Al limite del confine: incontro tra cultura ottomana ed europea

Al limite del confine:
incontro tra cultura ottomana ed europea
nella seconda metà dell’Ottocento
di Ay'e Saraçgil
È fabbricata Costantinopoli in una punta di terra, di forma quasi triangolare, che incontro al sito dell’antica Chalcedonia sporge in mare, dalla terra ferma d’Europa, e
stringendo il Bosforo Thracio in guisa che alcuni dicono che si sentano di là cantare i
galli che stanno sulla riva opposta dell’Asia, con uno dei suoi angoli, si stende giusto
dirimpetto al luogo dove fu Chalcedonia, che oggi lo chiamano Cadì Kioì .
I tratti di mare di cui scriveva nel Seicento Pietro della Valle, nell’Ottocento
erano ormai entrate nell’immaginario collettivo come linee di separazione tra
l’Oriente e l’Occidente, tra due mondi che professavano religioni diverse,
conducevano modi di vita differenti, costituivano civiltà per molti versi opposte. Gérard de Nerval, che visitò l’Oriente nel , nel suo Voyage en
Orient, pubblicato nel , riscontrava questa differenza e opposizione nella
stessa suddivisione territoriale della capitale cosmopolita:
Scutari [la riva asiatica] è la città dell’ortodossia musulmana assai più di Stambul, dove la popolazione è mista, e che appartiene all’Europa [...] Scutari è il rifugio dei vecchi musulmani i quali, persuasi che la Turchia d’Europa non tarderà ad essere preda
dei cristiani, vogliono assicurarsi una tranquilla terra di sepoltura in Anatolia. Pensano che il Bosforo sarà la frontiera fra due imperi e due religioni, e che in Asia godranno
di una completa sicurezza .
La persuasione di cui parlava de Nerval si riferiva alle riforme (Tanzimat) che
avviarono nel , in base a un decreto del sultano, la modernizzazione istituzionale nell’impero ottomano. Nel varare queste riforme, il sultano si era
posto l’obiettivo di razionalizzare le strutture del potere, adottando i modelli
istituzionali vigenti nell’Europa del tempo, per garantire la sopravvivenza dell’impero. Le riforme così avviate provocarono una rivoluzione nell’assetto
non solo istituzionale ma anche socio-culturale.
Prima delle riforme, la struttura sociale era caratterizzata da una netta distinzione tra governati (reaya, letteralmente “il gregge”) e governanti (askeri).
Per far parte di quest’ultima categoria occorreva una delega personale del sultano, a cui idealmente appartenevano tutte le risorse imperiali. L’organizzazione della corte coincideva con l’organizzazione dello Stato: in essa risiedevano
simbolicamente – e anche in parte fisicamente – tutto il personale e tutte le fun
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zioni governative, e la dimora del sultano era anche la sede principale del reclutamento e della formazione del personale amministrativo e militare . Mancando una netta distinzione tra funzioni private e pubbliche, la lealtà dei funzionari veniva fatta convergere sulla dinastia, piuttosto che sullo Stato o sulla società: le reclute infatti, al loro ingresso nella corte, adottavano simbolicamente
un nuovo lignaggio e una nuova identità sociale, legati alla persona del sultano.
Il processo di razionalizzazione istituzionale favorì la creazione di uno
spazio pubblico distinto, stimolando una progressiva separazione dello Stato
dal sultano. Si istituirono nuove scuole per formare il personale specializzato
e l’acquisizione di un sapere specialistico cominciò a sostituire, nell’attribuzione degli incarichi amministrativi, la delega personale del sultano. Ciò permise la formazione, accanto alla borghesia mercantile, in gran parte composta da componenti di gruppi di minoranza non musulmana, di una sorta di
borghesia burocratico-militare, che disponeva di un’unica ricchezza, il nuovo
sapere specialistico. Questa circostanza la rendeva relativamente autonoma
dal sultano e le permetteva di trasferire la propria lealtà allo Stato e alle sue
istituzioni. L’identificazione esclusiva del potere politico con la comunità musulmana impedì un incontro e una collaborazione effettiva tra la borghesia
mercantile e quella burocratico-militare, ma d’altro canto la comparsa di un
nuovo spazio pubblico generò una nuova figura di intellettuale, relativamente autonoma dalle tradizionali reti di patronaggio personalistico.
