa di studio
dell’Istituto Pasteur-Fondazione Cenci Bolognetti, Roma e dell’AIRC, rispettivamente.
1
INTRODUZIONE
Per meglio inquadrare quelli che saranno i contenuti di questa monografia dedicata alle Bioterapie in Oncoematologia è opportuno definire fin dall’inizio quello che intendiamo con il termine “bioterapie” e il
motivo per cui un volume della collana è stato dedicato alle neoplasie
ematologiche. In senso allargato, per “bioterapie” intenderemo tutte
quelle strategie basate su tecniche di laboratorio che hanno permesso
di disegnare approcci innovativi nella gestione del paziente oncoematologico. Mentre il concetto di “bioterapie” farebbe pensare solo a
strategie terapeutiche di matrice biologica – per esempio l’uso di citochine, anticorpi monoclonali, terapie disegnate alla luce di una specifica alterazione genetica, ecc. – riteniamo peraltro importante ricordare
come le moderne tecnologie basate su specifici e sensibili marcatori
biologici di malattia permettano, proprio in oncoematologia, di monitorizzare il clone neoplastico durante il decorso della malattia e come in
diverse patologie gruppi prognostici vengano riconosciuti sulla base di
molteplici parametri biologici e molti programmi terapeutici vengano
oggigiorno decisi a seconda della presenza o assenza di tali marcatori.
La Tabella 1 illustra alcuni capisaldi che hanno permesso lo sviluppo
dell’era delle “bioterapie”.
Nuove frontiere biotecnologiche
Tabella 1
• Rivoluzione biotecnologica ➝ anticorpi monoclonali, citochine,
fattori di crescita, ecc.
• Eventi “molecolari” presenti nel cancro
• Monitoraggio della malattia minima residua ➝ implicazioni
prognostiche e terapeutiche
• Nuove frontiere trapiantologiche ➝ trapianto da donatore non
correlato, infusione di linfociti da donatore, trapianto di cellule
di cordone ombelicale, minitrapianto, trapianto mismatch,
purificazione ed espansione di progenitori ematopoietici,
trapianto in utero
• Terapia genica
• Cellule staminali embrionali
• Identificazione e purificazione di progenitori ematopoietici
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In nessun altro campo dell’oncologia le “bioterapie” hanno avuto, e
sempre più hanno, un significativo impatto clinico come nelle neoplasie
ematologiche. Si può a buon diritto affermare che in diversi disordini
del sistema ematopoietico strategie basate su approcci biotecnologici
rappresentino un ausilio primario nell’armamentario clinico-prognostico-terapeutico. Nella Tabella 2 sono riportati gli argomenti che più in
dettaglio verranno discussi nei diversi capitoli di questo volume.
Bioterapie in oncoematologia
Tabella 2
• Immunoterapia non-specifica: citochine e chemochine
• Infusione di linfociti da donatore
• Minitrapianto
• Anticorpi monoclonali
• Immunoterapia specifica: vaccinoterapia e cellule dendritiche
• Oligonucleotidi antisenso
• Terapia genica
• Acido retinoico nella leucemia acuta promielocitica
• Anti-tirosino chinasi nella leucemia mieloide cronica
• Monitoraggio biologico della malattia minima residua
• Impatto di una allargata caratterizzazione biologica
delle cellule neoplastiche alla diagnosi
• Identificazione dei progenitori ematopoietici
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IMMUNOTERAPIA NONSPECIFICA: CITOCHINE
E CHEMOCHINE
2.1
CITOCHINE
Citochine con effetti immunostimolanti hanno la capacità, in modelli
animali, di indurre una risposta immunitaria anti-tumorale, mentre altre
interferiscono direttamente con la crescita neoplastica grazie al loro
effetto angiostatico. Nel paziente neoplastico, il livello di citochine
immunosoppressive, cioè capaci di deprimere il sistema immunitario
dell’ospite, aumenta a spese delle citochine immunostimolanti (1).
I tentativi di correggere questo squilibrio trattando pazienti neoplastici
con citochine ricombinanti hanno avuto finora risultati contraddittori,
probabilmente a causa dell’ampio spettro di effetti biologici che le
citochine esercitano sia a carico del compartimento immunitario che
direttamente sulla crescita tumorale. Accanto all’effetto citolitico e
citostatico sulla cellula neoplastica (2), è stato infatti dimostrato che le
stesse citochine possono aumentare la mobilizzazione e l’adesività
cellulare promuovendo così i processi di metastatizzazione (3).
Numerosi sono comunque i risultati positivi, ottenuti soprattutto in
campo ematologico, con protocolli terapeutici che prevedono l’utilizzo
di interferone (IFN) a, interleuchina-2 (IL-2), interleuchina-12 (IL-12) o
di associazioni fra le stesse.
2.1.1
INTERFERONE a
Si può a ben diritto affermare che l’intero capitolo delle bioterapie in
oncologia veda il suo punto di partenza dai risultati ottenuti, ormai da
molti anni, con l’IFNa in pazienti affetti da leucemia a cellule capellute
o hairy cell leukemia (HCL). Contestualmente, va anche ricordato
come senza la HCL il ruolo dell’IFNa in diverse patologie oncologiche
con tutta probabilità non sarebbe stato documentato.
L’IFNa – grazie al suo effetto anti-proliferativo, all’azione sul compartimento immunitario dell’ospite, all’influenza che esercita sulle dimensioni dei vasi sanguigni tumorali in neoformazione e ad altri meccanismi d’azione non del tutto chiariti – è in grado di indurre risposte clini-
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che nella maggior parte dei pazienti con HCL (4). I primi risultati sono
stati ottenuti con IFNa naturale, mentre successivamente si è diffuso
l’uso dell’IFN ricombinante. Nella HCL, l’IFNa viene somministrato per
via sottocutanea a dosi relativamente basse (1–3 x 106 /die o a giorni
alterni). L’IFNa agisce lentamente per cui il periodo di somministrazione è protratto nel tempo, per un periodo normalmente superiore ai 12
mesi. Per molti anni, l’IFNa ha rappresentato la terapia di elezione per
i pazienti con HCL e si può a tutti gli effetti affermare che l’uso clinico
di questa citochina ha modificato la storia naturale di questo disordine
linfoproliferativo cronico a cellule B. Oggi sono disponibili altri agenti
che permettono di ottenere percentuali più elevate di remissioni ematologiche complete a fronte di un periodo di terapia molto più ravvicinato. Pur tuttavia, in alcuni protocolli l’IFNa viene utilizzato in combinazione con questi farmaci nel tentativo di migliorare ancora gli indici
di risposta.
L’altra patologia dove l’IFNa ha attività sul clone neoplastico è la leucemia mieloide cronica (LMC) (5). Alla luce di numerosi studi successivi (6, 7), si può affermare che l’IFNa rappresenta la prima scelta terapeutica in molti dei protocolli clinici attualmente in corso per il trattamento della LMC. In questa patologia, infatti, la somministrazione prolungata di dosi relativamente elevate di IFNa (6–9 x 10 9 /m 2 /die) permette di ottenere una buona risposta ematologica nella maggior parte
dei pazienti. Inoltre, sono state documentate per la prima volta remissioni citogenetiche complete, cioè scomparsa del cromosoma
Philadelphia, e in alcuni casi anche molecolari, cioè negativizzazione
del BCR/ABL. L’impatto clinico dell’IFNa nella LMC è dimostrato dalla
ritardata progressione di malattia e da una migliore sopravvivenza
rispetto ai pazienti trattati con chemioterapia convenzionale. La possibilità che risultati ancora migliori possano essere ottenuti con l’uso
combinato di IFNa e chemioterapia con citosina arabinoside (8, 9) è
oggetto di studi clinici. È interessante, infine, segnalare come sia stato
recentemente riportato che la risposta o non risposta alla terapia con
IFNa possa essere predetta pre-clinicamente in vitro sulla base della
valutazione dell’espressione della proteina regolatrice STAT-1 prima e
dopo incubazione delle cellule leucemiche con IFNa (10). Alla luce dei
prolungati tempi necessari per valutare la risposta o meno all’IFNa
(almeno 6 mesi di terapia), della percentuale di pazienti resistenti
all’IFNa (nell’ordine del 25% dei casi), dei costi dell’IFNa e dei non irrilevanti effetti collaterali, le potenziali implicazioni pratiche di questo
dato, da validare nell’ambito di studi prospettici, sono facilmente intuibili.
Oltre alla HCL e alla LMC, ove come ricordato l’IFNa è stato o ancora
è la prima scelta terapeutica, questa citochina ha dimostrato attività in
d i v e r s e a l t r e n e o p l a s i e e m a t o l o g i c h e . I l t r a t t a m e n t o c o n I F Na i n
aggiunta alla chemioterapia standard, o dopo trapianto di midollo
osseo allogenico, ha incrementato il numero di remissioni complete e
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risposte durature in pazienti affetti da mieloma multiplo, probabilmente
grazie alla capacità dell’IFNa di indurre apoptosi nelle cellule mielomatose (11–14). L’IFNa si è rivelato efficace nel migliorare gli indici di
risposta terapeutica anche in pazienti affetti da linfoma di Hodgkin in
stadio avanzato (15), linfoma follicolare (16), linfoma non-Hodgkin (17)
e nella trombocitemia essenziale (18).
2.1.2
INTERLEUCHINA-2
Durante gli anni ’80, diversi studi pre-clinici evidenziarono come l’IL-2
fosse in grado di evocare in linfociti normali una funzione citotossica
fino ad allora non conosciuta e capace di lisare bersagli tumorali resistenti agli effettori natural killer (NK) (19). Uno schema rappresentativo
dell’attività citotossica naturale e mediata da citochine è riportata nella
Figura 1. Queste cellule furono definite LAK (lymphokine activated killer). Numerosi studi condotti negli animali da esperimento dimostrarono come questi effettori citotossici potessero bloccare la crescita
Figura 1 • Attivazione di cellule NK con citochine
Effettori
Bersagli
A
K562
Cellula NK
IL-2
IL-12
IL-15
Daudi
Raji
Cellule tumorali
primarie
B
K562
Cellula LAK
Daudi
Raji
Cellule tumorali
primarie
Cellule NK non stimolate sono in grado di lisare in vitro la linea cellulare K562, ma non
le cellule di altre linee quali Daudi e Raji, o cellule tumorali primarie (A). Dopo stimolazione con citochine quali IL-2, IL-12 e IL-15, le cellule NK si trasformano in cellule
LAK e acquistano la capacità di uccidere le cellule delle linee Daudi e Raji e, anche se
con minore efficienza, cellule tumorali primarie (B).
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tumorale (20, 21). Nonostante le grandi attese generate da questi dati
sperimentali, i risultati ottenuti nell’uomo con IL-2 da sola o con IL-2
associata a cellule LAK generate ex vivo non hanno avuto la stessa
rilevanza degli studi nell’animale. Ciò nondimeno, è giusto ricordare
come attraverso la sola infusione di IL-2 ± cellule LAK siano state ottenute risposte, anche complete e durature, in una piccola percentuale
di pazienti con diverse neoplasie solide in fase avanzata di malattia
(22, 23). I risultati più incoraggianti sono stati osservati nel melanoma
metastatico e nel carcinoma del rene. Benché, come detto, i risultati
siano stati globalmente inferiori alle esagerate aspettative, va peraltro
sottolineato che per la prima volta è stato possibile ottenere una risposta clinica in pazienti portatori di tumore attraverso un approccio puramente immunologico.
