Silvia Baglini, review of Ripensare Marx e i

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Azioni Parallele - Marcello Musto, Ripensare Marx e i marxismi
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Marcello Musto, Ripensare Marx e i marxismi
Categoria principale: Ritagli
Categoria: Letti
Pubblicato 10 Settembre 2014
di Silvia Baglini e Antonino Infranca
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ISSN 2420-8310
Eventi e Interventi
Marcello Musto
Ripensare Marx e i marxismi
Convegni, seminari
Atti, contributi
Studi e saggi
Roma Carocci, 2011, 376 p., Euro 33, ISBN:
9788843053087
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Ripensare Marx e i marxismi si presenta come titolo programmatico a partire dalla
grande operazione editoriale e filologica costituita dalla Mega2, la nuova edizione critica
delle opere complete di Marx e Engels avviata negli anni Settanta del secolo scorso. Che
non si disponesse ancora di un’edizione critica dei lavori di due pensatori di questo
calibro può apparire sorprendente, ed è anche anzitutto in questo senso che questa
raccolta di testi di Marcello Musto, finalmente riuniti in traduzione italiana, si presenta
decisiva: perché mette ordine nelle vicende della pubblicazione degli scritti di Marx e
Engels (del primo soprattutto) e della loro ricezione, fornendo un quadro complessivo
certamente in parte già noto tra gli studiosi almeno, ma qui ricostruito con una chiarezza
e un’esaustività che risultano proficue sia per chi voglia avvicinarsi a questi autori, sia
per chi già sia avanzato nella loro conoscenza e non disdegni un’accessibile cronocartografia di riferimento. Questa ricostruzione bio e bibliografica accurata – oltre che
decisamente accattivante alla lettura – chiarisce i motivi storici e culturali di una lacuna
quasi sconcertante e insieme permette di seguire lo sviluppo dei “marxismi”, ovvero di
quelle posizioni filosofiche che si collocano nel segno di Marx, pur andando spesso ben
oltre la volontà di interpretazione o trasmissione. Nel rivolgersi al pensiero marxiano
non è possibile ignorare la mole di parole e riflessioni che ad esso si sono richiamate, né
d’altronde si può dimenticare l’importanza da esso assunta nella storia politica,
economica, sociale del XX secolo. Benché si possano, anche agilmente, tracciare dei
distinguo tra l’opera del Moro di Treviri e quelle interpretazioni, azioni, pratiche,
rivoluzioni che hanno voluto vestirsi del suo nome, è non di meno velleitario rifiutare di
riconoscere che i protagonisti, tutt’altro che per ignoranza o mero interesse, hanno scelto
di rifarsi a Marx facendone in qualche modo il capostipite di una costellazione
ereditaria, anche ribelle, anche “traditrice”, ramificata, unita da interrogativi comuni,
problematiche filosofiche, esigenze etiche e politiche riconoscibili. Il compito che Musto
si pone è dunque duplice: guidarci a conoscere di nuovo Marx, alla luce di una
ricostruzione accurata della storia della ricezione e delle nuove acquisizioni filologiche
degli ultimi decenni; sollecitarci a ridiscutere il concetto di marxismo – non a caso fin
dal titolo declinato al plurale – non sulla falsariga di idee come fedeltà o correttezza,
bensì per riflettere ancora sulla vivacità dell’interrogare marxiano e sulla forza di
Günther Anders
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proprio alla perenne in-attualità di cui testimonia la storia di ritorni, sparizioni e
fraintendimenti che fa parte, per noi oggi, del significato che ad essi attribuiamo. Che il
pensiero di Marx abbia molto da offrirci ancora oggi è la convinzione di partenza che
sottende la costruzione del libro, scritto non per incontrare la moda del presunto ritorno
di Marx (in un mondo in cui l’alternativa concettuale ai sistemi dominanti appare in
realtà sempre più difficile da percepire e definire) ma con un’intenzione filosoficopolitica precisa, quella di risvegliare uno stile di pensiero irriverente, lucido, inquieto,
troppo spesso pacificato da una serie di letture che ne hanno voluto fare una ricetta
