La Sicilia immaginaria di Béla Hamvas

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La Sicilia immaginaria di
Béla Hamvas
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MICHELE SITÀ
ÉLA HAMVAS (1897–1968) È UNO SCRITTORE DIFFICILE DA INQUADRARE, PRESSOCHÉ SCONOSCIUTO
AL DI FUORI DEI CONFINI UNGHERESI, RISCOPERTO SOLTANTO NEGLI ULTIMI DECENNI NELLA
STESSA UNGHERIA1. Perché quindi parlare di Hamvas e, soprattutto, perché accostarlo
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alla Sicilia? Prima di rispondere a questa domanda sarà necessario prendere in considerazione la sua formazione, conoscere qualche dettaglio relativo alla sua vita,
cominciare quindi a entrare nella sua realtà.
Pensando alla formazione di Hamvas, un nome che viene subito in evidenza
è quello di S. Kierkegaard. Spesso accade che alcuni pensatori si avvicinino tra loro
quasi per caso, ebbene la stessa cosa avvenne ad Hamvas, che lesse Kierkegaard subito dopo la prima guerra mondiale, quando era tornato dal fronte, ferito per ben
due volte in Ucraina e bisognoso di cure. Il periodo di convalescenza lo trascorse in
una località sui monti Tatra, non lontano da dov’era nato2, in compagnia dei testi
di Kierkegaard. Potremmo simbolicamente associare la sua riabilitazione a queste
letture, ciò non significa tuttavia che egli accettò il pensiero kierkegaardiano, era sì
rimasto affascinato dalle sue opere, tuttavia ebbe modo di criticarle, spesso con
quell’ironia che Kierkegaard ben conosceva.
Lo stesso Hamvas, dopo diversi anni, ricorda in un’intervista a se stesso l’importante lettura di Kierkegaard: «Lo ricordo ancora come se fosse oggi, avevo
appena compiuto vent’anni e, in biblioteca, non so nemmeno io come, mi capita
tra le mani un saggio di Kierkegaard […] entrai in quel momento nella crisi e, da
allora, non ne uscii più3». Hamvas, oltre a Kierkegaard, ebbe modo di leggere Nietzsche, Jaspers, Heidegger, Heisenberg, Böhme, Guénon, Evola, ripercorrendo le loro
riflessioni e rivisitandole con il suo modo di scrivere. Fu lui stesso ad agevolare la
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diffusione in Ungheria di molti di questi autori, anche se non fu affatto facile. Come
già si è accennato Hamvas appartiene a quella serie di scrittori che erano ormai sepolti, quasi dimenticati, ma grazie alla loro forza, dopo la caduta del comunismo,
trovarono una pur debole riscoperta. Uno di coloro che rese ancor più difficile non
solo la diffusione delle sue opere, ma la sua stessa vita, fu György Lukács, a quel
tempo ministro della Cultura Popolare. Hamvas attendeva l’incontro con Lukács,
lo conosceva di fama ed avrebbe voluto parlare con lui, convinto del fatto che ne
sarebbe potuto nascere un proficuo confronto di idee. Le cose non andarono così,
non solo Lukács non volle incontrarlo ma, quando l’incontro avvenne, egli fu lapidario nel non voler appoggiare le sue riflessioni e nel giudicarle inattuali. Lukács
considerava gli scritti di Hamvas antimarxisti, cominciando a diffondere, negli ambienti culturali, l’idea che si trattasse di un personaggio scomodo e pericoloso. Il
nome di Hamvas entrò quindi, nel 1948, nella famosa lista di proscrizione preparata da Lukács, divenendo così vittima del potere imperante. Venne ad esempio interrotta e distrutta la collana Egyetemi Nyomda kis tanulmányai4, da lui ideata e curata, ma anche un suo testo su Heidegger venne distrutto prima ancora di andare
in stampa. Lukács da un lato considerava Heidegger come il «capofila del tenebroso
esistenzialismo fascista5», dall’altro vedeva in Hamvas uno scrittore mistico ed oscuro, uno di coloro che operavano, in Ungheria, la distruzione della ragione. Lo definì,
per l’esattezza, «il più torbido cultore del neomisticismo ungherese6», motivo in più
che permise di fargli perdere l’incarico presso la biblioteca centrale di Budapest. In
un clima avverso non solo non era facile scrivere e pubblicare, persino la vita era diventata ormai, per lui, una sopravvivenza. Cadde in povertà, si trovò a fare il contadino, il magazziniere, ma continuò a scrivere, pur morendo povero e dimenticato.
