ARISTOTELE La vita Nasce nel 384 a.C.a Stagira, una piccola città distante parecchi chilometri da Atene, non lontana dalla Macedonia. Suo padre, Nicomaco, svolge la sua professione di medico presso la corte del re macedone Aminta. Insomma, Aristotele nasce in un contesto radicalmente diverso rispetto a quello ateniese, di periferia, dove forte è l'influenza della vicina potenza macedone. E tuttavia, giovanissimo, si reca ad Atene: è il 367. Il suo obiettivo è di entrare nell'Accademia di Platone. Ben presto lo troviamo proprio al fianco del maestro, sicuramente come uno dei suoi discepoli più brillanti, e vi rimane fino alla sua morte. Nonostante abbia passato venti anni della sua vita in Accademia, scomparso Platone, Aristotele decide di abbandonarla. Perché? Difficile dare una risposta certa. Non è da escludere che Aristotele sia rimasto scottato dalla decisione presa da Platone di nominarlo suo erede alla guida della scuola. Ma forse non è l'unico motivo, come dimostra il fatto che Aristotele decide di abbandonare anche la città di Atene, che per venti anni è stata la sua città, nonostante le sue origini e la sua vicinanza (non solo geografica) al potente e minaccioso vicino. Aristotele inizia un lungo peregrinare, che lo porta prima in Asia Minore, ospite del tiranno Atarneo Ermia, quindi ad Asso e infine nell'isola di Lesbo. Aristotele mette in luce ovunque le sue eccezionali doti intellettuali, creandosi una prima schiera di seguaci, tra cui Teofrasto, presto diventerà il primo dei suoi discepoli. Nel 343 viene chiamato dal re macedone Filippo come precettore del figlio Alessandro, il futuro “Magno”. Vi rimane quasi dieci anni, un lungo periodo in cui Alessandro gradualmente si avvicina alla cultura greca. Ma i tempi sono cambiati e la grandezza culturale della Grecia non va più di pari passi con la sua forza militare. Al contrario, sono proprio i macedoni a occupare Atene e tutta la penisola greca. L'età d'oro delle poleis è finita. È il 335 quando Aristotele, conclusa la sua missione presso la corte macedone, fa ritorno ad Atene, per fondarvi una sua scuola, il Liceo (in onore del dio Apollo Licio, il cui tempio sorge poco lontano), presto denominato “Peripato”, dal greco peripatos (passeggiata), in quanto dotata di un ampio percorso in cui il maestro e i suoi allievi (i “peripatetici”) erano soliti fare lezione, passeggiando appunto. Il Liceo è una scuola molto diversa dall'Accademia. Quella di Platone, infatti, era una vera e propria scuola di quadri politici, dove gli allievi vivevano in comune, sperimentando sul campo quell'ideale di giustizia da sempre perseguita dal loro maestro. Il Liceo, invece, è un centro di studio e di ricerca, dove non si fa politica, ma al limite la si studia, e che, alla fine delle lezioni, si svuota completamente. Per Aristotele sono giorni di gloria: la sua scuola ha un enorme successo, che presto mette in ombra l'Accademia platonica, decisamente in crisi dopo la morte del maestro. E tuttavia la fortuna gli gira presto le spalle: nel 323 muore l'imperatore Alessandro,e ad Atene si rafforza il partito antimacedone, che ha sempre considerato Aristotele un nemico. E quando viene accusato di empietà, Aristotele è costretto alla fuga, dopo avere affidato la guida della scuola a Teofrasto. Si reca a Calcide ormai provato nel fisico. Si spegne poco dopo, nel 322, a 62 anni. Le opere Gli scritti di Aristotele sono solitamente divisi in due gruppi: gli scritti essoterici (dal greco èxo, che significa “fuori”), destinati alla libera circolazione al di fuori della scuola, e quelli esoterici (èso, che significa “dentro”), che contengono gli appunti redatti dal maestro per le sue lezioni. La prima lista delle opere risale al III secolo a.C.. Si tratta probabilmente del catalogo di una grande biblioteca antica (quella di Alessandria o quella Liceo di Atene, non è stato mai chiarito), ma il fatto strano è che non corrisponde a nessuno degli scritti a noi noti. La cosa più probabile è che questa lista contenesse soprattutto gli scritti andati perduti. Le opere che ci sono pervenute, invece, sono state raccolte e sistemate da Andronico di Rodi, un filosofo aristotelico del I secolo a. C.. Fino a quella data erano soprattutto gli scritti essoterici ad essere maggiormente conosciuti. Con Andronico, la situazione si inverte. Tra le opere essoteriche, forse solo il Protrettico, una esortazione alla filosofia, è completo. Il fatto è che queste opere, essendo destinate ad un pubblico esterno alla scuola, danno per scontato diversi fattori, quelli che chi non vive l'epoca in cui Aristotele scrive non può comprendere appieno. Tuttavia, nel complesso tratta di opere che non mostrano quella rottura con Platone che diventa invece palese con le opere esoteriche. E sono proprio queste ultime ad essere raccolte e divise da Andronico in cinque gruppi: 1) Logica; 2) Fisica; 3) Metafisica (letteralmente “ciò che viene dopo la fisica”. Per Aristotele invece si tratta di Filosofia Prima; Morale e Politica. Il pensiero di Aristotele e quello di Platone Non sono poche le differenze tra Aristotele e Platone. Innanzitutto, Aristotele appartiene alla generazione successiva a quella di Platone e non nasce ad Atene, ma in una piccola città al confine della Macedonia, dove il peso delle libertà politiche è infinitamente inferiore a quello che si riscontra in Atene. Questi due elementi hanno sicuramente influito sul pensiero di Aristotele. Al tempo di Aristotele, infatti, la crisi non solo di Atene ma di tutte le poleis greche è ormai inarrestabile. È la Macedonia la forza regionale egemone, destinata ad occupare gran parte del mondo allora conosciuto, compresa naturalmente la vicina Grecia. Tramonta l'autonomia delle poleis e il peso che la politica aveva sui suoi cittadini. Le decisioni vengono prese altrove, in Macedonia, che è tutt'altro che una polis: è un immenso impero. E a guidare questo impero è proprio Alessandro, educato sin da giovane da Aristotele. La vittoria macedone, la conquista della Grecia, facilita il ritorno di Aristotele nella città che lo ospitò per venti anni, tutti passati al fianco di Platone. Ma le differenze, anche caratteriali, tra i due filosofi sono davvero troppe. Aristotele non risparmierà anche dure critiche al maestro, attirandosi l'ira di non pochi contemporanei, che lo accusano di essere un ingrato. A tutti questi risponde con una massima passata alla storia: “amicus Plato, sed magis amica veritas”. Raffaello, in uno dei suoi dipinti più famosi, La Scuola di Atene, mette ben in evidenza le differenze tra i due filosofi: Platone ed Aristotele sono al centro della scena (sullo sfondo gli altri filosofi dell'antichità, tra cui l'oscuro Eraclito) ed avanzano insieme. Ma mentre il primo indica il cielo con il dito, Aristotele con la mano mostra il piano. Due punti di vista inconciliabili dunque. E infatti: il maestro ateniese ritiene che le verità risiedano oltre il cielo, l'Iperuranio, mentre per Aristotele occorre cercarle proprio in questo mondo. Lo stagirita di certo non rinuncia alla ricerca speculativa, ma rimane, per così dire, sempre con i piedi ben piantati a terra. È un ricercatore (come lo era suo padre, un medico), nel senso moderno del termine, che compie esperimenti di laboratorio, non mancando tuttavia di offrire ai lettori una spiegazione il più possibile universale della realtà. Non esistono misteri in questo mondo e anche i problemi più complessi possono trovare una soluzione razionale. È la ragione, dunque, il perno di tutta la speculazione aristotelica, come lo era, anche se attraverso altre vie, per Platone. E tuttavia Aristotele sostiene l'identità di pensiero e linguaggio e dunque la validità della scrittura, totalmente screditata, nonostante le sue capacità letterarie, da Platone. LE CATEGORIE La dialettica era per Platone l'unico metodo valido per conseguire la conoscenza della realtà vera, da cui dipendeva tutto il suo progetto etico e politico. Trattandosi sostanzialmente di una arte della persuasione, la dialettica necessitava per gli accademici di un metodo corretto di argomentare. Ed è probabile che proprio ad Aristotele Platone abbia affidato l'incarico di trovare tale metodo. Insomma, lo stagirita si è occupato della dialettica non tanto nei suoi aspetti ontologici quanto soprattutto linguistici e questo studio ha influenzato profondamente la sua filosofia e probabilmente determinato la rottura con tutto l'ambiente platonico. E tuttavia l'esistenza dei due piani della dialettica era presenta anche in Platone. Quando, per esempio, si dice che l'idea della Quiete partecipa dell'idea dell'Identico ma non dell'idea del Moto, si vuole affermare che sul piano del linguaggio la Quiete può essere detta identica (se ne può predicare cioè l'identità) ma non può essere detta in moto (non se ne può predicare il moto). Ora, sapere distinguere i rapporti di predicazione corretti da quelli scorretti è il primo passo per imparare a costruire ragionamenti veritieri e dunque persuasivi. Ed è proprio a questo lavoro che il giovane Aristotele si dedica nei primi anni della sua presenza ad Atene. Egli va alla ricerca delle possibili connessioni dialettiche, che chiama “categorie”, cioè predicati. La parola greca categoria rimanda al verbo kategorèo, frutto della composizione della preposizione katà con il verbo agorèuo. Katà ha diversi significati, che tuttavia si riconnettono tutti all'idea di un moto, reale o figurato, in direzione di un certo obiettivo: “verso”, “contro” eccetera. Per cui, poiché agorèuo significa “parlare”, kategorèo significa “dire male di qualcuno”, vuoi semplicemente per biasimarlo, vuoi per accusarlo in un contesto pubblico. Non a caso il sostantivo katègoros significa “accusatore”. E tuttavia, se si elimina questa sfumatura negativa, il termine katègoreo significa semplicemente “dire” verso o in relazione a qualcuno o qualche cosa. Ecco perché categoria si può tradurre in italiano come “predicato”: predicare, nella sua accezione grammaticale, significa proprio dire qualcosa di qualcosa d'altro. Ma la sfumatura ostile di katà non è andata perduta del tutto, come dimostra il termine “accusativo” che ancora oggi designa uno dei casi contemplati dalle lingue declinabili. Le categorie, dunque, hanno un evidente rapporto con le asserzioni, sui quali si fondano i ragionamenti. Categoria è infatti “ogni termine detto senza connessione”, come per esempio “uomo,” “animale”, “rosso”, “corre”, “in casa” eccetera. Poiché le proposizioni nascono unendo questi termini, per esempio “uomo corre”, “cane abbaia” eccetera, la prima cosa che deve analizzare chi vuole studiare le proposizioni sono proprio questi termini semplici: le categorie. La prima cosa che si nota è che si tratta di “universali”, non indicando alcunché di preciso, non, per esempio, un tale tipo di uomo o di cane. Si tratta grosso modo dei medesimi “concetti universali” di cui parlava Platone, e tuttavia Aristotele nota come questi si differenzino non solo per l'ampiezza ma anche per la qualità. Chiariamo meglio la questione. Prendiamo per esempio i due universali di “animale” e “uomo”. È evidente la differenza di ampiezza: il primo è più esteso del secondo e lo contiene come sua specie: tutti gli uomini sono animali ma non tutti gli animali sono uomini. Ma termini o espressioni come “uomo”, “corre”, “rosso”, “in casa” eccetera presentano anche diversità qualitative: “uomo” è una cosa o una sostanza, mentre “rosso” una qualità, “corre” una azione, “in casa” un luogo eccetera. Ebbene, sostanza, qualità, azione, luogo, quantità eccetera sono altrettante categorie. Secondo Aristotele esistono ben dieci categorie: sostanza, quantità, qualità, relazione, luogo, tempo, stare, avere, agire, patire. Qualunque termine senza connessione deve appartenere ad una di queste categorie. A ciascuna categoria è associata una diversa domanda. Per esempio, la sostanza risponde alla fondamentale domanda “che cosa?”, la quantità alla domanda “quanto?”, la qualità alla domanda “come?” eccetera. Le dieci categorie vengono denominati anche predicati universali. Torniamo però alla questione del rapporto tra “animale” e “uomo”. Entrambi appartengono alla categoria di “sostanza”, la quale chiede molto semplicemente: “che cos'è?”