8.4.2011 GRAZIANO RIPANTI HANS – GEORG GADAMER (1900

8.4.2011
GRAZIANO RIPANTI
HANS – GEORG GADAMER (1900 – 2002)
I Gesammelte Werke, voll. 10 (Mohr Siebeck, Tübingen 1985 ss), curati dall’Autore stesso,
iniziano proprio con l’opera maggiore di H. G. Gadamer: Wahrheit und Methode. Grunzüge einer
philosophischen Hemeneutik e che offre organicamente i tre grandi ambiti nei quali si è esercitato il
suo pensiero.
L’opera Verità e metodo (la prima ed. tedesca è del 1960), che segna la maturazione
dell’ermeneutica come koiné filosofica, dispiega totalmente il comprendere non più come un
possibile atteggiamento del soggetto, ma come, e ciò è già in Heidegger, “il modo di essere
dell’esistenza come tale». Il termine “ermeneutica” indica “il movimento fondamentale
dell’esistenza, che la costituisce nella sua finitezza e nella sua storicità, e che abbraccia così
l’insieme della sua esperienza nel mondo” (Verità e metodo, trad. it. Di G. Vattimo, Bompiani,
Milano 2000, Milano). Per questo significato l’ermeneutica non è semplicemente metodo
(l’opposizione, anche se non radicale, già presente nel titolo), ma filosofia, anzi la maniera più
autentica del filosofare, che Gadamer attua nell’analisi di tre esperienze fondamentali: quella
estetica, quella storica e quella linguistica. Sono tre ambiti di discorso che possono essere presi per
se stessi: Gadamer, infatti, nel delineare l’esperienza estetica dominata dall’ontologia dell’opera
d’arte ci presenta una vera estetica, nel descrivere la costitutiva finitezza dell’esperienza storica
quale emerge dalla categoria della Wirkungsgeschichte (storia degli effetti) ci offre una filosofia
della storia e, infine, nel rilevare il rapporto rivelativo tra essere e linguaggio una vera filosofia del
linguaggio.
1. L’ontologia dell’opera d’arte. – In polemica con l’estetica romantica del genio, che ha operato
l’estraneazione dell’artista e l’alienazione dell’opera dal mondo della vita reale, il pensiero di
Gadamer s’incentra tutto nella tematizzazione del primato dell’opera, nella sua compiutezza
linguistico-rappresentativa. Non nella genialità dell’autore né in quella del fruitore si offre la verità
dell’opera d’arte, ma nell’essere in se stessa un gioco (Spiel) compiuto, nei tre sensi che Gadamer
specifica riferendosi all’etimo e all’uso metaforico che il termine ha nella lingua tedesca. Il gioco è
prima di tutto una auto-rappresentazione, un movimento autonomo in se stesso, con regole proprie
non finalizzate ad altro, per cui più che giocare si è giocati; secondariamente il gioco fa pervenire i
giocatori allo loro auto-rappresentazione e, infine, è un rappresentare per qualcuno, è sempre rivolto
allo spettatore. Nell’opera d’arte si esprime un gioco in cui il mondo viene trasformato. Evento di
verità e conoscenza, l’opera intrattiene un rapporto di distacco radicale e insieme rivelativo con il
mondo abituale: l’opera d’arte è una trasmutazione in forma (Verwandlung ins Gebilde).
La trasmutazione vuol dire che il mondo dell’opera non è più soggetto alla accidentalità del
mondo abituale: esso si dà a una contemporaneità con tutti i tempi, sciolto dalla contingenza della
vita effettuale. Radicalmente trasfigurato, il mondo dell’opera si presenta come forma, érgon,
compiutezza linguistica che non si misura con altro che con se stessa. Ma ciò non vuol dire ricadere
nell’avulso regno del bello estetico: l’opera d’arte trasmuta il mondo abituale ponendolo nella sua
verità. Qui Gadamer recupera il concetto di mímēsis nel suo significato conoscitivo: la mímēsis non
è una duplicazione dell’essente, ma è un rendere presente ciò che è conosciuto. Tutt’altro
dall’essere un’estenuazione del reale, la mímēsis libera l’essenza del reale dalla sua casualità,
manifestandola nella sua compiutezza ideale.