Vi è certamente un retroterra prettamente filosofico nella formazione di
Hamvas, tuttavia definirlo un filosofo è forse eccessivo, non si tratta di un pensatore
sistematico, non ha scritto delle vere e proprie opere filosofiche, tuttavia il suo pensiero ricalca la filosofia stessa, se ne nutre e si riveste di un indiscutibile fascino. La
crisi a cui accennava Hamvas, quella stessa crisi che gli fu contagiata da Kierkegaard,
lo costringeva a vedere con maggiore acutezza le mancanze del mondo moderno.
Anche Hamvas concentrò le sue opere sull’esistenza, ne cercava l’autenticità nel
presente, nella crisi, in quel modo di porsi di fronte alla vita che, dopo le opere kierkegaardiane, sembrava obbligatorio. Nelle sue opere si respira l’aria di un’etica personale, un’etica per uomini comuni, normali, eppur singoli. Fu quindi partendo da
Kierkegaard, dai nuovi orizzonti ai quali il suo pensiero aveva aperto lo sguardo, che
Hamvas portò avanti una riflessione sull’esistenza, sulla persona, sulla solitudine
in cui l’essere umano si viene a trovare, ma anche su se stesso e sul mondo che ci
circonda.
Molte sono, ovviamente, le opere in cui Hamvas si ispira a Kierkegaard, sono
però poche le occasioni in cui egli lo cita, vi è tuttavia un breve saggio in cui Kierkegaard compare persino nel titolo. Il saggio in questione è Kierkegaard in Sicilia,
che si potrebbe definire una satira di alcune concezioni kierkegaardiane e, anche
se in apparenza potrebbe sembrare un semplice racconto, gli spunti e i rimandi a
Kierkegaard sono certamente numerosi. Il perché dell’accostamento di Hamvas a
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Kierkegaard risulta ormai chiaro, un po’ meno evidente è questo riferimento forte
e marcato alla Sicilia. Per riuscire a comprenderlo, pur se solo in parte, bisognerà
far riferimento ad alcune atmosfere pirandelliane che compaiono in alcuni scritti
di Hamvas. Pirandello era conosciuto in Ungheria fin dalla metà degli anni ’20, lo
scrittore siciliano venne a Budapest nel 1925 per presentare la prima de I sei personaggi in cerca d’autore per poi tornare nel 1926, quando oltre a I sei personaggi, vennero messe in scena a Budapest anche Così è se vi pare e Vestire gli ignudi. Da quel
momento furono numerose le opere di Pirandello portate sui palcoscenici
ungheresi, facendo crescere l’interesse letterario e teatrale per questo autore.
Hamvas, nel suo romanzo Karnevál, scritto tra il 1948 e il 1951, riveste di un clima
indubbiamente pirandelliano le idee di Kierkegaard. La vita viene paragonata, per
l’appunto, ad un carnevale in cui tutti indossano una maschera, tutti interpretano
dei ruoli7. Il protagonista lotta per liberarsi da queste maschere, per poter raggiungere se stesso, recuperare la sua individualità e sfuggire alla folla. Se per Kierkegaard
la folla non aveva volto, per Hamvas è come se fosse un insieme di maschere, una
confusione di ruoli assegnati gli uni agli altri, ruoli dai quali è quasi impossibile liberarsi. Parlando di maschere viene data al concetto di folla una connotazione leggermente diversa rispetto a quella kierkegaardiana, si pone l’accento sui ruoli che
la folla assegna ai suoi stessi membri, apparentemente si tratta di una maggiore attenzione dedicata alla parte che viene ad assumere, ogni componente, all’interno
della folla. L’apparente approfondimento degli individui si tramuta poi in disperazione, proprio perché, come già accennato in precedenza, la maschera che la folla
ci affida non è facilmente dismettibile. La vita sarà un continuo tentativo di levarsi
di dosso quel velo che copre il viso vero e, in tal modo, uscire da quel ruolo stretto
e scomodo. In fondo gli stessi pseudonimi che Kierkegaard utilizzava potrebbero
essere considerati proprio come dei tentativi di sfuggire, passando da una maschera
all’altra, ai ruoli che la folla ci vorrebbe imporre. Questo vero e proprio teatro delle
maschere ha come sfondo le scelte di fronte a cui l’esistenza ci pone, se tuttavia per
Kierkegaard la scelta avviene nell’attimo, per Hamvas essa è principalmente appannaggio dell’immaginazione. Immaginare significa indirizzare la propria scelta,
darle un’indicazione che accenda l’animo, che svegli la coscienza e riscaldi i sentimenti: l’immaginazione è quindi sintomo di libertà.