. La risposta, in questo cosa, è “o un uomo o un animale”. Ma i due termini, come si è detto, hanno diversa ampiezza. Ebbene, per Aristotele il termine più ampio è il genere mentre quello meno ampio la specie: “l'uomo è una specie del genere animale”. Ecco la prima distinzione, il primo passo da compiere per rispondere alla domanda sulla sostanza. Ma l'analisi non si ferma certo qui. Ci sono, per esempio, specie dell'uomo, come gli indoeuropei, gli asiatici eccetera, in relazioni alle quali il termine “uomo”, che era specie di animale, diventa genere; così come ci sono generi dell'animale, come “essere vivente”, in relazione ai quali il termine animale, che era genere di uomo, diventa specie. Si crea in tal modo una colonna di termini ordinati dal meno generale al più generale, che stanno l'uno all'altro in rapporto relativo di genere e specie. In cima a questa colonna sta il termine provvisto di massima generalità, la sostanza appunto. Non esistono termini più universali delle categorie: non è possibile cioè trovare un concetto universale che colga una caratteristica comune di tutte le categorie nello stesso modo in cui il termine “qualità” coglie la caratteristica comune di tutte le qualità. A dire il vero, però, un termine più generale ci sarebbe, quello di “essere”, ma Aristotele scarta questa possibilità: l'essere non è affatto un genere. Perché? Qui il discorso si fa decisamente più complesso e tuttavia è anche facilmente intuibile: termini come i generi e le specie hanno la loro ragione d'essere nel fatto che significano qualche cosa di determinata (dicono cioè di che genere o specie è una certa cosa). Se un termine è sprovvisto di tale capacità non può evidentemente rappresentare un genere. Ed è questo il caso del termine (generico) “essere”. Pertanto le categorie indicano differenze originarie e irriducibili. Ben inteso, tali differenze riguardano non solo il modo in cui noi parliamo delle cose, ma anche il modo in cui esse realmente sono: le categorie individuano le caratteristiche originarie della realtà. Aristotele sostiene una sostanziale omogeneità tra il mondo reale e i modi in cui gli enti provvisti di pensiero e linguaggio lo nominano e lo descrivono. Questo naturalmente non significa che ogni pensiero o discorso sia sempre vero, bensì che ogni errore può, in linea di principio, essere corretto, perché tra la realtà delle cose e le nostre facoltà conoscitive non esistono ostacoli naturali. Analizzando le varie categorie, Aristotele si accorge successivamente di un'altra importante caratteristica: la categoria della sostanza è in più modi prioritaria rispetto alle altre. Ma che cosa significa “sostanza”? Il termine deriva dal latino substantia, “ciò che sta sotto”, “sostrato”. Aristotele però parla più precisamente di ousìa, un termine greco che rimanda ad un significato meno complesso e che fa riferimento ai bei materiali, alle ricchezze, dunque che possiede una certa consistenza. E tuttavia già con Platone il termine designa la vera realtà delle cose. Con Aristotele questo termine subisce un'ulteriore modifica, presentandosi come essenza ovvero come quella cosa che permane nonostante tutte le sue possibili trasformazioni. Ecco allora spiegata la sua priorità rispetto a tutte le altre categorie. Rimanendo sul piano linguistico, se voglio costruire una frase dotata di senso devo per forza ricorrere ad un soggetto. Posso affermare che “l'uomo corre”, non che “rosso corre”. In questo caso la sostanza è il soggetto, ciò che dà senso alla frase. Dunque la sostanza sorregge tutte le altre categorie, che si presentano come suoi predicati. Passando al piano della realtà, le sostanze sono le cose che possono esistere di per sé, mentre le altre categorie sono solamente suoi attributi o, come le chiama Aristotele, accidenti. L'uomo, dunque, esiste di per sé, mentre il bianco solo come eventualmente sua qualità. La sostanza è essenza, sostrato o, meglio ancora, ciò che permane nonostante tutte le possibili trasformazioni di una determinata cosa. Essere bianchi, neri o rossi di pelle non modifica l'essere umano di un soggetto. E tuttavia anche la categoria della sostanza ha una sua complessità. Se, infatti, scendiamo nella colonna dei generi e delle specie, cioè verso il particolare, quale è il predicato ultimo che incontriamo? Troveremo un termine che non è più generale, ma che nomina un particolare individuo, per esempio “Socrate”. Ebbene, questo tipo particolarissimo di termine è l'unico che possa presentarsi sempre come soggetto e mai come predicato, mentre “uomo” può essere sia soggetto, per esempio “l'uomo è animale”, sia predicato, “Socrate è uomo”; non ha invece senso dire “uomo è Socrate”. Ora, se la priorità della sostanza rispetto a tutte le altre categorie era data dal fatto che questa è soggetto, il fatto che la sostanza individuale, cioè “Socrate”, sia “più soggetto” della sostanza universale fonda la sua priorità nei confronti proprio di quest'ultima: infatti Aristotele chiama la sostanza individuale (“Socrate”, “Platone” eccetera) sostanza prima e la sostanza universale (“uomo”) sostanza seconda. Se si passa ancora una volta sul piano della realtà, ne consegue che la sostanza esiste, per così dire, a maggior diritto delle altre categorie, ma che ciò vale anche per la sostanza prima nei confronti di quella seconda: qualora non esistessero sostanze individuali, come Socrate, non esisterebbero né gli attributi interni alla categoria della sostanza (“uomo”, “animale” eccetera) né quelli esterni (“bianco”, “alto” eccetera). Dunque, l'aspetto saliente della realtà da cui dipende tutto ciò che a vario titolo può essere detto reale è l'ente individuale e questo rappresenta un salto notevole rispetto alla visione totalizzante della filosofia di Platone, dove l'individuo scompariva davanti all'intero, come per esempio nello Stato ideale della Repubblica. È dunque proprio a partire dallo studio della dialettica platonica, nel tentativo di definirla nei suoi aspetti linguistici, che si consuma la rottura tra Aristotele e Platone. Per quest'ultimo, infatti, l'aspetto determinante della realtà è dato dagli enti universali, cioè dalle idee, non da quelli individuali: le cose sensibili sono quello che sono, sia pure in modo imperfetto, nella misura in cui partecipano delle idee, che costituiscono la loro causa. Aristotele concorda nel ritenere gli universali come unici oggetti della conoscenza intellettiva, ma questi esistono solamente come attributi delle cose individuali e non viceversa. Dunque l'errore di Platone – sostiene Aristotele – sta nell'avere dedotto dal principio ineccepibile secondo cui la vera conoscenza è quella dell'universale la conseguenza erronea che ciò debba comportare l'esistenza dell'universale come oggetto indipendente e superiore agli enti particolari, rovesciando il corretto ordine delle cose. Ben inteso, anche per Aristotele la struttura piramidale va dal particolare all'universale, dal molteplice all'unitario e tuttavia il processo di unificazione non supera mai le categorie: non esiste cioè il genere dell'essere. Per Platone, al contrario, il processo è completo e porta ad un termine unitario e supremo come l'idea del Bene. Aggiungendo che per Platone ciò che è uno e universale è essere a maggior titolo di ciò che è particolare e molteplice, ne consegue che l'essere vero è uno e dunque l'esistenza del molteplice, che è meno essere dell'uno, si può spiegare solo introducendo il nonoessere come causa, il che è assurdo, perché il non-essere non può essere causa di nulla, come giustamente sostiene Aristotele. La critica dello stagirita al maestro è, come si può notare, serrata e giunge al culmine con il famoso argomento del terzo uomo. Perché Platone afferma che esistono le idee? Perché nota somiglianze tra certe cose sensibili, ad esempio tra le cose belle, e ne deduce l'esistenza dell'idea della Bellezza. Ma se l'idea della Bellezza esiste proprio come un oggetto, anch'essa sarà una “cosa bella”. Si crea cioè, secondo Aristotele, un nuovo insieme di “cose belle”, comprendente sia le cose belle sensibili sia quella “cosa bella” che è l'idea stessa della Bellezza. Ma se questo è vero – e logicamente lo è – allora è necessario porre una terza bellezza (o una seconda idea di bellezza) per rendere ragione della qualità della bellezza stessa, che è patrimonio comune delle cose belle sensibili e della (prima) idea di Bellezza e così all'infinito. Il discorso aristotelico culmina nella teoria della conoscenza. L'uomo come conosce quello che circonda? Anche qui il salto rispetto a Platone è notevole. Lo stagirita sostiene infatti che tutto abbia inizio con i sensi: sono loro a cogliere l'oggetto, trasmettendo un flusso di informazioni al cervello. E tuttavia la conoscenza è per Aristotele sempre dell'universale e mai del particolare: occorre di conseguenza cogliere la vera essenza delle cose, spogliare l'oggetto dei suoi aspetti accessori, dei suoi “accidenti” per giungere all'universale. Che una determinata persona decida di colorarsi i capelli di rosso o di azzurro, non ne cambia la sostanza. Nemmeno se, malauguratamente, dovesse perdere una gamba o la vista. Ciò che fa di quella persona un soggetto unico tra quelli della sua specie (quello degli esseri umani, che, in quanto tali, possiedono la ragione) sarà un determinato carattere, una determinata personalità, taluni particolari che lo rendono, appunto, unico. Partendo dalle considerazioni più generali, cioè, si vanno gradualmente eliminando gli accidenti fino a giungere all'individuo concreto, alla sostanza prima. Il processo di “espoliazione” non è affatto figurato. Se vogliamo individuare cosa fa di un uomo un uomo e di una donna una donna, dobbiamo letteralmente spogliarli fino a metterne in luce i loro organi genitali (e, per Aristotele, come vedremo, anche il loro potenziale produttivo). LA LOGICA Aristotele distingue le scienze in tre grandi gruppi: 1) Scienze teoretiche, che hanno per fine la conoscenza e cioè Fisica, Filosofia Prima e Matematica; 2) Scienze pratiche, che hanno per fine l'azione e cioè Etica e Politica; 3) Scienze Poietiche o produttive, che hanno per fine il produrre e cioè Poetica, Retorica e tutte le tecniche artigianali. Come si vede, non compare la Logica. Come è possibile che il filosofo che viene universalmente riconosciuto come il creatore della Logica non consideri questa una scienza? Il fatto è che per Aristotele la scienza si rivolge a qualche cosa, a un determinato genere di realtà, mentre la Logica non si rivolge a nulla, ma studia, in via preliminare, i metodi e gli strumenti di cui le scienze si servono nel loro lavoro. Di qui il titolo di Organon, ossia “strumento”, che è stato attribuito all'insieme degli scritti di logica. Insomma, la logica non è scienza poiché è la condizione di ogni scienza possibile. Della Logica fa parte anche la teoria delle Categorie, cioè lo studio degli elementi primi di un discorso. Il passo successivo è costituito dallo studio delle proposizioni, i cui termini sono connessi tra loro. Non tutte le proposizioni interessano la scienza, ma solamente le cosiddette asserzioni, cioè quelle che affermano o negano un certo stato di cose e che dunque possono essere solamente o vere o false. Le proposizioni non assertorie, come le domande, le preghiere, le esortazioni, non sono soggette a tale criterio di verità/falsità e dunque non interessano la logica (e quindi nemmeno la scienza). Le asserzioni si distinguono in base al duplice criterio della qualità e della quantità. Secondo la qualità le asserzioni possono essere affermative o negative; secondo la quantità possono essere universali (“tutti gli uomini sono mortali”), particolari (“qualche uomo è greco”), singolari (“Socrate è mortale”). Ma le asserzioni singolari non interessano la scienza poiché non esiste scienza degli enti individuali. Combinando i due criteri suddetti si originano dunque quattro tipi diversi di proposizioni: universale affermativa (UA: “tutti gli uomini sono mortali”), universale negativa (UN: “nessun uomo è mortale”), particolare affermativa (PA: “qualche uomo è greco”), particolare negativa (PN: “qualche uomo non è greco”). Aristotele ha determinato le relazioni che sussistono tra questi quattro generi di proposizioni, che verranno successivamente schematizzate dalla logica medievale mediante il cosiddetto “quadrato degli opposti”: UA UN CONTRARIE possono essere entrambe false; non possono essere entrambe vere S U B O R D I N A T A PA CONTRADDITORIE se UN è falsa PA è vera e viceversa; se UA è falsa PN è vera e viceversa S U B O R D I N A T A CONTRARIE possono essere entrambe vere; non possono essere entrambe false PN Rapporto di contraddizione: se è vero che “tutti gli uomini sono mortali” (UA) allora è necessariamente falso che “qualche uomo non sia mortale” (PN); se è vero che “tutti gli uomini non sono immortali” (UN) allora è necessariamente falso che “qualche uomo è immortale”. Rapporto di contrarietà: “tutti gli uomini sono mortali” (UA); “tutti gli uomini non sono mortali”: possono essere entrambe false, ma non tutte e due vere; “qualche uomo è mortale” (PA); “qualche uomo non è mortale” (PN): possono essere entrambe vere, ma non entrambe false Rapporto di subordinazione: nell'affermazione “tutti gli uomini sono mortali” (UA) è compresa l'affermazione “qualche uomo è mortale” (PA); nell'affermazione “tutti gli uomini non sono immortali” (UN) è compresa l'affermazione “qualche uomo non è mortale” (PN). La combinazione di più proposizioni in una argomentazione dà vita al sillogismo (dal greco syn, “con”, e logismòs, “calcolo”, “ragionamento”): si tratta di un ragionamento in cui, date alcune premesse, ne consegue con forza di necessità una conclusione, nella forma di una proposizione assertoria. Il sillogismo-tipo studiato da Aristotele ha sempre due premesse, l'una chiamata premessa maggiore e l'altra premessa minore. Le proposizioni a loro volta sono composte di termini, che nel sillogismo formato da due premesse sono tre: soggetto, predicato e termine medio. Quest'ultimo, di fondamentale importanza nella logica aristotelica, compare nelle premesse ma scompare nella conclusione: è il mezzo mediante il quale il soggetto e il predicato vengono collegati per dare origine all'asserzione conclusiva, come avviene nell'esempio che segue: Tutti gli uomini sono animali Tutti i greci sono uomini Tutti i greci sono animali Il termine “greci” è il soggetto, il termine “animali” è il predicato, mentre il termine medio è “uomini”. Aristotele distingue i sillogismi in tre figure, in base al fatto che il termine medio nelle due premesse sia soggetto o predicato. L'esempio precedente è un sillogismo di prima figura in cui il termine medio è soggetto nella premessa maggiore e predicato in quella minore. Nel sillogismo di seconda figura, invece, il termine medio è predicato in entrambe le premesse, mentre nel sillogismo di terza figura è in entrambe le premesse soggetto. La validità di un sillogismo dipende dalla natura delle sue premesse. Nell'esempio precedente sia le premesse sia le conclusioni sono proposizioni universali affermative. Quello che segue, invece, è di natura ben diversa: Qualche uomo è pittore qualche uomo è greco qualche greco è pittore Si tratta di un sillogismo non valido, anche se le proposizioni sono vere. Infatti, è logicamente possibile che nel gruppo particolare di uomini che sanno dipingere non sia compreso alcun greco. E tuttavia il fatto che il sillogismo sia valido non significa ancora che le sue conclusioni siano vere. Se le premesse sono false, infatti, il ragionamento risulterà necessariamente sbagliato. Occorre di conseguenza distinguere tra la correttezza formale e la verità del contenuto di un sillogismo. Aristotele afferma che il sillogismo è scientifico (o