Le riforme ebbero importanti conseguenze soprattutto sul piano culturale, creando per le nuove generazioni di ottomani le condizioni di un incontro
con la cultura egemone nell’Europa del tempo, in particolare con le espressioni di quel sapere borghese-razionalista affermatosi nel periodo post-illuminista. L’accettazione di tale quadro di conoscenze, presentato come universalmente valido e indipendente dalle culture altre, era diventata nell’Ottocento la conditio sine qua non per diventare moderni. In esso, l’idea del sapere razionale aveva assunto una forma molto definita e le scienze, fondate sul
controllo umano sulla natura per piegarla ai propri interessi, ne erano diventate il paradigma fondamentale. La razionalità era la capacità di individuare
le proprietà della natura in un certo modo, di ordinare il sapere di quelle proprietà in maniera consistente e coerente e di usarlo per ottenere vantaggi dalla natura stessa. Così, mentre il sapere diventava il principale strumento di dominio sul mondo, la razionalità assurgeva a principio normativo di un certo
modo di vivere, più congruo al pensiero detto scientifico.
L’introduzione di curricula moderni per promuovere questo quadro di conoscenze nell’impero comportò una significativa scollatura epistemologica. Il
sapere islamico, che informava tutti gli aspetti della cultura ottomana, era incardinato nel sistema morale della religione, la quale enfatizzava il significato
della comunità. Il sapere occidentale era invece fondato sul pensiero scientifico ed era imperniato sull’individuo razionale. Mentre il primo era legittimato dalla sacra autorità del sultano, quale protettore dei credenti, il secondo ri
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cavava la propria legittimità da una presunta attuazione dei diritti civili e politici e dell’equilibrio dei poteri.
Tale discrepanza epistemologica costituirà il problema più grande della
cultura ottomana nella seconda metà dell’Ottocento. Gli intellettuali e la nuova borghesia, legati alla modernizzazione dell’impero nei loro interessi più vitali, aderirono con relativa facilità ad alcuni aspetti politici del nuovo ordine
epistemologico, spostando la loro lealtà dal sultano allo Stato e alla società e
rivendicando un regime costituzionale, ma incontrarono molte difficoltà ad
accogliere quelli più prettamente culturali ed etici.
La società ottomana della seconda metà dell’Ottocento continuava ad essere strutturata e governata da dettami religiosi. Anche gli intellettuali e la
nuova borghesia, seppure in parte formatisi nelle moderne scuole, continuavano a vedere con un’ottica religiosa il loro incontro con la cultura europea.
La classe dirigente dell’impero che aveva promosso le riforme, per quanto
consapevole dell’arretratezza del proprio contesto socio-istituzionale rispetto
a quello europeo, nutriva ancora sentimenti di superiorità, propri di un impero che aveva dominato una grande fetta del mondo. Di questi sentimenti
erano partecipi anche le nuove generazioni, malgrado il loro antagonismo verso il sultano; l’accoglimento della modernità non scalfiva la loro identità musulmana e ottomana. D’altro canto, questa identità si poneva come un obiettivo freno alla liberazione dell’individuo dai legami comunitari e un ostacolo
a una convinta condivisione della cultura europea dell’Ottocento.
In questo contesto si poneva una questione cruciale: come superare l’arretratezza, adottando tutti quegli attributi della cultura moderna, senza annullare le differenze che segnavano e modellavano la propria identità di musulmani e di ottomani. La superiorità dell’Occidente era dovuta ai suoi attributi culturali – scienza e tecnologia – che favorivano il benessere e l’amore per
il progresso, ma dal punto di vista spirituale il primato della cultura islamica
ottomana era un dato di fatto. Su tali considerazioni fu disegnata, sul Bosforo, una prima linea di confine fra Occidente e Oriente, con la volontà di separare la materialità occidentale e la spiritualità ottomana e di proteggere quest’ultima dai rischi della modernità.
Questo confine ideale costituì la principale bussola degli intellettuali ottomani della seconda metà dell’Ottocento nel promuovere e diffondere la cultura europea all’interno della propria società. A tal fine, essi adottarono strumenti come la stampa periodica, i romanzi, le pièces teatrali, avendo però particolare cura nel confezionare i loro messaggi. Nel far ciò, adottarono quella
linea di confine quale criterio fondamentale di selezione tra gli aspetti da mutuare o da respingere della cultura occidentale.
