Prospettive in un mondo in grande cambiamento

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PROSPETTIVE IN UN MONDO IN GRANDE CAMBIAMENTO
Tornare a crescere? Forse siamo al capolinea
Da Gordon a Grantham, per alcuni esperti Usa la crisi non è congiunturale. Ma rappresenta la fine di un
meccanismo di sviluppo.
di Donato Speroni
Gli esperti Usa si chiedono se il
meccanismo di sviluppo sia ormai
arrivato al capolinea.
Per l’economia è questa la domanda più importante all’inizio del nuovo anno: si può ritornare a crescere?
Gli esperti si chiedono se la crisi che ha colpito i Paesi industrializzati ha solo carattere congiunturale, e
quindi presto o tardi verrà superata, oppure se siamo di fronte a un cambiamento strutturale che richiede
mutamenti profondi nei modelli di produzione e anche delle abitudini di consumo. Per il semplice fatto che,
tranne pochi privilegiati, avremo meno soldi in tasca.
LE TESI DELLA DECRESCITA Finora, le teorie sull’impossibilità di far aumentare ulteriormente il Prodotto
interno lordo (PIL) sembravano confinate a pochi teorici della decrescita più o meno felice, come Serge
Latouche o Richard Heinberg, convinti della necessità di ridurre il consumo di risorse del pianeta per
evitare i peggiori disastri ambientali.
Le loro tesi presupponevano una scelta ecologista cosciente.
SVILUPPO AL CAPOLINEA. Invece il dibattito che si è aperto in questi mesi, soprattutto negli Stati Uniti,
parte da un’altra premessa: che il meccanismo di sviluppo sia arrivato al capolinea e che, per quanto si
faccia, sarà comunque impossibile ottenere aumenti del PIL che superino l’1% all’anno, ben al di sotto di
quel 3% di cui mediamente gli Usa hanno goduto per oltre 100 anni. Ed è evidente che la diagnosi di
ristagno che riguarda l’America si estende anche alle altre economie già sviluppate, a cominciare
dall’Europa.
Il paper che ha aperto il dibattito è stato scritto sulla rivista del National bureau of economic research
(Nber), il più importante istituto di analisi economica degli Usa, dall’economista Robert J. Gordon*.
SEI OSTACOLI PER GLI USA.
Secondo Gordon, la spinta della più recente ondata di progresso tecnologico (i computer, il web, la
telefonia mobile) si sta esaurendo. Inoltre, gli Stati Uniti devono affrontare sei ostacoli (Gordon li chiama
headwinds, 'venti contrari') che sono la demografia, le carenze nell’istruzione, le diseguaglianze, la
globalizzazione, i problemi di energia e ambiente e il debito che grava sui consumatori e sul governo. «Per il
99% della popolazione, potremmo trovarci di fronte a una crescita di meno dello 0,5% all’anno che durerà
per decenni».
Il progresso tecnologico sarà tale da rimescolare presto tutti i parametri
(© Getty) Il premio Nobel per l'economia Paul Krugman.
Il premio Nobel Paul Krugman, con un articolo sul New York Times, contestando la tesi del rallentamento
tecnologico. Andiamo, anzi, verso un’epoca nella quale i robot saranno in grado di svolgere gran parte del
lavoro: questi, dice Krugman, sapranno gestire i big data, la grande quantità di dati dei quali rimane traccia
nella memoria dei computer, comprese le conversazioni umane, perché il riconoscimento vocale sta
facendo grandi progressi.
I robot faranno crescere la ricchezza. Il problema, semmai, secondo Krugman, sarà di capire come ripartirla
(la ricchezza): «Macchine intelligenti possono rendere possibile un aumento del PIL, ma ridurranno la
domanda di gente, anche preparata, nei vari lavori. Così possiamo trovarci di fronte a una società che
diventa anche più ricca di quella attuale, ma nella quale tutto l’aumento di ricchezza va a chi possiede i
ricchezza va a chi possiede i robot».
Nel dibattito si è inserito con un articolo anche uno dei più famosi futurologi, Al Kurzweil, fondatore della
Singularity University che da una sede della Nasa in California studia l’impatto combinato delle tecnologie
Grin (genetica, robotica, informatica e nanotech) sui prossimi decenni.