Non si vuol creare qui una rete di affinità tra Hamvas, Kierkegaard e Pirandello, finiremmo per andar contro i loro stessi dettami e ci ritroveremmo ad affibbiargli delle maschere troppo strette, poco adatte alle loro personalità. Riscoprire
Hamvas significa ritrovare uno pseudonimo perduto, indossare una maschera che
era stata sgualcita, che si stava smarrendo ma che, nonostante tutto, è riuscita a sopravvivere al tempo. La Sicilia diventa quindi un frutto dell’immaginazione, un
luogo reale che collega il pensiero di Kierkegaard alla finzione creativa di Hamvas.
Questa terra, reale e immaginaria al tempo stesso, diventa il punto di connessione
tra i due pensatori, una specie di palcoscenico sul quale Hamvas decide di
catapultare Kierkegaard.
Il breve saggio Kierkegaard in Sicilia compare all’interno del testo intitolato
A babérligetkönyv8, un testo che raccoglie dei saggi scritti tra il 1930 e il 1945.
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In questo saggio, precedente al romanzo Karnevál, vengono prese in questione due
concezioni chiave che richiamano la problematica della scelta e quella della ripetizione, tuttavia già il titolo ci suggerisce qualcosa in più. In realtà né Kierkegaard
né Hamvas furono mai in Sicilia, si tratta quindi da un lato di una destinazione sconosciuta, dall’altro, come già si è accennato, di una destinazione immaginata.
Il concetto di scelta kierkegaardiano viene qui interpretato in chiave immaginativa,
ciò significa che l’uomo sceglie guidato dalla propria immaginazione. Non solo un
viaggio ma anche qualsiasi gesto della quotidianità, qualsiasi momento della giornata può aver bisogno di una scelta e, in tal caso, l’immaginazione verrà in nostro
aiuto. La ricostruzione delle possibilità, rivisitate in chiave immaginativa, ci offre
un’analisi delle circostanze, delle situazioni, una ricostruzione che deve avvenire
spesso in fretta, altrimenti potrebbe rischiare di immobilizzare l’uomo, di bloccarlo,
di non permettergli di vivere tranquillamente.
L’idea del viaggio ha spesso affascinato filosofi e letterati, Hamvas ne riscopre
il mistero, tutto quello spazio ignoto che divide il viaggiatore dalla meta viene
riempito di immaginazione e di sogno. Chi pensa alla Sicilia potrà quindi sognare
il mare pulito, dei bei panorami, delle prelibate specialità culinarie, una natura meravigliosa ed accogliente, un caldo piacevole e tanto altro ancora. Il viaggio avviene
prima nell’immaginazione, che a sua volta viene paragonata al fuoco, si fa strada
allo stesso modo delle fiamme, con prepotenza, senza accettare i limiti. È proprio
questo il bello dell’immaginazione, nell’immaginazione tutto è possibile, tutto è libertà. Ciò può avvenire standosene tranquilli a casa, gettando lo sguardo del
pensiero in mille luoghi, in tempi diversi, ogni viaggio è una conquista, tutto gira
intorno a noi. Secondo Hamvas l’ideale sarebbe poter portare quest’idea di viaggio
verso l’esterno, il che è ovviamente impossibile, in primo luogo perché non vi è mai
coincidenza tra realtà ed immaginazione. All’esterno ci si accorge che il mondo non
gira attorno a noi, è quasi come se non fossimo più noi a viaggiare per il mondo ma
il mondo a viaggiare verso di noi, talvolta contro di noi, facendoci quindi perdere la
posizione di centralità, quella posizione che ci eravamo guadagnati tramite la
nostra capacità immaginativa. Uscendo fuori di casa non posso più essere fuoco,
non posso più scegliere innumerevoli destinazioni, ne devo inevitabilmente preferire una ad un’altra, mi devo limitare. Nella nostra immaginazione siamo noi a limitare il mondo, fuori di essa è il mondo a limitare noi. Se ogni viaggio dell’immaginazione è un continuo voltar pagina per scriverne una nuova, quando ci gettiamo
all’esterno è come se scegliessimo una sola pagina, forse una sola riga, una parola,
una lettera, ne siamo costretti, ma ciò è visibilmente troppo poco per renderci
conto di quel che accade. Dentro noi il fuoco dell’immaginazione riesce a bruciare
il mondo, ma appena l’uomo esce fuori sarà lui ad essere bruciato dal mondo. Il discorso può ovviamente essere ampliato alla vita, all’Io stesso, il che richiama quel
senso di spaesamento, tutto kierkegaardiano, che si ha di fronte al mondo. Ci troviamo qui senza aver chiaro il motivo della nostra esistenza, senza sapere perché
siamo proprio noi, senza sapere perché viviamo proprio questa vita. Già questo ci
fa capire che la capacità di scelta dell’uomo avviene solo dentro se stesso, fuori tutto
è un’incognita.