deduttivo) solo quando si basa su premesse, ossia su asserzioni riguardo alla natura delle cose vere e prime. Vere e prime sono quelle proposizioni le quali, in rapporto alle loro conseguenti, sono più universali e al tempo stesso necessarie, perché ne individuano la causa. Quando diciamo, per esempio, che “il bosco è bagnato perché ha piovuto”, indichiamo al tempo stesso un rapporto causale tra due eventi e un rapporto di implicazione tra due proposizioni (la proposizione “ha piovuto” è prima in rapporto alla proposizione “il bosco è bagnato”). E tuttavia il problema è come trovare le premesse prime. Non aiuta certo ricavarle da un altro sillogismo, perché dovremmo dimostrare di nuovo la verità delle sue premesse, innescando così un rimando all'infinito, uno sterile processo circolare. Occorrono invece dei principi, i quali si dividono in principi propri di ciascuna scienza e principi comuni a tutte le scienze o a più di una scienza (assiomi). I primi sono ipotesi e definizioni. Le ipotesi costituiscono l'affermazione dell'esistenza degli oggetti di cui una scienza si occupa. Per tale motivo non fanno parte della scienza vera e propria, ma si ricavano dall'evidenza. Ad esempio, l'ipotesi da cui parte la fisica è che esistano sostanze mobili, ma la fisica prende questo dato dall'esperienza, non ha il compito di dimostrarlo. Molto più importanti le definizioni, come per esempio “l'uomo è animale razionale”. La definizione dice che cosa un oggetto veramente è, ossia la sua essenza, menzionando il genere prossimo in cui esso rientra e poi la differenza che lo distingue dalle altre specie appartenenti al medesimo genere: “l'uomo è animale (genere prossimo) razionale (differenza specifica)”. Tanto il genere quanto la differenza specifica, così come il soggetto da definire, sono termini universali. Ma poiché per Aristotele gli universali non esistono separatamente dalla realtà sensibile, quale è il procedimento mediante il quale la mente umana perviene ad isolarli e a riconoscerli? L'induzione. Si dice induzione qualunque processo che muova dal particolare verso l'universale. Tutti gli animali sono dotati di sensazione e alcuni possiedono anche la memoria. Ma mentre gli animali hanno solamente i ricordi singoli e disorganici, gli uomini sono in grado di accumulare molti ricordi della stessa cosa per costituire l'esperienza, la quale, a sua volta, è la base per la nascita del concetto universale. Se, per esempio, ho avuto più volte la sensazione del “rosso”, la memoria mi permette di conservare e unificare questi ricordi in un unico concetto, il “colore rosso” appunto. Le definizioni, dunque, dovrebbero rappresentare le premesse della scienza, mentre il sillogismo la sua esecuzione. E tuttavia Aristotele non procede in questo modo. Egli usa regolarmente non già il sillogismo scientifico ma il sillogismo dialettico, che, a differenza del primo, si fonda su premesse non vere e prime ma solamente probabili: gli èndoxa. Con questo termine lo stagirita indica le opinioni già espresse da altri uomini che meritano di essere prese in considerazione o perché largamente sostenute o perché accolte dalle persone più autorevoli. La ragione che spinge Aristotele a sostenere questo tipo di ragionamento, in luogo di quello scientifico, dipende probabilmente dal fatto che all'atto pratico è davvero impossibile reperire premesse che siano davvero vere e prime. Questo è il limite della deduzione, che si ripercuote su tutto il metodo induttivo. Se possediamo premesse assolutamente vere, potremmo ricavarne deduttivamente delle conclusioni da esse implicati, che arricchirebbero la nostra conoscenza della realtà. Poiché, viceversa, ciò non accade, siamo costretti a dipendere totalmente dall'esperienza. E tuttavia l'esperienza per Aristotele è rappresentata da tutto il materiale già raccolto ed elaborato in forma di proposizioni particolarmente autorevoli, gli èndoxa appunto. Ma torniamo ai sillogismi. È possibile raffigurarli graficamente (come in figura 1) tenendo sempre ben presente che esistono solo quattro tipi di proposizioni valide e cioè: Universale affermativa (A) “Tutti i P sono Q” (“Ogni P è Q”) Universale negativa (E) “Tutti i P non sono Q” (“Nessun P è Q”) Particolare affermativa (I) “Qualche P è Q” (“Esiste un P che è Q”) Particolare negativa (O)“Qualche P non è Q”(“Esiste un P che non è Q”) Negli ultimi due ultimi casi si sono evidenziati con dei punti neri alcuni elementi che appartengono agli insiemi. Va infatti tenuto presente che, in generale, può anche verificarsi il caso in cui l’insieme dei P o l’insieme dei Q (o entrambi) risultino vuoti (può infatti non esserci alcun individuo che verifica la proprietà P o la proprietà Q). Definizione 1: Un sillogismo è un’inferenza costituita da due premesse e una conclusione le quali sono tutte e tre proposizioni di uno dei quattro tipi evidenziati in precedenza. Le due premesse devono avere una proprietà in comune e nella conclusione figurano le altre due proprietà presenti nelle premesse. Un esempio di sillogismo in cui le premesse e la conclusione sono tutte e tre universali affermative è il seguente: Tutti i liguri sono italiani Tutti gli italiani sono europei Tutti i liguri sono europei Qui intervengono tre proprietà (“essere ligure”, “essere italiano”, “essere europeo”, che indichiamo con P, Q, R rispettivamente) di cui una (“essere italiano”), detta termine medio, è comune alla due premesse e le altre due intervengono ciascuna in una sola delle due premesse e nella conclusione (anche nel seguito indicheremo Q la proprietà comune alle due premesse e P e R le altre due, che figurano nella conclusione). Un sillogismo è corretto se e solo se la conclusione è conseguenza logica delle premesse, ossia se la verità delle premesse implica quella della conclusione (non può darsi il caso che le premesse siano vere e la conclusione falsa). La correttezza del sillogismo può essere dimostrata utilizzando ancora una volta i diagrammi. Rappresentiamo in uno stesso diagramma gli insiemi P, Q, R dei liguri, degli italiani e degli europei in modo che siano verificate le premesse (ossia con l’insieme P contenuto nell’insieme Q e l’insieme Q contenuto nell’insieme R): Ne segue che l’insieme dei P è contenuto nell’insieme degli R. In altri termini, rappresentando le due premesse si ottiene una rappresentazione della conclusione. Quindi, dalla verità di “Tutti i P sono Q” e “Tutti i Q sono R” segue quella di “Tutti i P sono R”, e il sillogismo è corretto. L’inferenza è corretta anche se non vi sono oggetti che soddisfano le proprietà P, Q, R. Il metodo dei diagrammi è applicabile a (quasi) tutti i sillogismi. Vediamone alcuni. Esempio 1: Nessun Q è P Tutti gli R sono Q Nessun R è P Graficamente: di conseguenza: Il sillogismo è anche questa volta corretto. Passiamo a due esempi più complessi: Esempio 2a: Tutti i Q sono P Qualche R è Q Qualche R è P Esempio 2b: Nessun Q è P Qualche R è Q Qualche R non è P Graficamente: Anche in questo caso si tratta di sillogismi corretti. Esempio 3. Tutti i P sono Q Qualche R è Q Qualche R è P In questo caso il sillogismo non è corretto. Infatti: Dalla ipotesi che l’insieme P è contenuto in Q e che R interseca Q non segue che R interseca P. Per esempio, dall'affermare che “Tutti gli uomini portano i pantaloni” e che “Qualche donna porta i pantaloni” non segue affatto che “Qualche donna è uomo”. Esempio4: Tutti i Q sono P Tutti i Q sono R Qualche R è P Non è un sillogismo corretto: In questo caso occorre non lasciarsi trarre in inganno dalla figura (a dimostrazione del fatto che questo metodo non è infallibile): Q è infatti contenuto sia in P, sia in R, ma questo non implica che P e R si intersechino. Infatti Q può anche essere vuoto. Ad esempio, sono vere entrambe le proposizioni “Tutti i liguri nati a Torino sono alti” e “Tutti i liguri nati a Torino sono bassi” in quanto non esiste alcun ligure nato a Torino (si ricordi che un condizionale con antecedente falso è vero e quindi sono entrambe vere: “Per ogni x, se x è un ligure nato a Torino, allora x è alto” e “Per ogni x, se x è un ligure nato a Torino, allora x è basso). Tuttavia da esse non si può dedurre “Vi è qualcuno che è alto e basso”, che è evidentemente falsa. Ricapitolando, il sillogismo non è mai vero né mai falso, ma solamente o corretto o scorretto, ha, dunque, una validità solamente formale. Per esempio, il sillogismo che segue è corretto dal punto di vista formale, ma non ovviamente dal punto di vista reale: Gli asini hanno le ali Marco è un asino Marco ha le ali E' evidente, in questo caso, l'errore di avere scelto delle premesse non vere. E tuttavia il discorso, il ragionamento, è comunque formalmente corretto, come anche quello che segue: Tutti i camini fumano Mio nonno fuma Mio nonno è un camino Vi sono alcune ragioni che determinano un risultato “cattivo” o inadeguato: 1. Premesse false Se le premesse sono false (come nei due esempi precedenti), anche un ragionamento formalmente corretto non potrà mai giungere ad una conclusione vera e fondata. Di fronte ad un argomento dubbio, perciò, dovremo valutare sempre con cura il valore di verità delle sue premesse. Non di rado nei ragionamenti alcune premesse rimangono implicite, cioè non vengono espresse. In questo caso, prima di procedere con l’analisi, sarà necessario rendere esplicite tutte le premesse. 2. Inferenze errate Un argomento, pur partendo da premesse vere, non ci condurrà ad una conclusione valida se contiene delle inferenze errate, cioè se non rispetta le leggi fondamentali della logica. Dovremo quindi assicuraci che il passaggio dalle premesse alla conclusione sia corretto e ben giustificato. 3. Argomento inappropriato o emozionale Un buon argomento, corretto e con premesse vere, potrebbe essere comunque inadeguato al contesto, cioè dimostrare una conclusione che non è rilevante in riferimento al tema di cui si sta discutendo; oppure, invece di coinvolgere la nostra sfera razionale, potrebbe far leva sulle nostre reazioni emotive. Entriamo nel particolare e vediamo quali sono gli errori più comuni nella formulazione di un sillogismo. Argomenti fallaci nell'espressione a) Ambiguità semantica (equivocazione) Si tratta dell'attribuzione di differenti significati ad un medesimo termine. Come per esempio quando affermiamo che: Tutto ciò che corre ha i piedi, il tempo corre, il tempo ha i piedi E' evidente in questo caso l'errata attribuzione sia della “corsa” applicata al tempo (si tratta ifnatti di un modo dire, di un detto popolare) sia il fatto che tutto ciò che corra sia necessariamente dotato di “piedi”. b) Ambiguità sintattica (anfibolia) L'ambiguità può riguardare non solo una singola parola ma una intera frase. Per esempio, l'espressione “desidero la prigione dei miei nemici” non è affatto chiara. Che cosa si desidera effettivamente, la prigione in cui sono rinchiusi i miei nemici oppure vedere i miei nemici in prigione? Simili ambiguità possono portare a ragionamenti fallaci come quello che segue: Tutto ciò che è di Luca è da lui posseduto; questo disco è di Luca; questo disco è posseduto da Luca c) Vaghezza Un termine è vago quando non presenta confini precisi circa il suo significato. Nella vita di tutti i giorni questo non è un problema: si usano comunemente termini come “ricco” o “povero” senza preoccuparsi di stabilire con precisione quale sia la soglia per essere incluso nel primo o nel secondo insieme. Ma nel sillogismo questo porta a non pochi problemi, come mostra l'esempio che segue: Un singolo chicco di grano non è un mucchio e se io aggiungo a qualcosa che non è un mucchio un solo chicco di grano non posso ottenere un mucchio e così se ne aggiungo un altro eccetera. d) Accenti o enfasi Tale fallacia si ottiene quando si sottolinea, evidenzia, cela o nasconde un termine o parte di una frase, suggerendo una interpretazione della proposizione diversa dal suo significato letterale. Prof, io questa volta ho studiato Argomenti razionalmente irrilevanti Sono quegli argomenti che, invece di dimostrare la veridicità o la falsità di una tesi, spingono ad accettarla o a rifiutarla facendo leva sulle nostre emozioni. Si tratta di argomenti molto diffusi, sia al tempo di Aristotele sia (o forse anche più) oggi. a) Argumentum ad verecundiam (appello all'autorità) Si fa appello al timore reverenziale (verecundiam) nei confronti dell'autorità. Di per sé il ricorso ad una autorità non costituisce una fallacia – d'altro canto lo stesso Aristotele fonda i sillogismi sugli èndoxa – ma in questo caso l'errore sta nel ricorso ad una autorità non appropriata. È un argomento tornato molto di moda nella nostra società. • • La tv ha detto che la criminalità è in aumento; quindi sono falsi i dati che indicano esattamente il contrario Ieri quel noto politico ha sostenuto che la teoria evoluzionistica di Darwin è errata, quindi sono tutti da buttare i libri che ne sostengono la validità Nel primo caso la fallacia sta nel ricorrere ad un mezzo, quello televisivo, che non rappresenta una autorità in quel campo, che dovrebbe essere di competenza del ministero degli Interni o delle forze di polizia o degli studiosi del settore. Anche nel secondo caso si ricorre ad una autorità in modo inappropriato: il fatto di essere politico non garantisce di per sé la validità di un argomento, come invece dovrebbe accadere con i libri scritti da esperti del settore. b) Argumentum ad populum (appello alla maggioranza) In una società massificata come la nostra è forse l'argomento che va per la maggiore. È il noto ricorso al si dice: • • • Se così tante persone credono all'esistenza di Dio, allora sarà vero Se la maggioranza degli Stati americani ricorre alla pena di morte, significa che è efficace E' noto a tutti che il cibo italiano è migliore c) Argumentum ad baculum (ricorso alla paura) Per convincere qualcuno della validità di una tesi si fa spesso ricorso ad una minaccia, lo si spaventa o si ricorre addirittura alla forza (Baculum significa non a caso “bastone”). • • Hai visto cosa succede a chi la pensa come te? È