sociale o una visione della storia univoche e schematizzabili. Musto riparte dal modo di
interrogare marxiano, dalle vicende della costruzione del pensiero, dal contesto, dalle
strade aperte e lasciate incomplete da Marx stesso, per restituirci un pensatore
instancabile, insaziabile, curioso quanto critico e auto-critico, in perenne sviluppo
intellettuale: non un genio calato nel XIX secolo a svelarcene la Verità, non un autore
dalle fulminanti intuizioni e dalla produzione sicura e compiuta, ma un puntiglioso
artigiano del lavoro filosofico e un uomo interessato al mondo che lo circonda, le cui
domande nascono dalla volontà quasi compulsiva di comprenderlo. In questa officina
intellettuale fervente Musto ci trasporta risvegliando il Marx “incompiuto” e
obbligandoci a tenere a mente, in qualunque sua lettura o interpretazione ci si voglia
cimentare, lo stato redazionale delle opere con cui abbiamo a che fare, le vicende
editoriali, la ricchezza degli inediti; sollecitandoci a considerare le diverse vie
inaugurate, seguite, abbandonate, le false piste, le ricerche parallele e apparentemente
disparate che hanno nutrito il pensiero del Nostro. Non possiamo non ricordare che i
cosiddetti Manoscritti del 1844 sono quaderni di appunti scritti sull’impatto della
conoscenza con il mondo borghese, politicamente più vivace e economicamente più
avanzato rispetto a quello prussiano, della Parigi dei primi anni Quaranta, e che pertanto
piuttosto che una teoria – sia essa il culmine del pensiero marxiano, o un residuo di
umanismo filosofico poi abbandonato – essi ci offrono una preziosa testimonianza di
studio, di lavoro sul metodo, di precisazione di questioni centrali (ad esempio la scoperta
della storicità delle categorie economiche borghesi). Così, quando parliamo della
cosiddetta Ideologia tedesca e da lì traiamo le nostre definizioni sul «materialismo
storico», dobbiamo ricordare che essa fu abbandonata alla critica roditrice dei topi o
premurarci di dedicare più attenzione alle parti, ben più corpose di quella intitolata alla
critica di Feuerbach, che troppo spesso sono state trascurate. Così, soprattutto, se
studiamo il capolavoro di Marx dobbiamo precisare che solo il Primo libro del Capitale
fu pubblicato dall’autore; che il testo che conosciamo deve molto ai rimaneggiamenti,
pur benintenzionati, di Engels, che gli studi per quest’opera monumentale e non finita
iniziarono almeno nella seconda metà degli anni Cinquanta e proseguirono fino alla
morte di Marx. Il libro di Musto si divide in due parti: la prima dedicata alla “rilettura”
di Marx e ad una interpretazione che colleghi il pensiero alle vicende materiali della sua
produzione, collocando i testi – e dunque il loro significato – entro il contesto della loro
scrittura e dello sviluppo intellettuale dell’autore; la seconda che segue più propriamente
la storia della ricezione di Marx e della nascita
e diffusione dei diversi marxismi, nel rapporto
più o meno stretto che hanno intrecciato con
l’opera originale del filosofo di Treviri.
Nonostante questa divisione vi è però un
richiamo reciproco nei temi trattati e nei
problemi analizzati, che consente di definire la
prospettiva propriamente filosofica, e non solo
storica o filologica, che caratterizza questo
lavoro e permette di cogliere la linea originale
del pensiero di Musto stesso. Vorremmo a
questo proposito seguire lo sviluppo
dell’analisi di due temi fondamentali, ai quali i
testi qui raccolti dedicano ampio spazio e che
meritano di essere ancora discussi oggi,
nonostante la mole di lavori di critica che
Marx ha già suscitato. Si tratta delle due
questioni della storia e del metodo della
storiografia materialistica, e del concetto di
alienazione e del suo correlato, il feticismo
delle merci.
Musto individua negli anni parigini – a cui
risale la stesura dei testi apparsi quasi un secolo dopo come Manoscritti economicofilosofici – la scoperta marxiana della storicità delle categorie dell’economia politica (p.
