Psichiatria e Psicoterapia (2003) 22, 1, 9

Psichiatria e Psicoterapia (2003) 22, 1, 9-16
EDITORIALE
IL CONTRIBUTO DI HANS GEORG GADAMER ALLA PSICHIATRIA E ALLA PSICOANALISI
Giuseppe Martini
Quindi l’ermeneutica non è soltanto una disciplina ausiliaria che rappresenta
un importante apparato metodologico per ogni scienza. Essa arriva a toccare le
profondità della filosofia, la quale non s’identifica solo con il pensiero logico e la
ricerca metodica, ma segue sempre anche una logica del dialogo (…) L’intera nostra capacità riflessiva include la possibilità di capire quanto è incomprensibile e
soprattutto quanto vuole farsi comprendere. Nelle religioni, nell’arte dei popoli e
alla luce della nostra tradizione storica essa tiene in serbo risposte sempre nuove e
con ognuna di esse suscita una nuova domanda: questo è il ruolo dell’ermeneutica
come filosofia.
Identificando in questo modo i compiti dell’ermeneutica, emerge subito anche
la sua prossimità alla psichiatria. Se la filosofia implica voler capire ciò che non si
comprende e accoglie le grandi domande dell’umanità, a cui offrono una risposta le
religioni, il mondo della mitologia, la poesia, l’arte e la cultura nel suo complesso,
allora essa abbraccia i misteri dell’inizio e della fine, dell’essere e del nulla, della
nascita e della morte e soprattutto del bene e del male, domande enigmatiche a cui
non sembra sia possibile fornire delle risposte sulla base di un sapere. Lo psichiatra
riconoscerà immediatamente l’affinità di tali questioni incomprensibili con quanto
gli capita di incontrare nelle malattie mentali e psichiche di cui egli si occupa abitualmente.
H.G. Gadamer, Ermeneutica e psichiatria, 1989, p. 175
Il 13 marzo 2002 si è spento, all’età di 102 anni, Hans Georg Gadamer, a parere di molti uno
dei più grandi filosofi del secolo appena trascorso. Certamente, al di là di improbabili giudizi di
merito, è stato colui che ha più lungamente attraversato la storia del secolo XX e che più ne ha
riflesso – e subìto – le vicende nel proprio sistema di idee.
In una delle ultime interviste, pubblicata un paio di anni or sono in un quotidiano italiano,
Gadamer ebbe a dire che uno degli eventi che più lo colpirono negli anni della sua giovinezza fu
la tragedia del Titanic. Quell’evento per noi decisamente remoto, e al più conosciuto attraverso il
filtro di narrazioni romantiche, significò per la sua generazione la fine della fede assoluta nella
tecnica (quella fede forse riemersa nell’era dei computer, ma di nuovo sottoposta all’incertezza
che ora nasce dalla minaccia di una catastrofe ecologica). La consapevolezza di tale fallacia, della
“crisi delle scienze europee”, fu nel contempo uno dei motori dell’impianto filosofico del grande
e riconosciuto maestro di Gadamer, Martin Heidegger, nonché, forse, la spinta alla ricerca di una
dimensione “extrametodica” della verità, che coinvolge tuttora correnti così significative del pensiero filosofico contemporaneo. Ciò condusse, in alcuni casi, alla riaffermazione di una dimensione ermeneutica all’interno della filosofia della scienza e, nel contempo, di una dimensione
“epistemologica” (con conseguente attenzione ai criteri di validazione) all’interno delle scienze
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umane, o anche al rifiuto delle contrapposizione diltheyana tra scienze della natura e scienze
dello spirito. In altri casi si pervenne, invece, a una serrata contrapposizione, declinatasi in campo
filosofico come controversia tra “analitici” e “continentali”, che impresse toni riduzionisti al
discorso dei primi e antiscientifici se non misticheggianti a quello dei secondi.