La modernità richiedeva una separazione tra individuo e comunità; in una
realtà come quella ottomana, ciò avrebbe senz’altro coinvolto la sfera spirituale, privata, interna. Gli uomini moderni, quali si proponevano di diventare i
nuovi borghesi e intellettuali ottomani, non potevano vivere, mangiare, dor
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mire, amare, nella stessa maniera dei loro padri. Dovevano trovare modalità
nuove di relazioni con le donne, permettere loro di essere diverse dalle loro
madri, meglio istruite e più libere, costruire famiglie migliori e più sane. L’arduo compito di suscitare dibattiti e critiche sugli aspetti dell’organizzazione e
della concezione della vita privata, su quegli aspetti cioè che riguardavano la
sfera spirituale della cultura, generò la necessità di stabilire di volta in volta un
limite, perché il cambiamento non fosse “esagerato” e dunque dannoso.
Nell’ambito di questo articolo, vorrei esaminare l’attività di uno degli intellettuali che più ha contribuito sia a diffondere le idee e le aspirazioni legate alla
modernità, sia a contrastare il rischio che quel confine fosse oltrepassato. Si tratta di Ahmet Midhat (-), uno dei rarissimi romanzieri turco-ottomani
provenienti da ambienti popolari. Dopo aver lavorato come apprendista presso
un mercante di spezie di İstanbul, trovò impiego nell’amministrazione provinciale. Notato dal governatore della provincia per le sue doti, cominciò a dirigere diversi giornali locali, sfruttando l’occasione per nutrire le proprie vaste curiosità intellettuali. Dal  si dedicò interamente alla letteratura e allestì una tipografia, dove stampava sia i propri romanzi, sia un giornale da lui fondato. Viveva esclusivamente del ricavato delle proprie opere. Sebbene con i suoi  romanzi fosse considerato il padre di questo genere letterario e il principale artefice della nascita di un pubblico di lettori nel paese, egli fu innanzitutto un divulgatore a tutto campo, scrivendo di filosofia, di economia, di letteratura.
A differenza degli altri intellettuali ottomani dell’epoca, Midhat nutriva
scarso interesse per i temi strettamente politici. Scriveva in modo semplice, allo scopo esplicito di istruire ed elevare le classi popolari. Utilizzava un linguaggio simile a quello della conversazione e tecniche narrative tipiche dei
cantastorie popolari (meddah). Nella sua concezione, il romanzo era un mezzo che «educava divertendo», cui l’autore assegnava lo scopo di cambiare «i
modi di pensare e di vivere non conformi alla civiltà moderna» . I suoi romanzi, di conseguenza, criticavano aspramente le superstizioni e i costumi primitivi e miravano a far conoscere al lettore il pensiero razionale dell’Occidente, i suoi frutti scientifici e materiali. A tal fine, non esitava a interrompere spesso il corso della narrazione per descrivere nei minimi dettagli, per
esempio, il funzionamento di un treno o di un ascensore. In molti romanzi ambientava protagonisti ed eventi in Europa. Nella prefazione a un suo romanzo, Mesail-i Muğlaqa, ne spiegò le ragioni in questi termini:
dal momento che la società ottomana ha preso la decisione di adottare la civiltà europea, per le finalità istruttive del romanzo sono più adatti i temi che si svolgono in Europa. E questo perché offre migliori possibilità al lettore di distinguere i lati positivi e
quelli negativi della civiltà europea .
Egli tuttavia univa a una forte apertura riformista un moralismo e un attaccamento altrettanto forti alla civiltà islamica ottomana e ai suoi valori. Con que
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sta ottica trattava il legame tra l’individuo moderno e la società, tra l’amore
passionale e la moralità, tra gli uomini e le donne, esaltando valori quali la laboriosità, la modestia e la parsimonia. Nei suoi scritti di natura economica,
per esempio in Sevda-yı Sây-u Amel  (Sforzi per un’azione volta al commercio),
pubblicato nel , recuperava sostanzialmente temi affrontati da Samuel
Smiles in Self-Help () , ma inseriti nel contesto della società turco-ottomana. Con Smiles egli sosteneva infatti che il vero gentiluomo doveva avere
un forte senso dell’onore ed evitare col massimo rigore ogni azione meschina,
ma aggiungeva che solo grazie all’etica religiosa e militare ottomana sarebbe
stato possibile il conseguimento di tale rigore:
La ümmet [comunità di fedeli] è costituita da musulmani autentici, che durante il tempo di pace tengono la mano sulla sciabola, e non dalle femmine di Buchner, dai borghesucci di Bourget .