49). Scoperta che non coincide semplicemente con quella della mutevolezza dei rapporti
storico-sociali o del carattere processuale della realtà, ma si precisa come presupposto
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uomini e uomini – sono interamente il prodotto di un processo storico, e dunque anche
quando, in economia, pensiamo di avere a che fare con “oggetti” che ci si danno senza
ulteriori determinazioni – le categorie degli economisti borghesi come denaro, scambio,
proprietà, produzione – stiamo sempre parlando di concetti che definiscono i caratteri di
una realtà sociale specifica. Questa scoperta ha un duplice peso: da un lato, conduce alla
necessità di sviluppare strumenti teorici che consentano di ricostruire nel pensiero la
realtà sociale nella sua complessità e nei suoi nessi interni specifici; dall’altro, e in
relazione a questo, porta al riconoscimento di una priorità dell’organizzazione dei
rapporti materiali rispetto alle descrizioni ideali, in termini di diritto, di scienza, di
filosofia, che di essi si possono dare. Risulta evidente già da qui come questo
materialismo non sia affatto riduzionismo economicista: al contrario in esso Marx
denuncia la mistificazione che soggiace al tentativo di autonomizzare l’economia e i
fenomeni ad essa propri rispetto ad ogni altro aspetto dell’organizzazione dei rapporti tra
gli uomini, tra gli uomini e le donne, tra questi e la natura. Marx de-naturalizza i rapporti
economici mostrandone la storicità, ovvero l’appartenenza a determinate forme di
organizzazione dei rapporti sociali. D’altra parte è la società borghese a richiedere che ci
si concentri sullo studio delle categorie economiche, se la si vuol comprendere: perché è
proprio essa a trasformare, per la prima volta nella storia umana, i rapporti tra persone in
«rapporti di cose tra uomini e rapporti sociali tra cose». Marx ha necessità di elaborare
uno strumento concettuale che superi le connessioni superficiali tra le categorie
dell’economia borghese: Musto ricostruisce questo percorso intellettuale attraverso i
Grundrisse e i testi che precedono la stesura del primo libro del Capitale, mostrando i
riferimenti filosofici, gli interessi politici, lo studio dei processi sociali, le riflessioni di
metodo e i risultati scientifici di volta in volta conseguiti, criticati, superati. Marx giunge
al «capitale» attraverso un lungo e talvolta concitato percorso di ricerca, nel quale si
approfondisce la sua consapevolezza della necessità di un metodo della ricostruzione
storica e dell’esposizione storiografica: l’Introduzione del ’57 rappresenta un momento
cruciale di questo cammino, anche se, Musto sottolinea, non possiamo esagerare
l’importanza di un testo scritto in una settimana, incompiuto, ma dobbiamo analizzare
come poi Marx abbia proceduto nei Lineamenti prima, nella stesura del Capitale poi.
Musto affronta anche il tema del rapporto tra l’Introduzione e la Scienza della Logica:
Marx, egli afferma, non andava in giro con il libro di Hegel sotto il braccio cercando
ispirazione; era già troppo preso dall’analisi della grande crisi economica, la prima su
scala realmente mondiale, dalla cronaca degli eventi e soprattutto dallo studio dei suoi
processi al fine di chiarire la teoria della crisi e del superamento possibile del sistema
capitalistico, per dedicarsi ad uno studio puramente filosofico. Ciò non significa che
Hegel sia assente: il testo dei Grundrisse, sia sul piano terminologico sia su quello della
riflessione epistemologica (e storica, nel senso che intendiamo qui chiarire), è ricco di
testimonianze di quanto bene Marx avesse studiato, e compreso, il grande filosofo
svevo. Piuttosto si potrebbe forse affermare, senza discordare da Musto, che non sia
stata una rilettura occasionale a determinare l’impostazione del lavoro di Marx, quanto
una frequentazione assidua e il riconoscimento della potenza teoretica del concetto e
dell’astrazione nella loro definizione hegeliana. Marx necessita di uno strumento teorico
che gli consenta di definire il rapporto complesso e processuale dei diversi momenti in
cui l’economia politica divide la propria analisi delle società come rete di relazioni
intrinseche, non soltanto riflessive; ha bisogno di una forma di concettualizzazione
dell’oggetto storico che insieme ne distingua le peculiarità e consenta di pensarne il
legame con lo sviluppo del genere umano e le forme di esistenza precedenti e distinte;
infine cerca un’esposizione che restituisca l’oggetto come organicamente connesso e al
tempo stesso aperto alla trasformazione. Musto sottolinea come l’operazione
storiografica di Marx sia originale all’interno del contesto storico che l’ha vista nascere
e anche sia rimasta incompresa nella maggior parte dei dibattiti successivi: tanto
l’alternativa storicista tra Geisteswissenschaften e Naturwissenschaften, quanto le
interpretazioni del materialismo storico in chiave evoluzionista o persino deterministica
hanno perduto di vista la singolarità della prospettiva marxiana, che può essere
compresa anche proprio rianalizzando il rapporto profondo con la filosofia hegeliana.