Così come per il Titanic, esistono probabilmente dei correlati, ancorché più labili, tra gli
sviluppi filosofici di cui sopra e l’altro evento, sommamente tragico, con cui si confrontò la
generazione di Gadamer e dei suoi maestri: l’avvento del nazismo. Sicuramente la fenomenologia
tedesca non solo subì persecuzioni intellettuali (si rammenti l’emarginazione di Husserl), ma
ebbe anche i suoi martiri, come Edith Stein. Tuttavia, è piuttosto imbarazzante ricordare anche
certe responsabilità, che gravi furono soprattutto per Heidegger, la cui presa di distanza, anche
nel periodo post bellico, non fu poi così netta e chiara da convincere, ad esempio, Jaspers, che,
per tale ragione, colpito anche sul piano personale dalla ferocia delle leggi antisemite (la moglie
era ebrea) interruppe i rapporti. Ben diverso il discorso per quanto riguarda Gadamer, il quale,
anzi, come ricorda Dottori (2000), l’unica volta in cui si scagliò contro l’autorità della tradizione,
che rappresenta un punto essenziale del suo impianto filosofico, fu proprio nel ricordarne l’impotenza nel difendere il paese dalla barbarie nazista. Tuttavia non è mancato chi recentemente,
giusto uno dei suoi allievi, gli abbia più o meno sottilmente rimproverato un atteggiamento poco
“militante” contro il nazismo, scatenando in patria poco edificanti scoop giornalistici. Ma forse
non è tanto questo il punto, quanto una concezione della filosofia che ne prevede una sorta di
“incompetenza politica” e che troppo rapidamente lo ha portato a concludere (con riferimento a
Heidegger) che “non dobbiamo meravigliarci che un uomo con una forza di pensiero superiore si
sbagli” e che, con riferimento più generale, “è sorprendente il fatto che la gente continui a interpellare il filosofo circa un’etica”. O ancora: “Mi stupisce sempre perché il filosofo (...) debba
avere una particolare intellezione che altri non hanno e perciò debba avere anche una particolare
responsabilità, come volentieri ci viene attribuita” (1992/1993). Forse Gadamer intende dire che
la più grande responsabilità, la “responsabilità del pensare”, è già del filosofo in quanto uomo, e
come tale da condividere pariteticamente con tutto il resto del genere umano; tuttavia dopo le
sciagure del XX secolo, non dovrebbe poi così meravigliare la richiesta rivolta, se non ad un
filosofo, ad un sistema filosofico, non solo di non rappresentare la matrice di un sistema politico
totalitario, ma nemmeno di essere con lo stesso appena compatibile, perché già questo forse è
sufficiente perché ne condivida il peso di alcune responsabilità.
Ora questa introduzione, forse per vie collaterali, ci introduce nel cuore del problema
dell’ermeneutica, in particolare gadameriana: la libertà e insieme l’arbitrarietà dell’interpretazione i cui effetti possono esitare non solo nella rassicurante costruzione, poniamo nell’incontro
terapeutico, di narrazioni condivise, plausibili ed esteticamente apprezzabili, ma anche nella drammatica forzatura a giustificazione della barbarie e dell’omicidio di un sistema di idee, filosofico,
politico o religioso, che pone al centro l’Uomo, la ricerca dell’Essere, e magari predica la pace,
l’amore tra i popoli o la giustizia sociale.
Ecco allora che si pone alla nostra attenzione il primo tra i contributi fondamentali di Gadamer
alla filosofia, ma più in generale al pensiero umano e dunque, come vedremo, anche alla psichiatria e alla psicoanalisi. Primo non in ordine di importanza, ma in quanto già enunciato nel titolo
della sua opera maggiore: quale il rapporto tra la verità e il metodo? C’è un metodo che può
guidarci per raggiungere la verità dell’interpretazione o tale verità è sostanzialmente extrametodica?