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Hamvas pare quindi accompagnare con l’immaginazione il viaggio di Kierkegaard in Sicilia, si tratta tuttavia di un viaggio comune che, pur avendo come meta
una terra sconosciuta, la rende il simbolo di un percorso formativo ed illuminante.
Con un abile gioco narrativo, passando repentinamente dalla prima alla terza
persona e viceversa, ci viene descritto il viaggio di qualcuno che ha deciso di andare
all’esterno, di non rimanere chiuso nella propria casa. Prima di nominare Kierkegaard scorrono diverse pagine, ad esser nominati prima di lui sono Napoleone,
Byron e Stendhal. Napoleone è l’esempio concreto di un eroe che è riuscito a conquistare l’Europa e a risvegliare la voglia d’infinito sopita in ogni uomo; Byron e
Stendhal avevano fatto la stessa cosa con le loro opere, avevano incendiato gli
animi, avevano scosso i caratteri destando una nuova forma d’infinito, un nuovo e
forte desiderio di regnare. Napoleone aveva conquistato il mondo esterno, Byron e
Stendhal avevano invece cominciato a rivolgere le loro conquiste verso l’interno,
ma ormai il mondo era cambiato, il mondo aveva bisogno di un nuovo eroe, di un
uomo superiore, ed ecco che Hamvas fa entrare in gioco la figura di Kierkegaard.
Ovviamente si tratta di un eroe solitario, psicologico, un uomo che ha rivolto tutto
verso la propria interiorità, conquistando così se stesso ma sottomettendosi, inevitabilmente, al mondo esteriore. Qui si comincia a percepire l’ironia con cui viene
presentata la figura di Kierkegaard, rispetto al quale lo stesso Napoleone sfigurerebbe,
sembrerebbe anzi un semplice ragazzotto.
La vita è una continua immaginazione, oggi non è più concepibile la figura
dell’imperatore, potrà essere facilmente sostituita con un eroe che se ne sta comodamente seduto in un angolino di casa sua, l’importante non è più il fenomeno
esterno, l’importante è decidere dove indirizzare la propria mente, dove dirigere il
proprio viaggio interiore. A questo punto viene ripresa la problematica kierkegaardiana della ripetizione, di quel tipo particolare di ricordo che, in verità, viene reinterpretato da Hamvas, ancora una volta, come immaginazione. Nel testo di Kierkegaard su La ripetizione si parla proprio di un viaggio ripetuto, un viaggio che nel ricordo era bellissimo, di una bellezza ormai totalmente ed unicamente interiore. Ripetere questo viaggio esteriormente significava perdere quel bel ricordo, tutto veniva esteriormente ripetuto, tuttavia questa ripetizione non era e non poteva essere
interiore, si trattava di una continua sofferenza, il viaggio esterno, pur se ripetuto
per filo e per segno, non reggeva il paragone col ricordo. Hamvas, d’altro canto,
mette in viaggio Kierkegaard in persona, questo nuovo eroe dell’interiorità, immaginando per lui un viaggio in Sicilia, un viaggio che nell’immaginazione promette
solo cose belle. Ma Kierkegaard non è Napoleone, è quindi inevitabile che il contatto con l’esterno provochi in lui una serie continua di delusioni accompagnate da
pseudo-avventure. Il mal di stomaco che già lo tormentava durante il viaggio, una
volta giunto in Sicilia persisteva, era una sorta di nausea alla quale si aggiungeva il
cattivo odore che proveniva dai dintorni. Il caldo era insopportabile, l’acqua del
mare era piena di alghe, pian piano spariva la gioia che aveva immaginato, spariva
ogni pensiero, i desideri si ritiravano quatti quatti, si sarebbero accontentati del minimo indispensabile. La capacità decisionale del povero Kierkegaard viene volutamente messa in crisi, la scelta diventa difficile e le situazioni esterne sembrano
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paralizzare la sua capacità di prendere una decisione vera e propria. Tra i sentieri
Kierkegaard subisce un forte spavento a causa di un serpente, se in acqua intravede
una pinna, sicuramente potrebbe essere uno squalo, ogni cosa che accade è
negativa, ogni sensazione esterna fa pensare al peggio. Il singolo è voluto uscir fuori
dal suo guscio, ma la sua eroicità consisteva unicamente nel potervi star dentro.