Molte ricerche sono state effettuate per valutare se vi fossero i presupposti pre-clinici che giustificassero un possibile uso dell’IL-2 per il trattamento di neoplasie ematologiche. I risultati degli studi effettuati in
particolare con cellule di leucemie acute umane sono stati in tal senso
incoraggianti (24–26). I principali risultati pre-clinici sono riassunti nella
Tabella 3. Questi hanno condotto al disegno e alla realizzazione dei
Risultati pre-clinici con IL-2 nelle emopatie
Tabella 3
Pro
1. L’IL-2, con o senza cellule LAK, è in grado di eradicare leucemie
murine
2. Blasti leucemici umani di origine mieloide o linfoide possono
essere lisati da effettori LAK normali
3. Effettori LAK normali abrogano quasi completamente la crescita in
vitro di cellule leucemiche in medium semisolido
4. Pazienti in remissione completa mostrano spesso una buona
attività LAK contro bersagli allogenici
5. L’IL-2 solo raramente induce un segnale proliferativo, diretto o
indiretto, su cellule di leucemia acuta
6. Effettori LAK e IL-2 sono in grado di bloccare la crescita di linee
cellulari leucemiche e di blasti primari di leucemia acuta in topi
nudi immunosoppressi
Contro
1. Linfociti ottenuti da pazienti in remissione completa e attivati da
IL-2 hanno spesso una capacità litica deficitaria verso il blasto
autologo
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primi studi clinici sull’uomo in pazienti con leucemia acuta in fase
avanzata di malattia (27–29). Complessivamente, si può a oggi affermare che l’IL-2 può essere somministrata, anche a dosi elevate, a
pazienti leucemici, senza il rischio di indurre crescita e proliferazione
delle cellule leucemiche (per una rassegna vedi 30). In una percentuale
di pazienti con leucemia mieloide acuta (LMA) e piccola quota di blasti
midollari residui sono state documentate risposte ematologiche anche
di lunga durata a seguito della somministrazione di alte dosi di IL-2.
Alcune delle remissioni sono state le più lunghe nella storia naturale
dei singoli pazienti (31).
La fattibilità dell’uso dell’IL-2 in oncoematologia è stata verificata
anche in altre patologie – leucemie linfoidi acute (LLA), linfomi nonHodgkin, mieloma multiplo, LMC – come pure dopo procedure trapiantologiche sia autologhe che allogeniche. Importanti modificazioni biologiche sono state osservate nei pazienti trattati con IL-2; queste si riassumono in particolare in un aumento della funzione citotossica, sia
naturale (NK) che mediata da IL-2 (LAK), nell’induzione di una attività
LAK endogena, nel rilascio in vivo di citochine e fattori di crescita
(Tabella 4) (32, 33).
Pur a fronte di alcuni risultati incoraggianti, un più diffuso utilizzo di
IL-2 ad alte dosi in oncoematologia è stato limitato da alcuni rilevanti
fattori:
1. la elevata tossicità;
2. l’eterogenea e non prevedibile risposta clinica;
3. l’evidenza di un’attivazione in vivo del sistema immunitario dell’ospite in tutti i pazienti, indipendentemente dalla risposta clinica;
4. la mancata dimostrazione di un’attivazione anti-leucemica specifica;
5. l’evidenza sperimentale di come nella maggior parte dei casi vi sia
un difetto nel processo di riconoscimento/lisi tra effettori indotti da
IL-2 e blasti leucemici autologhi (34). Tutto ciò ha condotto a esplorare altre strategie intese a superare i su menzionati limiti. Una possibile risposta risiede nel trasferimento del gene dell’IL-2 in cellule
del sistema immunitario o in cellule neoplastiche; questo approccio
verrà discusso nel capitolo “Terapia genica”. Un’altra via che è stata
esplorata è quella dell’utilizzazione di IL-2 in combinazione con altre
citochine, nel tentativo di potenziarne l’effetto e di utilizzare dosaggi
più limitati. Di particolare interesse sono i risultati pre-clinici ottenuti
con l’associazione IL-2/IL-12 (vedi sotto).
2.1.3
INTERLEUCHINA-12
L’IL-12, inizialmente definita come fattore stimolante la crescita delle
cellule NK (NKSF) (35) e anche come fattore di maturazione dei linfociti
citotossici (CLMF) (36), è una citochina che ha acquistato negli ultimi
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Principali modificazioni immunologiche osservate
in pazienti affetti da leucemia acuta trattati
con IL-2 ad alte dosi
Tabella 4
Pro
1. Aumento assoluto e relativo di cellule CD3+ circolanti e midollari.
Aumento del rapporto CD4/CD8
2. Espressione di molecole di attivazione (HLA-DR e IL-2R)
su linfociti circolanti e midollari
3. Aumento assoluto e relativo di cellule circolanti e midollari
con fenotipo citotossico
4. Amplificazione delle cellule NK circolanti e midollari e dell’attività
LAK indotta da IL-2
5. Generazione di effettori LAK endogeni circolanti e midollari
6. Rilascio in vivo di TNFa, IFNg, IL-5 e GM-CSF
Contro
1. L’attivazione del sistema immunitario dell’ospite si osserva in tutti
i pazienti, indipendentemente dalla risposta clinica ➝ attivazione
aspecifica
2. Mancata dimostrazione della generazione in vivo di effettori
citotossici specifici
3. Effetti collaterali probabilmente contribuiti dal rilascio in vivo
di TNFa e IFNg
anni notevole interesse in campo immunoterapeutico. Ha diverse capacità di stimolo sulle popolazioni linfocitarie: è, infatti, capace di indurre la maturazione e differenziazione di cellule NK, di aumentarne
la capacità citotossica, inducendole anche a produrre citochine
quali tumor necrosis factor (TNF) a e IFNg. L’IL-12 svolge funzioni
simili anche sui linfociti T, sui quali induce anche uno stimolo
proliferativo. Favorisce, altresì, la differenziazione delle cellule
CD4 in T helper 1 (Th1) agendo come antagonista delle citochine IL4 e IL-10. Queste diverse funzioni hanno fatto ipotizzare per l’IL-12
una attività anti-neoplastica. Infatti, l’IL-12 è capace di aumentare l’attività litica di cellule mononucleate periferiche contro linee tumorali di
diversa origine (37) e di correggere la ridotta funzione citotossica in
pazienti portatori di diverse neoplasie ematologiche (38, 39).
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In modelli sperimentali è stato dimostrato che la somministrazione di
IL-12 per via sistemica è in grado di allungare significativamente la
sopravvivenza di animali portatori di tumore. In un modello di adenocarcinoma mammario murino la terapia precoce con IL-12 esercita
una spiccata attività anti-angiogenetica nel passaggio da iperplasia a
neoplasia (40). La riduzione della progressione tumorale osservata in
questo modello è associata a un marcato aumento dei linfociti CD8+
infiltranti il tumore e alla produzione locale di altre citochine quali
TNFa, IFNg, IL-1b, chemochine quali MIG, IP-10 e iNOs, così come
alla riduzione della presenza di molecole di adesione quali VCAM-1.
Accanto a tali modificazioni è possibile evidenziare l’attivazione delle
cellule endoteliali e cambiamenti genetici del tumore.
L’IL-12 svolge, altresì, un’azione sinergica in associazione con
l’IL-2. Linfociti di sangue periferico aumentano la loro capacità citolitica dopo incubazione con IL-2 in associazione con IL-12 (41); in particolare, cellule NK dopo attivazione con IL-2 e IL-12 acquistano la
capacità di lisare cellule leucemiche umane allogeniche (42).
Recentemente, il nostro gruppo ha dimostrato come linfociti di
pazienti affetti da LMA in remissione completa si dimostrino, dopo
stimolazione con basse concentrazioni di IL-2 più IL-12, in grado di
uccidere blasti leucemici autologhi (43). Va sottolineato come nella
maggior parte dei casi i blasti fossero resistenti agli effettori autologhi
attivati da sola IL-2 (anche a dosi elevate) e che la lisi indotta dalla
combinazione IL-2 più IL-12 si osservava anche con dosi molto basse
di entrambe le citochine.
L’uso in vivo di IL-12 per il trattamento di pazienti portatori di tumore
si è dimostrato fattibile, sia per via sottocutanea che endovenosa, e
sono state osservate alcune significative regressioni cliniche. Nei
pazienti trattati con IL-12 per via sottocutanea è stata osservata una
espansione selettiva di una sottopopolazione di cellule CD8+ , con una
morfologia di grandi linfociti granulari, espressione del T-cell receptor
(TCR) ab, un repertorio oligoclonale TCRVb, produzione di IFNg e attività citotossica non-HLA ristretta (44). Simili modificazioni biologiche
sono state documentate anche in pazienti trattati per via endovenosa.
Recentemente, risultati incoraggianti sono stati ottenuti anche nel trattamento di pazienti affetti da linfoma T cutaneo (45).
Alla luce degli interessanti risultati osservati in vitro con la combinazione di IL-12 più IL-2, soprattutto nei confronti di blasti leucemici resistenti all’attività litica di effettori attivati da sola IL-2 (anche ad alte
dosi), rimane da verificare in vivo il potenziale clinico di questa combinazione di citochine. I dati pre-clinici legittimano il disegno di protocolli clinici pilota che prevedano la somministrazione dell’associazione
di IL-12 e IL-2 a bassi dosaggi per il trattamento di pazienti con LMA
in fase avanzata di malattia.
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2.2
CHEMOCHINE
Le chemochine sono una famiglia di proteine dal peso molecolare di
8000–16000 kDa che utilizza per la trasduzione del segnale un
gruppo di recettori accoppiati alle proteine G transmembrana
(46). Le chemochine hanno la capacità di indurre la migrazione
direzionale e l’adesività di vari tipi di leucociti così come di cellule endoteliali, epiteliali e fibroblasti, e di promuovere la vascolarizzazione tissutale (47). È stato dimostrato in diversi modelli sperimentali che alcune citochine, quali PF4, IP-10 e MIG possiedono un
effetto angiostatico e possono sopprimere la crescita neoplastica (48),
così come contribuire all’effetto anti-tumorale di IL-12 (49).
In relazione alla presenza di alcune sequenze aminoacidiche, diverse
chemochine possiedono invece la capacità di stimolare la proliferazione cellulare e la crescita di alcuni tumori (50). In particolare, è stato
documentato che l’IL-8 stimola la chemotassi di melanociti favorendone così la crescita e metastatizzazione (51, 52) e stimola la migrazione
di cellule di leucemia linfatica cronica (LLC) attraverso i tessuti linfoidi
(53).
L’aumentata espressione di alcune chemochine è inoltre associata a
stadi avanzati di patologia neoplastica: l’espressione di MIP-1a, MIP1b, MCP-1, eotaxina e IL-8 è stata riscontrata in linfonodi patologici di
diversi tipi cellulari (54). È stato suggerito che alcune di esse possano
stimolare la progressione e metastatizzazione di cellule di carcinoma
prostatico in parte alterando lo stato di attivazione delle integrine b1
(55), o possano indicare la presenza di processi maligni in trasformazione ancora non visualizzabili (56).
Una possibile applicazione terapeutica delle chemochine in campo
ematologico è stata proposta per MIP-1a (macrophage inflammatory
protein) nel trattamento delle leucemie mieloidi sia acute che croniche
(57); è stato, infatti, documentato che le cellule tumorali sono insensibili all’azione di tale chemochina, che può quindi svolgere i suoi effetti
sulle cellule del sistema immunitario senza il rischio di stimolare la proliferazione tumorale.
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INFUSIONE DI LINFOCITI
DA DONATORE
L’infusione di linfociti è stata proposta come “terapia di salvataggio” in
pazienti recidivati dopo trapianto di midollo osseo privato delle cellule
T, metodologia introdotta nella pratica terapeutica nel tentativo di
ridurre una delle principali e più gravi complicanze del trapianto allogenico: il rigetto dei tessuti dell’ospite da parte del midollo trapiantato
o graft-versus-host disease (GVHD).