Le risposte a tali questioni si dipanano nelle oltre mille pagine dei due volumi Verità e Metodo e
Verità e Metodo 2, tant’è che sarebbe davvero arduo provare a sintetizzarle. Comunque la accurata argomentazione del filosofo non ha impedito ai suoi “ermeneuti” (parliamo ovviamente di altri
autorevoli filosofi) di segnalare ora il suo parteggiare, ora il suo disdegnare le idee di metodo e
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Il contributo di Hans Georg Gadamer alla psichiatria e alla psicoanalisi
verità. Certamente, questa almeno la mia personale lettura, è difficile intendere Gadamer come
un precursore del “pensiero debole”, riducendo la complessità del suo sistema all’interno della
categoria del relativismo, e attribuire a lui (e tanto più ad altri filosofi dell’ermeneutica che in
seguito verranno citati) quella inconsistenza metodica che alcuni psicoanalisti imputano
all’ermeneutica in toto (e non, come sarebbe effettivamente corretto, ad alcune sue correnti, anch’esse di derivazione heideggeriana).
Vero è però che Gadamer, riaffermando l’aspirazione dell’ermeneutica a porsi come filosofia, assumendo così un carattere universale, la emancipa dalla funzione di semplice metodica
dell’interpretazione, la differenzia dall’esegesi e insieme si distanzia dallo storicismo, dalla comprensione storico-genetica per portare l’enfasi sulla co-costruzione del senso. Questo avviene
attraverso l’introduzione di due altri concetti centrali, su cui, come si vedrà, lo psichiatra o lo
psicoanalista sono particolarmente chiamati a riflettere: il concetto di dialogo e di fusione di
orizzonti.
Rileggiamo uno dei suoi passi più significativi:
“Nella comprensione non si tratta affatto di una ‘comprensione storica’, che ricostruisca la
genesi del testo. Si vuole invece comprendere il testo stesso. Ciò significa però che nella
riattualizzazione del senso del testo sono già sempre coinvolte anche le opinioni proprie dell’interprete. Così l’orizzonte proprio dell’interprete si rivela determinante, ma anche qui non come
un punto di vista rigido che si voglia imporre, ma piuttosto come un’opinione e una possibilità
che si mette in gioco e che in tal modo aiuta a impadronirsi veramente di ciò che nel testo è detto.
Abbiamo chiamato questo processo la fusione di orizzonti. Ora siamo in grado di riconoscere in
essa la forma propria del dialogo, nel quale viene a espressione un ‘oggetto’ che non è mio o
dell’Autore, ma qualcosa di comune che ci unisce” (1972, pp. 446-447).
L’ermeneutica, dunque, non si accontenta di cogliere e illustrare il senso che l’Autore intende attribuire a un dato testo, bensì inizia a dialogare con esso per cercare di estrarne nuovi significati e costruire un accordo: “Da sempre l’ermeneutica ha il compito di stabilire l’intesa quando
essa non si verifica o è distorta” – sostiene Gadamer.
L’enfasi posta sul dialogo comporta conseguentemente una pari enfasi centrata sul linguaggio: “L’essere, che può essere compreso, è linguaggio”; questo è forse il più famoso aforisma del
nostro filosofo, il quale di qui può riaffermare il carattere universale dell’ermeneutica:
“Il linguaggio e quindi la comprensione sono caratteri che definiscono in generale e fondamentalmente ogni rapporto dell’uomo col mondo” (1972, p. 543).
Naturalmente suscitando qualche perplessità: “Se il mondo si dà solo entro il linguaggio (...)
– sostiene Fornero – il concetto di mondo in sé quale metro di misura delle molteplici visioni
linguistiche del mondo, cessa di avere senso” (1993, p. 533). Ancora una volta lo spettro del
relativismo...
