La diceria immortale [1] Come se Dio fosse Collana diretta da Sergio Belardinelli Titolo originale dell’opera: Das unsterbliche Gerücht. Die Frage nach Gott und die Täuschung der Moderne Klett-Cotta © 2007 J.G. Cotta’sche Buchhandlung Nachfolger GmbH, Stuttgart © Edizioni Cantagalli s.r.l. Siena, ottobre 2008 Traduzione dal tedesco: L orenzo Cappelletti Silvia K ritzenberger Grafica di copertina: A nna M aoloni Redazione: Simonetta Catalano Stampato da Edizioni Cantagalli nell’ottobre 2008 ISBN 978-88-8272-370-5 Robert Spaemann La diceria immortale La questione di Dio o l’inganno della modernità PREFAZIONE Sergio Belardinelli* “Che esista un essere chiamato ‘Dio’ è un’antica e intacitabile diceria. Questo essere non è una parte di ciò che accade nel mondo; è piuttosto fondamento e origine dell’universo. Si deve tuttavia alla diceria anche il fatto che tracce e indicazioni di questa origine si trovino nel mondo stesso. E soltanto in questo sta il fondamento del perché su Dio si possano dire diverse cose”. È un libro straordinario, questo di Robert Spaemann. Un libro filosofico su Dio, che, contrariamente a quanto avrebbe detto Pascal, è anche il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe e di Gesù Cristo; un libro che tocca nel profondo le nostre inquietudini e i temi più scottanti della nostra epoca obbligandoci a una radicalità, alla quale forse non siamo più abituati, ma che, con il suo stile inconfondibile, Robert Spaemann sa rendere piana, avvincente e convincente. A Dio bisogna credere, non perché fa comodo per padroneggiare le contingenze della vita individuale e sociale o perché ci aiuta a diventare più buoni, ma semplicemente perché egli esiste. È solo perché Dio esiste che esistono la verità e la realtà, che tutto è bene e tutto viene riscattato, che tutto ha un senso. Funzionalismo, evoluzionismo e persino la genialità di Nietzsche non reggono il confronto con questa “diceria”. * Direttore della collana Come se Dio fosse, professore ordinario di Sociologia dei processi culturali nella Facoltà di Scienze Politiche “Roberto Ruffilli” dell'Università di Bologna. 5 Guardare la religione esclusivamente dal punto di vista delle sue funzioni (sociali, culturali o psicologiche) equivale a relativizzare l’assoluto che la costituisce e quindi a perderne l’essenziale. “La religione è lo sguardo sul mondo sub specie divinitatis”, dice Spaemann. Volerla ridurre a qualsiasi altra cosa, prescindendo dal Dio di cui parla, è come voler costruire “una teoria solipsistica dell’amore, la quale astragga appunto dal fatto di essere qualcosa che ha luogo tra due persone”. Non a caso, secondo Spaemann, la risposta migliore alla domanda “perché la religione?” è un’altra domanda: “perché esistiamo?”; la sola risposta capace di non bloccare la strada attraverso la quale gli uomini diventano problema a se stessi. In questa prospettiva vengono anche problematizzate le pretese di un certo evoluzionismo, oggi assai di moda, secondo il quale la presenza dell’uomo sulla terra sarebbe da ricondurre a una semplice casualità. La provocazione di Spaemann in proposito è tanto geniale quanto semplice: “Se da un sacchetto tirassimo fuori a caso delle lettere dell’alfabeto e, gettandole per terra, venisse fuori il Prologo del Vangelo di Giovanni, tutto ciò potrebbe anche essere casuale. Ogni combinazione è possibile e ugualmente probabile quanto un’altra. Ma in una situazione del genere nessun uomo crederebbe davvero al caso; piuttosto ognuno cercherebbe di capire dove sta il trucco. Ovviamente chiunque escluda per motivi metodologici ipotesi sovrannaturali può insistere sulla possibilità del caso, anche a costo di finire, con tale naturalismo, nel fantastico. Ma costui non potrebbe più prestar fede a se stesso”. Più articolato e stringente è il confronto con Nietzsche, il filosofo della morte di Dio, colui che aveva indicato nell’ateismo l’approdo inevitabile dell’Illuminismo e, insieme, l’autodistruzione dell’Illuminismo stesso, almeno in ciò che concerne la pretesa illuministica di dire la verità meglio di 6 quanto abbiano fatto i classici e il cristianesimo. Se Dio non esiste, allora non esiste neppure la verità: questa la convinzione di Nietzsche che Spaemann approfondisce, mostrandone il carattere epocale, soprattutto per quanto riguarda il rapporto inscindibile che Nietzsche pone tra l’esistenza di Dio, della verità e del nostro essere persone. Attraverso Nietzsche impariamo che “noi decidiamo, uno actu, se pensiamo un assoluto, se pensiamo questo assoluto come Dio, se riconosciamo qualcosa come una verità che non sia relativa a noi stessi, e infine se riteniamo plausibile una considerazione di noi stessi come esseri capaci di verità, ovvero come persone”. L’idea nicciana del superuomo avrebbe dovuto rappresentare l’alternativa, una sorta di equivalente funzionale, a questa serie di “idiosincrasie” cristiane. Ma, oggi lo vediamo abbastanza bene, nemmeno il suo nichilismo eroico ha saputo tenere lontana la miseria dell’“ultimo uomo”, colui che confida soltanto nei suoi piaceri, dileggiando l’amore, la creazione, la nostalgia e le stelle. Dicevo all’inizio che il Dio dei filosofi, di cui parla Spaemann, è lo stesso Dio dei profeti e di Gesù Cristo. L’uno e l’altro, in questo libro, non soltanto si sostengono reciprocamente, ma, quasi in ogni pagina, danno anche prova di quanto la loro conciliazione sia necessaria. La creazione, il peccato originale, la forza redentrice della sofferenza non sono soltanto i dogmi di una fede, ma forse i soli grimaldelli, grazie ai quali la ragione può veramente mantenersi fedele alla realtà, alla verità e, in ultimo, a se stessa. La fede si arricchisce grazie alla filosofia e quest’ultima sembra guadagnare in capacità di comprensione, grazie alla fede. Straordinaria in proposito la lettura che viene fatta dell’epoca moderna attraverso la nozione del peccato originale e, soprattutto, attraverso gli equivalenti funzionali che una cultura impregnata di naturalismo, spiritualismo, individualismo e volontà di dominio si è, di 7 volta in volta, inventata per venire a capo di qualcosa che non era più in grado di comprendere: appunto il male nell’uomo. Ugualmente straordinarie le pagine sulla concezione cristiana della sofferenza e, alla fine, l’intervista concessa da Spaemann a David Seeber nel 1988. “La fede – dice Spaemann nella suddetta intervista – vuol comprendere ciò che crede. Non si può credere in qualcosa senza senso”. Mutatis mutandis, non sarebbe male che questo monito, oggi, venisse fatto proprio anche dalla ragione. 