A. PLEBE - Ρ. EMANUELE CONTRO L'ERMENEUTICA Roma-Bari: Laterza, 1990. 155 pp. Nell'ultimo decennio l'ermeneutica si è a tal punto imposta sulla scena filosofica che Gianni Vattimo ha potuto orgogliosamente proclamare che essa "si mostra sempre più come una possibile koinè filosofica del pensiero occidentale." Si è creato, dunque, un atteggiamento di scarsa reattività nei confronti e dell'ermeneutica e dei suoi diversi esiti. L'opera di Plebe ed Emanuele si propone, invece, esplicitamente come una Streitschrift, un "libro confutatorio," che avrebbe il compito di riempire "scaffali della letteratura antiermeneutica" ritenuti "sorprendentemente tuttora vuoti." Quali le tesi di questo smilzo, ma denso libro? Nella storia della cultura occidentale sono presenti due immagini del mitico Hermes: Hermes come padre dell'ermeneia, "l'arte dell' inventare e dello spiegare che non riconosce autorità divine ο umane" (p. 15), e come padre dell'ermeneutica, arte della parola che si sottopone ad un ordine principiale. Platone ha trasmesso alla posterità l'ideale dell'ermeneutica, compiendo così un'operazione analoga a quella di Alcibiade che, evirando le statue di Hermes, lo privava del suo aspetto inferiore e "caprino." Tuttavia, l'Hermes fallico ha continuato ad agire in diverse correnti di pensiero e, oggi più che mai, sembra assurgere prepotentemente a quegli onori che platonismo, pensiero cristiano e gran parte della modernità sempre gli hanno negato. Il bersaglio contro il quale gli Autori si scagliano è la "vercdipendenza" ο "aletismo" dell'ermeneutica. Questa si fonda, infatti, sulla convinzione, in virtù della quale è passata dallo status di tecnica interpretativa a teoria generale, che ci sia un "nocciolo" di verità delle cose e dei testi, il quale "resiste" a chi non sa come fare per 146 riconoscerlo. Un testo sarà, dunque, in qualche modo ermetico, portatore di senso e totale. La missione dell'antiermeneuta è "resistere alla verità," facendosi in ciò erede degli antichi scettici (in origine detti hoi ephektikòi, "i resistenti"). Combattere l'aletismo significa "svincolarsi dall'univocità e svincolarsi dal passato" (p. 65), ma non significa abbandonare in assoluto il criterio di verità. Questo va solo messo nella condizione di non poter nuocere, inserito in una visione più globale. Simile ai differenziali, che compaiono solo nei procedimenti mai nei risultati delle equazioni, la verità diventa "materiale concettuale" e cede il passo al "procedimento mentale," ad un pensiero nomade (cfr. pp. 68-9). Pertanto, è opportuno "concepire la filosofia come una discussione non di presunte realtà ontologiche, ma di realtà puramente mentali e culturali" (p. 70). Una riflessione di secondo grado ο metafilosofica, sulle idee e non sulle cose, non corre il rischio di tenersi lontana dal mondo, qualora questo venga inteso non nel senso della realtà oggettiva, bensì nel senso della Wirklichkeit, la realtà già costruita nella mente dell'uomo. Plebe ed Emanuele costruiscono un "albero delle mosse filosofiche," che considera suoi rami varie filosofie e si libera dall'obbligo di essere veritiero nei suoi sbocchi. Ciò non implica però indifferenza della metafilosofia rispetto alle filosofie particolari, poiché essa "deve tentare [...] di essere contemporaneamente una metafilosofia generale e insieme una filosofia singolare" (p. 83). Infatti, "una metafilosofia si connette di preferenza a determinati discorsi di primo grado" (p. 84). L'opera di Plebe ed Emanuele prospetta altresì una prognosi filosofica, che non può fare a meno di un confronto con quella che è l'autentica dominatrice dei nostri tempi: l'intelligenza artificiale, da intendersi nel senso più ampio. Ad un'attenta analisi essa appare molto più vicina all'ermeneutica di quanto generalmente si ritenga. Anche il concetto chiave di 'interpretazione' rivela sorprendenti analogie. Infatti, sia l'interpretazione del programmatore che dell'ermeneuta partono da un qualcosa di preesistente, la realtà ο la cultura, nei cui confronti si deve stabilire la pertinenza dell'interpretazione stessa. Ancora, l'"assimilazione, matching, dei teorici dell'intelligenza artificiale è analoga all'applicatio di Gadamer," che si pone come "il processo per cui un lettore tende a convogliare le proprie esperienze mentali entro i quadri dei concetti 'classici' dei testi ch'egli interpreta" (p. 104). Sia l'"assimilazione" che l'applicatio sono indici di spirito di subordinazione e di scarsa creatività, sebbene il computer possa 147 disporre, mediante un opportuno inserimento in programma, di un più ampio margine di "resistenza alla verità," mentre l'ermeneutica non può "per sua natura" accettare tale resistenza. Essa non può andare oltre un pensiero sequenziale, lineare, ipotattico, laddove Plebe ed Emanuele, nella loro ricerca di procedimenti alieni da ogni spirito gerarchico tradizionale, propongono il delirio ο nomadismo di un pensiero lato sensu parallelista, che abbia percezioni simultanee e non subisca il predominio di "punti di partenza privilegiati": un pensiero che si riveli paratattico nella sua struttura, che sappia accogliere la lezione delle teorie della complessità. Il torto dell'ermeneutica è stato di aver mancato l'obiettivo di accreditarsi quale scienza, in quanto incapace di soddisfare il requisito della verificabilità, e quale arte insieme, in quanto, data la sua remissività nei confronti della tradizione e del passato, incapace di aprirsi alla dimensione della creatività. L'ermeneutica avrebbe dovuto stabilire l'equazione "fra pensare e inventare." Acquista perciò tutto il suo valore, proprio nel nostro tempo filosofico, una disciplina che, riconoscendo la giustezza della conciliazione tra scienza ed arte, "stabilisca princìpi d'invenzione anziché princìpi di verità"; ed è questa una disciplina che consiste nel "trovare [...] gli itinerari creativi [...] più originali e funzionali." Nella "retorica come ars inveniendi" esiste un ambito, l'euristica, relativo alle "tecniche operative dell'invenzione," che può costituire un tratto comune alle arti ed alle scienze. Essa procederà creativamente, senza porsi obiettivi vincolanti, potrà conciliarsi con l'albero delle mosse filosofiche e, contemplando la ramificazione delle aree d'inventiva, dovrà tenersi lontana dalla soggezione alla verità. Concludendo, questi, così sinteticamente esposti, sono soltanto i punti nevralgici di un'opera che, nel suo acuto confrontarsi con figure e correnti di pensiero tra le più discusse dei giorni nostri, è un ulteriore esempio di come nei suoi ultimissimi sviluppi la filosofia italiana si sia pienamente reinserita nel panorama internazionale. FERNANDO DI MIERI Università di Salerno 148