necessario affermare l'esistenza di Dio, altrimenti non sarebbe possibile alcuna legge • morale e la vita degli uomini scivolerebbe nel caos Se riconosciamo le coppie di fatto, dove andremo a finire? Nessuno avrà più voglia di fare figli e così la nostra civiltà scomparirà La prima affermazione è piuttosto ricorrente: si spaventa chi ha una posizione ben precisa (una idea politica, religiosa, una visione del mondo piuttosto fuori dagli schemi solitamente) paventando le più nefaste conseguenze, dall'isolamento alla punizione, passando dal carcere o addirittura alla morte. Chi parla non necessariamente condanna tali posizioni, ma di fatto le depotenzia, invitando l'interlocutore ad abbandonarle. La seconda è anch'essa tornata molto di moda (la frase è stata pronunciata in un programma televisivo da un politico italiano): si presuppone che solo chi crede in dio possegga una morale tale da potere evitare il caos, dimenticando, per esempio, le innumerevoli guerre di religione che ancora oggi insanguinano il mondo. La terza affermazione (anch'essa pronunciata da un politico nel corso di una trasmissione televisiva – e questo conferma il legame tra questo argomento e i precedenti) sottintende che chi non si sposa non ha alcuna intenzione di fare figli. Si tratta naturalmente di un grossolano errore: non è la certificazione del matrimonio ad aumentare la fertilità delle coppie (per non parlare della felicità), come mostrano gli indici demografici delle metropoli occidentali, dove le coppie di fatto sono di numero superiore a quelle “ufficiali”, tutti in sensibile aumento. d) Argumentum ad hominem (contro la persona) In questo caso è l'interlocutore in quanto tale, come persona, ad essere contestato. Si tratta di un attacco diretto, personale. • • Non ha alcun senso parlare con te della guerra in Iraq: si sa che sei un pacifista sfegatato Non ha alcun senso parlare con te della pace: si sa che sei un guerrafondaio sfegatato e) Argumentum ad hominem “tu quoque” (“proprio tu!”) E' una variante della precedente. Si nega la validità di una posizione denunciando lacoerenza dell'interlocutore. • • Il mio medico sostiene che devo smettere al più presto di fumare. Parla proprio lui, che si fuma un pacchetto al giorno di sigarette! I miei genitori non vogliono che torni tardi la sera. Parlano proprio loro, che quando erano giovani sono scappati di casa Argomenti logicamente scorretti Si tratta di argomenti che, pur non facendo appello a fattori emozionali, presentano tuttavia qualche “errore”. Si tratta, più precisamente, di “fallacie argomentative” a) Petitio principii Consiste nell'assumere nelle premesse (implicitamente o esplicitamente) la tesi che si intende dimostrare. Ma in tal modo non si dimostra proprio nulla. • • • Dio esiste perché lo dice la Bibbia e la Bibbia non può mentire perché è stata scritta da Dio, che essendo buono non mente mai Marta mi ha detto che sono la sua migliore amica. Sono sicura che sia vero, in quanto nessuna ragazza mentirebbe alla sua migliore amica Se duplicare i Cd non fosse illegale, allora non sarebbe proibito dalla legge b) Ignoratio elenchi Si presenta quando un argomento proposto, pur presentando premesse vere, giunge a conclusioni che nulla hanno a che fare con ciò di cui si sta discutendo: si tratta cioè di un argomento non appropriato al contesto (detta anche “conclusione non pertinente”). In sostanza, un simile argomento prova qualcosa di diverso da ciò che si vuole dimostrare I calciatori italiani sono i migliori al mondo. Lo dimostra il fatto che vengono pagati molto di più di quelli di altri campionati c) Uomo di paglia Si tratta di una variante della precedente, che si presenta spesso quando in un dibattito qualcuno cerca di confutare il proprio interlocutore distorcendo la sua posizione, rendendola agli occhi dei presenti assurda. • • Tu dici di volere ridurre le spese militari. Ma ti rendi conto? In un simile contesto internazionale rischiamo di essere invasi in ventiquattro ore! Vuoi che gli immigrati possano votare? E così poi la violenza dilagherà in tutto il paese! Anche in questo caso si tratta di atteggiamenti piuttosto diffusi. Non si nega la validità delle posizioni espresse (da entrambi gli interlocutori), ma si distorce il la posizione di uno dei due, modificandone il senso. d) Argumentum ad ignoratiam Un altra fallacia molto comune: si sostiene la validità di una tesi semplicemente perché, fino ad ora, non è stata ancora confutata. • • Quell'uomo politico è sicuramente una persona onesta: non ha mai ricevuto una comunicazione giudiziaria! Gli extraterrestri esistono, come dimostra il fatto che nessuno è riuscito a smentirne l'esistenza e) Falsa disgiunzione o falso dilemma Ancora una fallacia molto comune: si presentano come alternative due o più opzioni, costringendo l'interlocutore a sceglierne una. La fallacia consiste nel fatto che la scelta è obbligata. In realtà le opzioni sarebbero molte di più, ma chi mette in atto tale atteggiamento le nasconde più o meno consapevolmente. • • Non abbiamo scelta: o riduciamo le spese per scuola o sanità o il deficit pubblico si ingrosserà a dismisura Vogliamo schierarci o no per la difesa delle radici cristiane dell'Europa o vogliamo invece consegnare il continente ai musulmani? Si tratta in entrambi i casi di argomenti tratti da trasmissioni televisive nostrane dunque reali. Nel primo caso la scelta appare davvero obbligata: chi rischierebbe la bancarotta dello Stato? E tuttavia ci sono altre opzioni, volutamente (in questo caso) nascoste. Nello specifico caso italiano a cui l'esempio si riferisce, si potrebbe combattere l'evasione fiscale, che costa alle casse dello Stato circa 200 miliardi di euro ogni anno, vale a dire quanto cinque finanziarie. Nel secondo caso si potrebbe naturalmente rispondere che le radici dell'Europa risiedono soprattutto nei principi di tolleranza che si sono imposti nel tempo proprio contro l'intolleranza religiosa delle varie componenti della cristianità oppure che il cristianesimo, nelle sue tante sette, può essere interpretato come tolleranza, solidarietà ed amore del prossimo. f) Questione complessa o domanda composta E' il converso della fallacia precedente. Per costringere l'interlocutore ad accettare la propria tesi, la si presenta come indissolubilmente congiunta ad un'altra che gode di ampia condivisione (ennesimo ricorso all'argumentum ad populum). • • Sei favorevole alla tolleranza religiosa e quindi anche alle vignette contro l'Islam o il Papa? Il poliziotto chiese: “dove hai messo la refurtiva”? Il primo argomento è naturalmente mal posto. Sostenere la validità della tolleranza religiosa non significa necessariamente difendere chi sbeffeggia le religioni. Nel secondo caso si presuppone che l'interlocutore abbia effettivamente rubato qualche cosa prima che tale reato venga dimostrato. g) Composizione La fallacia di composizione si presenta quando si attribuisce al tutto una proprietà che appartiene solo ad una parte oppure ad un singolo elemento che ne fa parte. • • • E' noto che i rom rubano. Dunque i rom sono un popolo di ladri Tutti i pezzi di legno che compongono questa chitarra sono di qualità; quindi questa chitarra è senza dubbio di qualità Gli atomi sono invisibili; i gatti son fatti di atomi; i gatti sono invisibili La proposizione che più di tutte mostra la fallacia di tale argomento è sicuramente il secondo. Il fatto che un chitarra sia stata creata con ottimo legno non implica affatto che sia anche di ottima qualità. In questo caso si salta un passaggio fondamentale: il lavoro. Tutti i pezzi della chitarra, infatti, potrebbero esser stati assemblati in maniera non impeccabile. h) Divisione E' speculare rispetto alla fallacia precedente. In questo caso, infatti, le proprietà che appartengono al tutto vengono applicate alle parti o ai singoli. • Gli Indiani d'America stanno scomparendo. Tu sei un Indiano d'America. Tu stai scomparendo Le poste italiane sono allo sfascio. Inevitabile, dato che tutti i postini sono degli sfaticati • • In questo caso l'espressione più esaustiva è la prima, un sillogismo formalmente corretto ma che porta a conclusioni errate anzi assurde. La seconda è una fallacia piuttosto comune: posto infatti che sia vero che tutti i postini siano degli sfaticati (il che è comunque impossibile da dimostrare), le poste italiane non si esauriscono nel lavoro dei postini Alcune regole per un corretto sillogismo In linea di massima (ma non necessariamente), per un corretto sillogismo, occorre seguire queste poche regole per evitare di cadere nelle fallaci argomentative e in altri errori. 1. Devono essere presenti solamente tre termini (premessa maggiore, premessa minore e termine medio) 2. Il termine medio e la premessa maggiore devono essere distribuiti in modo uguale nelle premessa come nelle conclusioni1 1 Un termine è distribuito in una proposizione quando ciò che viene detto si riferisce a tutti gli oggetti indicati da quel termine. Prendiamo l'asserzione: “Tutti gli S sono P”. Il termine S è distribuito, in quanto l'enunciato dice qualcosa che vale per tutti gli S. Il termine P, invece, non lo è, poiché non stiamo prendendo in considerazione tutti gli P, ma 3. Il termine medio non deve mai essere presente nella conclusione 4. Il termine medio deve essere distribuito in almeno una delle due premesse 5. Da due premesse negative non segue alcuna conclusione 6. Da due premesse affermative segue una conclusione affermativa 7. Da due premesse particolari non segue alcuna conclusione 8. Se una delle premesse è negativa, la conclusione dovrà essere negativa; se una delle premesse è particolare, la conclusione dovrà essere particolare. Conclusioni Il metodo ordinario utilizzato dalla scienza prenderà le mosse da una serie più o meno accurata di descrizioni dell'esperienza (gli èndoxa), per poi ragionarvi sopra con lo scopo di decidere quali sono le migliori, ossia quelle che più difficilmente possono essere confutate dal ragionamento. Tale metodo è evidentemente più debole di quello deduttivo utilizzato dal sillogismo scientifico, perché né le premesse di partenza (èndoxa) né le conclusioni raggiunte possono essere considerate vere in modo assoluto. Ma in certi casi consegue un altissimo valore dimostrativo. Ciò accade in particolare quando su un dato problema si riesce a individuare la rosa completa delle possibili soluzioni e si perviene ad escluderle tutte tranne una. In questo caso la proposizione che esprime questa soluzione può ritenersi praticamente dimostrata. Non sembrerà strano, sulla base di quanto detto, che l'unico vero ambito di applicazione del sillogismo scientifico sia quello delle scienze matematiche, ossia quel settore di ricerca i cui oggetti sono sprovvisti di materia e l'induzione non è di nessuna utilità. Per esempio, per stabilire con certezza assoluta che 2+2=4 non c'è alcun bisogno di raccogliere un numero illimitato di casi, perché la necessità del risultato è ben visibile anche in una singola operazione. Sembra assodato che Aristotele prevedesse di utilizzare il procedimento deduttivo come strumento di controllo ed insegnamento. Una volta che la scienza ha elaborato dialetticamente i suoi contenuti, può essere utile verificare la tenuta del quadro complessivo che ne risulta, mostrando che le conoscenze raggiunte si implicano logicamente l'una con l'altra. Inoltre, presentare la materia in questa forma organica e strutturata è molto efficace nel momento in cui non si tratta più di edificare la scienza, ma di insegnarla. La dialettica, dunque, è per Aristotele il metodo ordinario di quasi tutte le scienze. Ma il suo significato ed il suo uso sono ancora più ampi: in generale è chiamato dialettico qualunque ragionamento diverso da quello deduttivo. In questo senso Aristotele a volte sembra considerare dialettico anche il ragionamento induttivo e in generale chiama dialettiche tutte le forme argomentative che coinvolgono più generi, mentre il sillogismo scientifico si muove sempre all'interno di una stessa colonna, articolata in generi e specie. Questo è il motivo per cui la dialettica è l'unico procedimento adatto a dimostrare gli assiomi, ossia quei principi che sono comuni a più scienze, o a anche a tutte. Un caso tipico di principio di quest'ultimo genere è il cosiddetto principio di non contraddizione. Pur non essendo possibile dimostrare questo principio sillogisticamente, si può tuttavia difenderlo in modo dialettico, cioè a partire dall'opinione di chi lo nega e metterne in luce la inconsistenza. Chi dice qualcosa, infatti, pensa evidentemente che ciò che dice abbia un ben preciso significato, distinto da altri. Se dico che “Socrate è seduto”, ammetto implicitamente che “Socrate non è più in piedi”. L'atto stesso di pronunciare una affermazione provvista di significato implica dunque che chi parla accetti il principio di non contraddizione. Chi lo nega, di conseguenza, dovrebbe limitarsi a stare zitto. Ma chi evita di usare il linguaggio rinuncia in pratica alla sua umanità. solo una parte di essi, quelli che fanno parte di S. LA FISICA Secondo Aristotele, conoscere una certa cosa significa individuarne le cause, intese propriamente come condizioni che ne rendono possibile l'esistenza. Lo stagirita ne individua quattro: causa materiale, causa formale, causa efficiente, causa finale. La materia è ciò di cui una cosa è fatta, mentre la forma è la configurazione che possiede. Prendiamo l'esempio di una statua: la sua materia sarà il marmo, mentre la forma la figura; la causa efficiente è il principio motore che l'ha prodotta, cioè lo scultore, mentre la causa finale è il fine per cui è stata realizzata. E tuttavia Aristotele tende sostanzialmente ad unificare causa formale e causa finale, soprattutto negli esseri viventi. Mentre infatti la causa finale della statua potrebbe essere un uso esterno (una dedica a qualche dio), la causa finale di un essere vivente è la piena e completa realizzazione della sua forma (causa formale). Anche in questo caso il distacco da Platone è totale: per