L’istituzione familiare aveva bisogno di molti miglioramenti: i matrimoni combinati, che obbligavano ragazze e ragazzi a legarsi gli uni con gli altri senza
scegliersi, senza amore e in base a interessi familiari, causavano problemi anche di carattere etico. A peggiorare la situazione concorrevano la mancanza
di istruzione delle donne, la disparità dei diritti e lo status di inferiorità loro
assegnato. Ma ciò non deve indurre a pensare che Midhat fosse un fautore dell’emancipazione delle donne. Egli era un tipico rappresentante del patriarcato ottomano: era bigamo e si riteneva pienamente soddisfatto della propria vita familiare. Ciononostante, si pronunciava per una nuova famiglia ottomana,
che andasse a costituire la base di una società moderna, una famiglia in cui
l’uomo e la donna, nel rispetto delle funzioni e dei ruoli reciproci, potessero
collaborare per la felicità domestica, senza per questo violare le norme tradizionali che ne garantivano la moralità.
Secondo il concorde giudizio dei suoi critici, le sue ambivalenze erano
frutto di un approccio alla cultura e al pensiero europeo da divulgatore, perciò superficiale, strumentale ed eclettico. Seppure fosse il primo intellettuale
ottomano ad accostarsi alla filosofia senza intenti strumentali di carattere politico, egli rimase sostanzialmente estraneo al mondo delle idee con il quale
dialogava.
Sì! Ho letto anche io. Ho letto Flammarion, Figuiet, anche Darwin. Ho letto persino
Descartes, Schopenhauer, Büchner. Per trovare la mia identità negata ho chiesto sia
agli amici sia ai nemici .
Come si ricava dal tono rabbioso di queste parole, le sue letture, al di là della
loro superficialità e finalità divulgative, sembrano essere state condizionate da
preoccupazioni legate a considerazioni di carattere religioso e comunitario
della cultura ottomana. Ciò spiega i suoi tentativi di “tradurre” e di “addo
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mesticare” le idee occidentali in un’ottica islamico-ottomana, riducendo così
l’intero bagaglio filosofico europeo, dall’evoluzionismo di Darwin al pessimismo di Schopenhauer, a puro strumento di conferma della superiorità dell’Islam e della civiltà ottomana .
In questa sede vorrei soffermarmi in particolare sul suo atteggiamento nei
confronti di Voltaire, attraverso l’analisi dei due scritti che egli dedicò al filosofo francese: una biografia romanzata e un’ampia critica al saggio di un altro
intellettuale ottomano, Be'ir Fuad . Quest’ultimo, a differenza degli altri intellettuali ottomani dell’epoca, il cui punto di riferimento privilegiato rimaneva Victor Hugo, si era dichiarato un materialista e positivista e aveva preso
a modello Voltaire, violando in tal modo il limite posto da autori influenti, come Namik Kemal e Ahmet Midhat, i quali, il primo nella sua polemica con
Renan, il secondo in quella con Draper, avevano respinto con forza, in nome
della religione, il pensiero critico e razionale .