L’Introduzione testimonia dello stretto confronto con la Logica per quanto attiene alla
costruzione dell’oggetto dello storico: rifiutata l’ipotesi di assumere come punto di
partenza la “società”, il “dato” come si presenta all’osservatore, Marx afferma
l’importanza di muoversi sul piano del concetto e della interna determinazione di
quest’ultimo che, pur essendo costruito a partire dalle specificità di cui solo la storia
concreta può esser fonte, trova la propria intima sostanza nella connessione intrinseca
dei momenti e non in una “copia” dei dati empirici a disposizione. Così Marx lavora al
«capitale» che, come Musto spiega, non è una descrizione del capitalismo avanzato
dell’Inghilterra contemporanea ma è, appunto, il concetto di capitale. Allo stesso modo
da Hegel Marx desume il concetto di astrazione sensata che gli serve per la
comprensione del processo storico entro il quale le diverse e specifiche forme sociali si
producono e si determinano: strumento teorico che gli consente di evitare le rigidità di
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2017-04-26, 7:34 PM
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definizione della scienza storica come occupantesi solo ed esclusivamente di particolari.
Tuttavia Marx non si limita ad applicare il metodo hegeliano alla propria ricerca bensì si
rivolge a Hegel in relazione ai propri interessi e agli sviluppi che già il suo pensiero ha
compiuto: egli ha bisogno di una forma di pensiero che gli permetta al tempo stesso di
isolare le linee fondamentali del sistema borghese (il «modo di produzione
capitalistico») e di definirlo come oggetto storico, del quale sia possibile indagare le
tendenze di sviluppo delle componenti nella loro connessione e individuare le linee di
frattura e le possibilità di sviluppo o di trasformazione. Il modo di produzione così
definito da Marx non appartiene ad una ricostruzione del cammino della storia umana
“quale essa è stata” bensì costituisce un’operazione di costruzione dell’oggetto da parte
del filosofo e storico materialista: i sistemi storico-sociali che Marx descrive non sono
rappresentazioni “fedeli ai fatti” di epoche della storia umana, ma armature teoriche
appositamente edificate per evidenziare le linee di sviluppo che all’autore interessano –
benché naturalmente, come Marx precisa, una simile costruzione sia legittima solo a
posteriori e non possa in alcun modo pretendere di descrivere ipotetiche leggi
intrinseche del processo storico. Il «rovesciamento» della dialettica si presenta così
come una sorta di rivoluzione copernicana nella scienza storica (come l’avrebbe definita,
acutamente, Walter Benjamin) che mette in discussione la natura stessa del suo
“oggetto” rivelandone la natura di prodotto concettuale. Con ciò Marx non ricade nei
limiti che egli stesso ha criticato della filosofia idealistica e questo si vede chiaramente
nella sua teoria della contraddizione e della crisi, concepita come elemento intrinseco a
quell’organicità del concetto di cui si è detto e che tuttavia, come Musto sottolinea,
contiene l’indicazione di tendenze ma nessuna predizione di sviluppo. Il concetto
marxiano di concreto contiene la consapevolezza della non coincidenza di reale e ideale,
non però come semplice postulato di un’ulteriorità di principio di un supposto reale
indipendente rispetto ad un pensiero altrettanto indipendente. La non coincidenza
implica la consapevolezza del “posto dell’osservatore”: Marx capisce che il
riconoscimento dell’armonia tra i diversi momenti del sillogismo – produzione,
distribuzione, scambio, consumo – rappresenta una considerazione sensata ma esterna,
perché ciascuno di essi non è agìto dalla società come un tutto unico e coeso, ma è un
processo determinato dagli altri eppure al tempo stesso da essi distinto e indipendente
(nel senso di non predeterminato né garantito) dai restanti. A differenza che in Hegel,
scrive Musto, «la definizione [di Marx] della produzione come totalità organica non
corrispondeva […] a un complesso ordinato e auto-regolantesi, all’interno del quale