La rimozione delle cellule T dal midollo del donatore compromette però
uno degli elementi più importanti nella prevenzione della recidiva: il
rigetto da parte del midollo trapiantato della leucemia o graft-versusleukemia (GVL). La deplezione T linfocitaria si associa infatti a un
aumento del tasso delle recidive e a una ridotta sopravvivenza globale.
La prime evidenze dell’efficacia clinica dell’infusione di linfociti da
donatore (DLI) sono state riportate all’inizio degli anni ’90 in pazienti
affetti da LMC recidivati dopo trapianto di midollo osseo allogenico (58–60). Successivamente, veniva dimostrato che la DLI era da
sola capace di controllare un disordine linfoproliferativo da virus di
Epstein-Barr (EBV) comparso, dopo allotrapianto T depleto in pazienti
affetti da neoplasia ematologica (61).
Questa tecnica puramente immunologica è stata successivamente
perfezionata fino a ottenere, sempre nel contesto della LMC in fase di
recidiva dopo trapianto allogenico di midollo, la remissione completa
in un’alta percentuale di pazienti (62, 63; per una rassegna vedi 64).
Lo stadio della malattia al momento del trattamento rappresenta il fattore predittivo di risposta terapeutica più importante: pazienti in recidiva citogenetica o molecolare rispondono in maniera molto migliore
rispetto ai pazienti in recidiva ematologica (65, 66). Inoltre, quanto
minore è l’intervallo trascorso tra il trapianto e l’infusione di linfociti
tanto migliore è la risposta terapeutica. I risultati peggiori sono stati
osservati in pazienti trattati in fase di trasformazione di malattia.
Questa stessa strategia è stata utilizzata, seppure con minore successo, anche in altre neoplasie ematologiche, quali ad esempio la LMA e
la LLA, e, più recentemente, anche nel mieloma multiplo.
Il problema principale legato all’utilizzo clinico dei linfociti da donatore
risiede nella tossicità del trattamento che può indurre sia GVHD che
aplasia midollare. L’incidenza dell’aplasia midollare sembra correlare
con la capacità ematopoietica del donatore. Diversi studi suggerisco-
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no, infatti, che il trattamento precoce, quando ancora è evidente la
capacità ematopoietica del donatore, elimina quasi completamente
questa complicanza (67–69). In particolare, per ciò che concerne la
LMC, tale obiettivo è fattibile monitorizzando il clone leucemico con
metodiche sensibili di biologia molecolare allo scopo di riconoscere
una recidiva precoce (oppure una persistenza di malattia minima)
prima che questa diventi clinicamente evidente.
La complicanza più significativa dell’infusione di linfociti da
donatore rimane la GVHD, che può essere causa di morte fino al
10–20% dei pazienti (70). Una quota di pazienti, infatti, non risponde
alle terapie immunosoppressive convenzionali. È stato suggerito che
l’utilizzo di quantità limitate di cellule T (1 x 107 /kg) possa essere vantaggiosa rispetto alla somministrazione di alti dosaggi nel trattamento
della LMC in fase di recidiva citogenetica o molecolare (71). Una strategia alternativa risiede nella trasduzione di un gene suicida nelle cellule T, nel tentativo di modulare più precisamente la reattività GVHD/GVL
(72). Il gene proposto è quello dell’Herpes simplex thymidine kinase,
che rende le cellule trasdotte del donatore sensibili, e quindi potenzialmente eliminabili, al ganciclovir.
La strategia ottimale per risolvere il problema della GVHD sembra però
essere quella dell’identificazione di sottogruppi di cellule T (ad esempio cellule T CD4 + ) capaci di una reattività selettiva nei confronti della
cellula leucemica, con l’obiettivo di ottimizzare il rigetto delle cellule
leucemiche e contemporaneamente limitare gli effetti collaterali della
reazione verso l’ospite. Questa possibilità si basa sul presupposto,
ancora da dimostrare, che gli effettori dell’azione GVL siano diversi da
quelli che inducono la GVHD. Un simile obiettivo è stato perseguito,
utilizzando un approccio metodologico diverso, attraverso la generazione in vitro di linee cellulari T citotossiche dirette verso una determinata leucemia. Questa strategia è stata utilizzata per il trattamento
della recidiva di LMC dopo trapianto di midollo osseo allogenico (73).
Tali linee cellulari possiedono la caratteristica di produrre una risposta
specifica nei confronti del clone leucemico, anche se la complessità
infrastrutturale necessaria alla loro generazione ne limita l’applicabilità.
L’osservazione che una procedura puramente immunologica quale l’infusione di linfociti da donatore può essere altamente efficace in
pazienti in fase di recidiva o persistenza di malattia, ha incoraggiato i
recenti sviluppi di nuove strategie intese a minimizzare i regimi mieloablativi e ad esplorare le componenti immunoterapeutiche del trapianto
(vedi il successivo capitolo su “Minitrapianto”). Con questo tipo di
approccio, infatti, il trapianto diventa il momento iniziale di una strategia a più livelli disegnata per ridurre al massimo la tossicità della GVHD
e che prevede un’immunoterapia aggiuntiva per quei pazienti con evidenza di malattia. Ancora una volta, l’ematologia si giova di una serie
di favorevoli evidenze, tra cui:
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1. la documentazione, formalmente provata dai risultati ottenuti con le
infusioni di linfociti da donatore, che la ipotizzata attività GVL realmente esiste;
2. la dimostrazione dell’efficacia clinica dell’infusione di linfociti in
pazienti allotrapiantati;
3. la disponibilità, in molte neoplasie ematologiche, di un marcatore
specifico di malattia che permette il riconoscimento precoce di una
persistenza di malattia o di una recidiva precoce, in un momento in
cui la massa tumorale è ancora limitata e la malattia, quindi, più
facilmente aggredibile o controllabile o eradicabile, e, come ovvio
corollario,
4. la possibilità di utilizzare quantità minori e quindi potenzialmente
meno tossiche, di linfociti.
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MINITRAPIANTO
L’utilizzazione del trapianto di midollo osseo allogenico per il trattamento delle neoplasie ematologiche è ristretta a un numero limitato di
pazienti a causa della tossicità del trattamento mieloablativo e presenta ancor oggi un rischio di decesso per complicanze secondarie al trapianto pari a circa il 20–25% dei pazienti trattati. Lo sviluppo di
approcci terapeutici meno tossici, che non prevedano l’utilizzazione di
regimi chemioterapici mieloablativi ad alte dosi, ma piuttosto si basino
su manovre immunologiche più specificamente dirette verso la cellula
leucemica ha perciò rappresentato uno degli obiettivi dei ricercatori
impegnati nello sviluppo delle bioterapie in oncoematologia.
Diverse osservazioni hanno contribuito nel recente passato a motivare
la ricerca in questa direzione. Innanzitutto il fatto che alcune neoplasie
ematologiche risultano incurabili anche con i regimi mieloablativi più
intensi; secondo, la considerazione che molti dei successi ottenuti con
il trapianto di midollo osseo allogenico tradizionale erano da attribuirsi,
almeno in parte, alla reazione immunologica contro la leucemia (GVL)
più che al regime mieloablativo (74); infine, l’osservazione che pazienti
affetti da thalassemia major trapiantati dopo chemioterapia convenzionale potevano sporadicamente sviluppare delle chimere miste stabili,
peraltro sufficienti a curarne l’espressione fenotipica (75), ha suggerito
approcci terapeutici immunologicamente più mirati e meno mieloablativi, associati a terapia immunosoppressiva pre- e post-trapianto, con
l’intento di stabilire una mutua tolleranza trapianto-ospite nella forma
di stabili chimerismi ematopoietici donatore-ospite (76).
Successivamente, è stato poi evidenziato che i chimerismi misti potevano essere convertiti a chimerismi completi tramite l’infusione di
linfociti da donatore, in alcuni casi senza lo sviluppo della reazione
contro l’ospite (GVHD); ciò ha permesso di ipotizzare che i meccanismi responsabili della GVHD fossero distinti dall’effetto immunoterapeutico della GVL. Questo aspetto della trapiantologia è ancora caratterizzato da molta confusione; la descrizione di antigeni minori del
sistema di istocompatibilità specifici del compartimento emopoietico
ha suggerito che gli antigeni coinvolti nei processi di GVHD e GVL
possano essere distinti (77), o forse è possibile che le cellule neoplastiche siano più sensibili ai meccanismi immunologici.
Tali esperienze hanno aperto nuove frontiere nella trapiantologia
moderna. Il tentativo di separare la GVHD dalla GVL ha stimolato
la formulazione di nuovi protocolli terapeutici caratterizzati
dalla esecuzione di trapianti di midollo osseo non mieloablativi
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(minitrapianti) e depleti delle cellule T, le cellule responsabili
della GVHD, seguiti da ripetute infusioni di linfociti da donatore,
al fine di indurre una efficace reazione contro la leucemia.
Questi protocolli terapeutici sono applicabili esclusivamente a
quelle patologie sensibili all’effetto GVL. Un simile approccio è
generalmente perdente nei casi di patologie aggressive quali leucemie
acute refrattarie, mentre possono dare risultati positivi per il consolidamento di LMA in fase di remissione, ad alto rischio di recidiva. I migliori candidati a questo tipo di strategia sembrano essere pazienti relativamente stabili affetti da patologie quali la LMC in fase cronica o neoplasie linfoidi a basso grado di malignità.
In campo sperimentale, numerosi sono gli sforzi attualmente in corso
atti alla definizione di nuove strategie alternative alla terapia immunosoppressiva cronica aspecifica per l’induzione di tolleranza immunologica specifica agli antigeni del donatore. Anticorpi monoclonali contro
le cellule T sono stati utilizzati in diversi modelli murini nella fase pretrapianto, in associazione a diverse formulazioni di irradiazione corporea totale. Tali anticorpi sono diretti contro gli antigeni CD3, CD4 e/o
CD8 (78). L’irradiazione corporea totale può alternativamente essere
omessa aumentando la quantità di midollo trapiantato (79). Grande
interesse ha suscitato ultimamente la possibilità di indurre tolleranza
tramite anticorpi monoclonali diretti contro molecole co-stimolatorie
(80). In particolare, il CTLA4, antigene in grado di riconoscere lo stesso ligando del CD28 ma promotore di un segnale inibitorio, è stato utilizzato con successo in diversi protocolli sperimentali aventi l’obiettivo
di indurre chimerismi ematopoietici misti e tolleranza immunitaria (81).
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ANTICORPI
MONOCLONALI
Recenti evidenze sperimentali hanno dimostrato la capacità di alcuni
anticorpi monoclonali di controllare la crescita delle cellule neoplastiche. In particolare, anticorpi contro antigeni di superficie di cellule
tumorali quali idiotipi di cellule B, contro antigeni espressi da cellule B
(CD20), da blasti leucemici mieloidi (CD33) e da linfociti sia T che B
(CD52) si sono dimostrati efficaci in protocolli clinici (82). La Tabella 5
riporta alcuni anticorpi monoclonali potenzialmente utilizzabili nel trattamento di diversi disordini linfoproliferativi.
La comprensione del meccanismo di azione attraverso cui gli anticorpi
monoclonali controllano la crescita neoplastica è stata ed è tuttora
oggetto di dibattito scientifico. Fino agli anni ottanta si riteneva che il
meccanismo immunoterapeutico principale consistesse nell’induzione
Anticorpi monoclonali utilizzati nei
disordini linfoproliferativi
Tabella 5
Antigene
Anticorpo monoclonale
Umanizzato
CD4
cMT412
Chimerico
CD5
T101
No
CD10
J5
No
CD19
CLB-CD19
No
CD20
1F5
No
CD20
IDEC-C2B8 (Rituximab)
Chimerico
CD21
OKB7
No
CD25
Anti-TAC
No
CD52
Campath-1M
No (ratto)
CD52
Campath-1H
Chimerico
HLA-DR
LYM-1
No
Ig idiotipo
Anti-idiotipo
No
Da: Coiffier (82).