8 La diceria immortale Introduzione Delle cose degli uomini si può parlare in due modi: da una prospettiva interna e da una esterna. Pensiamo per esempio ad una giovane coppia che stipula una polizza per un’assicurazione sulla vita. Di che cosa si tratti, in questo caso, è ovvio: i due vogliono, in vecchiaia, poter riscuotere una certa somma e proteggersi così dal rischio di finire in povertà. Se aveva senso stipulare tale polizza, si vedrà soltanto nel momento in cui l’evento assicurato avrà luogo e la somma verrà versata. Per il momento, i due giovani devono fidarsi della solidità della società assicuratrice e pensare che la liquidità sarà sufficiente. Questa polizza, però, ha anche un profilo esterno, che non dipende dal fatto che questa fiducia sia giustificata o meno. Il comportamento della coppia può essere oggetto di ricerche di natura sociologica e psicologica. Si può analizzare quante giovani coppie stipulano un’assicurazione di questo genere, e in base a quali fattori. Ci si può chiedere quali effetti abbia una polizza del genere sullo stile di vita delle persone, sul loro sentimento della vita, sul loro comportamento da consumatori, sulla stabilità della loro relazione, sulla loro disponibilità a correre rischi, nonché sulla loro disponibilità a mettere al mondo dei figli. La prospettiva esterna assicura alcune conoscenze, ma sussiste a partire dalla prospettiva interna. Se la coppia fosse convinta che l’assicurazione non è in grado di onorare il contratto nel caso si verifichi l’evento assicurato, non lo stipulerebbe, e tutti gli altri aspetti non avrebbero alcun fondamento. In questo senso l’apostolo Paolo scrive ai Corinzi: “Ma se Cristo non è risuscitato, allora è vana [...] la nostra fede” 11 (cfr. 1Cor 15,14). Infatti, la religione cristiana, avendo un profilo interno e uno esterno, si trova nella stessa situazione di tutte le cose degli uomini. Il suo profilo interno è costituito dalla fede nella realtà di Dio e dalla speranza della vita eterna presso Dio. Ma finché è fede che vive in questo mondo, essa adempie, allo stesso tempo, varie funzioni sociali e psicologiche: ha delle ripercussioni sullo stile di vita degli uomini e sul loro stato d’animo. Non può, però, essere definita a partire da questi effetti. Sta o cade insieme al suo contenuto cognitivo. «Questa è la vita eterna», dice Gesù nel Vangelo di Giovanni, «che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo» (Gv 17,3). E anche la frase spesso citata della prima lettera a Timoteo, «Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati...», senza la seconda parte, che dice: «... e arrivino alla conoscenza della verità» (1Tim 2,4), non è completa, anzi, trae in inganno. Il mondo è pluralistico, e lo è sempre stato. In un mondo pluralistico, però, prospettiva interna ed esterna sono inevitabilmente in concorrenza l’una con l’altra. Chi vede delle persone ballare, ma non sente la musica, non capisce i movimenti che osserva. E così, chi non condivide la fede cristiana sarà incline a spiegarla attraverso qualcosa di diverso dalla verità del suo oggetto. E, in ultima analisi, non comprenderà il fedele. Chi vive nella prospettiva interna si attiene alle parole di San Paolo: «L’uomo spirituale giudica ogni cosa, senza poter essere giudicato da nessuno» (1Cor 2,15). Chi, però, è incapace di calarsi nella prospettiva esterna, in base alla quale la religione cristiana è una concezione del mondo tra altre, diventa un settario o un fanatico che si chiude nei confronti dell’universalità della ragione. La fede cristiana postula la medesima universalità della ragione. Anzi, pretende dalla ragione che non resti indietro rispetto al suo concetto, e constata che resta indietro se omette la domanda su Dio. Ma 12 sa anche che il giudizio dell’“uomo spirituale”, come verità universale, integrante qualsiasi prospettiva esterna, si rivelerà soltanto alla fine dei tempi. Intanto, corrisponde alla verità delle cose parlare la lingua di tutte e due le prospettive, a seconda delle circostanze nelle quali ci troviamo e delle persone con le quali parliamo. I testi qui raccolti fanno questo. Ci sono riflessioni “dall’esterno”, appartenenti piuttosto alla religione come disciplina scientifica, ma anche conferenze, nelle quali Gesù è chiamato “il Signore”, che sono rivolte ai fratelli cristiani che sanno di chi si parla. E infine ci sono testi nei quali l’autore, sulla base di un discorso razionale di per sé aperto a tutti gli uomini, riflettendo su Dio si rivolge ad ascoltatori o lettori pronti a una riflessione del genere. Infatti egli crede, contrariamente al grande Pascal, che il Dio dei filosofi non sia altro che il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, come anche che la stella del mattino non sia altro che la stella della sera. D’accordo con Platone, l’autore crede che sia un uomo davvero misero chi non è disposto a riflettere in profondità su ciò che, se fosse vero, sarebbe la cosa più importante, anzi, l’unica cosa che conta veramente (Platone, Fedone 85b). È sempre Platone che fa dire a un interlocutore di Socrate che bisogna «prendere la migliore e la più inconfutabile delle opinioni umane su questo argomento cercando di navigare su di essa come su una tavola di legno, attraverso la vita, finché non si possa viaggiare più sicuri e con meno pericoli su un veicolo più solido o su un Logos divino» (Fedone 86a). Il veicolo più solido sembra essere la filosofia. La fede che il Logos divino si è fatto carne per far sì che si possa viaggiare su di lui, secondo Sant’Agostino è l’unica cosa che distingue “i nostri” dai Platonici. Platone stesso non è chiamato in causa da questa distinzione in quanto, ai suoi tempi, l’avvenimento non era ancora accaduto. 