l’uniformità tra le diverse branche veniva sempre garantita» (p. 129). È necessario, sul
piano teorico, presentare la connessione tra i momenti come organica, perché solo così
se ne può comprendere il nesso concettuale; ma non è possibile invertire il punto di vista
in modo da far precedere la considerazione del tutto a quella dei processi che lo
compongono. La totalità può essere pensata come premessa e risultato solo al prezzo di
assorbire sul piano teorico la dimensione della storia e della trasformazione, come già
conosciute; ciò che Marx non vuol fare. Al contrario egli si pone dal punto di vista delle
linee di frattura, della crisi, che si presenta come momento storico e non semplicemente
come elemento concettuale: è il concreto movimento storico delle lotte dei lavoratori a
sostenere l’analisi teorica delle contraddizioni interne al modo di produzione, non
viceversa; è l’esito delle lotte reali a determinare lo sviluppo effettivo delle
contraddizioni. La filosofia di Marx può fornire gli elementi necessari affinché la classe
in lotta comprenda il proprio percorso e obiettivo, indicare le direzioni lungo le quali il
movimento rivoluzionario deve muoversi per cogliere più di un risultato provvisorio, più
di un sommovimento generale che si spenga nella reazione: il filosofo che abbia
compreso la natura del sistema può fornire le armi per il suo rovesciamento. Il suo
compito è strategico (e non solo tattico, come quello a cui molti partiti socialisti si sono
confinati). Così concepito, al materialismo storico è preclusa ogni possibilità di pensarsi
come una filosofia della storia universale: quella dimensione, che molti interpreti hanno
letto come teleologica, si rivela integralmente politica, ovvero bisognosa di essere, ogni
volta, misurata e pensata sulle lotte e le possibilità del (nuovo) presente.
A questo tipo di analisi si lega il secondo tema intorno a cui vogliamo concentrare
questa breve presentazione delle prospettive filosofiche aperte dal libro di Musto, ovvero
il concetto di alienazione. Esso torna con insistenza negli scritti raccolti in questo
volume, non solo quando l’autore tratta dei Manoscritti del 1844 in cui, come è noto, il
concetto fa la sua comparsa (capitoli 2 e 8), ma anche in riferimento ai Grundrisse e
soprattutto nel saggio che conclude il libro (capitolo 11), dedicato alla storia filosofica
del termine e alla ri-valutazione del tema alla luce delle domande filosofiche, sociali e
politiche dell’attualità (il testo di questo articolo è comparso la prima volta nel numero
della rivista «Socialism and Democracy» dal titolo Marx for Today). Musto affronta la
permanente rilevanza del concetto di alienazione per l’oggi (oggetto anche di suoi
articoli pubblicati su quotidiani come l’«Unità») attraverso un’analisi che va a
recuperarne il senso originario nel testo marxiano, nella convinzione che quella prima
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2017-04-26, 7:34 PM
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del concetto che si sono prodotte e in certe fasi sono persino state di moda nel
Novecento. Così egli anzitutto chiarisce la pregnanza del concetto di alienazione lungo
tutta l’opera di Marx, rifiutando entrambe le alternative “discontinuiste” presenti nelle
interpretazioni secondo cui nella riflessione sull’alienazione del 1844 si troverebbe il più
genuino Marx umanista o, viceversa, un pensiero solo giovanile e immaturo, in seguito
abbandonato senza rimpianti insieme a questa idea ancorata ad una filosofia
pre-scientifica. Musto ci invita invece a considerare l’opera di Marx secondo una
prospettiva di continuità che non implica, ovviamente, l’idea di un pensiero preformato
o sempre uguale a se stesso: non si possono ricercare nei Manoscritti tutti gli elementi
del pensiero che Marx svilupperà in seguito, né ha senso leggerli come prodromi delle
opere successive; d’altra parte non ha neppure senso affermare che dopo il 1845 vi sia
una cesura netta, ed è proprio la “pista” offertaci dalla presenza del concetto di