A suo parere, sia Gordon che Krugman sottovalutano la velocità esponenziale di crescita della tecnologia
che muterà profondamente il rapporto uomo-macchina creando situazioni imprevedibili: quella che lui
chiama «l’era della singolarità». Insomma, il progresso sarà tale da rimescolare presto tutti i nostri
parametri.
I nodi critici: il peso rilevante dei servizi e il costo delle risorse naturali
(© Getty) L'analista finanziario Jeremy Grantham.
In questi giorni è sceso in campo, con una visione molto più pessimista, anche un famoso analista
finanziario: Jeremy Grantham, collocato da Bloomberg Markets nel 2011 tra i 50 personaggi che hanno
maggiore influenza sui mercati.
Significativamente, Grantham ha titolato il numero di novembre della sua newsletter trimestrale, On the
road to zero growth, verso la crescita zero.
Tra gli elementi che giustificano il suo pessimismo, il peso crescente dei servizi nell’attività economica
rispetto alle produzioni manifatturiere, perché in questo campo è molto più difficile ottenere
miglioramenti di produttività.
Altra fonte di preoccupazione, il costo delle risorse naturali. È vero che, con le nuove produzioni non
convenzionali di petrolio e gas naturale ottenute con la frantumazione delle rocce, gli Stati Uniti
guadagneranno alcuni anni di autonomia energetica, ma nel complesso il costo di estrazione delle risorse
continua a crescere, a un ritmo che Grantham stima al 7% all’anno dal 2000.
«In un mondo che nel complesso cresce meno del 4%, con i Paesi più sviluppati al di sotto dell’1,5%, è facile
immaginare che la stretta si intensificherà».
In conclusione, il dibattito ripropone la contrapposizione tra due visioni del futuro: quelli che confidano che
la tecnologia risolverà tutti i problemi dell’umanità e quelli che non negano le nuove scoperte ma temono
che il mondo abbia bisogno di tempo, capitali oggi mancanti e consenso politico per sfruttarle appieno. E
che, nell’attesa, si debba stringere la cinghia.
Giovedì, 03 Gennaio 2013
Il grano è il nuovo petrolio» Mercoledì, 05 Dicembre 2012
Il guru dell'ambientalismo Lester Brown racconta le Ilva americane. E spiega perché i cereali decidono la
geopolitica.
di Giovanna Faggionato
A 78 anni Lester Brown è uso al meccanismo mediatico e se lo fa
cucire addosso di buon grado. Accettandolo, si direbbe, come
corollario alla sua missione. UNA VITA PER LO SVILUPPO SOSTENIBILE. Presidente dell'Earth Policy Institute
di Washington, tra i più importanti enti di ricerca impegnati nella lotta al cambiamento climatico, nel 1974
fondò il Worldwatch Institute, il primo a occuparsi dell'emergenza ambientale. In trent'anni di lavoro, ha
elaborato un 'piano B' per l'economia globale: un progetto per riconvertire il capitalismo allo sviluppo
sostenibile. Oggi combina formule scientifiche, acqua e vento, sacchi di riso e vasche di sabbia, e li
sintetizza in slogan e appelli all'azione. Il suo ultimo saggio, Nove miliardi di posti a tavola (Edizioni
Ambiente), descrive un pianeta governato dal prezzo del grano. Guerre a venire per le falde acquifere e le
terre da coltivare: «Una lotta tra i grandi investitori e le masse dei contadini dei Paesi Emergenti», ha
spiegato con voce ferma, racconta cosa ci aspetta se non si ridurranno le emissioni inquinanti. E comincia
dai fumi densi dell'Ilva di Taranto
DOMANDA. Un settore strategico per l'economia è causa di un disastro ambientale. Che fare?
RISPOSTA. Non è un unicum. Anche negli Stati Uniti abbiamo una situazione simile.
D. Cioè?
R. Ben 492 centrali a carbone, vecchie di 40, 50 e 60 anni, con tecnologia antiquata e quindi con un livello di
emissioni inquinanti molto alto. E quello che abbiamo scoperto è che possiamo chiuderle.
D. Sì, ma i posti di lavoro?
R. Il punto è che negli Stati Uniti muoiono 30 mila persone all'anno a causa dell'inquinamento dell'aria.
Parliamo di perdere posti di lavoro, quando in realtà perdiamo vite: le due cose non sono comparabili.