13 La diceria immortale 1. Negli anni Settanta, dai gulag della Siberia ci giunse la voce di Andrej Sinjavskij che si definiva “una voce del coro”: “Abbiamo pensato fin troppo intorno all’uomo. È ora di pensare a Dio”. Se Dio c’è, è sempre ora di pensare a Dio. Alcune situazioni, tuttavia, sembrano più adatte di altre a ricordarci questo. Ma che cosa si pensa quando si pensa a Dio? Non è già abbastanza pensare a Lui? Si può pensare qualcosa su di Lui? Se esiste, Egli è la fine del pensare. Anche il pensiero che Dio non esista è la fine del pensare. Ma un altro tipo di fine. Non, come il pensare a Dio, sovrabbondante conferma del pensare, ma la sua auto-confutazione. La luce e l’oscurità sono, anche se in modo opposto, la fine del vedere. 2. Che esista un essere che nella nostra lingua si chiama “Dio” è una vecchia diceria che non si riesce a mettere a tacere. Questo essere non fa parte di ciò che esiste nel mondo. Dovrebbe essere piuttosto la causa e l’origine dell’universo. Fa parte della diceria, però, che nel mondo stesso ci siano tracce di quest’origine e riferimenti ad essa. E questa è la sola ragione per cui su Dio si possono fare affermazioni diverse. 3. Finora nessuno ha percepito Dio in modo diretto, fatta la ben nota, unica eccezione di Colui che chiamò Dio suo Padre e che, se dobbiamo credere ai cronisti suoi contemporanei, avanzò la pretesa di parlare per esperienza immediata della frequentazione di Lui, e di essere, di conseguenza, autorizzato a modificare le concezioni che il mondo ebraico circostante aveva di Dio. Non avanzò nuove ragioni per l’ipotesi della Sua esistenza. In quel mondo non era controversa. Inoltre, le modificazioni non erano così fondamentali da rendere necessario 15 rifiutare il nome proprio ebraico JHWH che, secondo la tradizione ebraica, sarebbe stato trasmesso agli ebrei da Dio stesso perché ne facessero uso: uso che peraltro consisteva soprattutto nel tacerlo. Gesù non insegnò un altro Dio, ma piuttosto parlò diversamente del medesimo Dio: «Chi mi glorifica è il Padre mio, del quale voi dite: È nostro Dio, e non lo conoscete. Io invece lo conosco» (Gv 8,54-55). 4. Sebbene il nome JHWH, come nome proprio, all’inizio sia servito a distinguere il loro proprio Dio dagli altri “dèi”, già il significato di questo nome “io sono” implicava una pretesa di singolarità da parte di Colui che lo portava. L’origine dell’universo materiale e di un “mondo spirituale”, ammesso che un mondo del genere esista, può essere soltanto una, almeno nella misura in cui “creazione” non voglia dire soltanto “dar forma” a un caos preesistente, ma presupponga una forza metafisica che chiami dal non-essere all’esistenza. Una volta che gli ebrei furono entrati a far parte del mondo ellenistico avvenne l’identificazione di JHWH con Colui che i filosofi chiamavano quasi automaticamente, in contrapposizione all’antico Pantheon, “il Dio”. 5. Era ancora estranea a questa epoca l’intentio obliqua filologica e relativistica che tenta di annullare questa identificazione sulla base del fatto che pensiero ebraico e pensiero greco sarebbero incompatibili. Il pascaliano «Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, non il Dio dei filosofi» sembra già tener conto di una tale incompatibilità. Ma un aperçu relativistico Pascal non l’avrebbe fatto suo. Quell’espressione manifesta semplicemente due diverse modalità di esperienza. 6. Qui viene a proposito la distinzione che opera Frege tra “senso” e “significato” di un termine – nomen intentionis e nomen rei, secondo la terminologia scolastica. “Stella della sera” e “stella del mattino”, in una poesia, possono avere funzioni 16 del tutto diverse. Significano però la medesima stella persino quando chi usa queste parole neanche lo sa. Nei testi letterari, non c’è alcuna referenza, alcun significato al di là del senso. Le immagini metaforiche usate in tali testi non sono nient’altro che ciò che l’autore ci racconta o evoca, o che emerge da tali racconti o evocazioni. Due immagini non sono mai identiche se l’autore non aveva l’intenzione di presentarle come identiche. È compito della critica letteraria, così come spetta all’ermeneutica biblica, far emergere non soltanto le differenze tra testi biblici ebraici e testi filosofici greci, ma anche quelle tra gli stessi testi biblici. Il fatto, però, che oggi molti teologi rinuncino alla concomitante intentio recta, e cioè alla questione della referenza, al “significato” al di là del “senso” dei testi, e di conseguenza alla questione della loro convergenza, è veramente indizio di una theologia etsi Deus non daretur. Il suo tema sono soltanto i testi. Ma soltanto testi significa: fiction. 7. Ci sono catechismi che invece di cominciare con l’insegnamento su Dio e sulla creazione, cominciano con la storia dell’esodo di Israele dall’Egitto. Trattano il racconto della creazione nella intentio obliqua della storia della sua genesi. Rescindono il legame reale, della tradizione della diceria su Dio, che lega cristianità e giudaismo. Non si litiga più con gli ebrei, perché l’oggetto comune, sul quale si poteva litigare, è andato perso a favore della vaga presa di coscienza di una filiazione storico-religiosa. De gustibus non est disputandum. Se esistono soltanto immagini di Dio, ma nessun Dio, tutti coloro che praticano tale iconolatria si possono accettare a vicenda nel nome di quel “modo di sentire che afferma di trovare tutto buono, a modo suo”; affermazione della quale Hegel scrive che «fa violenza alla ragione, la quale non approva qualcosa proprio perché è un modo». Se il termine Dio ha un “significato”, e cioè, se, al di là di tutto quel che con esso si può intendere, c’è 17 qualcosa che corrisponde ad esso nella realtà, allora gli ebrei, i cristiani, i musulmani, nonché i testi della filosofia classica europea, intendono la stessa cosa quando parlano di Dio, e continua a essere significativo perciò discutere, su come se ne deve parlare, per parlarne in modo giusto. 