Ma si noti come la recente traduzione dell’espressione gadameriana, sopra adottata, a differenza di quella contenuta in Verità e Metodo, implica una doppia virgolatura. Ciò consente alla
traduttrice di sostenere che “ciò che Gadamer non vuole è proprio affermare che l’essere, tutto
l’essere, è quel che può essere compreso in quanto è linguaggio” (Di Cesare 2001, p. 15). Piuttosto le due virgole indicherebbero una restrizione, una delimitazione, il cui senso sarebbe “l’essere, nella misura in cui ed entro i limiti in cui può essere compreso, è linguaggio” (p. 15). Beninteso, non tutti sono d’accordo (si veda ad esempio Vattimo nel medesimo volume), sebbene,
come già segnalavo altrove (Martini 1998, p. 122 nota 4) le precisazioni di Gadamer (soprattutto
nei confronti di Habermas) già nel 1975 andavano nel senso che “naturalmente con la linguisticità
del comprendere non si può intendere che tutta l’esperienza del mondo si compia come parlare o
nel parlare” (p. 482). Habermas in effetti, oltre a rimproverare a Gadamer un’eccessiva
valorizzazione del pregiudizio e dell’autorità (anche qui ancora una volta c’è forse un equivoco
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perché pregiudizio è sostanzialmente per Gadamer “essere consapevoli del proprio preconcetto”;
1987, p. 16), aveva insistito sul carattere non fondazionale del linguaggio, sul riconoscimento
degli stati evolutivi prelinguistici della psiche umana e sulla necessità, per una “ermeneutica del
profondo” di sondare quelle “oscurità che non nascono all’interno del linguaggio, ma con il linguaggio stesso” (1971, p. 57). Considerazioni, come è facilmente intuibile, che quand’anche
risultino un po’ ingenerose rispetto a Gadamer, risultano comunque quanto mai interessanti per la
psicoanalisi.
Proseguendo in questa affrettata carrellata dei più illustri obiettori di Gadamer, occorrerà
ricordare il contributo di quei filosofi, come H. Jauss, che, proponendosi di muovere “con Gadamer,
oltre Gadamer”, hanno anteposto alla sua ermeneutica della fusione di orizzonti una ermeneutica
dell’alterità. Essi hanno evidenziato che il rischio, a tutta prima paradossale, di un’enfasi eccessiva sulla familiarità, la fusione, l’empatia, sia proprio quello di inglobare l’altro e dunque di
negargli in un certo senso il suo statuto di soggetto. “Il modello della ‘fusione di orizzonti’ può
funzionare per Jauss soltanto se il rapporto tra i due orizzonti viene interpretato come rapporto di
contrasto; e per ottenere questo risultato, occorre che la fusione degli orizzonti sia preceduta da
una ‘differenziazione d’orizzonte’ che ricostruisce e conserva l’alterità d’orizzonte dell’interpretandum” (Gentili 2001, pp. 44-45). Questo implica una maggiore centralità del metodo, mentre in
Gadamer la ricerca ermeneutica verrebbe “sganciata dalla dimensione dell’alterità, e dunque dalla necessità di ricostruire l’orizzonte del passato nella sua identità” (p. 48).
Un po’ nella stessa linea, ma in forma più radicale e sistematica, si ponevano le obiezioni
rivolte da colui che negli anni Cinquanta fu il grande antagonista del filosofo tedesco, nonché a
sua volta uno dei rappresentanti più eminenti dell’orientamento ermeneutico, purtroppo da tempo
scomparso e oggi quasi ignorato al di là della cerchia degli specialisti: Emilio Betti. Strenuo
propugnatore del metodo, il filosofo di Camerino non si stancherà di riproporre, all’interno
dell’ermeneutica, le dimensioni della verità e dell’obiettività, nonché la necessità di canoni
metodologici come guida all’interpretazione, da lui stesso sviluppati, e di differenziare il significato (quanto l’autore del testo pone nell’opera) dalla significatività (quanto è possibile liberamente e creativamente cogliervi da parte del lettore). Chiaramente egli non può accettare che il
privilegio di cui godono la soggettività e il dialogo nell’impianto gadameriano possano rendere
disattenti all’obiettività dei fatti storici (Betti nasceva come giurista).