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dell’opsonizzazione e della citotossicità cellulare anticorpo-dipendente
(ADCC) (83). Nel passato più recente, si è invece affermata l’opinione
che sia la capacità degli anticorpi monoclonali di generare segnali
transmembrana a controllare o ad alterare la crescita tumorale (84)
(vedi Figura 2); la regressione del tumore si può così correlare con la
Figura 2 • Meccanismi di citotossicità mediata da anticorpi monoclonali
Generazione di segnali transmembrana
A
Cellula bersaglio
Apoptosi
K562
Differenziazione
Stop proliferazione
Antigene di
membrana
Anticorpo
monoclonale
Citotossicità cellulare anticorpo-dipendente
B
K562
Cellula bersaglio
Antigene di
membrana
Anticorpo
monoclonale
FcR
Macrofago
Cellula NK
Lisi complemento-mediata
C
Cellula bersaglio
Antigene di
membrana
Anticorpo
monoclonale
C1
Una volta che l’anticorpo monoclonale si lega alla superficie della cellula, induce citotossicità attraverso diversi meccanismi: A. la trasduzione di una serie segnali intracellulari che provocano arresto della crescita, differenziazione cellulare e apoptosi;
B. una risposta immune anticorpo-dipendente; C. una risposta immune mediata dalla
cascata del complemento
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capacità dell’anticorpo monoclonale di indurre segnali intracellulari,
quali per esempio l’aumento della fosforilazione dei substrati tirosinici
(85). L’evidenza più significativa viene da un’esperienza con anticorpi
monoclonali anti-idiotipo nel trattamento di linfomi non-Hodgkin a cellule B a basso grado di malignità; tale anticorpo, diretto contro la
regione variabile del recettore per gli antigeni delle cellule B (BCR), è
stato capace di indurre remissioni cliniche fino a otto anni, pur in presenza di cellule linfomatose residue nel sangue periferico e nel midollo
osseo (86). L’anticorpo contro il BCR inizia una cascata di eventi biochimici che controllano la crescita di cellule B normali o maligne; il
livello di co-stimolazione, la durata del segnale e il livello di differenziazione determinano il destino della cellula (87). È stato, inoltre, suggerito che la produzione di IFNg da parte di linfociti T anti-idiotipo CD8
positivi sia coinvolta nei meccanismi di controllo della proliferazione
cellulare (88).
I risultati più significativi ottenuti in oncoematologia con l’utilizzo di anticorpi monoclonali sono stati raggiunti con la stimolazione dell’antigene CD20. Il CD20 appare sulla superficie della cellula B allo stadio di differenziazione pre-B, è espresso a vari livelli di
intensità da cellule B normali e maligne, mentre non è presente su cellule staminali o su plasmacellule. La stimolazione del CD20 induce la
trasduzione di una serie di segnali evidenziati dall’attivazione della
fosfolipasi C, dall’aumento della fosforilazione in tirosina, così come
dalla stimolazione dell’oncogene c-MYC. Tali cambiamenti che regolano la crescita della cellula B sono secondari all’associazione del CD20
con proteine chinasi della famiglia src (89) e con una serie di altri
recettori di membrana quali il CD40 e proteine MHC di classe II (90);
diversi studi hanno inoltre dimostrato come la stimolazione del CD20
con anticorpi monoclonali possa indurre i meccanismi tipici di apoptosi cellulare (91).
Una proteina chimerica diretta contro il CD20 (Rituximab) ha
prodotto una risposta in circa il 50% di pazienti affetti da linfoma non-Hodgkin a basso grado di malignità in recidiva di malattia, dimostrandosi in grado di negativizzare linfociti di pazienti che
ancora presentavano positività per la traslocazione t(14;18) (92).
L’aspetto più interessante della terapia con anticorpi monoclonali
riguarda la possibilità del loro utilizzo in combinazione con la terapia
convenzionale. In uno studio di fase II effettuato in pazienti con linfoma non-Hodgkin a basso grado all’esordio o pretrattati, utilizzando
l’associazione CHOP + Rituximab sono state riportate risposte globali
nel 95% dei casi, con il 55% di remissioni complete (93). Uno studio
multicentrico italiano attualmente in corso ha l’obiettivo di valutare
l’efficacia della somministrazione come prima linea di trattamento di 6
cicli di chemioterapia CHOP, seguita da 4 infusioni endovenose dell’anticorpo monoclonale contro il CD20, in pazienti affetti da linfoma
non-Hodgking follicolare. L’obiettivo dello studio è il monitoraggio
molecolare della t(14;18) sui linfociti periferici e midollari durante le
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diverse fasi dell’iter clinico-terapeutico (94). L’analisi polymerase chain
reaction (PCR) per la ricerca del gene chimerico BCL-2/IgH, caratteristico di questa malattia, ha potuto evidenziare che molti dei pazienti
ancora molecolarmente positivi dopo 6 cicli di CHOP ottenevano una
remissione molecolare periferica e midollare dopo somministrazione
dell’anticorpo. Solo un più prolungato follow-up clinico potrà dimostrare se questa ormai documentata risposta biologica si tramuterà in un
beneficio clinico per i pazienti.
Un altro aspetto interessante del trattamento con anticorpi monoclonali, riguarda la possibilità della loro coniugazione con composti
radioattivi o farmacologici, con l’intento di concentrare gli effetti del trattamento sulle masse tumorali, limitando al massimo gli
effetti collaterali (Figura 3). La radiosensibilità delle cellule B linfomatose permette di identificarle come bersaglio ideale. Risultati inco-
Figura 3 • Meccanismi di attività di anticorpi radio- o chemio-coniugati
Radio o
chemio-coniugato
Anticorpo monoclonale
Antigene di
membrana
Nucleo
Danno al DNA
Inibizione della sintesi
proteica
L’anticorpo monoclonale coniugato al farmaco o al composto radioattivo si lega al
proprio recettore sulla superficie cellulare. Avvenuto il legame, il complesso recettoreanticorpo-coniugato viene internalizzato dalla cellula. Il composto coniugato viene
quindi rilasciato dall’anticorpo e produce i suoi effetti citotossici con diverse modalità,
inclusa l’inibizione della sintesi proteica e il danneggiamento del DNA.
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raggianti sono stati ottenuti con un anticorpo radioiodinato 131 I-antiCD20 in pazienti affetti da linfoma a cellule B, con remissioni complete
fino al 50% dei pazienti trattati (95, 96).
Un’altra proteina recettoriale che ha ricevuto l’attenzione degli
oncoematologi è il CD33. Il CD33 è un antigene di superficie espresso dalle cellule mieloidi più immature e da più del 90% dei casi di
LMA, ma non dalle cellule ematopoietiche staminali. Studi iniziali effettuati in vivo con un anticorpo monoclonale murino anti-CD33 in
pazienti affetti da LMA hanno dimostrato che l’anticorpo si lega alle
cellule leucemiche e che il complesso antigene-anticorpo viene rapidamente internalizzato, determinando una diminuzione della conta periferica dei blasti, senza però indurre una risposta clinica sostenuta (97).
Risultati positivi sono stati ottenuti in pazienti con recidiva di LMA utilizzando composti coniugati di CD33 con l’agente chemioterapico calicheamicina (98). I risultati di uno studio clinico in fase II che ha utilizzato questo composto sono stati recentemente presentati (99). Di 35
pazienti affetti da LMA refrattaria ai trattamenti o in fase di recidiva,
sono state documentate 2 risposte complete. Uno degli aspetti più
significativi di questo approccio combinato risiede nel fatto che il
miglioramento della risposta terapeutica è ottenuto senza un incremento della tossicità, probabilmente perché gli anticorpi monoclonali e
i farmaci convenzionali agiscono attraverso meccanismi differenti.
Anticorpi radio-coniugati 231 B 1 -anti-CD33 sono stati inoltre utilizzati nel
contesto del trapianto di midollo osseo, nel tentativo di ridurre la tossicità alle normali cellule staminali presenti nel midollo osseo; i risultati
di tale esperienza sono tuttora in corso di valutazione (100).
Obiettive risposte cliniche sono state ottenute in diverse patologie linfoproliferative utilizzando l’anticorpo monoclonale diretto
contro il CD52 (Campath-1H). L’antigene CD52 è espresso su più
del 95% dei linfociti normali e sulla maggior parte delle cellule linfomatose B e T, ma non sulle cellule staminali (101). Studi in vitro hanno
documentato che Campath-1H è in grado di mediare meccanismi di
citotossicità cellulare e di lisi indotta dal complemento, meccanismi
entrambi coinvolti nell’attività terapeutica dell’anticorpo in vivo evidenziata per la prima volta in pazienti affetti da linfoma non-Hodgkin (102).
Successivamente, in uno studio multicentrico su 29 pazienti affetti da
LLC a cellule B resistenti ai trattamenti chemioterapici o in fase di recidiva è stata documentata una percentuale di risposte parziali del 38%
e di risposte complete del 4% (103). Campath-1H è stato anche utilizzato, sempre in pazienti affetti da LLC, come trattamento di prima
linea dove ha evidenziato una percentuale di risposta dell’89% (104) e
per il purging in vivo della malattia residua (105).
L’altro gruppo di patologie che ha tratto giovamento dall’utilizzo dell’anticorpo monoclonale contro l’antigene CD52 è rappresentato dai
disordini linfoproliferativi cronici a cellule T. L’evidenza più significativa
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proviene da uno studio in fase II su pazienti affetti da leucemia prolinfocitica a cellule T (106); in tali pazienti, è stato possibile ottenere
una percentuale di risposta del 77%, con il 59% di risposte complete e
il 18% di risposte parziali.
I protocolli terapeutici con Campath-1H prevedono una somministrazione per via sottocutanea o endovenosa. Gli effetti dell’anticorpo si
estendono a tutte le popolazioni linfocitarie; è quindi intuibile come
tale trattamento possa indurre seri effetti collaterali, in particolare una
prolungata linfopenia e profonda immunosoppressione, spesso risultanti in importanti infezioni opportunistiche.
Accanto agli anticorpi monoclonali diretti contro antigeni di superficie
delle cellule neoplastiche, sono stati utilizzati in oncoematologia anticorpi monoclonali radioimmunoconiugati diretti contro antigeni di
superficie delle cellule del sistema ematopoietico dell’ospite, al fine di
concentrare gli effetti delle radiazioni nei siti di ematopoiesi.
L’anticorpo monoclonale 131 I-anti-CD45 è stato infatti sviluppato con
questo obiettivo alla luce delle caratteristiche dell’antigene CD45; l’espressione del CD45 è limitata al sistema ematopoietico e l’antigene
non va incontro a internalizzazione dopo il legame con l’anticorpo,
prolungando quindi l’esposizione della cellula bersaglio e del tessuto
ematopoietico circostante agli effetti delle radiazioni. Di recente pubblicazione sono i risultati di uno studio in fase I su pazienti affetti da
leucemia acuta e sindrome mielodisplastica, disegnato con l’obiettivo
di stabilire i livelli massimi tollerati di 131 I-antiCD45 in associazione a
ciclofosfamide e irradiazione corporea totale; in tale studio, è stato
possibile dimostrare un rilascio selettivo di radiazioni alla milza e al
midollo osseo, con parziale risparmio degli altri organi (107).