8. Perché limitarsi a Israele e ad Atene quando si deve parlare di Dio? Non si potrebbe, con Spinoza, usare la parola “Dio” almeno laddove si pensi come fondamento un assoluto che in nessun modo è relativo all’esserci di qualcos’altro di reale? Ancora: non si potrebbe chiamare Dio l’insieme di ciò che è, quando non venga pensato in modo riduttivo, e cioè in modo che pur dovendo spiegare ciò che c’è di meglio, al contempo lo riduce (il caso del materialismo)? Oppure: non si potrebbe chiamare “Dio” quell’assoluto che, pur non spiegando niente di ciò che è, fa sì che esso si riduca a puro apparire, come l’essere di Parmenide o il nirvana del buddismo? Possiamo usare la parola “Dio” come vogliamo. Ma quando ci teniamo alla univocità della referenza, allora non siamo così liberi. Certezza della referenza c’è soltanto laddove ci riferiamo non a qualcosa, ma a qualcuno. L’idea di “Dio” nel suo significato usuale, ispirato alla tradizione biblica, intende l’assoluto come persona. Mentre si direbbe rimanga più vicino alla sua origine mitologica nelle rappresentazioni panteistiche o buddiste. Soltanto se Dio è qualcuno, però, sembra fare una chiara e specifica differenza il fatto di presumere l’esistenza di Dio, negarla o considerarla dubbia. 9. Quale differenza? Il Signor K. di Bertolt Brecht, quando gli viene chiesto se un Dio c’è, risponde pragmaticamente: “Ti consiglio di riflettere se il tuo comportamento cambierebbe in base alla risposta alla domanda. Se non cambiasse, allora potremmo anche lasciar perdere la domanda. Se invece cambiasse, allora posso esserti di aiuto almeno dicendoti: tu ti sei 18 già deciso. Hai bisogno di un Dio”. Naturalmente il Signor K. non intende che l’interlocutore abbia davvero bisogno di Dio. Ciò di cui ha bisogno, per via della sua coscienza erronea e interessata, sarebbe la fede in Dio. Il Signor K. non considera neppure la questione di una possibile esistenza di Dio reale e completamente indipendente dalla nostra fede. Questo dimostra che anch’egli ha già deciso. L’argomento del Signor Keuner è soltanto il rovescio del tradizionale argomento cristiano contro gli infedeli: hanno un interesse alla non-esistenza di Dio. Non vogliono ringraziarLo, dice Paolo nella Lettera ai Romani. Ringraziare, come anche lamentarsi e pregare, evidentemente è anche un modo di comportarsi, mentre il Signor K. probabilmente pensa solo a delle cose pratiche. E siccome non è una persona irragionevole, egli, se credesse che Dio esiste, si sentirebbe costretto a fare qualcosa del genere anche se non lo farebbe volentieri. Così l’interlocutore potrebbe rispondergli: “Anche tu ti sei già deciso. Il tuo comportamento dimostra che hai bisogno della non-esistenza di Dio. O, più precisamente: hai bisogno di credere alla non-esistenza di Dio, o almeno, di non credere alla sua esistenza”. 10. Prima di chiedersi che interesse abbia la verità o la nonverità della diceria su Dio, è meglio chiedersi con più precisione che cosa esattamente significhi questa diceria. Che cosa intende colui che pensa che Dio c’è? Si tratta di una verità sintetica, non analitica. Si tratta dell’essenziale e necessaria unità tra due predicati, che empiricamente si presentano spesso separati, e soltanto alcune volte, e in modo contingente, insieme: l’unità dei predicati “potente” e “buono”. Chi crede che Dio c’è, crede che la situazione contingente, il mondo della nostra esperienza, incluso se stessi, abbia una “profondità”, una dimensione, che sfugge all’esperienza, anche a quella introspettiva. Questa dimensione è il luogo dove ciò che è scaturisce dalla sua ori19 gine. E non nel senso di una conseguenza temporale di condizioni antecedenti, ma come un provenire insieme alle condizioni di origine, e nello stesso tempo come emancipazione da esse, e cioè come essere di per sé. Credere in un Creatore significa credere che l’essere delle cose e la vita dei mortali non sono né necessari né conseguenza di un universale principio di inerzia, ma che, in ogni momento, provengono dall’origine. Il luogo dell’origine, però, è nello stesso tempo il luogo della verità, il luogo delle cose in sé, il mondo visto dal punto di vista di Dio; e si può restare nel dubbio che questo punto di vista, in termini di principio, sia accessibile a noi. 11. Non si può restare nel dubbio, però, su come noi stessi partecipiamo alla situazione contingente, che cosa ci sia permesso fare o omettere, e cosa invece no. L’incondizionatezza, con la quale questo si manifesta nella coscienza è l’altro predicato che viene pensato da colui che crede che Dio c’è. Da qui la locuzione “voce di Dio” per la coscienza. Questa incondizionatezza, che non scende a patti, di ciò che è buono sta in rapporto stranamente antinomico con quell’altra incondizionatezza, l’incondizionatezza di ciò che è come è, che non ammette alcun appello sulla base di qualsivoglia dovere, e che i filosofi hanno sempre consigliato di accettare, anzi di amare. La protesta contro l’universo, contro il corso delle cose, è assurda. E incondizionatezza c’è anche laddove qualcuno accetta che il corso delle cose si volga contro di lui, per non tradire la voce della coscienza. Questa incondizionatezza non può essere confutata da nessuna fattualità, e questo vale anche viceversa. Credere in Dio significa non far valere l’antinomia di queste due incondizionatezze come l’ultima parola. Dio c’è significa che il potere assoluto e ciò che è buono per eccellenza, nella loro causa e origine, sono una cosa sola – un eccesso di armonizzazione, dal punto di vista dell’empiria quotidiana, un 20 eccesso di speranza. Il rifiuto di scegliere l’alternativa e l’accettazione dell’assurdo come ultima parola, forse stanno insieme soltanto nelle parole di Pascal: «Vere tu es Deus absconditus». 12. Perché Dio è nascosto? Domanda alla rovescia: Perché non dovrebbe essere nascosto? Perché gli spettatori al cinema nella caverna di Platone devono sapere che si trovano in una caverna e che c’è un esterno? Perché sono uomini ai quali appartiene voler sapere “cosa in verità è” (Hegel). E perché hanno un’esperienza di incondizionatezza che non è comprensibile nel contesto del film che guardano. Perché allora Dio è nascosto? Con la conseguenza assurda – assurda se Dio c’è – che l’esistenza di Dio ha lo status di una ipotesi controversa? Gli gnostici risolvevano il problema distribuendo i due predicati antinomici tra due istanze, un creatore cattivo, rispettivamente demiurgo e principe di questo mondo, e “il totalmente Altro”, il Dio della luce che splende da lontano. Ma questo è rinunciare a ciò che afferma la diceria. L’altra risposta racconta la storia di una colpa immemorabile che separò ciò che è potente e ciò che è buono, facendo sì che la loro primordiale unità finisse in una sfera nascosta, dove noi non siamo, nel “cielo”. 