Da questo statuto ontologico dell’opera d’arte Gadamer deduce, tra l’altro, l’essere
dell’opera come rappresentazione (Darstellung), concetto che sviluppa in tutti i suoi sensi e che
applica variamente a tutte le espressioni artistiche. La rappresentazione è “un universale momento
strutturale ontologico dell’esteticità…. La presenzialità peculiare dell’opera d’arte è un venire-allarappresentazione (Zur-Darstellung-kommen) dell’essere” (Verità e metodo, p. 197). Se la
rappresentazione è un evento in cui l’essere si manifesta, ciò significa che ogni opera d’arte è la
verità del reale trasmutato in forma, alla cui conoscenza partecipano, non come creatori ma come
coinvolti nell’evento, sia l’artista sia l’interprete o esecutore. L’incontro con l’opera d’arte non è
una fuga momentanea in un mondo incantato, ma reale esperienza di verità che modifica chi la
compie.
2. La coscienza della determinazione storica. – L’analisi dell’esperienza storica, che Gadamer
conduce anche in polemica con la coscienza storica dello storicismo, in particolare con Dilthey, è
in modo più stretto collegata alla costruzione dei momenti strutturali dell’ermeneutica. Il circolo
ermeneutico, il pre-giudizio o anticipazione del senso, il legame con la tradizione e l’autorità, il
senso distaccante e familiarizzante della distanza temporale, il principio dell’applicazione emergono
tutti dalla fondamentale storicità dell’esperienza storica e ne affermano l’impossibilità radicale di
oltrepassarla. Questa storicità si configura innanzi tutto come coincidenza tra sapere storico e
essere storico: una reale coscienza storica sa prima di tutto di essere essa stessa storica. Quei
momenti, ineliminabili nel processo interpretativo, definiscono in ultima istanza l’essere dell’uomo
come essere essenzialmente appartenente alla storia. Appartenere alla storia significa essere inserito
dentro una tradizione, una lingua, una cultura, dentro un divenire storico che determina già
originariamente le proprie precomprensioni.
La storicità, in secondo luogo, è anche ciò che caratterizza l’oggetto e il processo del sapere
storico: tra fatto storico e i suoi significati non c’è scissione. Il fatto si identifica con la storia dei
suoi effetti, per cui l’autentica consapevolezza metodologica non è lo historisches Bewusstsein, ma
il wirkungsgeschichtliches Bewusstsein, non la coscienza storica, ma la coscienza della
determinazione storica. L’interpretazione di un fatto, per la sua essenziale storicità, accade già
dentro la catena delle interpretazioni e l’accresce. Questa coscienza evita sia l’oggettivismo
storicistico e la sua fiducia incondizionata nel metodo, sia il sapere assoluto, dove la storia
giungerebbe alla sua piena autotrasparenza.
Infine, la storicità vuol dire esperienza della finitezza. Qui proprio sul concetto di esperienza
(Erfahrung), Gadamer si confronta soprattutto con Hegel. Scartato il concetto di esperienza
elaborato dalla scienza moderna, che per la sua essenziale ripetibilità non tien conto della
dimensione storica, Gadamer passa a esaminare il concetto hegeliano di esperienza come itinerario
della coscienza, che dall’essere inizialmente uno “scetticismo in atto” giunge al suo compimento
nella scienza come certezza di sé. Hegel è guidato dal criterio che esperire è sapersi, un sapere di sé
che non ha più nulla di estraneo da sé. Concludendosi nella piena identità di coscienza e oggetto, la
dialettica hegeliana dell’esperienza si risolve in realtà nel superamento di ogni esperienza. Per
Gadamer, al contrario, l’esperienza è segnata dalla sua essenziale finitezza e perciò è sempre aperta:
“La dialettica dell’esperienza non ha il suo compimento in un sapere, ma in quell’apertura
all’esperienza che è prodotta dall’esperienza stessa” (Verità e metodo, p. 411). L’apertura vuol dire
che l’esperienza ci rende disponibili ad altre esperienze: l’uomo esperto sa la propria finitezza e la
limitatezza dei propri progetti.
