Voltaire, Dizionario filosofico. Tutte le voci del Dizionario filosofico e delle Domande sull’Enciclopedia, a cura di D. Felice e R. Campi, Milano, Bompiani (“Il pensiero occidentale”), 2013, pp. LXXXI-3083. Recensione a cura di Paola Panciroli La presente edizione italiana del Dizionario filosofico, con testo originale a fronte, può a buon diritto essere considerata una novità tanto a livello nazionale, quanto a livello internazionale: essa infatti raccoglie 558 “voci”, tratte dal Dictionnaire philosophique portatif (1a ed. 1764), dalle Questions sur l’Encyclopédie (1770-1772), dall’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert, e da altri interventi sparsi di Voltaire, arricchite di annotazioni a piè di pagina, riferimenti ai testi sacri omessi dall’autore e rinvii a quei luoghi dei “classici” da lui lasciati incompleti. Questa particolare scelta editoriale si rifà alla prima edizione postuma degli scritti voltairiani, pubblicata a Kehl a partire dal 1784 e curata da Nicolas de Condorcet e Jacques-Joseph-Marie Decroix; un’edizione, tuttavia, talora rigettata negli ultimi due secoli e giudicata un monstre éditorial anche dai curatori dell’edizione critica delle Œuvres complètes de Voltaire, in corso di pubblicazione a cura della Voltaire Foundation dell’Università di Oxford. Secondo questi ultimi, l’impresa di Kehl non rispetterebbe gli attuali criteri filologici di scientificità, poiché negherebbe ad ogni singola opera la propria identità e indipendenza. A tal proposito, risulta molto interessante la recente presa di posizione di Marc Hersant, il quale, pur riconoscendo il valore di un’edizione scientifica per specialisti e ricercatori come quella che sta vedendo la luce da alcuni anni a questa parte, sottolinea come i criteri sulla base dei quali essa è realizzata siano tipicamente moderni e quindi applicati a posteriori a una serie di scritti che non volevano presentarsi come opere unitarie (il riferimento è a M. Hersant, Il Dictionnaire philosophique: opera a pieno titolo o un “guazzabuglio in prosa”?, «Montesquieu.it», 4 [2012], pp. 205-216). A giudizio dello studioso, l’effettiva fondatezza di quest’osservazione sarebbe dimostrata dal fatto stesso che Voltaire li avesse definiti un «guazzabuglio» e li rimaneggiasse e modificasse liberamente, aggiungendo e sopprimendo via via parti di testo. Tenendo conto di questi elementi risulta difficile parlare di identità e unità degli scritti voltairiani. Hersant ha quindi buon gioco nell’affermare che l’edizione Kehl è più fedele agli intenti del celebre autore settecentesco, avendo quest’ultimo come suo scopo principale quello di «scrivere per agire», cioè di intervenire sulla realtà delle cose facendo circolare idee e opinioni e stimolando il pensiero critico (un analogo punto di vista ermeneutico è avanzato in A. Brown, Les antikehliens, «Cahiers Voltaire», 13 [2014], pp. 155-160). Una volta abbandonata la pretesa di rintracciare a posteriori nei testi del patriarca di Ferney un’unità formale, contenutistica o estetica, ciò che ci può guidare nella loro lettura è la comprensione dell’impegno filosofico che li sottende, il quale può essere esemplificato da uno stile di scrittura che si distingue per mancanza tanto di rigore argomentativo quanto di sistematicità espositiva, nonché per l’uso dell’ironia volto a screditare sistemi di pensiero, tradizioni consolidate, pregiudizi, superstizioni, dogmi. Questo stile si qualifica, inoltre, per la volontà di coinvolgere il lettore, rendendolo proprio complice e provocando in lui quella risata che segna la vittoria di Voltaire sul suo avversario, senza bisogno di confutarlo. Quest’atteggiamento “spiritoso” è stato perfettamente compreso e ben collocato nella propria dimensione storica da Hegel, che pur incarna quell’esprit de système così avversato dall’autore francese. Il filosofo tedesco rintraccia infatti negli scritti di Voltaire il momento di verità del movimento illuminista, che consiste in definitiva nell’esercitare il buon senso, contrapponendo ad una verità unilaterale, presentata erroneamente come assoluta, un’altra unilateralità, che ha lo scopo di mettere in ridicolo la prima. Da questa unilateralità non si pretende niente di più: la sua funzione è esclusivamente critica e demistificatoria (cfr. R. Campi, Introduzione al Dizionario filosofico, pp. IX-XXXIII). La professione di scetticismo praticata da Voltaire attraverso il suo stile di scrittura mira a mettere in luce i limiti della conoscenza umana, per liberare il pensiero dall’asservimento a pregiudizi, superstizioni e dogmi. Anticipando la nota massima kantiana formulata nel breve testo Was ist Aufklärung?, il patriarca di Ferney, nella voce Libertà di pensiero, esorta: «abbiate il coraggio di pensare da sol[i]!» (p. 2165). È all’interno di questo quadro che viene a delinearsi una nuova immagine della filosofia, che va accomunando in Europa molti degli intellettuali del XVIII secolo e che è strettamente legata al concetto di utilità pratica. Ogni conoscenza e credenza che s’incontra nel corso delle proprie indagini deve passare al vaglio dell’esperienza e della ragione; la domanda che Voltaire costantemente si pone è: «Perché devo credere?». Ciò che non è alla portata della ragione umana costituisce, a suo parere, solamente una perdita di tempo: per questo, tutte le discussioni in materia di teologia, metafisica, religione vengono semplicemente ridicolizzate e accantonate. Quella domanda iniziale, allora, finisce con il sottintenderne un’altra: «Mi è necessario