Una legge subito impallinabile

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PRIMO PIANO
Martedì 4 Agosto 2015
È il decreto «enti territoriali» che dovrebbe essere approvato questa mattina dalla Camera
Una legge subito impallinabile
Dalla Corte costituzionale che non accetta i testi omnibus
DI
S
CESARE MAFFI
tamattina la Camera
voterà, con la fiducia,
la conversione in legge
del decreto n. 78, cosiddetto «enti territoriali» ma in
realtà autentico provvedimento omnibus, divenuto celebre
qualche giorno addietro per i
«tagli alla sanità». Il testo era
già passato a palazzo Madama mediante la fiducia: in tal
modo la Camera non farà altro
che ratificare l’attività emendativa sviluppata dai senatori.
Ecco: a far dubitare della costituzionalità del provvedimento,
quale oggi sarà approvato, sono
le inserzioni operate a palazzo
Madama. Le gravi disfunzioni,
aporie, illegittimità sono state
puntualmente rilevate dal comitato per la legislazione, in
un tagliente parere emesso lo
scorso 30 luglio. Non servirà a
nulla, posto che il governo intende chiudere la partita, nella
speranza (o nel disinteresse?)
che singoli articoli non finiscano sotto la lente della Corte costituzionale.
Siccome il provvedimento è stato gonfiato da 18 a 42
articoli, con un’aggiunta quindi
di ben 26 articoli (più 66 nuovi commi, e in sovrappiù pure
due tabelle), decine delle nuove
norme di matrice senatoria, se
così possiamo esprimerci, sono
estranee a oggetti e fini del decreto-legge, oltre che all’intestazione e al preambolo. Altre nuove disposizioni sono sì relative
agli enti territoriali, ma vanno
ben oltre quanto indicato nel
preambolo del decreto. Insomma, se a palazzo della Consulta
dovesse arrivare qualche nuovo
comma introdotto dal Senato (e
recepito dalla Camera mercé il
voto di fiducia), non è difficile
prevedere che possa subire
censure, vuoi perché privo dei
requisiti di necessità e di urgenza, vuoi perché estraneo ai contenuti originari del decreto.
La Corte costituzionale è
diventata, di recente più rigorosa. Basterà citare la sentenza
154 dello scorso 23 giugno: «Le
disposizioni introdotte in sede
di conversione devono potersi
collegare al contenuto già disciplinato dal decreto-legge,
ovvero, in caso di provvedimenti governativi a contenuto
plurimo, alla ratio dominante
del provvedimento originario
considerato nel suo complesso»
e, ancora, «la possibilità, per il
Governo, di ricorrere al decretolegge deve essere realmente limitata ai soli casi straordinari
di necessità e urgenza di cui
all’art. 77 Cost».
Sono princìpi più volte
sanciti. Governo e maggioranza paiono trascurarli. Ovviamente hanno dalla loro i numeri parlamentari. È probabile
che diano per scontato che qualche specifica disposizione formi
oggetto di un procedimento
giudiziario, dal quale spiccare
il volo per la Corte costituzionale; ma si porranno il problema quando esso nascerà (molti
mesi, ma anche anni), sperando
altresì che non investa se non
poche disposizioni.
LO CONSIDERA INADEGUATO PER LE SFIDE DELL’IMMINENTE ANNO SANTO
Adesso persino L’Osservatore romano
si mette a bastonare il sindaco Marino
DI
ANTONINO D’ANNA
C
he randellata quella tirata dall’Osservatore Romano il 30 luglio scorso
contro i disservizi della Capitale! E
intanto Oltretevere c’è chi comincia
a chiedersi se Roma non abbia bisogno di un
nuovo sindaco, magari di pedigree cattolico
o comunque attento al Cupolone. Tutto è
cominciato quando il caos di Fiumicino dei
giorni scorsi è finito nel mirino del giornale
del Papa, definendolo: «L’ennesimo, nuovo
capitolo della lunga crisi che sta soffocando
la città di Roma». Non solo: l’Osservatore ha
sottolineato che: «Fiumicino è solo la punta dell’iceberg Dopo Mafia capitale, la crisi
dell’Ama e dell’Atac, gli scandali che hanno
colpito la pubblica amministrazione (…) e il
cambio della terza giunta comunale in poco
più di un anno e mezzo, Roma è ormai un caso
politico». Insomma: parole non proprio dolci.
La dura presa di posizione del giornale vaticano ha innescato una lunga serie
di riflessioni Oltretevere. C’è chi parte dalle
parole del quotidiano papale per chiedersi se
e in quale modo il Comune di Roma riuscirà
a gestire l’emergenza rappresentata da un
evento come il Giubileo straordinario indetto
da Papa Francesco. Questo perché i numeri non sono da poco: il Censis stima presenze
per 33 milioni fra turisti e pellegrini, che
spenderanno attorno agli 8 miliardi di euro
(per dire: nel 2000 si toccò quota 25 milioni e
l’Expo in corso a Milano è stato pensato per
accoglierne fino ad un massimo di 24).
Il problema è che malgrado Jorge Mario Bergoglio abbia voluto dare una con-
notazione meno “romana” al Giubileo, prevedendo che nelle cattedrali delle Diocesi di
tutto il mondo venga aperta una «Porta della
Misericordia» per celebrare l’Anno Santo,
quanti pellegrini preferiranno le Porte Sante delle basiliche romane? E la città è pronta? Il 1° agosto il sindaco di Roma Ignazio
Marino ha annunciato 4 milioni di fondi per
riqualificare la Stazione Termini e promesso
eventi straordinari per l’estate 2016. Il 30
luglio invece ha accennato al Corriere della
Sera di: «Rischi concreti di atti terroristici
per l’Italia e a Roma. E io non ho la possibilità di difendere la capitale dal terrorismo con
la polizia locale». Parole arrivate dopo la bocciatura, il 26 luglio scorso, da parte dell’ex
primo cittadino Francesco Rutelli, per il
quale: «Il Papa ha annunciato il Giubileo
quattro mesi fa, a sorpresa. Ma sono passati
quattro mesi e non è accaduto nulla».