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IMMUNOTERAPIA
SPECIFICA:
VACCINOTERAPIA E
CELLULE DENDRITICHE
Al contrario dei vaccini prodotti per la prevenzione delle malattie infettive, la vaccinazione per la patologia neoplastica, che consiste nell’attivazione di una risposta immune contro antigeni a cui il sistema
immunitario è stato già esposto, ha finalità terapeutiche. L’insorgenza
di una risposta immunitaria attiva contro antigeni tumorali putativi è
osservata raramente durante la trasformazione neoplastica, essendo il
tumore nella maggior parte dei casi in grado di indurre uno stato di
tolleranza immunitaria contro i propri antigeni.
La scoperta di antigeni specifici delle cellule neoplastiche ha
così suggerito la possibilità di creare vaccini anti-tumorali (108).
La strategia vaccinale mira a utilizzare cellule derivate dal tumore (109)
o materiale cellulare contenente antigeni nascosti o non identificati
(110) per indurre un riconoscimento immunitario specifico degli antigeni tumorali. Alternativamente, antigeni associati al tumore possono
essere utilizzati direttamente come immunogeni (111, 112).
Una situazione particolare è quella presentata in oncoematologia dai
tumori a cellule B. Le immunoglobuline, infatti, contengono delle porzioni particolari collettivamente denominate idiotipi che possono essere riconosciute dal sistema immunitario e possono essere utilizzate per
il disegno di programmi vaccinali (vedi 113 per una monografia sul
tema). Gli idiotipi espressi dalle cellule tumorali nelle neoplasie a cellule B possono essere considerati come specifici antigeni tumorali e bersagli per la formulazione dei vaccini (114, 115). Esperienze incoraggianti sono state riportate nei linfomi non-Hodgkin e nel mieloma multiplo (116, 117). In un recente studio, pazienti affetti da linfoma follicolare in remissione completa, ma con persistenza del marcatore molecolare evidenziato tramite PCR dalla traslocazione t(14;18),
sono stati sottoposti a vaccinazione con cellule tumorali attivate dopo
incubazione con il ligando del CD40, in associazione alla somministrazione di fattore stimolante la crescita di granulociti-macrofagi (GMCSF). Nei pazienti trattati è stato possibile dimostrare la generazione
di cellule T CD8 + idiotipo-specifiche e l’induzione di remissioni molecolari come conseguenza diretta della terapia vaccinale (118).
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Un approccio immunoterapeutico moderno mira a promuovere l’attivazione dei linfociti T citotossici (CTL) CD8 positivi, identificati come i
principali effettori cellulari in diversi modelli murini di rigetto tumorale,
tramite un’appropriata presentazione dell’antigene tumorale. Le cellule dendritiche (DC) sono cellule presentanti l’antigene (APC) specializzate nell’induzione della risposta primaria cellulare T, sia CD4 che
CD8 (119). Esse derivano da cellule progenitrici del sistema emopoietico CD34 + e dai monociti. Le DC sono in grado di fagocitare, processare ed esprimere antigeni tumorali nel contesto di elevati livelli di
molecole del complesso maggiore di istocompatibilità (MHC) di classe
sia I che II, così come di esprimere molecole co-stimolatorie (ad
esempio il B7 per lo stimolo del CD28) e citochine e chemochine attivatorie (120, 121).
L’immunizzazione con DC autologhe pulsate con antigeni o peptidi
tumorali è stata utilizzata con successo in diversi modelli animali (122,
123) e, più recentemente, è stata introdotta in protocolli clinici per il
trattamento del linfoma non-Hodgkin (111) e del mieloma multiplo
(124). Nel primo studio è stata indagata la capacità di DC autologhe
pulsate ex vivo con proteine idiotipiche tumore-specifiche di stimolare
un’immunità anti-tumorale. Si tratta di uno studio pilota in cui 4
pazienti affetti da linfoma follicolare a cellule B hanno ricevuto una
serie di 3 o 4 infusioni di DC pulsate con l’antigene, seguite da infusione di antigene solubile. Tutti i pazienti hanno sviluppato una risposta
immunitaria anti-tumorale cellulo-mediata; un paziente è andato in
remissione molecolare, il secondo ha evidenziato regressione completa
della massa tumorale, il terzo regressione parziale.
Nel secondo lavoro, lo stesso gruppo di ricercatori ha eseguito una
serie di immunizzazioni mensili con DC pulsate con l’idiotipo in pazienti
affetti da mieloma multiplo dopo chemioterapia ad alte dosi e trapianto
di cellule staminali da sangue periferico, seguite dalla somministrazione per via sottocutanea dell’idiotipo coniugato all’adiuvante KLH
(keyhole limpet hemocyanin). Questo studio ha dimostrato che in questo tipo di pazienti, la vaccinazione idiotipica con DC è in grado di
indurre una risposta immunitaria T specifica anti-idiotipo.
Un’altra via sperimentata per l’attivazione delle DC nell’induzione di
una risposta CTL specifica per gli antigeni tumorali è quella del CD40
(125). Il CD40 è un membro della superfamiglia del recettore del TNF
ed è espresso su cellule B, DC, monociti, così come su cellule neoplastiche. Il sistema CD40-CD40 ligando gioca un ruolo centrale nella
regolazione della risposta immune, consentendo l’interazione della cellula T con la cellula presentante l’antigene. La stimolazione cellulare
tramite il CD40 induce la maturazione della cellula B, la produzione di
citochine, compresa l’IL-12, l’espressione di molecole di adesione e
costimolatorie quali il ligando del CD28 o molecole del complesso
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maggiore di istocompatibilità, esalta l’attività anti-tumorale dei monociti, e induce la maturazione e differenziazione delle DC. Inoltre, il
legame del CD40 espresso dalle DC con il ligando del CD40 sulle cellule T CD4 positive promuove la produzione di linfochine atte a contribuire all’attivazione di linfociti T citotossici con attività anti-tumorale
(vedi Figura 4).
Per ciò che concerne le cellule tumorali, la stimolazione del CD40 può
direttamente inibirne la proliferazione, incrementare il livello di apoptosi e l’espressione del gene Fas, o favorire la citotossicità cellulomediata anticorpo-dipendente. Bisogna però sottolineare che l’effetto
sulla cellula neoplastica può variare a seconda del tipo cellulare, in
alcuni casi addirittura stimolandone la proliferazione (per una review
vedi 126).
Figura 4 • Ruolo del CD40 nella risposta immunitaria anti-tumorale
ICAM-1
LFA-1
CD2
CD4 o CD8
Cellula T
TCR/CD3
CD40L
LFA-1
ICAM-1
LFA-3
MHCI o II
CD28
CD40
CD80 (B7-1)
CD86 (B7-2)
Linfochine
APC
L’incontro del TCR con l’antigene presentato nel contesto del complesso maggiore di
istocompatibilità sulla superficie della APC, rappresenta il primo segnale attivatorio
per il linfocita, che rapidamente esprime il ligando del CD40. Il legame CD40-CD40L
stimola l’espressione sulla superficie della APC di molecole costimolatorie quali B7-1
e B7-2, e di molecole di adesione quali LFA-1, LFA-3 e ICAM-1, che rappresentano il
secondo segnale necessario all’attivazione di cellule T naive, all’amplificazione della
risposta immune e alla prevenzione dell’anergia.
TCR: recettore della cellula T; APC: cellula presentante l’antigene; CD40L: ligando del
CD40; LFA-1 e 3: leukocyte function-associated 1 e 3; ICAM-1: intercellular adhesion
molecule 1.
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Espressione del CD40 e del CD40L
su neoplasie ematologiche
Tabella 6
Cellule tumorali
CD40
CD40L
Linfoma a cellule B a basso
grado di malignità
+
-
Linfoma a cellule B ad alto
grado di malignità
+
-
LLA a cellule B
±
-
Mieloma multiplo
+
-
Leucemia/Linfoma a cellule T
-
+
Malattia di Hodgkin
+
-
LMA
±
-
Mod. da Costello et al. (126).
Recentemente, è stato presentato un modello murino di rigetto CTLdipendente di linfoma a cellule B dopo trattamento con anticorpi agonisti diretti contro il CD40 (127); tale evidenza è di significato particolare se si considera che il segnale trasmesso tramite il CD40 possiede
la capacità di sostituire le cellule T CD4 + per l’induzione della risposta
immune anti-tumorale specifica CD8 + .
Il ligando del CD40 è stato anche direttamente trasdotto in cellule
tumorali che acquistano così la capacità di stimolare una risposta
immunitaria T (128; vedi capitolo “Terapia genica”).
Accanto al GM-CSF e al ligando del CD40, diversi studi presenti in letteratura hanno evidenziato come altre proteine quali l’IL-4 (129), il
TNFa e l’Flt3 hanno la capacità di stimolare le DC nella presentazione
di antigeni tumorali e possono quindi essere utilizzate come adiuvanti
per la formulazione dei vaccini.
Alcune neoplasie ematologiche possiedono una caratteristica particolare: diversi studi hanno, infatti, evidenziato come le stesse cellule di
LMC cronica possano essere indotte a differenziare in DC (130) pur
mantenendo il marcatore genetico BCR-ABL e potendo, quindi, rappresentare un forte stimolo di risposta cellulare T contro gli antigeni
leucemici (131). È chiaro che la possibilità di immunizzare pazienti con
LMC in remissione dopo terapia convenzionale, in un momento in cui il
sistema immunitario è attivato e stimolabile (132), con DC autologhe
che presentino il marcatore di malattia rappresenta una affascinante e
percorribile prospettiva.
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L
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A
Recentemente, è stato evidenziato come anche blasti di LMA e di LLA
Ph + possano essere stimolati a differenziare in DC, dopo stimolazione
con il ligando del CD40, IL-4 e TNFa per le LMA e con il ligando del
CD40 e IL-4 per le LLA (133). Queste DC mantenevano il marcatore
genetico del clone neoplastico ed erano capaci di evocare, a differenza dei blasti primari, una risposta immunitaria.
Generalmente parlando, le potenziali applicazioni delle summenzionate osservazioni mirano a indurre una attivazione in vivo di
cellule T con attività anti-leucemica e alla generazione ex vivo
di cellule T specifiche attraverso il riconoscimento di antigeni
leucemici immunogenici. Questi approcci sperimentali possono
vedere una realizzazione clinica in regimi terapeutici sia autologhi che
allogenici.
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7
OLIGONUCLEOTIDI
ANTISENSO
Le alterazioni citogenetiche quali le traslocazioni e le amplificazioni
spesso conducono a una incrementata espressione degli oncogeni, tali
da conferire alle cellule trasformate una resistenza ai segnali apoptotici
e la perdita della capacità di controllo della proliferazione.
Gli oligonucleotidi antisenso (OA) sono delle brevi sequenze
nucleotidiche di DNA o RNA inversamente complementari a una
desiderata sequenza nucleotidica bersaglio di mRNA, la cui
espressione può essere inibita tramite la formazione della doppietta OA-mRNA (Figura 5). L’utilizzazione di OA bersaglio di mRNA
codificante per oncogeni ha permesso di formulare nuove strategie
anti-tumorali specificamente dirette contro l’evento trasformante (per
una review vedi 134).
Diverse sono oramai le evidenze sperimentali che supportano il ruolo
degli OA in oncoematologia. L’aggiunta a cellule umane in coltura di
OA anti-oncogeni può risultare in un’inibizione della proliferazione cellulare e talvolta anche in morte cellulare, così come in modelli murini di
neoplasie ematologiche umane la somministrazione di oligonucleotidi
per via sistemica ha in alcuni casi sortito un evidente effetto anti-leucemico (135).