Fuori c’è la sconfitta, l’eroe dei giorni nostri non è preparato ad affrontare la vita
esterna, l’eroe di oggi è in crisi, una crisi forte che non gli permette di vivere il mondo.
L’uomo di oggi si lascia vivere, il suo aut-aut è terribile: o fa l’eroe di se stesso, rimanendo chiuso in soffitta, oppure esce per essere ingurgitato e sconfitto dal mondo.
L’errore di Kierkegaard sembra essere stato quello di aver disimparato a vedere Dio
con semplicità, a vedere Dio nel mondo e, di conseguenza, a vivere il mondo stesso
vivendo Dio. Kierkegaard descriveva la capacità che l’uomo aveva o di rimanere a
casa, bloccato in un’estetica artificiosa, o di tuffarsi verso il viaggio etico, o ancora,
infine, di saltare paradossalmente nella religione. Non vi è legame tra uno stadio e
l’altro, l’uomo estetico non si riconosce in quello etico, così come quest’ultimo non
riuscirà a comprendere la sospensione dell’etica attuata dall’uomo religioso che, a
sua volta, si ritroverebbe a compiangere coloro che rimangono bloccati nei due
stadi precedenti. Ciò non era accettabile per Hamvas, il passaggio doveva essere
graduale, per lui il rivolgimento interiore di Kierkegaard è un inutile perseverare nel
desiderio di essere un eroe, di compiere grandi gesta. Il pathos dell’eroe, tuttavia,
ha qualcosa di sarcastico se si lotta solo con se stessi, se si rimane chiusi in mansarda con le proprie immaginazioni, se non si ha la capacità di affrontare il mondo,
la realtà, persino nelle sue scelte più semplici. Bisogna aprirsi al mondo senza
perdere se stessi, bisogna comunicare con il singolo senza abbandonare l’altro,
dobbiamo toglierci di dosso la maschera dell’eroe, perché volgendosi verso l’interno non vi è nessun eroe. L’uomo di Hamvas dovrebbe quindi capire, dopo questa
parentesi interiore, che i tempi sono cambiati, oggi bisogna avere il coraggio di
uscire fuori dal guscio, non da eroi ma da semplici uomini.
In un altro testo di Hamvas, La filosofia del vino9, scritto nel 1945, si racconta
di un viaggio nella stessa direzione, perché solo una volta che si esce da quel guscio
protettivo, solo quando si ha il coraggio di guardare il mondo mettendo da parte se
stessi, solo allora si riuscirà a godere liberamente della bellezza del mondo. Non bisogna quindi rimanere chiusi in se stessi, una volta fuori si dovrà avere il coraggio
aprirsi al mondo, di diventare mondo o, riprendendo le parole dello stesso Hamvas
«devi cercare di non vivere il mondo sotto il tuo nome, bensì vivere te stesso in
nome del mondo10». La religione che sembra imporre all’uomo il sacrificio, che
sembra chiedergli di andar contro l’etica, contro il mondo e contro se stesso, non
deve essere ascoltata. In questa considerazione Hamvas non vuole essere irriverente
nei confronti di Dio, il suo obiettivo è proprio quello di vivere appieno la religione,
non quella che sembrerebbe rovinare il mondo per mantenere la purezza dell’io,
bensì quella che non si intromette, di prepotenza, nel rapporto tra Dio e l’uomo. Si
potrebbe pensare, quando Hamvas afferma che Dio è il vento, il serpente, lo squalo,
il vino, che si tratti in realtà di una visione panteista, credo tuttavia che una simile
interpretazione sia piuttosto riduttiva. Hamvas non vuole sostituire Dio con la
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natura, vuole solo far ritornare l’uomo a vivere nel mondo, ammirando il mondo,
rappacificandosi e dialogando con esso. Non esiste la sospensione dell’etica, non
esistono per lui degli stadi divisi da pericolosi salti, quel che esiste è l’uomo che dovrebbe avere il coraggio di sognare senza rifletterci troppo sopra, instaurando così
un dialogo aperto con Dio.