Forse dal punto di vista dell’ermeneutica metodica, che abitualmente si usa contrapporre
all’ermeneutica filosofica di Heidegger e Gadamer, una critica più “moderata” e attuale giunge
dal pensiero di Paul Ricoeur che, a fronte della “illuminazione” heideggeriana, sceglie
dichiaratamente la “via lunga” del comprendere che consiste nell’attraversare le varie scienze
umane, incluso come noto la psicoanalisi, per giungere a una comprensione non intuitiva e immediata dell’Essere, bensì mediata dalle diverse discipline che di esso si interessano, nel rispetto
delle loro differenti metodologie. Una via, come suggerisce Jervolino, che passa “per il confronto
con le scienze umane e la loro ricerca di obiettività e per il conflitto delle ermeneutiche rivali,
nella prospettiva di una mediazione che non diventa però mai possesso assoluto e definitivo”
(2002). Il tentativo è insomma quello di integrare la spiegazione con la comprensione, e così
costruire un dialogo anche tra l’ermeneutica e l’epistemologia.
Ora nell’illustrare, seppur in modo così sintetico e necessariamente impreciso, alcuni dei
concetti fondamentali di Gadamer e la discussione che ha accompagnato la sua opera in ambito
strettamente filosofico, v’era da parte mia l’intenzione di anticipare il contributo e la problematica
che dai suoi scritti può venire alle nostre discipline e insieme di condurre il lettore a cogliere
quanto del dibattito che anima, in generale, il pensiero contemporaneo si ritrovi poi, con modalità
strettamente analoghe, all’interno della psichiatria e ancor più della psicoanalisi.
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Il contributo di Hans Georg Gadamer alla psichiatria e alla psicoanalisi
Dovremmo premettere che, a differenza di Ricoeur, o anche di Habermas e Apel, Gadamer
non ha dedicato alcun contributo specifico alla psicoanalisi. Per quanto attiene invece alla psichiatria, si può ricordare un suo unico, breve saggio, letto al Congresso Mondiale di Psichiatria
del 1989, che peraltro non rappresenta certo uno dei suoi lavori più significativi. (Differente
invece la questione per quanto attiene i temi della salute, della malattia e della medicina, oggetto
di diversi saggi, raccolti in volume qualche anno fa). Nel lavoro in oggetto (Ermeneutica e psichiatria), oltre a proporre un’analogia tra le due discipline bene illustrata dalla citazione posta in
epigrafe, viene tra l’altro riproposto un punto centrale per una corretta intellezione dell’ermeneutica:
“Esistono cose incomprensibili del tutto diverse rispetto alle leggi degli eventi naturali che è
possibile esplorare (…) l’arte della comprensione che si definisce ermeneutica ha a che fare con
ciò che è indecifrabile e con la comprensione di quanto è imprevedibile nel bilancio della vita
psichica e interiore dell’uomo” (p. 172).
Chi immagina l’ermeneutica come la risolutoria traduzione, completa e coerente, di un messaggio nascosto, dovrà invece prendere atto del suo legame “perturbante” con l’incomprensibile,
l’imprevedibile e l’indecifrabile, un legame che sicuramente la psichiatria e la psicoanalisi meglio evidenziano rispetto, ad esempio, all’ermeneutica testuale. Se, a una lettura di superficie,
l’ermeneutica appare votata ad approdare alle serene acque del linguaggio e della rappresentazione, ecco emergere improvviso, dal suo interno, il nesso insolubile con l’irrappresentabile.
Ma abbandoniamo questo breve e suggestivo saggio per venire alle questioni che dischiude
la lettura della sua opera complessiva.