Sulla base di queste evidenze, diversi protocolli clinici sono stati intrapresi nell’uomo. Le patologie dove sono stati ottenuti i risultati
più significativi sono la LMC e il linfoma follicolare.
La strategia terapeutica formulata per la LMC prevede l’utilizzazione di
OA per BCR-ABL. Dopo i primi risultati in vitro su cellule Ph + e in vivo
su modelli murini, sono stati testati pazienti sottoposti a trapianto di
midollo autologo, le cui cellule staminali venivano sottoposte a purging
in vitro con OA per BCR-ABL prima della reinfusione (136). In tutti i
casi, è stato possibile ottenere una ricostituzione ematologica con una
bassa tossicità e promettenti risultati soprattutto per i pazienti ad alto
rischio.
Un’altra strategia elaborata per i pazienti affetti da LMC prevede l’utilizzazione di OA per BCR-ABL in associazione a OA per l’oncogene cMYC. L’espressione della proteina funzionale MYC sembra essere
essenziale per la trasformazione delle cellule ematopoietiche indotta
da BCR-ABL. Un modello murino di immunodeficienza severa combinata con induzione di leucemia a cellule Ph+ , ha evidenziato che il trattamento combinato con OA per BCR-ABL e per c-MYC era superiore
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Figura 5 • Meccanismo d’azione degli oligonucleotidi antisenso (OA)
5’
mRNA
Prevenzione
della
traslazione
3’
Degradazione da
parte di RNasi H
OA con vettore
virale
OA con vettore
cationico
OA
L’OA entra all’interno della cellula per meccanismo vettoriale o per endocitosi. Una
volta all’interno della cellula previene la sintesi proteica per inibizione della traslazione
o per degradazione della catena doppia da parte della RNasi H.
al trattamento con i singoli agenti, in termini di progressione della
malattia, numero di metastasi epatiche e sopravvivenza (137). Ciò ha
confermato il potenziale terapeutico di un trattamento che prevede l’utilizzazione di OA contro più oncogeni cooperanti fra di loro.
Il linfoma non-Hodgkin follicolare a cellule B è consistentemente associato alla traslocazione cromosomica t(14;18), presente in circa il 90%
dei pazienti affetti da tale patologia. Questa traslocazione pone il
proto-oncogene BCL-2 sotto la regolazione dell’immunoglobulina IgH,
risultando in un’aumentata espressione della proteina. Anche BCL-2
agisce sinergisticamente con l’oncogene MYC nell’induzione della proliferazione delle cellule B e formazione di tumori linfoidi (138). Un OA
per BCL-2 à stato testato con successo sia in modelli sperimentali
murini di linfoma (139), dove 10 animali su 12 hanno evidenziato
scomparsa di malattia, sia nell’uomo, dove uno studio in fase I è stato
recentemente completato in pazienti affetti da linfoma a cellule B in
fase di recidiva dopo almeno due diversi regimi chemoterapeutici
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(140): l’effetto tossico più rilevante è risultata essere la trombocitopenia, rapidamente reversibile dopo la sospensione del trattamento. Nei
20 pazienti studiati, si sono ottenute 1 risposta completa, 2 risposte
parziali, 8 stabilizzazioni e 9 progressioni di malattia.
Altri geni candidati a bersaglio di terapia con OA sono il BcL-XL , omologo del BCL-2 e coinvolto nei meccanismi di resistenza della cellula
neoplastica alla chemioterapia (141) e la proteina chinasi C alfa
(PKCa), serino treonino chinasi associata a recettori di induttori oncogenetici quali gli esteri del forbolo (142); OA contro la PKCa sembra
possano svolgere un ruolo terapeutico nel trattamento del linfoma a
basso grado di malignità (134).
Accanto all’effetto di silenziatori, gli OA possono incrementare l’attività
di alcune proteine bloccando l’espressione degli inibitori corrispondenti. In particolare, il gene MDM2, che codifica per un inibitore della proteina p53, risulta amplificato in una vasta gamma di tumori (143). AO
disegnati contro il trascritto del gene MDM2 sono in grado di aumentare l’attività della p53, che possiede un effetto proapoptotico e antiproliferativo sulle cellule tumorali (144).
Al momento attuale, gli sforzi dei ricercatori sono rivolti principalmente
al tentativo di aumentare l’emivita degli oligonucleotidi, ancora particolarmente breve per la vulnerabilità della struttura fosfodiesterasica
all’attività endo- ed eso-nucleasica, vulnerabilità che rappresenta la
maggiore limitazione all’utilizzazione terapeutica degli OA.
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TERAPIA GENICA
8
I tumori ematologici sono patologie dove sempre più frequentemente
vengono identificate alterazioni genetiche a carico delle cellule neoplastiche. In linea di principio, la terapia genica potrebbe quindi rappresentare un approccio altamente specifico attraverso il quale
tentare di correggere le anomalie della cellula maligna con minimi effetti collaterali a carico del paziente. In realtà, la limitata efficacia dei vettori fino a oggi utilizzati, l’incapacità di mirare specificamente alle cellule maligne e la caratteristica disseminazione delle neoplasie ematologiche rendono, al momento attuale, il concetto di “correzione genica” di difficile realizzazione. A questo va altresì aggiunto
che molto spesso la trasformazione neoplastica a carico del sistema
ematopoietico è un processo a diversi stadi che coinvolge numerose
anomalie genetiche.
Nonostante ciò, diversi protocolli sono stati proposti nel tentativo ad
esempio di neutralizzare la trascrizione di geni di fusione quali BCRABL, o di oncogeni attivati quali MYB in pazienti affetti da LMC, utilizzando RNA antisenso (vedi capitolo “Oligonucleotidi antisenso”),
ribozymes, o geni wild-type (145). Analogamente, geni wild-type sono
stati trasdotti allo scopo di sostituire anti-oncogeni non funzionanti,
quali ad esempio la p53 in pazienti affetti da LMA o da mielodisplasia
(146). Grande interesse è stato, inoltre, suscitato dalla possibilità di
interferire con i processi biochimici che regolano l’apoptosi, con l’obiettivo di modificare la sensibilità delle cellule neoplastiche alla chemioterapia (147).
Accanto alla riparazione di un difetto genetico, le tecniche di
trasferimento genico possono essere utilizzate per strategie
diverse, quali:
1. la stimolazione della risposta immunitaria anti-tumorale;
2. il rilascio di enzimi metabolizzanti pro-farmaci, allo scopo di rendere
il tumore sensibile al corrispondente agente citotossico;
3. la modificazione della risposta immune al tumore tramite l’alterazione della cellula tumorale stessa o la specificità delle cellule del sistema immunitario;
4. la marcatura di cellule ematopoietiche normali o maligne per il monitoraggio dell’efficacia delle terapie convenzionali;
5. la trasduzione in progenitori ematopoietici normali di geni che inducono la resistenza ai farmaci.
In oncoematologia, la stimolazione della risposta immunitaria antitumorale dell’ospite, tramite l’aumento del livello di citochine prodotte
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al sito del tumore, ha già prodotto risultati di un certo interesse. È
stato, infatti, dimostrato che utilizzando vettori retrovirali il gene
dell’IL-2 può essere trasdotto nel DNA di linee leucemiche umane sia
mieloidi che linfoidi e che le cellule ingegnerizzate non hanno un vantaggio proliferativo e mostrano una ridotta o abrogata capacità tumorigenica in topi immunodepressi (148). Più recentemente, utilizzando
come modello una linea leucemica T ottenuta da un paziente guarito il
nostro gruppo ha potuto dimostrare che le cellule neoplastiche ingegnerizzate a rilasciare IL-2 sono in grado di evocare una attività antitumorale sia specifica che non-specifica in linfociti autologhi co-coltivati con le cellule trasdotte (149).
A suffragare ulteriormente il potenziale ruolo dell’ingegnerizzazione di
cellule tumorali umane con il gene dell’IL-2, va ricordato come l’IL-2
rilasciata da cellule tumorali trasdotte sia in grado di promuovere l’espressione della catena z del TCR e delle tirosin-chinasi zap-70 e
p56 lck , molecole importanti nei processi di riconoscimento delle cellule
tumorali da parte dei linfociti T (150). Va sottolineato come un simile
risultato non sia stato osservato a seguito del trasferimento dei geni
per IL-4, IFNg e TNFa.
Gli studi pre-clinici effettuati su linee tumorali solide di diversa origine,
e soprattutto la dimostrazione che le cellule neoplastiche indotte a rilasciare IL-2 possono anche promuovere un’attività killing autologa con
generazione di CTL diretti specificatamente contro il tumore (151), ha
portato al disegno e alla realizzazione dei primi protocolli vaccinali
basati sull’uso di linee tumorali allogeniche o autologhe ingegnerizzate
a rilasciare IL-2 (e altre citochine) (152). Questi studi pilota sono stati
effettuati soprattutto in pazienti con melanoma metastatico e carcinoma del rene.
Poiché è estremamente arduo generare linee cellulari continue da
pazienti con neoplasie ematologiche, l’eventualità che queste strategie
terapeutiche innovative si sviluppino anche in oncoematologia dipende
in larga misura dalla possibilità di trasdurre efficacemente blasti leucemici (o cellule di linfoma) primari. Questo rappresenta ancor oggi il più
importante limite, metodologico, a una maggiore diffusione di programmi vaccinali basati sull’uso di cellule tumorali ingegnerizzate nell’uomo.
È stato altresì dimostrato come in una linea leucemica T la trasduzione
del gene del TNFa sia in grado di indurre una abrogata tumorigenicità
in vivo e come i cloni che rilasciano quantità di TNFa superiori a un
certo livello vadano incontro ad apoptosi (153). Questo si associa a
una riduzione dell’espressione di geni in grado di prevenire i processi
di apoptosi, quali BCL-2, mentre l’espressione di geni quali BAX e
p53, capaci di promuovere apoptosi, persiste.
La trasduzione di una vasta gamma di cellule tumorali umane con il
gene dell’IFNa (154) ha evidenziato un aumento di apoptosi spontanea
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e indotta, un aumento dell’espressione di geni soppressori quali la
p53 così come di molecole co-stimolatorie, e l’induzione di una risposta immune di tipo Th1 e di attività CTL. Recentemente è stata messa
a punto una metodica che prevede l’utilizzo di vettori retrovirali per
una efficiente trasduzione di cellule di LMC per il gene dell’IFNa (155).
Diverse esperienze sono state effettuate trasducendo il gene dell’IFNa
in fibroblasti; risultati positivi sono stati riportati in un modello di leucemia murina (156), dove la crescita tumorale è stata inibita da fibroblasti trasdotti da soli o in associazione a doxorubicina e in un modello di eritroleucemia reso sensibile al ganciclovir (157).
Anche linfociti T citotossici sono stati trasdotti con geni di citochine
quali il TNFa (158) o con proteine anticorpali legate alle catene g o z
del recettore delle cellule T, con l’obiettivo di aumentare i livelli di attivazione cellulare (159); le risposte ottenute con tali metodiche sono
però risultate deludenti.
La transfezione di geni codificanti per chemochine quali IP-10 e TCA3
in cellule tumorali murine è in grado di promuovere lo sviluppo di
immunità tumorale specifica (160), mentre la trasfezione con MCP1/JE determina lo sviluppo di un infiltrato macrofagico con una temporanea regressione del tumore senza però lo sviluppo di attività antitumorale specifica (161). Analogamente, il trasferimento del gene di
MCP-3 determina un accumulo perivascolare di DC nel tessuto peritumorale e il richiamo di neutrofili all’interno del tumore (162).