Concludendo la sua critica al saggio di Fuad scriveva:
Dal punto di vista della sua battaglia contro il clero, Voltaire non poteva in nessun
modo conquistarsi la fama e l’importanza tra noi ottomani, perché nell’Islam non esiste un Papa che dica di essere il rappresentante terreno di Allah, né è mai esistita l’inquisizione. [...] Noi non abbiamo bisogno di riforme religiose [...] per ogni questione ci è sufficiente il Libro di Dio; a differenza del cristianesimo, la nostra religione
non ha subito cambiamenti rispetto alle sue origini [...] [Dal punto di vista politico]
persino il più crudele dei sovrani orientali può ergersi ad esempio di giustizia di fronte a un sovrano occidentale [...]. È una realtà storica il fatto che dovunque la più assoluta tirannia e la più forte crudeltà sono dovute all’intervento delle donne. Nei luoghi dove non si sente la loro influenza [politica], la crudeltà rimane molto minore rispetto ad altri dove invece esse riescono a farsi sentire con forza [...]. Da noi l’influenza delle donne non è mai riuscita ad affermarsi in politica [...]. Un’altra ragione
che alimenta la crudeltà è da ricondurre alle dispute religiose, ma da noi, anche se tra
lo sciismo e il sunnismo vi sono stati da sempre forti contrasti, non si è mai arrivati
ai livelli delle guerre combattute tra il cattolicesimo e il protestantesimo. Perché colà gli intrighi delle sette si sono uniti all’influenza delle donne [...]. Ecco, dopo questa valutazione generale, potrai convenire che noi non abbiamo bisogno di un Voltaire, né dal punto di vista religioso, né da quello politico. [...] Se tra gli ottomani
qualcuno dovesse dire «Ahi se fossi un Voltaire e potessi scrivere così o cosà», esprimerebbe un proposito vano e i vani propositi non hanno utilità né per la patria, né
per se stessi. [...] A mio parere dunque tutta l’importanza di Voltaire per noi sta nei
suoi sforzi come educatore del popolo [...] se noi, ammirandolo in questo suo ruolo,
volessimo imitarlo .
Queste parole, al di là delle note polemiche nei confronti di Be'ir Fuad, ci aiutano a comprendere le ragioni che spinsero Midhat a scrivere un romanzo
biografico, intitolato Voltaire yirmi ya'ında ya da ilk a'kı (Voltaire a venti anni, ovvero il suo primo amore) , in cui non solo il filosofo francese veniva pre
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sentato con toni che rasentavano la denigrazione, ma anche la Francia del suo
tempo, con la sua «decadenza morale» e la sua «ipocrisia religiosa», veniva ad
assurgere a simbolo negativo di una società.
L’unico riferimento di Midhat alla personalità storica del protagonista è
nell’introduzione:
[In questo romanzo] si tratterà, e in via diretta, del primo amore di quel cataclisma
chiamato Voltaire che, mettendo insieme poesia e ragione, si è fatto notare come un
esempio senza precedenti tra tutti i poeti e i filosofi .
L’interesse dell’autore non risiedeva tanto nella storia d’amore in sé, quanto
nell’occasione che questa gli forniva per far risaltare l’“immaturità” di Voltaire, nonché la decadenza morale della società francese dell’epoca e la nefasta
influenza che le donne vi esercitavano .
Narrando l’infanzia di François-Marie Arouet, Midhat introduce l’abate
di Châteauneuf, parente di Voltaire, cui viene assegnata l’unica funzione di
mostrare la bassa statura morale del clero francese del tempo e di individuare il fattore genetico scatenante di certe inclinazioni future di Voltaire:
Sua eccellenza l’abate, al contrario di quanto avrebbe richiesto la sua professione, era
senza fede e anche un grande amante delle donne e avrebbe trasmesso ambedue queste sue caratteristiche al suo giovane parente .
Verso il padre invece, figura patriarcale in forte crisi di autorità, che non apprezzava le inclinazioni poetiche del figlio, destinato nei suoi progetti a diventare un avvocato oppure un medico, Midhat si sente molto più solidale:
Chiunque conosca le condizioni di quell’epoca comprenderebbe le ragioni del padre
che, di fronte ai tentativi del figlio di comporre, appena a dodici-tredici anni, tragedie
in cui trattava della libertà del pensiero, della fede e della passione d’amore, arrivò a
preferire di vederlo morto e a cacciarlo via di casa .
Questa solidarietà traduce la trasposizione, operata da Midhat, di un conflitto padre-figlio dalla realtà francese del Settecento al contesto ottomano, dove le paure suscitate dalla modernizzazione avevano trovato una loro espressione letteraria in numerosi romanzi che vedevano come protagonisti giovani
orfani di padre. Attraverso questa figura venivano evidenziate le sofferenze
provocate nella società dalla crisi delle antiche certezze patriarcali e i pericoli che incombevano sugli individui abbandonati a se stessi, privi di una guida
autorevole, esposti agli intrighi femminili, nei loro tentativi di orientarsi tra le
nuove norme sociali, culturali e morali.