Ci sono, introduttivamente, due affinità che vorrei segnalare, perché mi sembrano particolarmente espressive di quella reciproca fecondazione tra psicoanalisi e pensiero della
contemporaneità che va ben oltre la conoscenza bibliografica o la citazione incrociata. La prima,
relativa al testo freudiano, si pone tra il concetto di Wirkungsgeschichte (storia degli effetti) e
Nachträglichkeit (après coup, posteriorità). Se per Freud (1896) non è l’esperienza in sé ad avere
valore traumatico, ma l’essere rivissuta come ricordo in una determinata fase della vita, sino
beninteso alla trasformazione dell’esperienza originaria quale si dà all’interno del transfert e
dell’analisi, ascoltiamo come intende il filosofo di Heidelberg la storia degli effetti:
“Che l’interesse storico non si rivolga soltanto al fenomeno storico come tale o all’opera
trasmessaci dalla storia isolatamente intesa, ma anche, in una tematizzazione secondaria, alla
loro ‘fortuna’ e ai loro effetti nella storia (che, in ultima analisi, comprendono anche la storia
della ricerca su quel tema), è cosa che si ammette generalmente in termini di semplice
completamento dell’impostazione di un problema storico” (1972, p. 350, corsivi miei).
Tanto l’ermeneutica, per lo meno gadameriana, come la psicoanalisi hanno qui una loro
comune radice: nel riconoscimento che l’evento (sia di pertinenza del mondo “reale” sia di quello
intrapsichico) non è mai dato definitivamente nel suo significato ma viene risignificato continuamente acquisendo una significatività tendenzialmente infinita. Questo non necessariamente si
traduce in una “svalutazione” del significato originario, ma nel riconoscimento della trasmutabilità
del pensiero umano, che coincide con la stessa possibilità del suo divenire.
C’è un sottile filo rosso che lega la Nachträglichkeit a certi sviluppi che, cento anni dopo,
conducono la psicoanalisi alla valorizzazione della soggettività dell’analista, in quanto strumento
terapeutico, sino a consentire, ad esempio a Hoffmann, di affermare, in un passo che solo all’apparenza è così radicale che, al di là dell’incertezza dello scienziato rispetto alla correttezza delle
sue ipotesi, nel nostro lavoro “v’è un’altra fonte di incertezza che deriva, retrospettivamente,
dalla seguente questione: cosa non è stato ancora possibile comprendere relativamente al significato di quanto ho detto o fatto? ” (1992, p. 293, corsivo mio).
A sua volta Gadamer invita a considerare che “il tratto distintivo dell’esperienza storica è il
fatto che noi ci troviamo in un accadere senza sapere ciò che ci accade, e che lo comprendiamo
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solo retrospettivamente. Proprio per questo la storia va scritta di nuovo a ogni rinnovarsi del
presente” (1985, p. 294, corsivo mio).
Ancora una volta, ciò non dovrebbe significare compiacersi dell’incertezza o soggiornare
nell’incomprensione degli eventi storici che ci circondano, bensì prendere atto della limitatezza
del comprendere e della necessità, retrospettivamente, di accrescere tale comprensione nella consapevolezza che essa non potrà mai giungere a un livello definitivo di completezza.
Ciò detto, torniamo brevemente a esaminare i contributi di cui sopra (l’idea di verità e di
metodo, il linguaggio, il dialogo, la fusione degli orizzonti) dal punto di vista della psichiatria e
della psicoanalisi.