alienazione a fornirci elementi a sostegno di questa interpretazione. Basti pensare ai
Grundrisse, che potrebbero essere considerati un maestoso (incompiuto) trattato
sull’alienazione indagata nei suoi aspetti di processo storico “produttore” del capitalismo
e di condizione fondamentale dei caratteri specifici dei fenomeni economici all’interno
del modo di produzione tipico delle società borghesi. In essi la trattazione giovanile, che
poteva ancora prestare adito ad una lettura in chiave antropologica – benché Musto
dissenta in fondo anche da questa concessione (p. 50) –, si trasforma in una riflessione
che legge l’alienazione come «un importante concetto teorico per descrivere
criticamente le caratteristiche del lavoro e dei rapporti sociali in una determinata realtà
economico-produttiva: quella capitalista» (p. 252). L’alienazione non è anzitutto un
fenomeno che riguarda il rapporto tra l’uomo e l’oggetto, tra l’uomo e il lavoro: essa è
un processo socialmente determinato che produce a sua volta la possibilità di ogni tipo
di rapporto tra gli uomini, tra essi e la loro produzione materiale e i prodotti di
quest’ultima. Questo è evidente già nel famoso manoscritto datato 1844 dedicato
all’analisi del lavoro estraniato, nel quale, quasi en passant, Marx fa notare come non sia
la proprietà privata a generare l’estraniazione, ma sia al contrario questa all’origine della
proprietà privata: egli non ci dice da dove derivi allora a sua volta l’estraniazione, ma
possiamo sentirci autorizzati ad ipotizzare che la priorità così riconosciuta non sia –
almeno non ancora, non qui – l’affermazione di una precedenza storica, quanto un
richiamo teorico e metodologico. Se gli economisti partono dal «fatto» della proprietà
privata, occorre invece riconoscere come essa, nel profilo specifico che assume nelle
società borghesi, sia in realtà la forma che assume a livello economico un tipo di
struttura dei rapporti sociali che, con un vocabolo preso dalla filosofia a lui cara e in
modo ancora non del tutto chiaro, Marx definisce «alienazione». Sarà quest’ultima,
lungi dall’essere abbandonata, a diventare oggetto della ricerca teorica in quei testi
successivi in cui il Moro indagherà più da vicino la società borghese tentando di definire
gli strumenti teorici che gli consentano di comprenderla nella sua totalità e nella sua
specificità storica. L’alienazione definisce un carattere unico delle società borghesi
ovvero l’apparenza per cui in esse i rapporti sociali non sono relazioni tra persone, tra
uomini e donne, ma anzitutto relazioni con «cose» e tra «cose». Il tema come è noto sarà
ripreso nel XX secolo per la descrizione di una situazione umana sottomessa ad un
mondo oggettivo, reificato e reificante, al quale i rapporti sociali sono assoggettati, al cui
interno gli esseri umani tentano con difficoltà di realizzare il proprio sviluppo personale
con risultati non di rado prossimi alla patologia mentale. Musto compie un passo
indietro rispetto a queste analisi tornando a concentrare la sua attenzione
sull’alienazione come processo sociale storicamente specifico che determina
l’instaurarsi di determinate relazioni di potere tra gli uomini, di un’organizzazione dei
rapporti con i mezzi di produzione che definisce le possibilità di vita degli esseri umani
e dunque la strutturazione in classi della società, di una forma del ricambio organico per
cui la natura si erge di fronte a uomini e donne come estraneità dominante e da
dominare. L’alienazione non riguarda un generico rapporto tra gli uomini e le cose, né
tra gli uomini e la tecnologia e tantomeno concerne la dimensione individuale o
addirittura psicologica della persona. Essa è un processo di organizzazione del potere
all’interno della società e determina le forme economiche in cui tale potere si incarna:
perciò non ha senso lottare contro queste ultime se non si rovescia la prima, nei termini
delle lotte cui Marx assiste e partecipa non ha senso tentare di riformare parti del sistema
se non ci si impegna a superare la struttura del lavoro salariato stesso (pp. 130-131).