La storia d’amore del giovane Arouet è ambientata in Olanda, all’Aja. Qui
il filosofo era stato mandato dal padre nel , spiega Midhat, per «allonta
AYŞE SARAÇGIL
narlo dal peccaminoso contesto parigino» . Ma a questo punto l’autore apre
una lunga parentesi, per descrivere i mali della Francia dell’epoca.
Il re aveva consegnato la propria autorità nelle mani di donne la cui attenzione era interamente concentrata sugli intrighi d’amore. Nelle continue feste [...] i principi, gli
aristocratici, persino i preti passavano il tempo amoreggiando sotto i ritratti della Santa Maria. Ciononostante, un ipocrita conservatorismo religioso continuava imperterrito a comminare condanne a pene pesanti alle persone accusate di aver voluto introdurre nel cattolicesimo un po’ di tolleranza nei confronti delle sette .
Questo brano introduce nel romanzo Anne Marguerite, la madre del primo
amore di Voltaire.
In quel secolo in Europa, soprattutto in Francia, vi erano figure di donne letterate e
scienziate [...]. In un’epoca in cui filosofi e poeti erano diventati ingredienti ricercati
per dare lustro ai divertimenti, costoro diedero un grande contributo all’aumento della dilagante immoralità. Esse raggiungevano la fama grazie alla loro bellezza e freschezza, per mezzo di queste qualità entravano nei salotti dei sapienti e degli aristocratici, dove allargavano il proprio orizzonte di quel poco di sapere appreso nell’infanzia e trovavano in amanti filosofi e poeti i correttori ideali dei loro scritti, diventando a loro volta delle letterate. La signora Anne Marguerite era una di queste figure e il suo nome viene spesso ricordato nella storia della letteratura francese. Era nata verso il ... .
Midhat descrive la signora Anne Marguerite come una spregiudicata, capace
di qualunque gesto pur di raggiungere i propri obiettivi: quando era giovane
si era convertita al cattolicesimo per poter sposare un aristocratico, senza neppure amarlo. Dopo un periodo di vita coniugale contrassegnato da numerosi
tradimenti e dalla nascita di due figlie, la signora Du Noyer,
angustiata dai limiti della vita matrimoniale che le impedivano di svolazzare nei vasti
orizzonti scoperti attraverso il pensiero filosofico, prese le due figlie nate dal matrimonio insieme a tutto ciò che di prezioso riuscì a rubare al marito e fuggì in Inghilterra .
Qui la madre e le figlie, che costituivano le sue più importanti speranze per il
futuro, ebbero tempi duri, tanto che la signora emigrò di nuovo, scegliendo
questa volta l’Aja, dove si riconvertì al protestantesimo:
ottenne ancora una volta aiuti e incoraggiamenti dalla comunità, riuscendo in tal modo a sistemare se stessa e le figlie. [...] Cominciò a scrivere per due riviste guadagnando
cifre consistenti. Pur essendo una donna senza scrupoli, intrigante e corrotta, ci teneva molto alla propria immagine e chiunque osasse non considerarla come un puro
campione di moralità diventava bersaglio della sua penna acuta. All’Aja Madame Du
Noyer [...] fu accolta nelle dimore aristocratiche e riuscì persino a maritare una delle

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due figlie. Anzi, ora ella stessa era diventata padrona di un salotto, frequentato da aristocratici, poeti e filosofi, attratti anche dalla fresca presenza della figlia minore .
Midhat presenta Madame Du Noyer come prototipo femminile della società
francese dell’epoca: priva di scrupoli, tanto da mettere in mostra la figlia per
i propri interessi, seduttrice e provocante. Evocava in tal modo una concezione della donna assai radicata nell’immaginario maschile ottomano: la fitne,
che è potenzialità tutta femminile di provocare istinti incontrollabili negli uomini e causare nella comunità caos, disordine, addirittura rivolta e guerra civile. L’autore, d’altra parte, sottolinea spesso la condizione della Du Noyer,
che deve crescere da sola le proprie figlie. Ma questa sorta di paterna pietà è
tesa a dimostrare ancora una volta il pericolo rappresentato dalla liberazione
della donna dal controllo dell’uomo e dalle regole che ne assicurano il dominio, una condizione questa che nell’immaginario ottomano provoca la fitne,
con tutte le sue conseguenze distruttive.