La prima questione, su cui mi sono soffermato diverse volte, è d’ordine troppo generale per
essere qui ripresa. Essa riguarda il problema di “quale verità” nell’interpretazione (non necessariamente in senso psicoanalitico, stante che l’interpretazione è, nei fatti, lo strumento più adottato
anche nel rapporto medico-paziente in psichiatria) e conseguentemente il rapporto tra il paradigma
della costruzione e quello della ricostruzione, ancorché la possibilità di integrare una prospettiva
ermeneutica con la necessità di verifiche empiriche, di validazioni extracliniche e di un programma di ricerca. Da questo punto di vista l’ermeneutica, e Gadamer in particolare con Verità e
Metodo, hanno indirettamente mostrato i limiti e la problematicità di un siffatto programma di
ricerca che, per quanto attiene psichiatria e psicoanalisi, hanno specificità e difficoltà aggiuntive
che solo adottando una visione riduttivisticamente biologista è possibile ignorare (ma allora si
sarebbe ancora nell’ambito della psichiatria?). Tuttavia, ciò non significa, come anche in Italia
non pochi analisti amano fare, risolvere il problema della verifica con una scrollata di spalle in
segno di sufficienza. E non significa nemmeno aderire al (riduttivo) paradigma narratologico
quale lo intendono autori, degni peraltro della massima attenzione, come Spence o Schafer. Sull’opposto versante, non si può però nemmeno sostenere che “l’opzione ermeneutica precipiterebbe la psicoanalisi dalla padella metapsicologica alla brace della fantasia senza limiti” (Gedo 1992,
p. 55), o che “un punto di vista puramente ermeneutico, sostenuto inizialmente da alcuni filosofi
dell’Europa continentale” collocherebbe la psicoanalisi “tra le discipline di studio alle quali non
si applicano gli standard e le limitazioni delle scienze naturali” (p. 171). Questo lascia intendere
solamente la davvero scarsa conoscenza di quei “filosofi continentali” da parte di un autore come
Gedo, peraltro rigoroso e attento lettore delle opere di psicoanalisi.
Considerazioni simili possono forse porsi in merito al tema del linguaggio. L’enfasi di
Gadamer non preclude il riconoscimento dell’importanza dell’extralinguistico, così centrale nel
trattamento degli psicotici come, più in generale, per la psicoanalisi contemporanea. Semmai
dovrebbe essere occasione per riflettere (come invero più dichiaratamente invita a fare il contributo ricoeuriano) sulla complessità di tale rapporto, sullo “scarto” incolmabile e perturbante tra il
linguaggio e l’al di là del linguaggio, sulla irriducibilità di quest’ultimo, ma insieme sulla limitatezza del nostro comprendere che al linguaggio (magari inteso anche in senso extraverbale) rimane principalmente, seppur non esclusivamente, vincolato.
E proprio questo vincolo forte ma non assoluto tra linguaggio e comprensione porta all’affacciarsi sulla scena della psichiatria della comprensione empatica che invece rimanda, nell’opera del filosofo, a quanto definito come “fusione di orizzonti”.
Abbiamo visto come la stessa sia soggetta alla spina dell’alterità. Questo ci rende ragione di
quanto anche il concetto di empatia rischia di risultare ambiguo nella misura in cui una sua concezione generalizzata e ideologica finisce col trascurare la differenza tra noi e l’altro facendosi, in
qualche misura, poco attenta se non irrispettosa della sua soggettività. Torniamo, come si vede,
nel cuore della polemica estraneità-familiarità. Il punto essenziale è che l’atteggiamento empatico
deve essere volto a favorire la comprensione del paziente nel suo statuto di Altro e di Soggetto, e
non scorciatoie che possano farci capire e sentire al posto suo, intrecciando in modo poi
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Il contributo di Hans Georg Gadamer alla psichiatria e alla psicoanalisi
indistricabile le sue categorie simboliche con le nostre. Occorre insomma cercare di comprendere
il più possibile quali siano i sentimenti, le emozioni, ma anche gli ideali e le convinzioni del
paziente perché gli inevitabili movimenti proiettivi e introiettivi che entrano in gioco nella relazione non si traducano in un’assimilazione ideologica (del modus vivendi del terapeuta da parte
del paziente).