Aristotele infatti non esiste una causa finale unica per tutte le cose (come il Bene di Platone) né la causa finale ha un significato transitivo. Per esempio, la causa finale per cui esiste un maiale, non transita affatto in un'altra specie (come l'uomo che se ne ciba) ma permane nella specie stessa: lo scopo sarà quello di produrre un esemplare della specie “maiale” il più possibile adeguato alla sua forma naturale. Una impostazione che finisce per interessare tutta la natura (cioè tutti gli esseri viventi) La finalità percepibile nella natura, dunque, non dipende affatto dalla provvidenza cosciente di una mente divina, come per Platone, bensì è una qualità propria della natura in quanto tale. Le quattro cause spiegano le cose in base alle condizioni e ai motivi per cui esse sono divenute quello che sono e non altro. Il concetto di causa, dunque, implica quello di mutamento. D'altro canto, il corrispondente termine greco aitìa, rimanda a significati come “autore”, “responsabile”, “colpevole”. Noi tendiamo ad identificare come causa di una certa cosa l'evento che le ha dato origine, ma per Aristotele questa non è che una delle cause, quella motrice. Per capire meglio il pensiero dell'autore, occorre dunque integrare il concetto di “causa” con quello di “condizione”: ha natura di causa non solo ciò che attivamente produce qualche cosa ma anche tutto ciò che costituisce una condizione senza la quale una certa cosa non esisterebbe o non si produrrebbe. Esistono per Aristotele quattro diversi generi di mutamento, distinguibili in base ad altrettante categorie: secondo la sostanza, generazione e corruzione (se una cosa si modifica quanto alla sua sostanza, vuol dire che non sarà più quella sostanza che era), secondo la quantità, aumento e diminuzione, secondo la qualità, alterazione (come quando un colore impallidisce al sole), secondo il luogo, spostamento locale. Per spiegare la natura del mutamento Aristotele introduce due fondamentali termini: materia e forma, corrispondenti a due delle cause sopra menzionate, e potenza e atto. Ciascuna sostanza fisica è infatti composta di una materia e di una forma (che nella Filosofia Prima verrà chiamata sinolo). Quando in una sostanza qualche cosa muta, essa viene in possesso di una forma che prima non aveva. Ad esempio, lo scultore che modella una statua introduce nella materia del marmo una forma nuova: il marmo è materia in rapporto alla forma che assumerà poi. Il blocco di marmo, tuttavia, non è semplice materia priva di forma, perché una sua certa forma (sia pure grezza) la possiede già. Per questo Aristotele dice che il mutamento avviene non dalla materia alla forma bensì dalla privazione alla forma. Il blocco di marmo grezzo, infatti, può diventare statua perché è privo della forma della statua. In ogni mutamento sono presenti tre termini: un sostrato (o soggetto) che permane durante il processo, pur mutando una sua caratteristica, e due principi contrari: la privazione, ossia la mancanza di una determinata forma, e la forma stessa, che il sostrato acquisisce durante il mutamento. Per esempio: Socrate (sostrato), pur restando Socrate, passa da non musico (privazione) a musico (forma). Il concetto di privazione rimanda in qualche modo al non-essere, ma non si tratta di una nozione negativa. Infatti non tutti i soggetti hanno tutte le possibili privazioni. Socrate è un non-musico diversamente da come lo è un gatto, perché egli può diventare un musico, mentre per un gatto è impossibile. Perciò la privazione mostra anche, in positivo, ciò che una cosa può diventare. L'insieme di tutte le privazioni inerenti ad un soggetto indica allora ciò che un oggetto è in potenza, ossia tutte le caratteristiche che esso al momento non possiede ma che potrebbe possedere in atto. Socrate non-musico è Socrate musico in potenza, mentre Socrate musico è Socrate musico in atto. È bene tenere presente che per Aristotele l'atto è sempre anteriore alla potenza. A prima vista sembrerebbe proprio il contrario: nel tempo, infatti, prima viene Socrate non-musico (potenza) e poi Socrate musico (atto). E tuttavia il passaggio dalla potenza all'atto è possibile solo se l'atto, sia dal punto di vista logico sia da quello reale, esiste anteriormente alla potenza. Socrate non potrebbe diventare musico se la forma del musico non esistesse già in atto da qualche parte (ad esempio nel maestro che gli insegna la musica). Allo stesso modo è vero che la forma di un uomo si aggiunge in un secondo tempo a ciò che era l'uomo in potenza (il seme fecondato); ma ciò non sarebbe possibile se la forma dell'uomo non fosse già presente in atto nei suoi genitori. Qui, molto probabilmente, agisce nell'autore un retaggio della dottrina platonica della realtà. È vero che le forme non sono separate e che la realtà prima è l'individuo. E tuttavia è la forma a determinare la materia, la quale di per sé è pura indeterminatezza. Per capire come è fatta la realtà occorre individuarne gli elementi primi. È vero che la natura è fatta di materia, ma la materia, intesa come ciò che è privo di qualunque forma, è un concetto teorico e non esiste in quanto tale. Infatti, ogni cosa, anche la più elementare, è già composta di una materia e di una forma. Ciò vale anche per i quattro elementi primi, che Aristotele non fa che ricavare dalla tradizione presocratica: si tratta di terra, acqua, aria, fuoco. E tuttavia l'autore ritiene che possano anche trasformarsi l'uno nell'altro. A questi quattro elementi sono associate le qualità del freddo, del caldo, del secco e dell'umido. La caratteristica principale degli elementi consiste nella tendenza a muoversi verso il proprio luogo naturale. Si tratta di un movimento rettilineo, che va dall'alto verso il basso per i due elementi più pesanti, terra e acqua, e dal basso verso l'alto per quelli più leggeri, aria e fuoco. Quattro elementi e relativi moto rettilinei compongono il mondo sublunare, vale a dire tutto ciò che esiste dalla Luna (esclusa) fino a noi. Ma quale è il luogo naturale di ciascuno degli elementi? Per rispondere a questa domanda Aristotele ricorre ad esperimenti squisitamente visivi. In sostanza, prendiamo due elementi e mettiamoli a confronto. Per determinare quale tra l'acqua e la terra sia l'elemento più pesante basta gettare un pezzo di terra in un laghetto e notare come questo finisca per posarsi sul fondo. Dunque la terra è più pesante dell'acqua. Ora mettiamo a confronto aria e acqua, prendendo una cannuccia, immergendola nel solito laghetto e soffiandoci dentro: le bolle d'aria salgono in superficie. Dunque l'aria è più leggera dell'acqua. Rimane da stabilire quale, tra l'aria e il fuoco, sia l'elemento più leggero. Proviamo ad accendere un fuoco e noteremo come questo tenda a salire verso l'alto, vincendo, per così dire, la resistenza dell'aria. Dunque il fuoco è l'elemento più leggero di tutti, seguito da aria, acqua e fuoco. Questi i luoghi naturali. La terra tenderà a collocarsi al centro. Su di lei poggerà uno strato d'acqua (gli oceani), sopra il quale si estende uno strato d'aria (l'atmosfera). Il confine ultimo del mondo sublunare è rappresentato dallo strato di fuoco. Dopodiché si passa in una regione totalmente diversa, quella occupata dai corpi celesti. Aristotele ritiene che in questa zona non vi sia alcun mutamento: tutto permane in eterno. Di conseguenza, non vi sarà alcun movimento rettilineo bensì un solo movimento circolare; né sarà possibile riscontrare la presenza dei quattro elementi precedenti, poiché questi si muovono di moto verticale. L'elemento che ruota in eterno è un altro, l'etere, una sostanza trasparente che riempie per intero lo spazio celeste, formato da una serie di sfere inserite l'una nell'altra. Ogni sfera si muove compatta insieme al suo pianeta. Quella che segue è l'immagine che si ricava dalla visione aristotelica dell'universo: La terra, dunque, è al centro dell'universo, ferma, immobile: tutto gli ruota attorno (moto circolare eterno sopralunare). Si tratta di un universo finito, ai cui confini dimorano gli dèi. È il cosiddetto sistema geocentrico, che verrà successivamente sistemata dall'astronomo Tolomeo: sistema aristotelico-tolemaico. Un universo qualitativamente diviso in due settori nettamente distinti, dunque: il sistema terrestre è soggetto al divenire, mentre quello sopralunare è eterno. Una visione che si imporrà nel mondo occidentale piuttosto rapidamente e resisterà fino al secolo XVI. Perché così a lungo? Una prima ragione è di tipo religiosa. Il cristianesimo in un primo tempo vede nella filosofia greca un pericolo se non addirittura una vera e propria eresia (e infatti chiuderà tutte le scuole filosofiche greche). Rimarrà nella storia la nota e polemica affermazione del teologo cristiano Tertullino: “credo perché è assurdo”. Insomma, il pensiero razionale, non potendo accettare né i misteri né tanto meno i dogmi della Chiesa è potenzialmente demoniaco. E tuttavia in un secondo tempo la Chiesa comprende il valore della filosofia, soprattutto per chiarire le basi della teologia cristiana ed imporle alle non poche “sette” ribelli. Ebbene, la visione dell'universo di Aristotele e Tolomeo si sposa con il racconto biblico, con la centralità della terra, dimora di quell'uomo creato ad immagine e somiglianza di dio. Ma anche con il dualismo qualitativo: dopo la caduta, l'uomo vive nel peccato, dilaniato, per così dire, dal divenire, corrotto insomma, mentre il cielo continua ad essere puro, eterno, immutabile. E tuttavia difficilmente la Chiesa (o le varie chiese cristiane) sarebbero riusciti ad imporre una tale visione se questa non si fosse presentata assolutamente valida dal punto di vista dei nostri sensi. L'uomo nota che sono gli astri a muoversi e non la terra sui cui poggia i piedi. Oggi, dopo la rivoluzione astronomica del Cinquecento e del Seicento e le conquiste spaziali, a nessuno verrebbe in mente di difendere tale sistema. Ma allora e almeno fino alla scoperta del telescopio i partigiani del sistema eliocentrico (cioè con il sole al centro e la terra e tutti gli altri pianeti in movimento più o meno circolare attorno all'astro) venivano considerati dei visionari se non, come purtroppo troppo spesso è accaduto, degli eretici e come tali perseguitati. Sempre nei libri di Fisica, Aristotele si occupa anche dei concetti di spazio e di tempo. A dire il vero, il filosofo non parla mai di spazio bensì di luogo, definendolo come “limite del corpo contenente”. Che significa? Prendiamo un qualsiasi oggetto. Ebbene, il luogo è lo spazio interno delimitato dai suoi contorni. Dunque, per Aristotele lo spazio è sempre connesso ai corpi che lo occupano, anche se questo può essere occupato da corpi diversi, per esempio da liquidi differenti contenuti nel bicchiere. Non ha dunque senso chiedersi in quale luogo si situi l'universo, perché non esiste un corpo più ampio che lo contenga. Di conseguenza, dove non ci sono corpi non c'è nemmeno lo spazio: il vuoto non esiste. Ma allora come spiegare il movimento? Come è possibile che un corpo si sposti da un luogo all'altro se vive in un “tutto pieno”? Il moto – risponde Aristotele – si spiega con la tensione degli elementi a raggiungere la loro condizione propria. In uno spazio vuoto come quello di Democrito, per esempio, del tutto indeterminato, non ci sarebbe nessun ordine naturale, nessun alto e basso assoluti, nessun punto di riferimento: non ci sarebbe modo di spiegare perché un oggetto sta fermo in un luogo piuttosto che in un altro o perché si muove proprio (e sempre) in una certa direzione. Nell'universo “pieno” di Aristotele, invece, tutto è assolutamente limitato, nel mondo sublunare come in quello sopralunare. Per quanto concerne il tempo, Aristotele lo definisce come la misura del movimento secondo il prima e il poi. Di conseguenza, il tempo non è affatto assoluto, come d'altro canto lo spazio, poiché è relativo ai corpi che vi si muovono: senza il movimento, il tempo non sussisterebbe. Ancora una volta in senso comune interviene a sostenere (e in qualche modo determinare) le teorie scientifiche dello stagirita: come l'uomo della strada vede il sole girare intorno alla Terra e non il contrario, così conta il tempo a partire dal movimento del sole stesso o attraverso lo scorrere (il movimento) della sabbia in una clessidra o delle lancette in un orologio. E tuttavia la definizione afferma che il tempo è “misurante” e non “misurato”. Se il moto fosse la misura del tempo, sarebbe un aspetto del tempo, così come le misure di un tavolo sono uno degli aspetti del tavolo. E le misure di una cosa, ovviamente, non esistono indipendentemente dalla cosa a cui ineriscono. Ma per Aristotele ciò che esiste in modo indipendente è proprio il moto, non il tempo, di conseguenza il moto è misurato e il tempo è la sua misura, o, meglio ancora, il tempo è uno dei modi di cui noi possiamo misurare il moto e cioè quello che prende in considerazione il prima e il poi. Facciamo un esempio: se io dico che un treno che giunge a Milano da Roma ha compiuto circa 650 chilometri, questa sarà la misura del suo moto secondo la distanza (lo spazio). Se invece dico che ha impiegato 5 ore, allora ho misurato il suo movimento secondo il prima e il poi: alle ore 10 era a Milano, alle ore 15 a Roma. Si potrebbe anche dire che il tempo è una successione di attimi e in quanto tale riproducibile graficamente, come una successione di “punti-attimo”. Non è quello che fa Aristotele, ma è innegabile che la sua visione del tempo rappresenti una rivoluzione in un mondo, come quello greco, ancorato ai miti della circolarità, dell'eterno ritorno. La successione di punti attimo – come vedremo qualitativamente differenti gli uni dagli altri – è un altro elemento che le religioni monoteiste accettano. Se il mondo tende verso dio, allora ogni istante sarà in qualche modo migliore di quello che l'ha proceduto. Ma anche in questo caso non è solamente la religione a determinare il successo di una simile concezione, ma tutta la cultura. L'idea di progresso, su cui la nostra civiltà (occidentale) si è fondata e, seppure con qualche pericolosa incrinatura, continua a fondarsi, è tipicamente aristotelica, poiché “tende” verso qualcosa di migliore, di perfetto. Dunque, questo mondo è in qualche modo “perfettibile”. La Psicologia Con il termine “natura”, Aristotele intende soprattutto gli esseri viventi. È vero che chiunque abbia in sé il principio del movimento, compresa la quiete che, per definizione, risiede nel proprio luogo naturale, è in quanto tale vivente e tuttavia quelli dotati di movimento, per così dire, lo sono di più. Infatti, gli esseri viventi propriamente detti possiedono anche il loro fine, inteso come culmine dello sviluppo organico. In poche parole, anche nella filosofia di Aristotele si parla di anima, di ciò che dà vita ai corpi, e lo studio dell'anima, in greco psyche, è propria della Psicologia, che è una branca della Fisica. Il rapporto tra anima e corpo è il medesimo che lega forma e materia. L'anima, infatti, è la forma di cui il corpo è materia, mentre l'essere vivente è la sostanza (o sinolo) che risulta dalla loro composizione. Insomma, l'anima è l'atto (o entelèchia, dal greco en, che significa “in”, tèlos, “fine”, e èchein, “avere”: letteralmente “avere un fine dentro”) di un corpo organico che ha la vita in potenza. Siamo di fronte ad una concezione profondamente diversa da quella di Platone. Per il filosofo ateniese, infatti, l'anima, come risulta dal fatto che è immortale, è qualcosa di differente dal corpo che la contiene, mentre per lo stagirita questa potrà vivere sempre e solo con il corpo di cui è la forma, poiché la forma è sempre inseparabile dalla sua materia. Dunque – con una sola eccezione che si vedrà in seguito – l'anima non è affatto immortale e tanto meno risulterà disponibile per la reincarnazione, cioè non potrà mai diventare forma di un altro corpo. L'anima rappresenta la vita e di conseguenza chi ne è sprovvisto non rientra nella categoria degli esseri viventi. L'anima ha tre funzioni: quella vegetativa (riproduzione e nutrimento), che è comune a tutti gli esseri viventi, quella sensitiva, presente in tutti gli esseri animali, e quella razionale, presente solamente negli uomini. Alle ultime due funzioni sono associati, rispettivamente, la conoscenza sensibile e la conoscenza intellettiva. Gli organi di senso sono infatti in grado di riconoscere negli oggetti le forme ad essi adeguate (per esempio gli occhi i colori, l'udito i suoni e l'olfatto gli odori), dunque sono potenzialmente in grado di riceverle. Le forme sensibili a loro volta sono conoscibili in potenza: le forme sono infatti sempre presenti nella materia e possono essere riconosciute solo quando il senso le estrae da essa. La conoscenza sensibile si genera quando ciò che è conoscente in potenza (l'organo di senso) è ciò che è conoscibile in potenza divengono, rispettivamente, conoscente e conosciuto in atto. Questo avviene mediante un contatto tra l'organo di senso e la cosa percepita, vuoi diretto (come il tatto) vuoi attraverso un mezzo materiale (le cose si vedono attraverso il mezzo dell'aria). Dunque, organo di senso e forma sensibile, pur essendo cose distinte, durante il processo cognitivo concorrono a realizzare il medesimo atto. L'immaginazione (phantasia) è il punto di collegamento tra il senso e l'intelletto. L'intelletto può pensare solo attraverso immagini. E qui il discorso si complica. Esistono anche in questo caso delle forme intellegibili (laddove prima esistevano solamente forme sensibili) ed esiste un intelletto potenziale (laddove prima si parlava solamente di sensi): un intelletto capace, almeno in potenza, di accogliere tutte quelle forme. L'intelletto potenziale e le forme intellegibili sono, rispettivamente, conoscente e conoscibile in potenza. La conoscenza si sviluppa quando questa doppia potenzialità si trasforma in atto. Ma in questo caso la simmetria si rompe, poiché Aristotele introduce (a complicare il tutto) un secondo intelletto, l'intelletto attivo (o anche intelletto produttivo), che ha il compito di condurre il processo proprio dalla potenza all'atto. Questa ulteriore differenziazione darà vita ad una ampia discussione che a tutt'oggi si può dire non ancora conclusa. L'intelletto attivo viene paragonato da Aristotele alla luce che trasforma i colori in potenza in colori in atto, rendendoli in tal modo visibili. Questa immagine ricorda molto da vicino l'idea del Bene di Platone, che dà conoscibilità e vita alle cose. L'elemento platonico viene tuttavia inserito nel più ampio discorso sugli universali (le forme intellegibili): la conoscenza umana è sempre un processo induttivo, che passa attraverso l'immaginazione. Ma il problema permane: solo qualcosa che è già in atto, infatti, può realizzare un passaggio dalla potenza all'atto. Ecco perché a bisogno di un intelletto attivo: all'idea che vuole la conoscenza delle forme intellegibili passare attraverso l'intelletto potenziale con un procedimento che parte dal basso (induttivo) si oppone dunque l'idea secondo cui la vera causa di questa conoscenza è un intelletto separato, che non ha alcun contatto con la materia. Facciamo un esempio. Se vedo il rosso, la mia sensazione si sviluppa immediatamente, anche se è la prima volta che vedo quel colore. Se il mio intelletto conosce invece una forma intellegibile, come quando dico “questa cosa è un gatto”, allora devo già in qualche modo possedere nel mio cervello la nozione di che cosa si quella forma (la forma universale intellegibile del gatto), altrimenti la conoscenza non può prodursi. Platone era giunto a proporre la dottrina della reminiscenza proprio per spiegare come sia possibile riconoscere gli universali nel sensibile. Aristotele, naturalmente, non può accettare questa tesi e tuttavia sostiene i presupposti che l'hanno generata: la conoscenza sensibile è passiva e per questo ha bisogno solo di due termini: la forma sensibile e l'organo che la riceve. Ma la conoscenza intellettiva è attiva e come tale ha bisogno di altro: di una forma intellegibile, presente nelle cose, di una funzione intellettuale passiva che la riceve, cioè l'intelletto passivo, e di una funzione intellettuale attiva che produce il riconoscimento della forma medesima, l'intelletto attivo. Ma anche in questo caso le cose non sono così semplici. Infatti Aristotele definisce l'intelletto attivo come immortale ed eterno. Se si trattasse di una funzione dell'anima umana, allora saremmo autorizzati a pensare che un parte del nostro animo non morirà mai. E tuttavia così si contravverrebbe la regola aristotelica secondo cui la forma è sempre inseparabile dal corpo di cui è forma. Un ulteriore problema è dato dal fatto che Aristotele sostiene che l'intelletto attivo pensa sempre, non ad intermittenza per così dire, ed è difficile capire come un tale comportamento si adatti all'essere umano. È per questo motivo che non pochi pensatori hanno interpretato l'intelletto attivo come un ente divino, unico e identico in tutti gli uomini, i quali conoscono le forme intellegibili per suo tramite. Ancora una volta la religione, dunque, non solo cristiana, ma anche ebraica e musulmana (civiltà in cui il pensiero greco non viene mai censurato, ma, anzi, coltivato). E tuttavia – come si è detto - la questione è ancora oggi aperta. Gli esseri viventi Le opere dedicate agli esseri viventi rappresentano il grosso degli studi fisici. Aristotele è un vero biologo, anzi il primo biologo nel senso moderno del termine, che osserva, indaga, ordina, classifica. Peccato che allo stagirita – come a tutta la scienza del tempo – manchi l'ausilio di una tecnica efficiente, di una strumentazione adeguata. Mentre Teofrasto si occupa del mondo vegetale, Aristotele si dedica a quello animale. Anche il mondo degli esseri viventi è composto dai quattro elementi, che esistono in natura sia allo stato puro sia sotto forma di composti. E tra le varie forme di composti c'è anche quella in cui gli elementi si fondono compiutamente dando origine ad una nuova sostanza. Si tratta degli omeomeri (parti uguali), poiché quando vengono divisi tutte le loro parti conservano caratteristiche uguali a quelle dell'insieme di partenza. Prendiamo un bicchiere e versiamoci dentro una eguale quantità di acqua e di vino. Se divido in due il contenuto del bicchiere non mi ritrovo con un mezzo bicchiere di acqua e un mezzo bicchiere di vino, ma con due mezzi bicchieri contenenti una miscela di acqua e di vino. Negli esseri viventi le parti omeomere sono dette tessuti (ad esempio il legno delle piante o la carne degli animali) e dall'unione di diversi tessuti si generano gli organi (foglie, polmoni, muscoli). Dunque il vivente è composto sia di parti non omeomere sia di parti omeomere: il fegato è parte dell'organismo ma non è parte omeomera rispetto all'intero mentre una parte del fegato è omeomera rispetto al suo intero più prossimo. Si viene in tal modo a creare una scala naturale di tutti i viventi ordinata secondo gradi di perfezione dal più semplice al più complesso, in base alla quantità e alla qualità di organi e funzioni che ciascun vivente possiede. Agli ultimi posti di questa scala troviamo insetti e molluschi, mentre al vertice mammiferi come cani e cavalli; in cima, naturalmente, l'essere umano. Questo finalismo spiega il rapporto che sussiste tra gli organi e le loro funzioni: la natura dell'organo si spiega con la sua funzione e non viceversa. Alla tesi di Anassagora secondo cui l'uomo è il più sapiente dei viventi perché possiede le mani, Aristotele replica che è vero l'esatto contrario. Poiché l'uomo è un essere intelligente, ha bisogno delle mani come strumento per le sue attività ed è esattamente per questo motivo che le possiede. Per lo stesso motivo si oppone ad Empedocle, secondo cui c'è un tempo in cui le cose si producono in modo del tutto disordinato e un tempo in cui si genera l'ordine. Per Aristotele, invece, la natura possiede un ordine intrinseco, come appare dal fatto che gli esseri eventi si producono sempre o quasi sempre allo stesso modo: da un embrione fecondato si genera un individuo del tutto simile ai suoi genitori. Le malformazioni per Aristotele sono solamente eccezioni. Un altro principio della biologia aristotelica è la scoperta della analogia nei vari viventi tra gli organi e le rispettive funzioni, una sorta di embrionale anatomia comparata. Egli si è accorto, per esempio, che le branchie dei pesci svolgono la medesima funzione dei polmoni dei mammiferi. Se avesse con coerenza proseguito su questa linea, Aristotele sarebbe giunto, con parecchi secoli di anticipo, a sostenere la teoria evoluzionistica. Perché non lo fa? Perché rimane sempre fedele ad una delle sue tesi più importanti, quella che vuole la natura di qualunque essere vivente sempre determinata dalla sua forma: il fine di ogni creatura vivente è sempre quello di realizzare la forma nel modo più perfetto possibile. Da un uovo di una gallina nascerà sempre una gallina, da un embrione di una scimmia sempre una scimmia. Insomma, gli esseri viventi furono, sono e saranno sempre i medesimi. La forma non si modifica mai né si sviluppa: lungi dal pervenire ad una teoria evoluzionistica, Aristotele sostiene con forza la fissità delle specie. LA FILOSOFIA PRIMA In un celebre passo del VI libro della Metafisica Aristotele scrive che se esiste qualcosa di eterno, immobile e separato, allora lo studio di questo oggetto non potrà spettare alla fisica (che si occupa di sostanze mobili) bensì ad una altra scienza, la Filosofia Prima. Di conseguenza, la Fisica si trasformerebbe in Filosofia Seconda. E tuttavia questo oggetto esiste davvero e il filosofo se ne rendo conto proprio studiando il mondo fisico, il quale richiede sempre una causa che tuttavia non è affatto fisica. Come abbiamo visto, per la Fisica esistono tre generi di sostanze: sostanze materiali corruttibili (il mondo sublunare) e sostanze materiali incorruttibili (i corpi celesti). E tuttavia, proprio per le ragioni di cui sopra, Aristotele è costretto ad ammettere l'esistenza di sostanze immateriali incorruttibili. Ma come facciamo a sostenere che esistono sostanze che non percepiamo con i nostri sensi? Per rispondere a questa domanda occorre partire ancora una volta dal moto. Il moto è eterno, non ha cioè né un inizio né una fine. Si tratta di una necessita concettuale. Come spiega molto chiaramente nella Fisica, un inizio ed una fine di un moto sono moto anch'esse: se fermo il moto di una palla con la mano, questo atto è a sua volta un movimento, nello specifico della mia mano. Per cui possono avere un inizio ed una fine i moti particolari, ma il moto generale è eterno. Di conseguenza, tutto il cosmo fisico è eterno. E il moto dipende a sua volta da una sostanza che si muove. Perciò, se il moto è eterno deve esistere una sostanza che si muove eternamente. Questa sostanza esiste, come abbiamo visto, è l'etere. I corpi terrestri possono alternativamente essere mossi o restare fermi, a seconda che la loro potenzialità si realizzino o no. I corpi celesti, al contrario, realizzano costantemente, senza interrompersi mai, l'unica potenzialità di cui dispongono, ossia quella di muoversi localmente di moto circolare uniforme. Potrebbe dunque sembrare che i cieli siano la causa sufficiente per spiegare l'eternità del moto: in questo caso la ricerca delle cause del movimento si concluderebbe nella Fisica. Ma non è così. E tuttavia il movimento dei cieli è sempre un passaggio dalla potenza all'atto e la considerazione che la loro potenza si traduce sempre in atto non esclude che ciò, in un dato momento, possa accadere: non c'è nessuna necessità che una potenza si traduca in atto. Ma l'eternità del moto è sempre necessaria, per cui la possibilità che il moto si fermi deve essere esclusa in modo assoluto. Per tale motivo Aristotele ritiene che l'unica causa sufficiente per spiegare l'eternità del moto sia una sostanza che è solo atto (atto puro), la quale è totalmente priva di materia e di potenza e dunque assolutamente immutabile: il primo motore