Dopo avere presentato Madame Du Noyer, Midhat torna alla sua storia,
introducendo l’incontro tra i giovani amanti, avvenuto nel  all’Aja, dove,
come abbiamo visto, Voltaire era stato mandato dal padre, con la speranza che
il figlio reprimesse le sue velleità letterarie, e posto sotto la tutela dello zio,
Pierre Antoine de Castagnéry, marchese di Châteauneuf, di fresca nomina all’Aja in qualità di ambasciatore francese. Ma come poteva Arouet, un giovane uomo passionale e privo di guida paterna, non cadere vittima di un bruciante amore per la Olympe Pimpette, incontrata in un ambiente così tollerante e libero?
I giovani tentarono di tenere nascosti i sentimenti che li univano, ma per
quanto tempo i sentimenti dei giovani possono rimanere ignoti agli altri, soprattutto a una madre? Madame Du Noyer in verità era al corrente di tutto
ciò che riguardava la figlia, ma non era usa ad intervenire, perché cercava, con
parole ingannatrici, di ottenere benefici per sé dai corteggiatori della figlia.
Purtroppo per lei, Voltaire non era però la persona adatta:
Anche se in verità il padre era un uomo ricco, i soldi che passava al figlio erano sufficienti giusto per fargli condurre una modesta esistenza e pertanto non era possibile
per il giovane essere generoso con le donne. Tuttavia il giovane Arouet, già brillante
poeta e conversatore, con la sua presenza aggiungeva lustro ai lustri del salotto della
Madame, e perciò malgrado tutto, ella faceva finta di non vedere gli interessamenti
amorosi del filosofo e lasciava largo spazio agli amanti .
La madre, resasi conto della solidità dei sentimenti della figlia per il giovane
Arouet, nonché di non poter ottenere da lui «una giusta ricompensa per le generosità» di Olympe, decise di intervenire. Il nostro autore trova in questo
epilogo la migliore prova della fondatezza della tesi che sin dall’inizio aveva
sostenuto, e cioè che Arouet era un immaturo e che in questa sua prima oc
AYŞE SARAÇGIL
casione d’amore era stato dominato, più che dalla vera persona dell’amata,
dalle sue fantasie, e aggiunge:
se Voltaire avesse protetto e governato i suoi sentimenti per la signorina Du Noyer in
modo razionale e maturo, avrebbe avuto la possibilità di vivere come il più felice degli amanti e avrebbe potuto rendere felice anche la sua generosa amata [...] Peccato
che comportamenti razionali non fossero facili per Arouet, e dunque non poté non incorrere in molte difficoltà d’amore .
Il noto biografo di Voltaire, Besterman, racconta che il filosofo, «nell’impeto
generoso dei diciannove anni, intendeva sposare»  la giovane Olympe. Sarebbe stata questa intenzione di unirsi in matrimonio con una donna siffatta,
piuttosto che limitarsi a prenderla come amante, a provare l’immaturità di
Voltaire e la sua incapacità di governare i propri sentimenti.
Infine Madame Du Noyer, nella speranza di provocare in tempo la separazione dei giovani e poter così maritare la figlia, si recò dall’ambasciatore.
Questi, d’accordo con il padre, decise di segregare il giovane nella propria residenza, in attesa di farlo rimpatriare a Parigi. Una volta separati, i giovani
amanti cominciarono a scambiarsi missive segrete in cui Voltaire cercava di
convincere Olympe a lasciare la madre e a chiedere asilo al padre, seguendolo così nel suo ritorno a Parigi.
Anche se i giovani non si incontreranno più, il giovane filosofo continuerà
per un certo periodo a scrivere all’amata anche da Parigi. Negli anni successivi,
non esiterà a difenderla da attacchi e critiche e a sostenerla anche finanziariamente. Continuerà a scriverle ancora nel  . Agli occhi dell’intellettuale ottomano, la fedeltà di cui Voltaire dava prova non aveva altro valore se non quello di dimostrare la sua vulnerabilità emotiva, al pari di un uomo che, privo di
una salda guida morale, rimane indifeso di fronte alla fitne. Tuttavia, Midhat
non dimentica di salutare la definitiva vittoria di norme sociali che avevano impedito un’unione piena di rischi e che avrebbero agito in modo non dissimile
anche nel contesto ottomano. In sostanza, l’interesse dell’autore non solo non
era rivolto alla personalità e al pensiero del filosofo, ma neanche ai suoi sentimenti come uomo: la storia del suo primo amore si riduceva, nelle mani di Midhat, a un’occasione per denunciare i pericoli della promiscuità tipica della modernità occidentale e per dimostrare la superiorità spirituale musulmana.