A ben vedere, il rischio della fusione degli orizzonti (se e solo se non venga posta in rapporto
dialettico, come suggerisce Gentili, con un’ermeneutica dell’alterità) è lo stesso del dialogo, in
tal caso ancor meno avvertibile e perciò più subdolo. A prima vista sembrerebbe infatti che il
concetto di dialogo non solo risulti assolutamente condivisibile tra ermeneutica e psichiatria, ma
anche che lo sia in una forma che potrebbe definirsi pacifica e pacificatoria. Al contrario il dialogo, che lo si intenda come dialogo tra i terapeuti o come dialogo tra il terapeuta e il paziente, non
sfugge alla necessità di essere esposto, per dirla con Ricoeur, al conflitto delle interpretazioni.
Possiamo essere auspicabilmente animati da una disponibilità al dialogo, dal desiderio di costruire assieme una nuova narrativa maggiormente provvista per così dire di valenze terapeutiche,
che possa consentire al paziente un distanziamento dalla coazione a ripetere, da modelli operativi
disfunzionali, dal delirio addirittura, ma dobbiamo essere consapevoli di quanto sia conflittuale,
dura, talvolta feroce la contrapposizione che il dialogo deve o dovrebbe superare. Già di tale
durezza sarebbero sufficientemente indicativi gli scontri tra le diverse scuole di psichiatria o
psicoterapia, figuriamoci quelli che antepongono la narrativa dello psichiatra al delirio del suo
paziente! Ecco allora che il dialogo, come già la comprensione, sono attraversati da uno scarto
che ne testimonia insieme l’urgenza e l’incompletezza, la necessità e la fallacia.
La “lezione” ermeneutica, di cui Gadamer è stato uno dei più grandi interpreti, in prima
istanza non può che riproporre, anche nei confronti della psichiatria e della psicoanalisi, questa
dicotomia e insieme la sua irresolubilità.
Può questa definirsi una posizione ambigua, o è piuttosto il riconoscimento di un limite del
pensiero umano, al di là del quale non può che aprirsi lo spazio dell’intolleranza?
Per concludere, sebbene questo contributo sia nato anche in relazione alla triste occasione
della morte di Gadamer, ho cercato tuttavia di non subire tentazioni “agiografiche”. È però implicito in esso, e ora vorrei renderlo manifesto, il ringraziamento per un dialogo a distanza che da
tempo intrattengo con l’opera del filosofo di Heidelberg e che, beninteso, qui non si interrompe;
un dialogo che penso possa essere estremamente fecondo non solo per chi esercita la nostra
professione, ma per le nostre stesse discipline.
Se mi è consentito terminare con un ricordo personale, debbo purtroppo rammaricarmi del
fatto che tale dialogo non si è mai sviluppato nel senso di una conoscenza diretta. Circa tre anni
fa, dopo avergli inviato il mio libro Ermeneutica e Narrazione, ero sul punto di andarlo a trovare
e avevo preparato un’intervista da sottoporgli. Una sua caduta, da cui poi si ristabilì, ma che fu
l’inizio del suo decadimento fisico (aveva 99 anni), impedì la realizzazione del progetto.
Di lui mi rimane un biglietto che ovviamente conservo accuratamente, la cui traduzione
suona all’incirca così:
“Egregio Collega, non è per me la prima volta, e come sempre me ne rallegro, che posso
prender atto di quanto il generale segreto della lingua e della comprensione venga considerato
utile anche dagli psichiatri. In questo ambito io continuo a rimanere senz’altro un dilettante, ma
ho potuto benificiare delle possibilità di riflessione offertemi da alcuni miei allievi psichiatri. E
così, nel caso mi riesca, sarà per me un piacere, in primavera, conoscere anche lei personalmente”.
In un’epoca in cui la psichiatria appare sempre più indifferente al “generale segreto della
lingua e della comprensione” lasciamo che i “dilettanti” assurgano a nostri maestri, e consideriamo con occhi più critici quei “maestri” che hanno da tempo smesso di pagare (alla nostra discipli15
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na e ai nostri pazienti) quel (pesante) tributo consistente nel continuo e difficile interrogarsi intorno al comprendere e intorno al paradosso, come suggerisce Jaspers, dei suoi continui limiti e
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