D. Ci dica come avete fatto in America.
R. Grazie alla forza delle organizzazioni ambientaliste circa 120 centrali hanno già chiuso e a livello federale
si è arrivati a una moratoria della costruzione di nuovi impianti. Perché la verità è che l'unica cosa che non
possiamo fare è continuare business as usual.
D. E come si fa business 'non' usual?
R. Dobbiamo apportare dei profondi cambiamenti all'economia. Il primo è sicuramente la ristrutturazione
dell'economia energetica per stabilizzare il cambiamento climatico e riportarlo sotto controllo.
D. Facile dirlo. Ma farlo adesso con la crisi economica globale...
R. Sì, ma non c'è solo la crisi finanziaria. Tra il 2007 e il 2008 abbiamo avuto un'impennata dei prezzi dei
cereali, dovuta anche all'aumento delle emissioni e al cambiamento climatico.
D. Si spieghi.
R. È l'effetto della crescita demografica e dell'emergere di nuove potenze. Ogni anno la popolazione
mondiale cresce di 80 milioni di individui, oltre 200 mila al giorno. Ci sono 3 miliardi di persone che salgono
nella catena alimentare: nella loro dieta aumenta il peso di carne, latte e uova. Ma per produrre alimenti
proteici, si investe una quantità molto maggiore di cereali per nutrire il bestiame degli allevamenti.
D. E il clima?
R. Il cambiamento climatico diminuisce i terreni da coltivare e aumenta la scarsità di cibo.
D. Ma ce ne siamo accorti solo ora?
R. In realtà è dal 1986 che siamo entrati in una nuova epoca: le nostre riserve di cereali hanno iniziato a
scarseggiare. Adesso si è aggiunta anche la bolla tutta negativa dei biocarburanti. Così, dal 2005 a oggi, la
domanda di cereali è passata da 21 milioni di tonnellate all'anno a 45 milioni.
D. E i prezzi sono aumentati.
R. I Paesi esportatori hanno avuto paura del rialzo dei prezzi sul mercato interno, e così hanno diminuito
l'offerta di derrate agricole nel circuito commerciale globale. I prezzi sono scoppiati e da allora continuano a
crescere.
D. Perché?
R. Quando si è registrato lo shock dei cereali, il mondo si è accorto dell'importanza del grano.
D. Importante quanto?
R. Tanto che nel futuro sarà l'indicatore economico principale.
«Ci sarà la guerra tra l'1% degli investitori e il 99% dei contadini»
Siria, nella guerra civile bruciano anche i sacchi di
frumento.
D. Quindi, la bolla dei cereali è peggio della bolla finanziaria?
R. È più pericolosa. Abbiamo visto l'impatto della crisi finanziaria e abbiamo dovuto affrontarla. Ma per
fronteggiare la crisi alimentare dobbiamo ristrutturare l'intera economia. È possibile: abbiamo la
tecnologia. Ma dobbiamo andare molto veloce.
D. Altrimenti?
R. Andiamo verso una crisi idrica, il cosiddetto picco dell'acqua. Noi beviamo quattro litri di acqua al
giorno, ma per la produzione di cereali ne usiamo 2 mila.
D. Quindi?
R. C'è chi sta correndo ai ripari. Il primo effetto visibile è l'aumento del fenomeno del land grabbing, cioè
l'accaparramento di terre - principalmente in Africa - per sfruttarne le risorse idriche e coltivare i campi.
D. Cosa significa?
R. Significa che milioni di contadini vengono espropriati dei campi senza neanche saperlo. Significa guerre
per dighe e fiumi, forse rivoluzioni. E vuol dire anche che ci sarà un braccio di ferro tra l'1% degli investitori
globali e il 99% di chi coltiva la terra davvero.
R. Secondo diverse organizzazioni non governative, in Italia hanno iniziato ad investire in terreni agricoli
anche banche come Unicredit, Intesa e Monte dei Paschi di Siena
D. Questo dimostra quello che dico: il cibo è il nuovo petrolio e la terra il nuovo oro.
D. Come si inverte il trend? E quanto può costare?
R. Secondo i nostri calcoli, ci vorrebbero solo 200 miliardi: meno della metà del bilancio annuale della
Difesa americana.