Note
. P. della Valle, Viaggi di Pietro della Valle, Vitale Mascardi, Roma , vol. I, p. .
. G. Guadalupi (a cura di), Orienti, Feltrinelli, Milano , p. .
. F. M. Göçek, Rise of the Bourgeoisie, Demise of Empire, Oxford University Press, Oxford
, pp. -.
. K. Akyüz, La littérature moderne de Turquie, in P. N. Boratav (a cura di), Philologiae Turcicae Fundamenta, vol. II, Franz Steiner Verlag, Wiesbaden , p. .

AL LIMITE DEL CONFINE
. Ibid.
. A. Midhat, Sevda-i Sây-u Amel, İstanbul .
. S. Smile, Self-Help, John Murray, New York , p. .
. M. N. Özön, Türk romanı üzerine, in “Türk dili”, III, , p. .
. A. Midhat, Felsefe metinleri, a cura di E. Erbay, A. Utku, Babil, İstanbul , p. .
. H. Z. Ülken, Türkiyede çağda' dü'ünce tarihi, Ülken, İstanbul , pp. -.
. -. Figura atipica nel panorama culturale ottomano, Fuad credeva alla necessità di
una revisione radicale non solo delle tradizioni ma soprattutto della cultura attraverso l’introduzione del pensiero filosofico. Cfr. J. Parla, Babalar ve oğullar, Ileti'im, İstanbul , pp. -.
. Ibid.
. A. Midhat, Musâhabât-ı Leyliyye, in Id., Felsefe, cit., pp. -.
. Apparso a puntate sul suo “Tercüman-ı Hakikat” (“Interprete della realtà”) e successivamente stampato per intero nel .
. A. Midhat, Voltaire yirmi ya'ında ya da ilk a'kı, in Id., Felsefe, cit., p. .
. N. Hampson, The Enlightenment in France, in R. Porte, M. Teich (eds.), The Enlightenment in National Context, Cambridge University Press, Cambridge , p. : «[negli ultimi anni del regno di Luigi XIV], la società francese si preparava [...] ad accogliere il nuovo,
l’esotico e lo scandaloso. [...] la prima parte del secolo vide le donne giocare una parte molto attiva nella vita culturale di quanto fosse abituale nel resto dell’Europa» (traduzione mia).
. Midhat, Voltaire, cit., p. .
. Ibid.
. «Il Nostro raggiunse la capitale olandese in ottobre o in novembre, pochissime settimane dopo l’insediamento del nuovo ambasciatore francese [...] il polveroso Arouet aveva sperato di poter soffocare e reprimere le velleità letterarie di François spedendolo lontano da casa»
(T. Besterman, Voltaire, Feltrinelli, Milano , pp. -).
. Midhat, Voltaire, cit., p. .
. Ivi, p. .
. Ivi, p. .
. Ivi, p. . Il giudizio espresso da Besterman nei confronti della Du Noyer non è molto
dissimile: «dopo aver condotto il marito alla rovina se n’era fuggita in Inghilterra e poi in Olanda, dove ora si arrangiava a sopravvivere con sistemi più avventurosi che rispettabili. La sua principale attività era quella sorta di pubblicismo che mescola insinuazioni e menzogne a dosi calcolate della verità più scottante. La gentildonna poteva altresì contare su una merce non poco
proficua: due figlie. Sosteneva che una fanciulla dovesse maritarsi una prima volta scegliendo il
miglior partito, e una seconda volta badando al piacere. In obbedienza a questo elegante principio aveva concesso la mano della prima figlia ad un anziano ufficiale benestante in servizio effettivo [...]. La seconda figlia, Catherine Olympe, la tenne come scorta di magazzino» (Besterman, Voltaire, cit., p. ).
. Midhat, Voltaire, cit., pp. -.
. Ivi, p. .
. Besterman, Voltaire, cit., p. .
. Ivi, p. .