Logico insomma che in Vaticano non
siano pochi i monsignori a chiedersi che cosa
succederà con l’Anno Santo. C’è chi si spinge
a dire che tutto sommato commissariamento
o nuove elezioni comunali potrebbero essere
un’ipotesi da valutare. Con un chiarimento:
per tante tonache non sarebbe male un futuro sindaco o un commissario che venga
dalle file cattoliche della politica capitolina (ma l’elenco quantomeno dei potenziali
candidati alla poltrona del Campidoglio con
tali requisiti sarebbe lungo quanto la mano
di un monco). L’editoriale dell’Osservatore
ha come titolo Fiumicino ultima frontiera.
La prossima è rappresentata dalle urne?
Chissà.
© Riproduzione riservata
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IN CONTROLUCE
Il Giudice (e detective) Dee è veramente esistito nella Cina del settimo
secolo ma solo negli Anni Sessanta è diventato un grande Maigret
DI
P
DIEGO GABUTTI
rima giudice e detective nella
Cina del VII secolo, poi alto
funzionario della dinastia
Tang, Dee Jen-djieh (o Giudice Dee) viene al mondo nel 630,
anno della tigre, sotto il segno del pianeta Venere. Brillante e severissimo,
confuciano fin nel midollo, il Giudice
Dee fa rispettare la Legge maiuscola nelle diverse province del Celeste
Impero. Siede nelle aule di tribunale
e qui, con le buone o con le cattive,
ma soprattutto con le cattive, ché
la Legge è Legge, interroga a muso
duro imputati e testimoni circondato
da soldati dall’aspetto feroce, armati
di fruste e bastoni.
È stato il sinologo olandese
Robert van Gulik a trasformare il
Giudice Dee, le cui avventure erano
note soltanto in Cina, in un fenomeno
planetario (oggi i cinesi direbbero globale). Ambasciatore dei Paesi Bassi
in Cina negli anni trenta e quaranta,
linguista, musicista, calligrafo, autore d’importanti studi accademici
sulla musica e sui costumi sessuali
nell’antica Cina, van Gulik nacque
nel 1910, a Zutphen, in Olanda. Scrittore prolifico e raffinato, storico della Cina classica e delle sue culture,
van Gulik è disgraziatamente sparito
(almeno in Italia) dai cataloghi delle
case editrici più importanti (Mondadori che lo pubblicò negli anni ottanta
e novanta, ma soprattutto Garzanti,
che lo tradusse per prima negli anni
sessanta). Fortuna che un piccolo
editore, le edizioni O barra O di Milano, sta meritoriamente riportando
in libreria le storie del Giudice Dee,
trascurate da quasi vent’anni.
Di Dee Jen-djieh, magistrato e politico cinese di primo piano, è un personaggio reale, di cui si parla sia nei
nelle storie «poliziesche» tradizionali
che nei libri di storia. Gli antichi testi
gli attribuiscono, oltre alla direzione
degli affari politici del suo tempo,
anche la soluzione d’uno sterminato
numero di casi criminali: omicidi, cospirazioni, affari tangentizi.
Ministro della corte imperiale,
anziano e al top della carriera, Dee
è scritturato come primo attore, prima ancora che apparissero i romanzi
di van Gulik, anche nel cast d’un romanzo storico di Lin Yutang, Madame Wu (un vecchio tascabile Garzanti
che si può trovare in bancarella, fortuna aiutando). Costei, la crudelissima
signora Wu, è vedova d’un Imperatore ma soprattutto è una perfetta dark
lady: vorrebbe nominare Imperatore
un suo favorito e non il legittimo
erede, del quale trama la rovina. Lin
Yutang, romanziera, storica, memorialista, la pone al centro d’una cupa
e labirintica storia shakespeariana
d’intrighi politici, lussuria e scannamenti; poi chiama Dee a fare giustizia. Grazie ai «gialli storici» di Robert
van Gulik – tra cui l’ultimno, appena
uscito da O barra O, I delitti del lago
cinese, pp. 267, 12,00 euro, ebook 6,99
euro – Dee Jen-djieh è ormai diventato un’icona anche in Occidente, tra
i diavoli stranieri. Più esotico e blasé
di Philo Vance, maestro di travestimenti come Sherlock Holmes,
sottile ragionatore come Nero Wolfe, grande signore, campione di arti
marziali come Bruce Lee, umano e
troppo umano come il Commissario
Maigret, il Giudice Dee Jen-djieh è
entrato nella storia della letteratura
poliziesca occidentale a vele spiegate,
da grande protagonista.
Vediamo Dee Jen-djieh aggirarsi nei labirinti dell’università
di Shangai, smascherare monaci
buddisti dissoluti, innamorarsi di
un’assassina come nei migliori noir
americani, occuparsi di casi di spionaggio, travestirsi da mendicante e
da brigante, affrontare una minaccia islamica molto ante litteram,
barcamenarsi tra le sue tre mogli,
smascherare false apparizioni di
fantasmi. Van Gulik, già che c’è, si
prende una licenza poetica: sposta
le avventure di Dee dal VII al XIII
secolo, più ricco e romanzesco. E
intorno una Cina più vera del vero,
perfettamente ricostruito attraverso
dialoghi e descrizioni, mai una parola
di troppo, niente note a pié di pagina,
morte alle lungaggini, bandite le caratterizzazioni di maniera.
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