13. Ma non appartiene forse al concetto di Dio che la Sua volontà sia sempre fatta? Sì, però non in terra così come in cielo, e cioè in modo tale che la volontà umana e la volontà divina siano in armonia, ma piuttosto come “astuzia della ragione” che si compie contro l’intenzione dell’attore attraverso la sua azione. Mefistofele sa di essere “parte di quella forza che vuole sempre il male e crea sempre il bene”. Nella stessa direzione vanno le parole: “il Figlio dell’uomo se ne va, secondo quanto è stabilito; ma guai a quell’uomo dal quale è tradito”. L’ambivalenza nel concetto di volontà divina, che trovò la sua ultima espressione nella tensione tra filosofia della storia e filosofia morale secondo Kant e secondo Hegel, è espressa nel modo 21 più preciso nella dottrina di san Tommaso delle due volontà di Dio. La volontà assoluta di Dio si manifesta in ciò che accade. Essa nella sua causa è a noi celata, e perciò non può servirci da guida per l’agire. Sarebbe persino cattivo – scrive San Tommaso – volere sempre ciò che vuole Dio; la guida del nostro agire è ciò che Dio vuole che noi vogliamo. E questo invece lo possiamo sapere. È ciò che è moralmente dovuto, su cui ci informano la ragione e la Rivelazione. E che inoltre non è identico per tutti gli uomini. A questo riguardo san Tommaso fa l’esempio del re che ha il dovere di far ricercare il criminale, e della moglie del criminale che invece ha il dovere di nascondere suo marito. Nessuno dei due può rimproverare all’altro l’adempimento del suo dovere, e ognuno di essi deve venerare la volontà di Dio in ciò che poi realmente accadrà. Infatti, come dice Martin Lutero: «È segno sicuro di una volontà cattiva che essa non sopporti il suo impedimento». Attività e rassegnazione procedono mano nella mano, in questo caso, e rispecchiano l’ambivalenza nel concetto di volontà di Dio, ambivalenza che esiste comunque soltanto perché le volontà creaturali non corrispondono a priori a “ciò che Dio vuole che noi vogliamo”. 14. L’unità di onnipotenza e bontà alla quale pensiamo quando pensiamo a Dio rende ineludibile la questione della teodicea, e cioè la questione della compatibilità dei mali del mondo con la bontà e la giustizia di Dio. Sono tante le risposte. Abbiamo già menzionato quella della gnosi. I cabalisti parlano del “tzim-tzum”, del ritrarsi di Dio, di una auto-limitazione della sua onnipotenza per lasciare spazio a qualcosa al di fuori di sè, prezzo inevitabile della libertà creaturale. Leibniz pensava che Dio non poteva fare di meglio – formula meno eufemistica per “il migliore dei mondi possibili”. Qualcosa di simile sostiene Klaus Berger ri-trasformando il Dio della Bibbia in un 22 demiurgo che non chiama ad esistere, ma si limita a plasmare, e di conseguenza non può rendere il mondo migliore del materiale a disposizione. E infine c’è la risposta data da Kant e Hegel: l’accenno all’astuzia della ragione nel corso della storia del mondo, che alla fine conduce tutto al bene. Ma perché coloro che sono venuti dopo conterebbero di più di quelli che sono venuti prima e che hanno pagato il prezzo? Forse sono Lenin e Stalin a mostrarci come è Dio? Se Dio c’è, non c’è posto per alcun calcolo del genere. L’unica risposta alla questione della teodicea che mette a tacere questa questione, viene data dal Libro di Giobbe: «Dov’eri tu quando io ponevo le fondamenta della terra? Dillo, se hai tanta intelligenza! […] Il censore vorrà ancora contendere con l’onnipotente? […] Cingiti i fianchi come un prode: io ti interrogherò e tu mi istruirai. Oseresti proprio cancellare il mio giudizio e farmi torto per avere tu ragione? Hai tu un braccio come quello di Dio e puoi tuonare con voce pari alla sua?» (Gb 38,4; 40,2; 42,3.5-6). E la risposta di Giobbe: «Ho esposto dunque senza discernimento cose troppo superiori a me, che io non comprendo... io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono. Perciò mi ricredo e ne provo pentimento sopra polvere e cenere». Così Dio ha vinto la scommessa contro l’accusatore degli uomini, e Giobbe viene restituito allo splendido status quo ante. Il messaggio del Nuovo Testamento che Dio è amore perde la sua forza se viene ripetuto così spesso da dimenticare da chi è stato detto. Il primo predicato di Dio è la potenza. «Dio è, come tutto sta» dice Wittgenstein. «Per Dio tutte le cose sono buone, belle e giuste», dice Eraclito, e «Io sono Colui che fa morire e fa vivere», dice JHWH nel Profeta. Solo a questa condizione la speranza di salvezza dalla morte definitiva può indirizzarsi a Lui. Chi non è l’origine dell’alpha in Sagittario, non può promettere di 23 essere l’omega. Pensare Dio come impotente, per poterlo pensare buono senza fatica, significa dare per perso il bene. O Dio non c’è, oppure: «tout ce qui arrive est adorable» (Léon Bloy). 15. Oggi ci viene detto che nella religione si tratta di superamento del contingente. Ciò si accorda con i due predicati di Dio. “Ciò che Dio fa è ben fatto, è giusta la Sua volontà. Siccome è Lui che pensa alle mie cose, io voglio starmene zitto e buono”. Hermann Lübbe ama queste canzoni, che alla fine sono anche belle. Superamento del contingente vuol dire accettare ciò che non si può cambiare, nonostante si possa pensare e desiderare che sia diverso. Rassegnarsi o amare? C’è anche un superamento del contingente di stampo ateo che accetta che le cose siano come sono, un’arte del vivere che consiste nell’accontentarsi di enclaves di significato e gioia all’interno di un tutto assurdo. Ma che significa assurdo? Assurdo è assenza di significato laddove ce lo aspetteremmo. Quando, con l’aiuto della scienza per esempio, avessimo imparato a non cercare alcun significato in tutto ciò che è, non parleremmo neanche più di assurdità. La luna che brilla attraverso gli alti rami, dicono tutti i poeti, sarebbe più della luna, che brilla attraverso gli alti rami. Per me, però, che non riesco a immaginarmi cosa possa essere la luna che brilla attraverso gli alti