La trasduzione di cellule tumorali con geni codificanti per le molecole
del complesso maggiore di istocompatibilità, per il ligando del CD40 e
per fattori di crescita ha contribuito alla generazione dei vaccini tumorali (Vedi anche nel capitolo “Immunoterapia specifica: vaccinoterapia
e cellule dendritiche”). A tal riguardo, un capitolo particolare è rappresentato dalla LLC per la sua spiccata capacità di indurre anergia e i
tentativi effettuati con la trasduzione del ligando del CD40 nelle cellule
leucemiche di stimolare il sistema immunitario dell’ospite (163). La stimolazione del CD40 sulla superficie della cellula maligna ne determina
infatti una serie di cambiamenti fenotipici, fra cui l’espressione di
molecole co-stimolatorie e l’aumento dell’espressione delle integrine,
che le rende efficienti APC capaci di stimolare una risposta immune
proliferativa T (164). Studi pre-clinici hanno confermato che l’infezione
di cellule di LLC con un vettore adenovirale contenente l’informazione
genetica per il ligando del CD40 induce un riconoscimento immunitario capace di stimolare cellule T autologhe a proliferare e produrre
citochine, e generare una risposta T citolitica in grado di riconoscere
anche le cellule leucemiche non infettate (128). È attualmente in corso
uno studio in fase I per verificare la sicurezza di tale approccio nell’uomo. Il protocollo prevede la leucaferesi per la rimozione delle cellule di
LLC, l’infezione delle cellule leucemiche con il vettore adenovirale contenente l’informazione per il ligando del CD40 e l’infusione delle cellule
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infettate nel paziente. Risultati preliminari sembrano confermare la
sicurezza di tale approccio e la capacità di ridurre significativamente la
conta leucocitaria e le dimensioni dei linfonodi (165).
Come ricordato precedentemente nel capitolo su “Infusione di linfociti
da donatore”, il trasferimento di geni suicida è stato considerato in
pazienti che ricevono linfociti da donatore allo scopo di controllare la
GVHD (72, 166).
Un’ulteriore metodica di trasferimento genico che ha trovato applicazione in ematologia è quella della marcatura genica. Anche se non
direttamente terapeutica, essa ha permesso di acquisire informazioni
molto importanti sull’origine delle recidive in pazienti sottoposti a procedure autotrapiantologiche e sulla ricostituzione ematologica posttrapianto. Il trasferimento di un cosiddetto gene marcatore nel DNA di
cellule da utilizzare per il trapianto autologo in pazienti affetti da LMA e
da LMC ha potuto dimostrare che alle recidive ematologiche dei
pazienti autotrapiantati contribuiscono anche le cellule staminali infuse
(167, 168). Questi risultati sottolineano l’importanza delle procedure
intese a una più efficace eradicazione in vivo del clone neoplastico
prima della raccolta delle cellule staminali, il ruolo delle sempre più
precise e riproducibili tecniche di monitoraggio della malattia minima
residua (vedi capitolo ad hoc) e delle manovre ex vivo di arricchimento
dei progenitori staminali ematopoietici o di purging di cellule neoplastiche contaminanti.
Questo stesso approccio metodologico ha permesso altresì di rintracciare il gene marcatore nelle cellule rigeneranti di pazienti sottoposti
ad autotrapianto midollare, dimostrando quindi che al ripristino di una
ematopoiesi a lungo termine contribuiscono i progenitori cellulari infusi
in vivo (169).
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ACIDO RETINOICO
NELLA LEUCEMIA
ACUTA
PROMIELOCITICA
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Una patologia spesso citata come esempio di comprensione dei meccanismi molecolari che sottendono all’evento neoplastico e di come da
ciò sia derivata una terapia specifica per questa patologia è la leucemia acuta promielocitica (LAP) o M3 secondo la classificazione FAB.
La storia naturale di questa forma di LMA è radicalmente mutata dal
momento in cui è stata evidenziata la capacità dell’acido retinoico alltrans (ATRA) di indurre una differenziazione delle cellule leucemiche.
Tutti i casi di LAP classica sono associati alla traslocazione
t(15;17)(q21;q12), che determina la fusione del recettore per l’ormone
nucleare alfa dell’acido retinoico RARa al gene PML. La risultante proteina di fusione contiene il sito di legame per RARa. L’esatta funzione
della proteina normale PML non è nota, ma è generalmente situata
all’interno di strutture nucleari denominate corpi nucleari o POD (PML
oncogenic domains); la fusione del gene con il RARa ne determina una
differente distribuzione nucleare (170), evento ritenuto di una certa rilevanza nella trasformazione cellulare. Il trattamento con ATRA determina una rilocalizzazione genica, probabilmente contribuendo allo stimolo differenziativo. Recentemente, è stato altresì evidenziato che la proteina di fusione PML-RARa svolge un ruolo di repressore della trascrizione, laddove il gene RARa possiede una funzione attivatrice (171).
Il trattamento con dosi farmacologiche di ATRA in pazienti portatori
della proteina di fusione PML-RARa permette la riconversione alla funzione originale attivatrice di RARa (Figura 6).
Alcune rare varianti di LAP sono caratterizzate dalla fusione di RARa
con geni differenti da PML; tali varianti non rispondono alla terapia con
ATRA, ma le proteine di fusione che le caratterizzano presentano
anch’esse un’attività di repressione della trascrizione, confermando
quello che sembra essere un meccanismo comune a tutte le LAP.
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Figura 6 • Meccanismo d’azione dell’ATRA
RARa
N-CoR
A
PML
DNA
N-CoR
B
RARa
ATRA
PML
DNA
La proteina di fusione PML-RARa recluta un corepressore nucleare (N-CoR) in grado
di mediare la repressione trascrizionale (A). Con la somministrazione di ATRA, il cambiamento conformazionale di PML-RARa determina il rilascio del repressore (B) e l’attivazione dell’espressione genica così come indotta dalla proteina RARa originale.
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ANTI-TIROSINO CHINASI
NELLA LEUCEMIA
MIELOIDE CRONICA
La LMC è l’altra neoplasia ematologica ad avere un chiaro corrispettivo molecolare nella traslocazione t(9;22), risultante nella formazione
del cromosoma Philadelphia (Ph) e nella proteina di fusione BCR-ABL
(172). Quasi tutti i pazienti affetti da LMC in fase cronica esprimono la
proteina BCR-ABL di peso molecolare 210 kDa, mentre una quota di
pazienti affetti da LLA Ph + esprimono una proteina BCR-ABL di 185
kDa (173). La proteina di fusione BCR-ABL è una tirosino chinasi
costitutivamente attivata, con attività chinasica aumentata rispetto alla
chinasi c-ABL non traslocata. Diverse evidenze sperimentali hanno
dimostrato che l’attività tirosino chinasica di BCR-ABL è direttamente responsabile della trasformazione neoplastica. Per tale
motivo, la LMC rappresenta un modello sperimentale di notevole significato, vista la possibilità di interferire direttamente con i processi biochimici responsabili dell’evento neoplastico, tramite l’inibizione selettiva dell’attività chinasica della proteina traslocata. Dalla metà degli
anni ’80, l’attenzione dei ricercatori si è quindi concentrata verso la
ricerca di specifici inibitori di BCR-ABL, fino alla identificazione di una
classe di composti derivati dalla 2-fenilaminopirimidina (174), comprendente la CGB57148B. Essa è in grado di inibire specificamente
l’attività di p210 BCR-ABL e di p185 BCR-ABL , così come della proteina non
traslocata c-ABL e v-ABL. Di tutte le tirosino, serino e treonino chinasi
testate oltre a ABL, soltanto le tirosino chinasi associate a PDGFR e
c-kit hanno mostrato un certo grado di inibizione, confermando la
quasi completa selettività del farmaco (175). L’attività anti-tumorale di
CGB57148B è stata confermata in vivo con l’iniezione di cellule esprimenti BCR-ABL in topi singenici o nudi, seguita dal trattamento con il
farmaco per un periodo continuativo di 11 giorni; tale regime terapeutico si è dimostrato in grado di bloccare l’attività di BCR-ABL e ha
curato fino al 87–100% dei topi trattati (176).
Al momento attuale, è in corso un protocollo sperimentale in pazienti
affetti da LMC recidivati dopo trattamento con IFN, che prevede la
somministrazione quotidiana per via orale di un composto contenete
la CGB57148B. Il trattamento sembra ben tollerato e privo di importanti effetti collaterali; la farmacocinetica e la biodisponibilità risultano
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adeguate. Una risposta ematologica significativa è stata fino a oggi
osservata con il dosaggio farmacologico più elevato (177).
Questi studi costituiscono una pietra miliare per lo sviluppo degli antagonisti delle proteine chinasi nel trattamento delle patologie neoplastiche e aprono una finestra verso un futuro che potrebbe essere rappresentato da nuove generazioni di farmaci razionalmente disegnati per
antagonizzare i meccanismi molecolari direttamente responsabili degli
eventi trasformanti.
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MONITORAGGIO
BIOLOGICO DELLA
MALATTIA MINIMA
RESIDUA
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Idealmente, ogni protocollo terapeutico ottimale in oncologia vorrebbe
basarsi su parametri di malattia più obiettivi, sensibili e, possibilmente,
quantitativi rispetto a quelli comunemente utilizzati nella pratica clinica
per il follow-up di pazienti portatori di tumore. Mentre la speranza di
monitorizzare biologicamente il clone tumorale è rimasta per molti anni
disattesa, si può oggi affermare che per pazienti affetti da diverse
neoplasie ematologiche il monitoraggio della malattia minima residua è
un importante e realistico ausilio tecnologico per definire la persistenza o assenza di malattia dopo trattamento specifico e per la quantificazione del rischio di recidiva (178). L’impiego di tecniche qualitativamente e quantitativamente sensibili permette, infatti, l’identificazione
di cellule tumorali all’interno di diecimila o più cellule normali e fornisce informazioni prognosticamente rilevanti sulla sensibilità della
popolazione neoplastica al trattamento applicato e sul comportamento
biologico delle cellule tumorali residue durante e dopo il trattamento.
Lo studio della cosiddetta malattia minima con tecniche sia molecolari
che immunologiche è, quindi, diventata in oncoematologia una realtà.
Gli esempi più significativi di monitoraggio molecolare del clone neoplastico sono rappresentati dalla LMC dove il gene BCR/ABL può
essere con successo valutato durante le diverse fasi della malattia con
tecniche di PCR (179); analoghe procedure sono correntemente utilizzate per la LLA Ph + e per la LAP, ove è evidenziabile il caratteristico
riarrangiamento del gene PML/RARa (180) (per una review vedi 181).
Per quest’ultima, in alcuni protocolli la strategia terapeutica durante il
follow-up clinico viene decisa sulla base del monitoraggio molecolare
dei singoli pazienti. Simili approcci vengono utilizzati anche per il linfoma follicolare attraverso il monitoraggio del gene BCL-2 (182), nelle
LLA con traslocazione t(4;11) (183), nella LMA con traslocazione
t(8;21) (184) e nei linfomi non-Hodgkin (185).
Mentre i protocolli di monitoraggio molecolare appena discussi si
basano su specifici marcatori di malattia, va ancora ricordato come
una situazione particolare è quella rappresentata da tutte le neoplasie
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linfoidi acute e croniche, monitorizzabili per la presenza di almeno un
marcatore molecolare rappresentato da riarrangiamenti monoclonali
delle immunoglobuline o del recettore per le cellule T. Recentemente,
è stato riportato che il monitoraggio molecolare di bambini affetti da
LLA a intervalli costanti per i primi tre mesi dal trattamento permette di
classificare i pazienti con buona o cattiva prognosi e suggerisce eventuali correzioni al protocollo terapeutico applicato (186).