immobile. A differenza dei cieli, il motore immobile è necessariamente eterno ed è dunque l'unica causa sufficiente per spiegare la necessaria eternità del moto. Il motore immobile è causa finale. “Egli muove – scrive Aristotele – come essendo amato”. Che cosa significa? Partiamo dal principio che il motore immobile è la sostanza fra tutte più perfetta. Tutti gli altri enti, di conseguenza, si muovono verso di lui, tentano di imitare, nei limiti del possibile, l'immobilità del principio. Meglio ci riescono i cieli, il cui moto circolare uniforme è il più prossimo alla immobilità. Dunque il motore immobile è la causa finale diretta del primo cielo, il più esterno, e causa finale indiretta di tutti gli altri gradi di realtà. Questo modo di essere causa sembra l'unico compatibile con il fatto che il motore immobile non può muovere attivamente per contatto, non avendo infatti materia alcuna. Ma poiché il motore immobile è atto, anzi atto puro, deve avere una certa attività. E tuttavia, poiché l'unica attività che si può esercitare senza materia è pensare, ne consegue che il primo motore è essenzialmente pensiero. Ma di che cosa? Essendo un ente perfetto, non potrà ma rivolgere il proprio pensiero ad altro da sé: se pensasse alle cose inferiori, penserebbe a ciò che è indegno di lui, di cui non ha affatto bisogno. Dunque, il motore immobile è pensiero di pensiero. Oltre a ciò, il motore è anche vita perfettamente felice, insomma si tratta di un dio e questo spiega i numerosi tentavi di conciliare la filosofia prima aristotelica con le tre grandi religioni monoteiste. E tuttavia le religioni lo considerano soprattutto come causa efficiente: se dio è causa finale, infatti, risulta oggetto passivo di amore e di imitazione da parte di altri enti, ma non è soggetto di alcun sentimento e di alcuna attività. Un dio causa efficiente, al contrario, è un dio che si dà da fare per mettere in moto il mondo, che ha interesse per questo mondo. E tuttavia di questo presunto amore nei confronti del mondo, quanto meno nei testi aristotelici che ci sono pervenuti, non c'è alcuna traccia. Ma lo studio del motore immobile, che, in quanto scienza di dio si configura come Teologia, non esaurisce la Filosofia Prima. Anzi, il grosso dei libri di Metafisica ha per oggetto lo studio dell'essere, cioè della cosa più generale di tutti. E in effetti Aristotele definisce la Filosofia Prima come “scienza dell'essere in quanto essere” (cioè ontologia). Ma di che cosa si occupa effettivamente tale scienza? Soffermiamoci sull'affermazione precedente e soprattutto sull'espressione “in quanto”. Se invece dell'essere in quanto essere parliamo dell'essere in quanto animato, la scienza che lo studia sarà la Fisica, anzi la zoologia. “In quanto animato” significa operare una netta cesura nella realtà, separando gli enti animati da quelli che non lo sono. Ma allora che genere di taglio effettua Aristotele quando parla di “essere in quanto essere”? Due sono i possibili ambiti di ricerca: 1) quello delle caratteristiche che appartengono agli enti per il solo fatto di esistere e che dunque sono comuni a tutte le cose; 2) quello delle caratteristiche che possono appartenere solo all'essere genericamente preso. Determinazioni come l'uno e il molteplice o l'identico e il diverso sono comuni a tutte le cose, perché di ogni cosa si può dire che è una, molteplice, identica e diversa, mentre “animale” o “uomo” si predicano solo di alcuni enti. Dunque, tali determinazioni appartengono all'essere in quanto essere. Quanto al secondo caso, Aristotele allude in primo luogo alle categorie. La categoria di quantità, per esempio, non riguarda tutto l'essere (perché esistono anche sostanza, qualità eccetera) ma è una determinazione dell'essere interamente preso e non di uno o più enti particolari. È infatti proprio dell'essere e non di un altro soggetto essere originariamente diviso secondo le categorie. Questi, dunque, sono gli ambiti di ricerca della Filosofia Prima che studia “l'essere in quanto essere”. E tuttavia rimane un problema, che riguarda la possibilità stessa di questa scienza. Se l'essere non è un genere, pare impossibile parlarne in modo univoco e dunque non potrà essere studiato da una sola scienza. La scienza che studia l'animale “cane”, ad esempio, è una scienza unica perché il concetto di cane si applica a tutti i cani con lo stesso significato. Non ci sarà invece una scienza unica per studiare il cane come animale e il cane come costellazione, poiché “cane” ha qui due differenti significati, nel primo caso la scienza relativa sarà la zoologia nel secondo l'astronomia. Riguardo all'essere sembra che valga lo stesso principio. Anzi, Aristotele dice che non solo l'essere ma anche le altre nozioni generali si dicono in vari modi, secondo le diverse categorie: il significato di “uno”, per esempio, cambia a seconda che il termine sia riferito alla sostanza o alla qualità. Aristotele risolve il problema spiegando che il temine “essere”, pur avendo diversi significati, non è però solamente equivoco (come cane in quanto animale e cane in quanto costellazione), perché tutti i vari modi in cui si dice hanno un legame che li tiene assieme. Questo legame è la sostanza, dalla quale tutti gli altri in varia misura dipendono. Aristotele stesso ci aiuta con un esempio. Prendiamo il termine “sano”. Noi diciamo sano un uomo che è in salute, ma anche un cibo. È dunque evidente che “sano” ha due diversi significati. Ma entrambi i significati si riferiscono alla salute (il cibo sano serve alla salute dell'uomo). Perciò, pur rimanendo vero che “sano” non è un genere unico, è anche vero che spetterà ad una scienza unica, quella che studia la salute, stabilire quando un uomo e un cibo sono sani. Allo stesso modo ci sarà una sola scienza che studia l'essere e sarà appunto la scienza che studia la sostanza. Insomma, la Filosofia Prima è studio della sostanza e il primo problema è quello di definire precisamente il temine in questione: che cosa può essere detto sostanza in senso primario? Da scartare subito, ovviamente, la materia, perché qualità essenziale della sostanza è la determinatezza, mentre la materia ne è totalmente sprovvista. Non rimane che la forma. E tuttavia tale scelta sembra smentire una delle tesi delle categorie, dove la sostanza prima era il singolo individuo, composto di materia e forma. Ma la contraddizione non è così grave come sembra. Se i termini da scegliere sono l'individuo (per esempio Socrate) e l'universale (uomo) è chiaro che la preferenza deve essere accordata all'individuo. Infatti l'affermazione secondo cui l'universale è sostanza è caratteristica dei platonici e nella Metafisica Aristotele, per marcare bene la distanza, la respinge con decisione (mentre nello studio delle Categorie aveva ammesso che fosse sostanza seconda). Se invece si tratta di stabilire che cosa fa sì che l'individuo sia una sostanza, allora il primato deve essere dato alla forma. È infatti la forma, che coincide con l'essenza di ciascuna cosa, ciò che fa sì che quella cosa sia precisamente quella che è. Dunque, la sostanza in senso primario è la forma. È chiaro però che tale forma sarà inerente a ogni singolo individuo e perciò sarà cosa diversa dall'universale. Non a caso Aristotele si serve spesso dell'esempio dell'anima: è l'anima, ossia l'anima propria di ciascuno, la forma di un individuo e non un universale come “uomo” o “animale”. Alla base di questa trattazione c'è un problema filosofico di primaria importanza. Aristotele, a differenza di Platone, ritiene che l'essere vero sia l'individuo. E tuttavia continua a ritenere, con Platone, che si ha conoscenza solo dell'universale. Pare dunque che ciò che Aristotele identifica come l'essere in senso primario sia anche non conoscibile. Ma questo non è accettabile dallo stagirita, che intende rimarcare le differenze con il maestro. Aristotele è dunque costretto a cercare una via mediana, quella in cui l'individuo diventi conoscibile, partecipando in qualche modo all'universale, senza tuttavia rompere la gerarchia secondo cui la sostanza è l'individuo e non l'universale. Questa via mediana è data, appunto, dalla forma. La forma di ciascun individuo è in parte caratteristica di quell'individuo e in parte è comune a tutti gli individui della stessa specie. Sarà dunque possibile conoscere un individuo sulla base delle caratteristiche universali inerenti alla sua forma: ad esempio, sapendo che la forma di Socrate è un'anima parzialmente identica a quella di Platone, allorché vengo a conoscere che cos'è l'anima conoscerò, in qualche modo, anche Socrate e pure Platone. Insomma, la conoscenza dell'universale porta a conoscere come è fatta la realtà in cui viviamo e non un mondo diverso e superiore come l'iperuranio. I caratteri universali, a differenza di quanto sosteneva Platone, sono attributi di questa realtà e non esistono di per sé. Ma per stabilire questo era necessario dimostrare che l'universale non è sostanza. L'ETICA E LA POLITICA L'etica Anche per Aristotele come per gran parte del pensiero greco classico etica e politica sono strettamente connessi: l'etica è in un certo qual modo una parte del più ampio complesso della politica, perché l'uomo realizza compiutamente se stesso, il suo fine, anche quelle etico, solamente all'interno di una comunità. Non è un caso, allora, che la celebre affermazione che “l'uomo è un animale politico” si ritrovi sia nella Politica sia nell'Etica Nicomachea. Il Bene è l'idea guida di tutto il discorso etico-politico di Aristotele: qualunque azione deve necessariamente tendere al bene. Dunque si tratterà in primo luogo di dare una definizione di bene, quanto meno di quello umano. Poiché spesso certi beni sono desiderati solo come mezzo per procurarsene degli altri, il bene umano in senso assoluto e generale sarà un bene fine a se stesso, che si desidera in quanto tale. Lo scopo principale dell'etica, dunque, sarà quello di stabilire quale è questo bene. Ma prima occorre fare una premessa metodologica: la scienza etica non può procedere nel modo rigoroso delle matematiche, ma deve accontentarsi di una certezza più debole. Potrebbe sembrare una premessa inutile, perché in realtà Aristotele non usa il metodo deduttivo in nessun caso, nemmeno in fisica, preferendo in sua vece la dialettica. In realtà egli vuole qui sottolineare il fatto che l'etica soffre di una debolezza tutta sua: mentre gli enti naturali hanno comportamenti quasi sempre uniformi e regolari, lo stesso non si può dire degli uomini, che possono decidere spontaneamente come comportarsi. Se dunque anche l'etica è una scienza (e su questo Aristotele non ha dubbi), essa non solo userà come tutte le altre scienze il metodo dialettico, ma anche il rigore dimostrativo di questo metodo sarà comparativamente ridotto. Siamo più o meno tutti d'accordo oggi nel definire cosa sia il bene umano: vita buona o felicità. Ebbene, entrambi questi termini traducono il greco eudaimonìa, anche se il primo, vita buona, sembra leggermente più appropriato. Infatti per Aristotele la felicità non è un sentimento interiore di contentezza, magari temporaneo, ma un modo costante di agire e di vivere. E la vita buona in che cosa consiste concretamente? Per Platone tutto ruotava intorno al significato di bene in sé, cioè dell'idea iperuranica di bene. Una volta colto il significato, questo diveniva il metro di giudizio per le cose terrene, per promuovere il bene umano appunto. Ma Aristotele scarta questa possibilità. A suo parere, infatti, non esiste la nozione di un unico bene valido in tutti i casi, perché il bene si dice (esattamente come l'essere) in tutti i modi in cui si dicono le categorie: per esempio, Dio è un bene nell'ordine della sostanza, mentre la virtù lo è nell'ordine delle qualità. Si tratta naturalmente di due significati di “bene” differenti. Anche in questo caso lo stagirita critica duramente Platone: la sua idea di “bene assoluto”, oltre ad essere assolutamente irreale, è anche infeconda, non accresce cioè la conoscenza dell'uomo circa il concetto di bene. Occorre dunque rimaner con i piedi ben piantati a terra, partire cioè dalle cose che gli uomini considerano buone e poi selezionare quel bene che è fine a se stesso più di tutti gli altri. Applicando rigidamente il metodo dialettico, Aristotele fa avanzare la sua ricerca esaminando alcuni èndoxa riguardo la vita buona: c'è chi pone il fine della sua vita nel piacere, chi nell'onore, chi nella conoscenza. Per stabilire chi ha ragione occorre capire meglio quali di questi fini rispetti di più la natura umana. Ora, poiché la natura dell'uomo è la sua razionalità, la vita migliore sarà quella di chi esercita la ragione, la quale a sua volta deve essere esercitata secondo virtù (aretè). Siamo di fronte ad una vita di pura ricerca, dunque, ad una vita contemplativa. Ma se il fine di ogni uomo è quello di raggiungere la felicità, ne consegue che la vita contemplativa è anche quella che porta il massimo grado di felicità. E tuttavia l'etica si presenta necessariamente anche sotto forma di azioni: esiste cioè una vita attiva e non solo puramente contemplativa. Eccoci allora alla prima suddivisione, quella tra virtù dianoetiche e virtù etiche. Dianoetico deriva da diànoia, che significa pensiero e la massima virtù dianoetica è, appunto, la vita contemplativa. Ma le virtù etiche? Naturalmente anche queste avranno a che fare con la razionalità, in quanto essenza dell'essere umano. Ma come stabilire quale è il comportamento eccellente? Qui Aristotele suggerisce un metodo piuttosto sbarazzino e tuttavia anche piuttosto efficace: il giusto mezzo. Ogni virtù etica è il punto medio tra due estremi, che, presi isolatamente, risultano pessimi. Per esempio, tra la temerarietà e la codardia, entrambi deleteri, la via di mezzo è rappresentata dal coraggio. Accanto al coraggio troveremo poi la gentilezza, la cortesia, la modestia eccetera, i quali si configurano tutti come “termini medi” tra due estremi. Per quanto concerne invece le virtù dianoetiche, posto che