rami più della luna che brilla attraverso gli alti rami, essa davvero non è di più della luna che brilla attraverso gli alti rami. (Fernando Pessoa) 24 La verità è che la fede nell’esistenza di Dio quel contingente che essa “supera” lo crea per prima o perlomeno l’accentua notevolmente. L’idea della contingenza del mondo si è sviluppata filosoficamente solo in ambito islamico e cristiano, come nella logica moderna il concetto diventato così importante di “mondi possibili”. Cosa significa allora che qualcosa possa essere altro da ciò che è? Può significare che questo essere altro non viene escluso per ragioni logiche. Può significare che in base alle leggi della natura segue necessariamente da ciò che già c’era. Ma già questo è ambiguo. Poiché se anche due serie di eventi si verificano in base alle leggi della natura, non c’è sempre un’altra legge della natura da cui si origini l’evento che consegue dall’interferenza di queste serie. Parliamo qui di caso e intendiamo che avrebbe potuto anche avvenire qualcosa d’altro. Ma che cosa significa qui “avrebbe potuto”? Il caso è, secondo Aristotele, una “causa primordiale” come altre. Il fatto che niente di precedente all’evento abbia determinato il suo accadere non significa un qualche “avrebbe potuto” con riferimento a un corso alternativo delle cose. Con un’eccezione. Dove entriamo in gioco noi stessi o altri uomini che noi consideriamo soggetti liberi di agire, allora ha senso parlare di un “avrebbe potuto” alternativo e dire con riferimento a determinati risultati dell’agire che noi avremmo potuto fare anche qualcos’altro. Soltanto con riferimento ad esseri che agiscono liberamente hanno un senso più o meno metaforico ipotesi contra factum. Il pensiero che il mondo potrebbe essere altro da quello che è, anzi che persino le leggi della natura siano contingenti, poteva scaturire soltanto sullo sfondo del pensiero di un mondo originato da una libera scelta. La fede in Dio come superamento del contingente perciò non può significare altro che: la ferita può essere guarita soltanto dal ferro che l’ha prodotta. Per questo motivo questa idea non si confà a una spie25 gazione della religione di tipo funzionalistico. Il superamento del contingente di stampo ateo è più radicale di quello religioso. È una eliminazione del contingente. Questo, però, forse è impossibile per ragioni psicologiche. Gli uomini difficilmente possono fare a meno dell’idea che qualche cosa possa essere altro da ciò che è. Ma questo probabilmente significa solo che gli uomini difficilmente possono fare a meno del pensiero di Dio. 16. Superamento del contingente può significare ancora qualcos’altro. A volte le cose vanno meglio di quello che noi potevamo presumere. A volte accade qualcosa di meraviglioso. E ci sono momenti in cui sperimentiamo la nostra esistenza come puro dono, come miracolo. Credere in Dio è credere nel miracolo. “Alla base della moderna Weltanschauung sta l’inganno che le cosiddette leggi della natura siano la spiegazione dei fenomeni della natura” (Wittgenstein). Non esiste un obbligo in base al quale una cosa dovrebbe accadere poiché qualcos’altro è accaduto. C’è solo una necessità logica. I teologi moderni spesso vogliono esiliare Dio al livello della cosiddetta causa prima, che significa una sorta di condizione trascendentale per l’accadere nel mondo, la quale non deve interferire con l’accadere stesso. Ma non hanno altra ragione da offrire che non sia il pregiudizio richiamato da Wittgenstein. Chi, per principio, crede al miracolo rischia di perdere il buon senso e di essere ingenuo perché può smarrire i criteri di ciò che è probabile. Ma è un rischio relativo. Di norma gli uomini che credono in Dio sono scettici di fronte a racconti di miracolo; inclini a non prestar fede ad essi, ma nello stesso tempo ad attendersi da un momento all’altro il miracolo che li convinca. La forma suprema dell’esigenza di superamento del contingente è l’esigenza di essere grati. A questo livello l’ateismo non può offrire alcun surrogato poiché l’eliminazione del contingente 26 corrisponderebbe in questo caso alla eliminazione della fortuna di poter ringraziare. È un’autentica – ma provvidenziale – povertà della lingua tedesca che essa abbia la sola parola “glück” per esprimere felicitas e fortuna. Gratitudine c’è soltanto nei confronti di un destinatario. Altrimenti è un modo di dire. Laddove il lamento non ha destinatario, non ce l’ha neanche la gratitudine. Essa può essere reale soltanto se il destinatario è reale. «We really never advance a step beyond ourselves»: se questa frase programmatica di Hume è vera, seppure possiamo divertirci in tanti modi, alla gioia nel senso enfatico della parola dobbiamo rinunciare. 17. La gioia per il fatto che Dio c’è significa, nel linguaggio tradizionale, amore di Dio. Essa è di più dell’astratto universalismo morale, che il proprio interesse è pronto a relativizzare. È una trasformazione dell’interesse stesso. Per i mistici cristiani, ma anche per Lutero, la resignatio in infernum, l’accettazione della propria dannazione, quando essa è volontà di Dio, era uno stadio transitorio e una prova di questa trasformazione. Se Dio c’è, allora è questa la cosa più importante. Dovunque mi porti il destino, che la mia vita sia piena di senso o no, il significato stesso, la santità e la bellezza c’è, ed è indistruttibile. «Il significato del mondo deve stare al di fuori di esso. Nel mondo tutto è come è, e tutto accade come accade. Non c’è in esso alcun valore: e se ci fosse, non avrebbe alcun valore. Se c’è un valore che ha valore, deve stare al di fuori di ogni avvenimento e dell’essere-così-com’è, poiché ogni avvenimento e ogni essere-così-com’è è casuale. Ciò che lo rende non casuale non può stare nel mondo, perché altrimenti questo sarebbe di nuovo casuale. Deve trovarsi al di fuori del mondo» (Wittgenstein). «Gioire della felicità di un altro», così Leibniz definisce l’amore. Appartiene al concetto di Dio pensarlo felice, e di conseguenza buono. 