3. Essere e linguaggio. – Per Gadamer il processo ermeneutico si articola principalmente come
dialogo, come dialettica di domanda e risposta tra interprete e testo, la cui possibilità di riuscita non
sta tanto nella messa in opera di tecniche comunicative più o meno raffinate, ma nell’intendersi
sulla “cosa” che viene alla parola. Il linguaggio qui assume un’importanza fondamentale: se la
“cosa” da interpretare è linguisticamente data, se l’atto interpretativo riesce perché si è trovato un
linguaggio comune tra interprete e testo, ciò vuol dire che il linguaggio si presenta come il mezzo
(Mitte), l’elemento reggente, che opera la sintesi ermeneutica tra passato e presente. L’esperienza
ermeneutica è quindi eminentemente un’esperienza linguistica. Il linguaggio infatti ha la stessa
struttura aperta dell’esperienza storica: “il discorrere umano è finito nel senso che in esso c’è
sempre una infinità di senso da sviluppare e interpretare” (Verità e metodo, p. 524).
Da questo carattere linguistico dell’ermeneutica Gadamer passa alla più generale
linguisticità dell’esperienza umana del mondo: ogni esperienza che l’uomo fa del mondo è
un’esperienza linguistica. Il linguaggio non è una qualità di cui l’uomo può disporre, ma il fatto per
cui l’uomo ha un mondo: esso non sussiste al di fuori del mondo, ma è in quanto rappresenta un
mondo. Il mondo è tale per l’uomo, a differenza di ogni altro vivente, in quanto si costituisce in
linguaggio. Il mondo degli uomini è essenzialmente una comunità comunicativa, e il linguaggio non
ne è il semplice strumento, come la comunicazione non è un fine della società. La comunicazione è
l’elemento vitale di una comunità e il linguaggio manifesta il “mondo”, il “ciò su cui s’intendono”
coloro che vivono insieme.
L’aspetto dialogico-comunicativo, che è uno degli aspetti più insistiti, trova la sua
fondazione ultima nella prospettiva ontologica del linguaggio, vale a dire nell’aspetto rivelativo
della parola nei confronti dell’essere. Gadamer analizza il rapporto tra parola e cosa e tra parola e
pensiero, facendo i conti con tutta la tradizione del pensiero occidentale. Se parola e cosa crescono
insieme, pensiero e parola si accomunano per la loro essenziale inobiettivabilità. Contrariamente
alla tradizione convenzionalistica del linguaggio, Gadamer ha sempre affermato il primato della
parola sull’uomo; la lingua, tutt’altro dall’essere strumento, ci previene sempre nel nostro conoscere
e pensare.
Questo statuto linguistico dell’uomo si radica nella tesi che la natura speculativa del
linguaggio corrisponde alla natura speculativa dell’essere che nel linguaggio viene alla parola. Nel
linguaggio si dispiega l’essere che prende l’uomo in un gioco che è proprio dell’essere e non
dell’uomo: centralità dell’essere che contesta l’antropocentrismo moderno. In questa visione del
linguaggio si produce una vera crisi del soggetto, ma non in vista di una mancanza di fondamento,
bensì in vista dell’affermazione dell’essere. La preminenza del linguaggio sull’uomo è fatta valere
per quell’essere che può venir compreso. La formula sintetica gadameriana: “L’essere che può venir
compreso è linguaggio”, se dice certamente una non differenza ontologica tra essere e suo modo di
manifestarsi, non afferma però che il linguaggio manifesti tutto l’essere: il venire alla parola
dell’essere è solo di quell’essere che può venir compreso. Se è vero che non si giunge all’essere se
non attraverso il linguaggio, poiché il linguaggio è il luogo più proprio del suo darsi, è anche vero
che il linguaggio non esaurisce tutto l’essere. Per la natura inesauribile del compito ermeneutico,
l’infinito del senso, e per la struttura del linguaggio che nel suo dire implica sempre un orizzonte di
non detto, la modalità di manifestarsi dell’essere dovrebbe essere pensata come svelamentovelamento.