Accanto ai marcatori molecolari e genetici, altre metodiche di tipo
immunologico vengono correntemente utilizzate nei laboratori dei
reparti di ematologia per la caratterizzazione immunofenotipica delle
cellule leucemiche (per una review vedi 187). Esse si basano essenzialmente sulla citometria a flusso, che permette di identificare combinazioni immunofenotipiche specifiche delle cellule leucemiche. Studi
comparativi di tecniche immunologiche e molecolari hanno evidenziato
i limiti di specificità e sensibilità delle due metodiche nelle diverse
patologie (188), e concluso che in alcune neoplasie, quali la LLA del
bambino, il loro utilizzo contemporaneo permette il più accurato monitoraggio possibile dello stato di malattia (189). Uno studio prospettico
effettuato in 158 bambini affetti da LLA ha dimostrato che la persistenza di malattia definita sulla base di un monitoraggio immunologico
sequenziale della malattia minima residua è un importante fattore predittivo di ricaduta (190).
È fuor di dubbio che per molte neoplasie ematologiche, in primo
luogo le leucemie acute, il monitoraggio della malattia minima
residua attraverso diverse tecniche è una realtà metodologica
che si sta raffinando continuamente e che, in associazione ad
altri marcatori biologici (vedi sotto), sta gradualmente modificando il nostro approccio clinico-terapeutico a molti sottogruppi di
pazienti. Gli studi in corso sul monitoraggio quantitativo del clone
neoplastico sicuramente miglioreranno ulteriormente le possibilità di un
sempre più accurato e individualizzato follow-up dei pazienti oncoematologici.
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IMPATTO DI UNA ESTESA
CARATTERIZZAZIONE
BIOLOGICA DELLE
CELLULE NEOPLASTICHE
ALLA DIAGNOSI
Questa rappresenta una delle aree di maggiore sviluppo che si fonda
in larga misura sull’avanzamento delle metodologie rivolte a una più
accurata caratterizzazione della cellula neoplastica. L’intento ultimo è
quello di identificare sottogruppi di pazienti che, nell’ambito di
una singola patologia, rivelino caratteristiche prognostiche
diverse. L’importanza di questi studi si basa su due presupposti: in
primo luogo, la consapevolezza dell’eterogeneità del decorso clinico di
patologie apparentemente uguali e, in secondo luogo, la continua evoluzione delle tecnologie di laboratorio che permettono una sempre più
precisa definizione della cellula coinvolta. Inoltre, il continuo sviluppo
delle modalità citoriduttive, trapiantologiche e di supporto fa sì che a
sottogruppi di pazienti a prognosi più sfavorevole possano
essere offerte strategie terapeutiche più eradicanti.
Un esempio emblematico di quanto detto è lo sforzo che nell’ambito di
alcuni gruppi policentrici si sta compiendo per una caratterizzazione
allargata delle LLA dell’adulto e del bambino alla diagnosi. A titolo
esemplificativo descriviamo quanto attivato oltre tre anni or sono in
Italia per le LLA dell’adulto che aderiscono al protocollo GIMEMA. Tutti
i casi vengono centralizzati al momento della diagnosi in modo da permettere una accurata e omogenea definizione di numerosi parametri
biologici del clone leucemico. Come riassunto nella Tabella 7, questo
significa che per ogni nuovo caso vengano effettuati i seguenti studi:
morfologia (con revisione centralizzata), citochimica (localmente),
immunofenotipo (localmente e centralmente, ove richiesto), citogenetica, biologia molecolare, multidrug resistance (MDR) e ciclo cellulare,
allestimento di una banca di cellule vitali, DNA, siero e citocentrifugati.
Tutti i vari parametri analizzati vengono successivamente correlati con
la risposta alla terapia e con il successivo follow-up clinico. Ovviamente, tutti i pazienti sono sottoposti al medesimo protocollo di tera-
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Protocollo di centralizzazione delle LLA dell’adulto
nell’ambito del protocollo GIMEMA 0496
Tabella 7
Finalità
1. Caratterizzazione omogenea delle LLA dell’adulto alla diagnosi
ed alla ricaduta
2. Monitoraggio della malattia minima residua in sottogruppi
di pazienti
3. Allestimento di una banca di materiale biologico (cellule vitali,
DNA, RNA, lisati proteici, siero, vetrini, citocentrifugati)
Caratterizzazione omogenea dei blasti leucemici
• Immunofenotipo
• Citogenetica
• Biologia molecolare
• Multidrug resistance
• Cinetica cellulare
• Revisione morfologica
pia. Per i pazienti BCR-ABL + , che rappresentano circa il 25% delle LLA
dell’adulto, è prevista una terapia post-remissionale diversa e più
aggressiva. Alla luce dei risultati ottenuti anche nell’ambito di questo
studio italiano (183), anche per i casi con traslocazione t(4;11) che
mostrano un andamento clinico sfavorevole si sta prospettando la possibilità di disegnare un protocollo terapeutico ad hoc. Questo significa
che per le LLA BCR-ABL + e t(4;11) + , che rappresentano circa il 35% di
tutte le LLA (percentuale che aumenta se si calcolano solo le LLA nonT) e che hanno una prognosi sfavorevole, devono essere considerati
protocolli di terapia mirati. Questo fatto da solo sottolinea l’importanza
di una accurata caratterizzazione biologica delle LLA al momento della
diagnosi.
Questo stesso studio prevede altresì il monitoraggio della malattia
minima residua utilizzando marcatori molecolari e immunofenotipici
(per esempio le LLA T) durante il decorso clinico. Le possibilità di
monitoraggio del clone neoplastico sono tanto più allargate quanto più
accurato è l’inquadramento biologico effettuato al momento della diagnosi.
Un ulteriore esempio di come un approccio metodologico allargato
può essere utilizzato allo scopo di riconoscere sottogruppi di pazienti
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con fattori prognostici diversi è rappresentato dalla LLC. La LLC è,
infatti, una patologia che a fronte di caratteristiche cliniche e biologiche, intesa come caratterizzazione immunologica routinaria, spesso
identiche, ha un andamento clinico estremamente eterogeneo, con
pazienti con malattia stabile senza terapia per molti anni e altri con
rapida progressione clinica (191). Questo aspetto acquista importanza
ancora maggiore per pazienti con LLC di età più giovane, per i quali l’identificazione di fattori prognostici sfavorevoli può permettere di
implementare precocemente protocolli terapeutici più aggressivi e
potenzialmente più eradicanti (192). Un approccio integrato alla caratterizzazione della LLC contempla tra le molte indagini possibili: un’analisi morfologica e immunofenotipica allargata al fine di identificare le
cosiddette forme “atipiche”, una citogenetica con metodiche convenzionali e FISH per riconoscere le più frequenti anomalie, uno studio
dell’apoptosi e dei geni regolatori, una valutazione di p53. Tutti questi
parametri, valutati indipendentemente, hanno dimostrato una valenza
prognostica (per una rassegna vedi 193). Le analisi integrate di tutti i
summenzionati parametri su gruppi selezionati di pazienti attualmente
in corso potranno dare informazioni utili da un punto di vista sia clinico
che terapeutico.
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IDENTIFICAZIONE
DEI PROGENITORI
EMATOPOIETICI
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Una delle aree più affascinanti della ricerca scientifica in ematologia, e
più in particolare nel campo della trapiantologia, riguarda la possibilità
di identificare, isolare ed espandere i progenitori ematopoietici. La difficoltà principale fino a oggi incontrata dai ricercatori consiste nella
effettiva identificazione di queste cellule, capaci di ricostruire per intero corredi ematopoietici di animali da esperimento sottoposti a mieloablazione e di pazienti condizionati per programmi allotrapiantologici
(194). L’identificazione dell’antigene CD34 quale marcatore di membrana delle cellule più immature ha rappresentato una tappa fondamentale che ha permesso per la prima volta di circoscrivere la popolazione cellulare che contiene i progenitori ematopoietici e, quindi, di
effettuarne una selezione positiva. L’antigene CD34, infatti, permette
di identificare cellule progenitrici con capacità di proliferazione,
ma scarso potenziale di rinnovamento. Un marcatore positivo per
le cellule staminali pluripotenti, comparabile al CD34 per le cellule progenitrici (195), era però fino a oggi sconosciuto. Diverse metodiche,
comprendenti colture a lungo termine e saggi clonogenici, sono state
messe a punto ma con risultati insoddisfacenti. Recentemente, è stato
identificato un recettore per il fattore di crescita vascolare endoteliale
(VEGFR2), denominato anche Flk1 nel topo e KDR nell’uomo, che
sembra svolgere un ruolo chiave nell’emoangiogenesi embrionale
(196). Successivamente, veniva osservato che nell’uomo cellule CD34+
isolate da tessuto emopoietico post-natale presente nel midollo osseo,
cordone ombelicale e sangue periferico, comprendono circa lo
0.1–0.5% di cellule KDR + (197). In tutti questi tessuti, il KDR sembra
essere un marcatore in grado di distinguere le cellule staminali
dalle cellule progenitrici (per una rassegna vedi 198). La frazione
KDR + comprende virtualmente tutte cellule staminali, mentre la frazione
KDR- consiste di cellule oligo-unipotenti senza capacità di rinnovamento. Per studiare la capacità di ripopolazione delle cellule staminali,
Ziegler e collaboratori hanno trapiantato topi NOD-SCID irradiati con
cellule CD34 + KDR + e cellule CD34 + KDR – . Il trapianto con la frazione
di cellule KDR + ha evidenziato capacità consistenti di attecchimento,
mentre le cellule KDR – non sono state in grado di generare ripopolazione.
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L’estensione di questi studi e le potenziali implicazioni cliniche sono
molteplici. Da un punto di vista clinico, sarà probabilmente possibile
chiarire se il compartimento staminale è coinvolto o meno dall’evento
leucemico. Se così non sarà, potranno essere valutate le possibilità di
utilizzare progenitori KDR + purificati per procedure autotrapiantologiche. Sarà, inoltre, da indagare la possibilità di espandere ex vivo tali
progenitori, al fine di valutare funzionalmente il pool di progenitori staminali da pazienti con diverse neoplasie ematologiche. Si aprono
anche nuove prospettive di terapia genica; risultati preliminari nel topo
sembrano indicare che il trasferimento del gene Flk1 (analogo del KDR
per l’uomo) in cellule di sangue periferico CD34+ KDR – (fenotipo caratteristico delle cellule progenitrici) permetta una rigenerazione del fenotipo staminale.
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CONCLUSIONI
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Certamente, gli argomenti trattati in questo numero di Grandangolo
non hanno la pretesa di passare in rassegna tutte le situazioni dell’oncoematologia in cui le “bioterapie” hanno avuto un impatto nella diagnosi, nell’inquadramento clinico-prognostico, e nel disegno terapeutico di pazienti con neoplasie ematologiche. L’intento era quello di fornire, però, degli esempi obiettivi di situazioni in cui il supporto biotecnologico, e quindi il laboratorio nelle sue diverse accezioni, ha realisticamente contribuito all’avanzamento delle nostre conoscenze, tenendo
come punto fermo la ricaduta, già documentata o potenziale, sul
paziente. Ci auguriamo che da quanto discusso nei diversi capitoli
emerga chiaramente come una moderna gestione del paziente oncoematologico non può oggigiorno prescindere da un allargato e contestuale approccio laboratoristico. Solo attraverso una strategia integrata clinico-laboratoristica è, infatti, possibile un corretto inquadramento
diagnostico, l’identificazione di fattori prognostici, il monitoraggio della
malattia minima residua e l’attivazione di protocolli più aggressivi, ove
necessario. Questo non rappresenta che il primo passo verso il tanto
atteso disegno di protocolli terapeutici individualizzati basati su oggettivi parametri biologici.
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