sapere?». Il buon senso che guida il filosofo, infatti, consiste non solo nella capacità di delineare i limiti del sapere umano, ma anche in quella di distinguere l’utile dall’inutile, ossia di individuare quello che è necessario al genere umano e che è identificabile con ciò che si dimostra adeguato al tempo presente: inadeguati e inutili sono, ad esempio, i retaggi di tradizioni appartenenti al passato, fondate esclusivamente sul principio d’autorità (si veda la sovrapposizione di potere politico e religioso nell’Ancien Régime). Quest’atteggiamento critico è stato definito da Foucault un’«ontologia del presente», vale a dire una costante problematizzazione dell’attualità, che ha lo scopo di migliorare le condizioni sociali, politiche, intellettuali degli uomini, rendendo intollerabili le iniquità, le ingiustizie, le prevaricazioni (si vedano, di R. Campi, La saggezza del filosofo ignorante. Dieci paragrafi su Voltaire e la filosofia, in D. Felice [a cura di], Studi di Storia della Filosofia. Ricordando Anselmo Cassani [1946-2001], Bologna, Clueb, 2009, pp. 175196, e Introduzione al Dizionario filosofico, pp. LVII-LXIV). Voltaire sintetizza bene quanto detto sopra, affermando che la filosofia è servita «a distruggere in Inghilterra la rabbia religiosa che fece morire sul patibolo il re Carlo I; a impedire in Svezia a un arcivescovo, bolla papale alla mano, di far scorrere il sangue della nobiltà; a mantenere in Germania la pace religiosa, rendendo ridicole tutte le dispute teologiche; a estinguere in Spagna gli abominevoli roghi dell’Inquisizione» (voce Filosofia, Sezione IV, p. 2479). La philosophie si rivela quindi uno strumento al servizio della tolleranza, unico argine contro la discordia, la violenza e il fanatismo. Basandosi sull’idea che tutti gli uomini siano soggetti all’errore, la tolérance promuove una convivenza pacifica e condanna ogni pretesa d’imposizione di verità del tutto unilaterali e al di fuori della portata della ragione umana. Nella visione di Voltaire, la tolleranza è direttamente prescritta dall’unica morale universale e fondata sulla ragione, la quale può essere esemplificata dall’imperativo: «Amate Dio e il vostro prossimo» (cfr. voce Morale, pp. 23592361). Questa morale razionale costituisce l’altra faccia di una concezione della religione, intesa come religione naturale e contrapposta a quella positiva (consistente nell’insieme dei culti, delle tradizioni e dei dogmi che distinguono e contrappongono le confessioni e le sette le une alle altre). La religione naturale o deismo di Voltaire sottrae completamente le credenze religiose alla sfera della fede (inscindibile da quella della paura) per consegnarle alla sfera della ragione. Per questo, il deismo a differenza delle singole confessioni o sette religiose, presuppone pochissimo: la credenza, razionalmente dimostrabile, nell’esistenza di un Essere supremo, giusto e onnipotente. Voltaire afferma che «il teismo è una religione diffusa in tutte le religioni; è un metallo che si lega con tutti gli altri» (voce Teismo, p. 2823), in quanto proviene direttamente da Dio, mentre i culti, i dogmi e i riti derivano dagli uomini. Il rapporto inscindibile fra tolleranza, morale universale e deismo è messo chiaramente in luce dal principe dei philosophes nella definizione che egli dà del deista come di «colui che dice a Dio: Ti adoro, e ti servo; colui che dice al Turco, al Cinese, all’Indiano e al Russo: Vi amo» (ivi, p. 2825). In definitiva, è possibile osservare come la professione di scetticismo di Voltaire, diretta a storicizzare e relativizzare tradizioni, sistemi di pensiero, istituzioni, credenze ecc., si accompagni, d’altra parte, a una fede ottimistica nelle capacità della ragione umana di rintracciare degli universali che possano accomunare gli uomini. Quest’apparente contraddizione può essere spiegata facendo riferimento al preconcetto relativo all’opposizione tra natura e cultura che accomunava il celebre autore francese agli uomini del suo tempo. La relatività degli usi e costumi umani, infatti, non ostacola un’azione riformatrice, dal momento che la natura umana è sempre e ovunque la stessa. Proprio partendo da qui, l’autore del Dictionnaire philosophique denuncia l’intollerabilità, l’illegittimità, l’iniquità di pratiche, istituzioni e tradizioni, e rivendica un’esigenza di giustizia contro gli orrori del suo secolo. Certamente non si può non riconoscere come i concetti di senso comune, utilità e adeguatezza ai tempi, spesso utilizzati da Voltaire, rientrino, insieme con la constatazione dell’esistenza di una serie di universali non meglio dimostrati, in una sorta di ragionamento circolare, di cui però egli non si preoccupava. La sua strategia filosofica, come ha sottolineato Roland Barthes, consiste infatti nello scindere intelligenza e intellettualità, rinunciando alla pretesa di quest’ultima di far rientrare forzosamente il tutto in un sistema coerente e ordinato (cfr. R. Campi, Introduzione al Dizionario filosofico, pp. XXIX-XLV). Le riflessioni del patriarca di Ferney nascono dal bisogno di agire e d’intervenire sulla realtà. Il loro scopo, quindi, è eminentemente pratico, non teorico. Come afferma Campi nella sua Introduzione al Dizionario filosofico, probabilmente la filosofia di Voltaire «è servita “solo” a questo: contribuire a rendere intollerabile ciò che per secoli era stato tollerato, rifiutandosi di continuare a considerarlo ovvio e immutabile e denunciandone l’inadeguatezza rispetto alle esigenze del proprio tempo» (ivi, p. LX). Paola Panciroli