Musto recupera la valenza politica e autenticamente rivoluzionaria del concetto di
alienazione in Marx risvegliandone la carica oltre quanto le analisi novecentesche ne
hanno fatto: liberandolo dalla sua funzione di indicatore generico per «tutte le
manifestazioni dell’infelicità umana» (p. 324), riporta l’attenzione sull’attuale
organizzazione classista – benché probabilmente diversa da quella ottocentesca – della
società e sulle forme di dominio in essa attive. All’interno di questa impostazione
possiamo collocare le pagine dedicate al feticismo delle merci come fenomeno correlato
dell’alienazione. Nel Capitale l’alienazione sembra scomparire; forse perché nella forma
di esposizione che Marx ha scelto (e che non coincide, ad esempio, con quella dei
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2017-04-26, 7:34 PM
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“effetti permanenti” che sono la forma di merce dei prodotti del lavoro, il lavoro astratto,
il capitale come organizzazione dei rapporti di produzione. Ma la definizione che Marx
dà del feticismo delle merci (pp. 338-339) rimanda chiaramente al concetto di
alienazione come processo sociale immanente: esso si realizza, nella forma di merce,
come potere oggettivo (non fenomeno psicologico) dei rapporti oggettuali, razionalizzati
e calcolati sugli individui i quali ormai “liberati” dalla originaria appartenenza a rapporti
sociali primari entrano reciprocamente in relazione tramite le figure economiche che
incarnano e il mezzo di comunicazione universale che è il denaro. Il problema, come
Musto sottolinea, non è in un ipotetico rovesciamento del rapporto generale tra uomini e
cose (che peraltro proprio da Marx è presentato come in continua trasformazione lungo
la storia del genere umano) quanto nell’individuazione dei caratteri specifici della forma
di merce e del modo in cui in essa, sotto l’apparenza di categoria puramente economica,
si definiscono condizioni, possibilità, limiti della vita umana individuale e sociale
all’interno delle società in cui domina il modo di produzione capitalistico. Il feticismo,
come Marx lo intende, non è un universale fenomeno psicologico che riguarda sempre il
nostro rapportarci agli oggetti, ma è un prodotto specifico di quell’organizzazione della
produzione che si realizza in merci; perciò esso deve essere analizzato, piuttosto che sul
piano psicologico, su quello sociale ed affrontato ad un livello propriamente politico. Le
pagine finali che Musto gli dedica invitano quindi a separare almeno momentaneamente
il concetto di feticismo nella sua concezione marxiana dall’accezione freudiana e da
quella che la psicoanalisi gli ha conferito nel corso del Novecento, negando d’altra parte
la possibilità di una “uscita” o un’emancipazione dalla condizione feticista per via
psichica o nell’esperienza estetica, come alcuni interpreti hanno suggerito. Come scrive
Marx, vi è una forma di feticismo che è inscindibile dal modo di produzione capitalistico
e che non si riduce ad un modo soggettivo di vivere i rapporti, che è espressione del loro
strutturarsi oggettivo e insieme distoglimento dalla loro conflittualità. La possibilità di
liberarsene, passaggio fondamentale per l’affermazione della dignità dell’essere umano
non di contro alle «cose», ma in un rapporto pieno con esse e con i propri simili, passa
per il risveglio di questa conflittualità e la rivoluzione dei rapporti sociali nella loro
interezza.
Non c’è più alcun dubbio che l’attuale crisi del sistema
capitalistico ha fatto tornare di grande attualità la “critica
roditrice” del più radicale nemico del capitalismo, cioè
Karl Marx. Il ritorno di interesse, dopo la caduta dei regimi
del socialismo reale, è adesso più libera e più oggettiva,
perché la ricerca su Marx non è più legata alla obbligatoria
difesa pregiudiziale e ad oltranza di quegli odiosi sistemi
politici.
Anche in Italia l’interesse verso Marx è forte ed è
coltivato da studiosi di grande merito. Uno di questi è
Marcello Musto, che come tanti meritevoli ricercatori
italiani è stato costretto ad emigrare, è infatti professore di
Teoria Politica presso la York University di Toronto.
Adesso ha raccolto parte dei suoi saggi sparsi tra riviste e
volumi in un libroche anticipa una biografia intellettuale di Marx.
Come hanno sostenuto Lukács e Dussel, lo stesso Musto afferma che «la ricerca su
Marx present[a] ancora tanti sentieri inesplorati e che egli, diversamente da come è stato
spesso affermato, non sia affatto un autore sul quale è stato già detto o scritto tutto» (p.
15), anche perché non tutto è stato pubblicato. Ci sono ancora centinaia di pagine di
inediti, spesso censurate dal regime sovietico, che possono ancora riservare interessanti
sorprese sia per gli studiosi di Marx, sia per i suoi critici. La nuova edizione della Marx
Engels Gesamtausgabe, che è ancora lungi dall’essere terminata – sono apparsi 58
volumi dei 114 previsti – è uno degli argomenti del libro di Musto (cfr. pp. 189-224).
Musto ricostruisce la storia delle pubblicazioni di Marx con rigore e precisione
dettagliati, rendendola avvincente come una narrazione romanzata, rivelando doti di
chiarezza stilistica non comuni in un filosofo.