27 18. Nietzsche ha capito cosa sia questa gioia quando ha definito amare gli uomini per amore di Dio «il sentimento più nobile e alto finora raggiunto fra gli uomini». Poiché non credeva che Dio ci sia, ha voluto inventare un suo equivalente funzionale, il superuomo. L’alternativa sarebbe altrimenti il banale nichilismo dell’ultimo uomo che, occupato soltanto, come la pulce di terra, a manipolare la propria lussuria, vive tutt’al più di mondi virtuali come modelli masturbatori. Ma anche il superuomo è virtuale. Appartiene alla funzione di Dio di non essere definibile da alcuna funzione e cioè di non essere neppure fungibile con alcun equivalente funzionale. Non buono per qualcosa, ma quel Qualcuno per il quale qualcosa deve essere buono per essere buono. Per ogni funzione della fede in Dio c’è anche un’antitesi. Dio è la ragione di ogni pretesa incondizionata nei confronti dell’uomo e, allo stesso tempo, soggetto del perdono di ogni colpa, Egli è istanza di legittimazione di ogni autorità cogente e istanza di legittimazione della disobbedienza contro ogni tirannide, Egli è il Signore della storia e il Giudice di quelli che “fanno” la storia. La fede in Dio ispira gli sforzi più grandi di alleviare le sofferenze, e la disponibilità più grande ad accettarle. Essa motivava i giudici degli eretici come gli eretici. Essa motiva coloro che pensano di migliorare il mondo, come quelli che lo fuggono e quelli che nel mondo non fanno altro che il loro dovere quotidiano. Essa ci fa fare tutto quello che facciamo per Dio, e ci insegna che non possiamo dare qualcosa a Dio attraverso alcunché di ciò che facciamo. Ci insegna a tendere a essere indifferenti al risultato dello sforzo. Ci insegna che Dio è in tutto e tutto è in Dio, e ci insegna che Egli è “al di là”, al di fuori del mondo, “nel cielo”. Alla domanda su quale differenza faccia che Dio ci sia o non ci sia c’è perciò soltanto una risposta: fa questa differenza: Dio c’è o non c’è. 28 19. C’è però una conseguenza morale derivante dal credere in Dio. Se Dio c’è, gli uomini devono fare ciò che Dio vuole che essi vogliano, e non devono cercare di svolgere il ruolo di Dio quasi da padroni di ciò che accade. Jean-Paul Sartre scrive, nella sua opera postuma Cahiers pour une morale, che un ateo radicale deve avere un’“etica della responsabilità”, dev’essere pronto a commettere qualsiasi crimine se è per il bene dell’umanità. Il tentativo di mantenere le mani pulite e una veste immacolata non è altro che egoismo morale. Per il credente, scrive, è diverso. Questi, in primo luogo, ha la responsabilità della propria vita, perché per lui esiste un’istanza davanti alla quale deve rispondere per la propria vita. Il suo tentativo di non compromettersi con il male non è egoismo ma servizio di Dio. Non ha, invece, la responsabilità dell’omissione di crimini. Sartre ha capito questo fatto meglio di gran parte dei moderni teologi morali cristiani, specialmente dei teologi morali cattolici che hanno optato per la morale teologica del conseguenzialismo, secondo cui la qualità morale di un’azione è la funzione dell’insieme delle sue probabili conseguenze collaterali, cioè lo scopo santifica il mezzo. E se persino dei vescovi chiamano in modo offensivo egoisti morali coloro che tentano di prendere sul serio l’esigenza neotestamentaria “di mantenersi immuni da questo mondo”, allora quei teologi dovrebbero forse riflettere se un determinato concetto di responsabilità non sia tanto utopico quanto ateo. «Se Dio non esiste tutto è permesso» diceva Dostoevskij. «Secondo le circostanze, e premessa la buona intenzione», aggiunge il conseguenzialista. «A noi tutto è permesso», diceva Lenin nella convinzione di sapere ciò che era meglio per tutti, e che non c’è nessun Dio che lo sappia. Il conseguenzialismo è rottura con le basi di una millenaria educazione umana. Ed è totalita29 rio, poiché eleva a signore delle coscienze di coloro che non lo sanno chi crede di sapere ciò che è meglio per tutti. 20. Se Dio c’è, che cosa succede? Succede che Dio c’è, e la fede in Lui è vera. Bella è sicuramente, ma «qui sait si la verité n’est pas triste?» (Renan). Voler sapere che cosa c’è è costitutivo per la dignità dell’uomo. Quando Sinjavskij scriveva che era ora di pensare a Dio, aggiungeva: «Non bisogna credere per antica consuetudine, non bisogna credere per paura della morte, non perché non si sa mai, non perché qualcuno ci costringe, non per un principio umanistico, e non per salvare l’anima o per essere originali. Bisogna credere per il semplice motivo che Dio esiste». Che Dio esista, è controverso. Probabilmente sì, diceva Richard Swinburne, e lo spiegava dettagliatamente. Probabilmente no, diceva John L. Mackie, e lo spiegava in modo quasi altrettanto dettagliato. Per colui che crede in Dio l’ipotesi probabile si trasforma in certezza inesorabile, perché prega. Alla lunga non si può parlare e dare ascolto seriamente e con crescente familiarità a qualcuno la cui esistenza ha lo status di un’ipotesi. E anche il non-credente non lascia la cosa in sospeso: semplicemente rinuncia all’attuazione di un tale rapporto. La storia degli argomenti in favore dell’esistenza di Dio è enorme. Ci sono sempre stati uomini che hanno cercato di assicurarsi della ragionevolezza della loro fede. Le prove dell’esistenza di Dio si possono suddividere in due gruppi. Nel primo gruppo si cerca di dedurre dal contenuto dell’idea di Dio, oppure dalla presenza di quest’ultima nella coscienza umana, la realtà di ciò che, in quest’idea, viene pensato. Anselmo di Canterbury, Descartes e Hegel sono i nomi legati a questo “argomento ontologico”. San Tommaso e Kant non ritenevano percorribile questa via. È vero che Dio, se c’è, c’è necessariamente, e la sua esistenza, contrariamente a qualsia30 si altra esistenza, è totalmente e profondamente ragionevole. Ma – questa è l’obiezione – non abbiamo nessuna idea sufficiente di ciò che intendiamo quando diciamo “Dio”, per poter giungere ad una tale certezza aprioristica. L’altro gruppo argomenta a partire dagli elementi dell’esperienza, che non sarebbero comprensibili se non indicassero qualcosa di assoluto al di là di loro stessi. Un terzo gruppo, infine, rappresentato da Pascal, Kant e William James, non porta argomenti in favore dell’esistenza di Dio, ma in favore del fatto che, di fronte a una “situazione di stallo” teoretico, per motivi “esistenziali” è più conveniente per noi credere in Dio piuttosto che non crederci – e cioè per motivi che, secondo Sinjavskij, non sono validi. 