D. Da impiegare come?
R. Io lo paragono a Pearl Harbour.
D. Non sembra di buon auspicio.
R. Bè, il presidente Franklin Delano Roosvelt impose il blocco al settore automobilistico. Disse
semplicemente: l'America non ha più bisogno di automobili, vieteremo le vendite. E obbligò l'industria a
convertire la produzione in aerei militari. Senza possibilità di scelta.
D. Siamo nella stessa situazione?
R. Ogni tanto ci penso. L'ultima volta scendendo all'aeroporto di Seattle ho visto un aereo mastodontico
con le sue ali d'acciaio e ho riflettuto: riuscirono a fabbricarne 129 mila in soli due anni, vinsero la guerra e
gli Stati Uniti uscirono dalla depressione.
D. Dovremmo fare lo stesso?
R. Quello che non possiamo fare è continuare come prima. Forse non è necessario un cambiamento così
repentino, ma rapido sì.
D. Anche perché la guerra è un'altra cosa.
R. In realtà il paragone è corretto. Solo che abbiamo ancora un concetto di “sicurezza” legato al passato.
«Il concetto di sicurezza va cambiato: l'instabilità politica dipende dal cibo»
(© Getty Images) Francia, un parco eolico tra i campi
di grano.
D. Cosa intende?
R. I governi hanno come primo obiettivo la sicurezza. Nel ‘900, che ha avuto due conflitti mondiali e una
Guerra fredda, il concetto era militare. E noi lo abbiamo ereditato senza modifiche.
D. Ma?
R. Le minacce attuali sono diverse. Si chiamano crescita demografica e cambiamento climatico, scarsità
idrica e alimentare e quindi crescente instabilità politica. Questo è lo scenario in cui si gioca la sicurezza
degli Stati del terzo millennio.
D. Quindi che misure propone?
R. Bisogna ridisegnare l'economia. Applicare una riforma fiscale verde: spostare le tasse dal reddito ai costi
ambientali, per esempio. Ma soprattutto ristrutturare l'energia.
D. Cioè?
R. Meno macchine e più pale eoliche. Le rinnovabili stanno facendo molto di più di quello che pensavamo.
D. Crede nella rivoluzione all'idrogeno?
R. Negli Usa ci sono state delle sperimentazioni. Ma non è successo quasi nulla, l'economia all'idrogeno non
si è realizzata. Soprattutto se comparata con l'effetto degli investimenti in celle solari o impianti eolici.
D. C'è chi propone di abbandonare l'agricoltura industriale.
R. Penso che il modello dell'agricoltura biologica sia positivo e che su piccola scala possa diffondersi. Però
non abbiamo scelta in termini di sostenibilità globale: dobbiamo nutrire 7 miliardi di persone nel pianeta.
D. Insomma i Paesi devono usare la tecnologia per provare a migliorare le rese agricole.
R. Sì, anche se ci sono nazioni come il Giappone e la Corea del Sud, la Francia, la Germania e la Gran
Bretagna dove si è già raggiunto il massimo della resa. L'innovazione tecnologica qui non funziona più come
moltiplicatore della produzione, ha raggiunto il suo limite.
D. E cosa si può fare?
R. Bisogna aumentare l'efficienza del coltivato, scegliere per esempio i cereali che impiegano meno acqua,
quindi il frumento piuttosto che il riso.
D. E le biotecnologie agrarie, gli OGM?
R. Gli OGM possono essere usati in diversi modi. Non si può generalizzare.
D. Cioè?
R. Facciamo un esempio: un campo di cotone infestato di insetti che distruggono il raccolto. Posso riempire
il campo di pesticidi: uccido gli insetti e aumento l'inquinamento. Oppure usare gli OGM per creare una
semente di cotone resistente agli insetti ed evitare quindi la diffusione di pesticidi nell'ambiente.
D. Ma la biodiversità?
R. È ovvio che c'è anche l'esempio negativo: spargo gli erbicidi in un campo di soia. E uso le biotecnologie
per ottenere semi di soia resistenti a quegli stessi erbicidi. Qui ho un impatto sia sulla biodiversità che un
maggiore inquinamento: quindi nessun beneficio.
«Un giorno la Cina reclamerà i cereali degli Usa»
(© Getty Images) Doha, l'apertura della conferenza delle
Nazioni Unite sul cambiamento climatico.