Per motivi di spazio mi devo limitare a due soli argomenti dei tantissimi, e tutti
interessanti, contenuti nel volume di Musto. Innanzitutto lo stile intellettuale di Marx
appare chiaramente quello di uno studioso incapace di dare limiti definiti alla propria
ricerca. Marx inseguiva continuamente la notizia più recente, la riflessione altrui più
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2017-04-26, 7:34 PM
Azioni Parallele - Marcello Musto, Ripensare Marx e i marxismi
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ricerca si univa un perfezionismo dello stile, che Marx perseguiva come una chimera,
nonostante fosse dotato di una chiarezza e brillantezza stilistica rara nella storia della
filosofia. In pratica ha pubblicato pochissimo delle migliaia di pagine di appunti,
riflessioni, teorie che era stato capace di raccogliere. Questo è un motivo, insieme alla
ponderosità dei suoi scritti, per cui la sua opera è ancora poco conosciuta, l’altro è la
difformità delle sue riflessioni e previsioni rispetto a quanto aveva realizzato il regime
sovietico, che ritenne più conveniente rallentare e, per qualche periodo, interrompere la
pubblicazione delle sue opere inedite. Paradossalmente la caduta di quel regime e la crisi
attuale ridanno slancio all’interesse verso Marx. Anche perché una delle caratteristiche
del suo metodo di studio «aveva fornito a Marx strumenti utili non solo per cogliere le
differenze tra i diversi modi in cui la produzione si era manifestata nel corso della storia,
ma anche per scorgere nel presente le tendenze che lasciavano prefigurare lo sviluppo di
un nuovo modo di produzione, contrastando, di conseguenza, coloro che avevano
postulato l’insuperabilità storica del capitalismo» (p. 143). Se il metodo di Marx, quindi,
permette di cogliere nelle sue analisi gli sviluppi futuri del modo di produzione
capitalistico, oggi si riesce ad intravedere in quelle stesse analisi i caratteri tipici della
crisi attuale. Per fare un rapido esempio, le analisi marxiane della finanza mondiale e
della, allora incipiente, globalizzazione sono oggi confermate.
Il metodo di Marx di impadronirsi delle idee altrui riscrivendole, facendole proprie
con la penna, trasferendole sempre sul piano concreto della storia, gli permetteva di
cogliere la complessità dei fenomeni sociali e, allo stesso tempo, la semplicità della loro
struttura logica, diciamo che andava dal fenomeno ultimo al principio dominante,
presente in tutta la dinamica socio-economica. Per dirla con le parole di Musto:
«L’astrazione doveva essere costantemente confrontata con le diverse realtà storiche,
così da permettere di distinguere le determinazioni logiche generali dai rapporti storici
concreti» (p. 142). Tale metodo è l’esatta inversione del metodo hegeliano, che,
possedendo una struttura logica, sussumeva a questa tutti i rapporti storici concreti. In tal
modo è mostrato quanto Marx abbia effettivamente rovesciato la dialettica hegeliana,
dandole quel senso storico che in Hegel si intravedeva appena.
«Con l’utilizzo del concetto hegeliano di totalità, egli [Marx] aveva affinato un
efficace strumento teorico – più solido dei limitati processi astrattivi utilizzati dagli
economisti – in grado di mostrare, evidenziando 1’azione reciproca operante tra le varie
parti, che il concreto era un’unità differenziata di più determinazioni e relazioni e che la
separazione delle quattro rubriche economiche, posta in essere dagli economisti,
risultava tanto arbitraria quanto deleteria per comprendere i rapporti economici reali» (p.
129). In pratica era la filosofia a fornire a Marx maggiore comprensione della realtà
economica rispetto agli stessi economisti. Questa conclusione di Musto permette di
capire quanto occultante sia stata l’interpretazione del marxismo-leninismo sovietico che
è stata imposta dalla morte di Lenin fino alla caduta del regime sovietico. Il danno
consisteva nel fatto che «la teoria fu estromessa dalla funzione di guida dell’agire,
divenendone, viceversa, giustificazione a posteriori» (p. 195). Non è solo per questo
aspetto devastante e sclerotizzante che possiamo rallegrarci della caduta del regime
sovietico, c’è anche la buona novella che dagli archivi sovietici sono usciti i manoscritti
di quel Marx del XXI secolo che ci riserva ancora tante sorprese.
Azioni Parallele - 2015
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