Il saggio Kierkegaard in Sicilia non è uno scritto prettamente filosofico, lo si
potrebbe anche considerare una novella, tuttavia Hamvas ci fa riflettere utilizzando
proprio l’arma dell’ironia socratica. La Sicilia entra quindi nell’immaginario di
Hamvas per rivestirsi di significati simbolici, per dimostrare all’uomo che, se non
si sta bene con se stessi, persino un soggiorno tra le bellezze dell’ isola potrà
sembrarci alquanto spiacevole. D’altro canto l’ispirazione kierkegaardiana è non
solo evidente ma rappresenta anche una necessaria ed imprescindibile chiave di
lettura: solo conoscendo Kierkegaard si possono cogliere le sfumature presenti nel
testo. In questo viaggio immaginario in Sicilia ci troviamo di fronte ad un dialogo
tra Hamvas e Kierkegaard, vi è un vero e proprio confronto che porta ad una particolare interpretazione dello stesso Kierkegaard. Se quest’ultimo aveva rotto il
sistema hegeliano, se aveva tentato di mettere al centro del pensiero l’uomo e la sua
esistenza, Hamvas si era accorto, d’altro canto, che l’esistenza di cui parlava Kierkegaard era rivolta eccessivamente verso l’interno. Bisognava inoltre abbattere i tre
stadi, solo così l’uomo avrebbe potuto ritrovare il coraggio di accettare se stesso,
l’altro, il mondo e Dio. Per Hamvas il pensiero era entrato in crisi proprio a causa di
Kierkegaard, o forse erano proprio le riflessioni di quest’ultimo che erano nate in
seno ad una crisi. Fatto sta che ormai, essendo dentro la crisi, bisognava convivere
con essa, bisognava trovare il modo di comunicare. Hamvas non creò una filosofia
di riserva, non aveva una risposta a tutti i perché, tuttavia le sue opere sono capaci
di esprimere bene il tentativo che tutti si aspettavano dall’uomo, ovvero quello di
ritrovare se stesso. Questo tentò Hamvas col suo pensiero, ovvero riportare a galla
l’uomo in crisi, ridargli la forza di guardare il mondo con occhi diversi, di recuperare la fiducia in se stesso, quella consapevolezza di poter essere uomo senza dover,
necessariamente, indossare la maschera dell’eroe.
NOTE
1 Indispensabile per la pubblicazione e la diffusione delle opere di Hamvas il teologo Antal Dúl, che
divenne erede delle sue opere curandone la pubblicazione.
Béla Hamvas nasce ad Eperjes, cittadina che oggi si trova in Slovacchia ed è conosciuta con il
nome di Prešov (dove studiò anche Sándor Márai, uno degli scrittori ungheresi più conosciuti in
Italia). La località in cui trovò ristoro dopo la prima guerra mondiale si chiamava invece Ótátrafüred, anch’essa in territorio attualmente slovacco, oggi sotto il nome di Starý Smokovec.
3 H. Béla, Interwiev, in Patmosz I., Szombathely, Életünk 1992, p. 260 (traduzione mia).
4 Piccoli Quaderni della Tipografia Universitaria, poi ristampata nel 1990 col titolo Európai műhely.
5 Keszi Imre, Egy állami intézmény, amelyet ideje lenni államosítani. Az Egyetemi Nyomda kultúrpolitikája [Un’istituzione statale che sarebbe ora di statalizzare. La politica culturale della Tipografia Universitaria], «Szabad Nép», 25 aprile 1948.
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6 Ibidem.
7 Si veda K. Thiel, Maszkjáték – Hamvas Béla Kierkegaard és Nietzsche tükrében, Veszprémi Egyetem,
Veszprém 2002.
Cfr. H. Béla, Kierkegaard Szicílíában (pp. 87–102) in Hamvas Béla művei 5 – A babérligetkönyv –
Hexakümion, Medio Kiadó, Budapest 2005, p. 102 (in traduzione italiana si trovano solo alcuni
dei saggi presenti in questo volume).
9 H. Béla, A bor filozófiája, Editio M, Szentendre 2000.
10 Ivi, p. 102.
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