D. Qual è la prima urgenza per i leader del mondo riuniti a Doha a discutere di clima?
R. Abbassare le emissioni. Ora. Non possiamo aspettare il 2050, bisogna farlo nei prossimi sette, otto
anni. Perché il sistema agricolo e quello climatico da un po' sono due ingranaggi che non combaciano. E
incastrarli sarà sempre più difficile.
D. Cosa si rischia?
R. Il rischio è l'autodistruzione.
D. Lei cita Sumeri e Maya come esempi di popoli che si sono estinti per uno scorretto uso del suolo.
R. Sì, ecco, se la domanda è sulla profezia, non penso che abbia niente a che vedere con questo. Ma la
posta in gioco è altissima.
D. Ma chi potrebbero essere i nostri Maya?
R. In Medio Oriente Stati come l'Arabia Saudita, ma anche altri meno ricchi e percorsi da conflitti come Siria
e Iraq stanno vivendo in una bolla dell'acqua. Stanno usando soprattutto falde a esaurimento: vanno verso
l'emergenza.
D. E in Europa?
R. In Europa la stessa cosa succede in Spagna. Ma i problemi si concentrano soprattutto nei nuovi Paesi
Emergenti.
D. Cina e India?
R. Secondo la Banca mondiale oggi 175 milioni di indiani mangiano grazie a falde sotterranee che rischiano
di esaurirsi. Mentre 135 milioni cinesi, nelle pianure del Nord, affrontano la desertificazione, le tempeste di
sabbia e il rischio di enormi carestie.
D. Tutto questo potrebbe cambiare la geopolitica mondiale?
R. Andiamo verso una nuova geopolitica del cibo. La Cina oggi importa l'80% del suo consumo di soia. E gli
Stati Uniti, il Brasile e l’Argentina da soli esportano il 90% della soia.
D. Quindi Washington vince ancora su Pechino?
R. La questione è affascinante. Gli Stati Uniti sono certamente una super potenza alimentare. Ma abbiamo
bisogno di qualcuno che ogni mese compri il nostro deficit.
D. Cosa comporta?
R. Io penso che la Cina non si sia ancora resa conto di questa stretta doppia interdipendenza che la lega agli
Usa, cioè del possibile scambio: dollari-cereali. Ma un giorno, forse, verrà a reclamare il raccolto americano.
GLOSSARIO
Robert Gordon fa parte della LIGEP è l’acronimo di LUISS International Group on Economy Policy; si tratta
di un gruppo di economisti di levatura internazionale coordinato da Jean-Paul Fitoussi e composto dal
Premio Nobel per l'Economia Edmund Phelps, Robert Gordon (Northwestern University di Chicago),
Christofer Pissarides (London School of Economics), Etienne Wasmer (Sciences Po di Parigi), Giorgio Di
Giorgio (LUISS), Stefano Micossi (Assonime), Paola Parascandolo (Assonime), Francesco Saraceno (Sciences
Po di Parigi).
La crisi del triennio 2007-2009 è stata definita “finanziaria” poiché i suoi aspetti più eclatanti si sono
manifestati nel settore finanziario. La crisi, tuttavia, può dirsi tale in ragione delle sue conseguenze
sull’economia reale: calo del PIL, crescita della disoccupazione e inquietudine provocata dalla perdita di
guadagno e di posti di lavoro. D’altra parte, perché dovremmo preoccuparcene se non per gli effetti
negativi?
Il presente rapporto segnala la via d’uscita dalla crisi economica globale. Il lavoro si concentra
principalmente sui Paesi sviluppati, con particolare attenzione all’Europa e agli Stati Uniti. L’incontro di un
piccolo gruppo di economisti di diversi paesi ed esperienze e persino di diversi orientamenti dottrinali ha
prodotto un’analisi coerente della cause della crisi e delle raccomandazioni qualificate e profonde sulle
politiche d’intervento.
Il rapporto è suddiviso in quattro parti dedicate, rispettivamente, alle cause della crisi, alla sua anatomia nel
panorama mondiale, alle politiche atte a combatterne gli effetti e a favorire la ripresa e, infine, ai problemi
specifici dell’economia Italiana.
Più produttività e formazione d’eccellenza, dai banchi del liceo all’università. Sono questi alcuni degli
ingredienti individuati dal gruppo di economisti per uscire dalla crisi nel II Rapporto LIGEP.
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