21. Dall’epoca di Hume, fino a quella più tarda di Nietzsche, l’argomento per l’esistenza di Dio si trovò in una nuova situazione. Le classiche prove dell’esistenza di Dio cercavano di mostrare che è vero che Dio c’è. Presupponevano che la verità c’è e che il mondo possiede delle strutture comprensibili, accessibili al pensiero. Queste trovano il loro fondamento nell’origine divina del mondo, ma sono direttamente accessibili a noi e per questo sono atte a condurci a questo fondamento. Questo presupposto è contestato a partire da Hume e soprattutto da Nietzsche. Nietzsche scrive che «anche noi illuministi, noi liberi spiriti del XIX secolo, prendiamo ancora il nostro fuoco dalla fede cristiana (che era anche la fede di Platone) che Dio sia la verità, e che la verità sia divina». Ma proprio questo pensiero è una auto-illusione, per Nietzsche. Non c’è verità. Ci sono soltanto reazioni utili o dannose. «Non dobbiamo illuderci che il mondo ci mostri un volto leggibile», dicono Foucault e Richard Rorty: «Un obbiettivo più elevato di ricerca chiamato verità esisterebbe soltanto se ci fosse qualcosa come un’ultima giustificazione, cioè non una giustificazione di fronte a un uditorio pura31 mente finito di ascoltatori umani, ma una giustificazione di fronte a Dio». Con il venir meno dell’idea di Dio viene meno anche quella di un mondo vero, con il venir meno dell’intellectus archetypus anche la “cosa in sé” – per Kant ciò che è, è tale per l’intellectus archetypus. Rorty sostituisce la conoscenza con la speranza in un mondo migliore, dove non si può neanche più dire in che cosa questa dovrebbe consistere e in che cosa dovrebbe consistere l’adeguatezza dei mezzi adatti allo scopo. Almeno su questo, infatti, le affermazioni dovrebbero cercare di essere vere. 22. In questa situazione, perciò, gli argomenti per pensare l’assoluto come Dio possono essere soltanto argomenti ad hominem. Non partono da premesse indiscutibili per giungere a conclusioni altrettanto indiscutibili. Sono olistici. Mostrano la mutua interdipendenza della convinzione dell’esistenza di Dio e della capacità di verità, cioè l’essere persona dell’uomo, e cercano, al contempo, la conferma per entrambe – al contrario della dialettica di naturalismo e spiritualismo che oggi segna la nostra civiltà. In essa la potenza dominante è un soggetto astratto, trascendentale, denominato “scienza”, che da una parte sembra essere indipendente da tutte le condizioni naturali, biologiche e fisiche. Essa riduce il mondo a una oggettività priva di soggetto. Essa ci spiega cosa siamo come uomini nel momento in cui ci spiega come siamo stati originati. Sotto questo aspetto, il vero e il bene non sono altro che reazioni in funzione della sopravvivenza. Le cosiddette conoscenze non sono rappresentazioni di ciò che viene conosciuto, ma effetti causali di qualcosa che appunto non viene conosciuto. Da cui segue che anche tutte le idee di autodeterminazione personale sono autoinganno. Ma neanche questo potremmo “sapere”, se così fosse. Se Dio c’è, è diverso. In questo caso una spiegazione “naturale” non si identifica con una spiegazione riduzionistica, 32 poiché la natura deve se stessa a una libertà inimmaginabile e, nella produzione di esseri liberi, capaci di libertà e di intendere e volere, ritorna semplicemente a ciò che essa in origine è. Se Dio c’è noi possiamo essere ciò che non possiamo fare a meno di considerarci: persone. Se questo non lo vogliamo, non c’è alcun argomento che possa convincerci dell’esistenza di Dio. Anche se lo vogliamo, non c’è comunque alcun obbligo a credere in Dio. Ci resta sempre l’alternativa di rinunciare a comprendere, cioè di rinunciare ad armonizzare quello che noi stessi sperimentiamo di essere con quello che la scienza dice di noi. Possiamo subito lasciar perdere l’ermeneutica e la storia naturale. Ci resta sempre la possibilità della rassegnazione intellettuale: Mi sono domandato spesso, e non ho trovato risposta, da dove vengano la mitezza e la bontà. Ancora non lo so e ora devo andare. (Gottfried Benn) 23. Con il venir meno del pensiero della verità viene meno anche il pensiero della realtà. Il nostro dire e pensare ciò che è, è strutturato in forma inevitabilmente temporale. Non possiamo pensare qualcosa come reale senza pensarla nel presente, cioè come reale adesso, o che sia stata a suo tempo presente, che a suo tempo sia stata “adesso”. Qualcosa che sia sempre stata soltanto passato, o che sarà soltanto futuro, mai c’è stata e mai sarà. Ugualmente: ciò che è adesso, un tempo era futuro e sarà a suo tempo passato. Il futurum exactum (futuro anteriore) è inseparabile dal presente. Dire di un evento del presente che 33 non ci sarà più stato, significa dire che in realtà non è neppure ora. In questo senso tutto il reale è eterno. Non potrà esserci un momento in cui non sarà più vero che qualcuno ha provato un dolore o una gioia che prova adesso. E questa realtà passata prescinde assolutamente dal fatto che ce la ricordiamo. La coscienza attuale di ciò che adesso è, o implica la coscienza che in futuro questo diventerà passato, oppure cancella se stessa. Ma qual è lo status ontologico di questo diventare passato se tutte le tracce saranno cancellate, se l’universo non ci sarà più? Il passato è sempre il passato di un presente. Che ne sarà del passato se non ci sarà più alcun presente? L’inevitabilità del futurum exactum implica l’inevitabilità di pensare un “luogo” dove tutto ciò che accade è per sempre custodito. Altrimenti dobbiamo accettare il pensiero assurdo che non ci sarà più stato ciò che è adesso, e di conseguenza che non è reale neppure adesso. La totale virtualizzazione del mondo rende superflua l’esistenza di Dio. Se vogliamo pensare il reale come reale dobbiamo pensare Dio. «Temo che non ci libereremo di Dio fintantoché crederemo alla grammatica», scrive Nietzsche. Ed egli avrebbe anche potuto aggiungere: «... fintantoché continueremo a pensarci come reali». Un argumentum ad hominem. Ma Leibniz, che capiva qualcosa di teoria della prova, scrisse che ogni prova in realtà è un argumentum ad hominem. 34