la base, la condizione necessaria è rappresentata dalla vita contemplativa, questa si può esplicitare in vari modi. Nell'arte, per esempio, nella saggezza (phrònesis) e nella sapienza (sophia). La differenza tra gli ultimi due modi, che rappresentano il meglio delle virtù, è di fondamentale importanza per capire l'etica aristotelica. Da un punto di vista molto generale, sapienza e saggezza rappresentano rispettivamente il sapere teorico e il sapere pratico. La sapienza, infatti, coincide con la pura attività di ricerca che costituisce il modo più elevato (e quindi virtuoso) di esercitare la ragione. La saggezza, invece, è una forma di intelligenza che regola i comportamenti pratici soprattutto in relazione con le virtù etiche. La saggezza non stabilisce i fini dell'azione morale, bensì i mezzi: essa è “la capacità di deliberare bene in rapporto alla felicità”, stabilisce cioè il modo corretto in cui compiere le azioni in vista di una finalità giù data (la felicità). Saggio è infatti colui che si deve prendere a modello quando si tratta di decidere, caso per caso, in che cosa consiste il giusto mezzo. Dunque, la saggezza è un sapere sempre orientato all'azione e dunque si dispiega soprattutto in rapporto alle virtù etiche. Ma per Aristotele anche l'esercizio della teoria è, rigorosamente parlando, un'azione e dunque anche la sapienza avrà bisogno della saggezza. È la saggezza, infatti, che permette di deliberare circa il modo in cui la sapienza può essere conseguita. Ecco perché Aristotele afferma che “in un senso la sapienza è superiore alla saggezza, ma in un altro senso vale l'inverso”. La sapienza è superiore perché costituisce l'obiettivo più alto che l'uomo può realizzare e dunque è il fine di tutta la vita etica. La saggezza è superiore, viceversa, nel senso che senza di essa la sapienza non potrebbe essere realizzata. Si tratta – continua il filosofo – dello stesso rapporto che intercorre tra medicina e salute: la salute è superiore alla medicina perché è il fine di questa scienza, ma al tempo stesso ne dipende, perché senza la medicina la salute non potrebbe essere conseguita. Riassumendo, la sapienza dà origine alla vita contemplativa, mentre la saggezza alla vita attiva. La politica “L'uomo è un animale politico”: questa è una delle più note affermazioni di Aristotele, che dà il senso a tutta l'opera. La forma più piccola di comunità politica è l'òikos. Generalmente tale termine viene tradotto con “famiglia”, sebbene vi corrisponda solo in parte. Più precisamente, si tratta di una azienda agricola famigliare, in cui vivevano normalmente i cittadini di buona nascita e possidenti, composta non solo da genitori e figli, dunque, ma anche da schiavi domestici, servi rurali e animali da lavoro. Anche qui l'intento polemico nei confronti di Platone è evidente. Il filosofo di Atene, infatti, aveva costruito il suo stato ideale proprio sulla base dello smantellamento della struttura dell'òikos, quanto meno per quanto riguarda le classi superiori. Aristotele, invece, pone tale istituzione alla base dello Stato: la famiglia – sebbene nella forma allargata – è una vera e propria esigenza per l'uomo, un fatto naturale. E, sempre parlando della famiglia, Aristotele attacca un altro pilastro della politica platonica, il cosiddetto femminismo. Nella famiglia l'unico soggetto provvisto di tutti i diritti, infatti, è il maschio adulto e libero, nel suo triplice ruolo di marito, padre e padrone. La superiorità nei confronti dei figli maschi è che questi ultimi non hanno ancora sviluppato in modo completo la loro ragione. Le donne, invece, hanno sì diritto alla libertà pari a quella dei maschi ma non possiedono affatto l'attitudine al comando. Di conseguenza, in famiglia obbediranno ciecamente al marito e non potranno partecipare alla vita pubblica. Infine gli schiavi: quasi come fossero degli eterni bambini, questi uomini non saranno mai in grado, per difetto naturale, di scegliere da sé i propri fini. La schiavitù, dunque, si configura come una condizione necessario al loro stato di esseri inferiori. Per Aristotele l'unico modo naturale per produrre ricchezza è l'agricoltura. Poiché però – come aveva messo in luce già Platone – in una società complessa si creano eccedenza di beni e specializzazione dei compiti, saranno anche necessari il commercio e il denaro come unità di misura degli scambi. Aristotele approva tuttavia solo quelle forme di economia terziaria che possono essere utili all'ottimale distribuzione dei beni, biasimando invece le attività finalizzate al solo accumulo della ricchezza: il denaro è mezzo ed è del tutto innaturale considerarlo come un fine a sé stante. La diffidenza (se non addirittura l'ostilità) verso una libera economia di mercato avvicina il pensiero di Aristotele a quello di Platone. E tuttavia le ragioni non sono economiche né politiche, ma filosofiche ed etiche. Entrambi, infatti, ritengono che la vita davvero buona e degna di essere vissuta non passa attraverso l'accumulazione di beni materiali. Lo Stato che Aristotele continua sempre a identificare con la pòlis nonostante la sua fine e il trionfo dell'impero macedone, si sviluppa dall'unione di più famiglie in villaggi e dalla successiva unione di più villaggi. Riguardo alle forme di costituzione, Aristotele da un lato prende le distanze dal Platone della Repubblica, avvicinandosi invece a quello del Politico e delle Leggi, opere sicuramente pià realistiche. Abbiamo sei tipologie di governo, distinte secondo il numero dei governanti e articolate in coppie a seconda che tali governanti agiscano a beneficio della comunità o proprio. Nell'ordine si tratta di: monarchia e tirannia, aristocrazia e oligarchia, politèia e democrazia. La migliore di queste è la pòliteia, cioè la forma “buona” di democrazia, quella cioè in cui i governanti agiscono a beneficio della comunità. Ma le cose stanno realmente così? È Aristotele un fautore della democrazia (un altra differenza, radicale, con Platone?). Formalmente parlando nella politèia possono accedere a turno alle cariche pubbliche tutti i cittadini maschi, liberi e maggiorenni; la condizione per esercitare la politica è la capacità di comandare e di obbedire. Nella pratica però, Aristotele ammette che abbiano più titolo a governare coloro che godono di una posizione sociale più elevata e di migliori qualità intellettuali. Infatti l'esercizio della vita pubblica è un modo per realizzare la virtù ed è chiaro che possono raggiungere meglio questo fine coloro che sono più dotati sia materialmente sia spiritualmente. Questa disparità, inoltre, è conforme al principio della giustizia distributiva, secondo il quale chi “vale” di più è giusto che abbia di più. Infine non non a tutti gli uomini deve essere concessa la facoltà di accedere alle cariche pubbliche, ma solo a quelli che non devono preoccuparsi delle necessità giornaliere. Insomma, si tratta di un mix tra democrazia ed aristocrazia, anzi, per restare fedeli alla visione etica di Aristotele, ad una via di mezzo tra le due opzioni. D'altro canto, il governo della pòliteia è nelle mani dei “migliori”, che in greco si traduce con àristoi. E i filosofi? Quale è il ruolo di questa classe che Platone aveva messo al vertice del suo stato ideale? Quando verrà il loro turno governeranno lo Stato, risponde Aristotele. Insomma, nessun privilegio: un conto è il politico un altro è il filosofo. Ma la caratteristica che più di ogni altra convince Aristotele della validità della pòliteia risiede nella sua stabilità. A differenza delle altre due forme “buone” di governo, aristocrazia e monarchia, infatti, è la meno soggetta a mutamenti traumatici, alla rivoluzione. E la rivoluzione trova terreno fertile nelle diseguaglianze, nella polarizzazione sociale, cioè in quei sistemi dove a fronte di una minoranza di ricchi si staglia una maggioranza di disperati. Ebbene, la pòliteia ha il merito di presentare un sistema sociale sostanzialmente omogeneo: né troppo ricchi né troppo poveri. Ancora una volta una posizione mediana, dunque, la sola in grado di evitare pesanti rotture rivoluzionarie. A tal proposito Aristotele è molto chiaro: “tutti accetteremmo che fosse uno solo a governare se egli avesse più virtù di tutti gli altri messi insieme: sarebbe il miglior governo, ma è puramente. astratto. Nella politeia , per quanto la maggior parte delle persone abbia virtù mediocri, tutto sommato mettendole insieme qualcosa si ottiene: messi insieme non saranno gran ché, ma insieme riusciranno a far funzionare il governo”. Chiarite le caratteristiche della pòliteia, perché, allora, la sua degenerazione sia chiama “democrazia”? La democrazia, secondo Aristotele, è speculare alla tirannide: se lì domina l'interesse di un singolo monarca, qui quello di una singola classe sociale, quella dei poveri. Insomma, oggi la si potrebbe definire, più propriamente, “demagogia”. POETICA E RETORICA Tra le scienze produttive e poietiche rientrano sia la poetica sia la retorica, poiché hanno entrambe lo scopo di produrre un determinato oggetto: si tratta di composizioni poetiche e di discorsi persuasivi. Aristotele considera la poesia come imitazione della natura e come tale applica il modello biologico e finalistico desunto dalla realtà naturale. Le forme poetiche si sviluppano come le forme naturali verso la massima perfezione consentita al loro genere. In questo senso Aristotele considera come esemplare la tragedia attica del V secolo, in particolare Sofocle ed Euripide, in quanto punto più alto di una lenta evoluzione. L'idea di riservare un'opera apposita alla poetica obbedisce al bel noto principio aristotelico secondo cui gli ambiti della realtà sono differenti per natura e dunque necessitano di trattazioni specifiche. Anche qui è nettamente percepibile la differenza con Platone, che aveva fortemente limitato l'autonomia delle espressioni poetiche, mettendole al servizio dell'etica e della politica. Ben inteso, Aristotele non intende la poetica come totalmente indipendente e separata dalla filosofia. Egli infatti si preoccupa soprattutto di mettere in luce il ruolo ausiliario che la poesia tragica ed epica può svolgere nella comprensione razionale della realtà. La natura di questo ruolo può essere capita mediante il confronto con la storia. La storia, secondo Aristotele, è meno filosofica della poesia, in quanto si limita a narrare fatti contingenti e particolari. La poesia, al contrario, si colloca dal punto di vista dell'universale ed è proprio questo aspetto ciò che la rende feconda sul piano conoscitivo. Ma in che senso la poesia ha un rapporto con l'universale? Nella poesia tragica ed epica sono messi in scena personaggi provvisti di un determinato carattere, che danno origine a sequenze di azioni corrispondenti. Ora, sia il carattere sia le azioni manifestano strutture paradigmatiche e in un certo senso ripetibili. Achille, per esempio, è il tipo ideale del guerriero forte, orgoglioso e irascibile, mentre l'azione in cui è coinvolto è indicativa di come possono svolgersi in generale i fatti in tutti i casi analoghi. Perciò, sempre ammesso che il poeta abbia correttamente imitato la natura, Aristotele può ritenere a ragione che lo studio della poesia aiuti a comprendere meglio la condizione umana. Ma la poesia è importante anche sul piano etico. Aristotele afferma infatti che spettatori e lettori di opere epiche e tragiche possono conseguire una sorta di “purificazione”, in greco catarsi, mediante i sentimenti di pietà e di paura che il testo poetico suscita in loro. La catarsi ha l'effetto di trasformare la pietà e la paura in qualcosa di diverso da ciò che si prova quando ci si identifica con i personaggi. Subentra, in altre parole, un certo distacco, per mezzo del quale il lettore-spettatore sospende il suo coinvolgimento emotivo e giunge a valutare razionalmente le azioni che vede, così da potere evitare, nel caso che gli si presenti una situazione analoga, di compiere gli stessi errori. Aristotele stabilisce anche delle regole per la poetica, le regole delle tre unità: di tempo, di luogo e di azione. L'azione di un'opera (drammatica) deve svolgersi nel medesimo luogo, avere una durata non superiore a quella di un giorno solare e dipanare il filo in una singola e compatta vicenda. La tragedia greca rispetta sicuramente le due prime unità, ma soprattutto per l'arretratezza delle tecniche di allestimento. Per quanto concerne l'unità di azione, invece, non si può dire che sia stata sempre rispettata. Basti pensare ad alcune tragedie di Euripide, nelle quali sarebbero presenti episodi collaterali non bene integrati nella trama principale. E comunque le tre regole aristoteliche si applicano, secondo Aristotele, solo alla tragedia greca e non costituiscono norme universalmente valide. La lotta contro queste regole, condotta con forza nel corso del secolo XIX, ha aperto le porte al Romanticismo moderno. La retorica è un'arte che ha sempre attratto Aristotele, sin da giovanissimo, quando lavorava come dialettico nell'Accademia. La retorica e la dialettica hanno in sostanza lo stesso fine, quello di individuare argomenti persuasivi su qualche tema. Mentre Platone aveva in un certo senso incorporato la retorica nella dialettica, Aristotele ritiene necessario tenere distinte le due discipline. Per il maestro ateniese, infatti, l'oggetto della conoscenza filosofica esisteva in una dimensione separata da quella sensibile ed è dunque necessario persuadersi e persuadere gli altri che tali oggetti esistano davvero. Per il discepolo di Stagira, invece, questa separazione non esiste per cui è possibile distinguere tra una dialettica che persuade in modo dimostrativo, avvicinandosi nel contempo alla scoperta della verità, e la retorica, che invece ha proprio e solo lo scopo di persuadere. Insomma – come scrive l'autore – la retorica è lo specchio della dialettica, più o meno come il risvolto di un vestito: essa si serve di strumenti analoghi, ma più deboli, nella misura in cui il suo fine è meno ambizioso. Al sillogismo dialettico corrisponde l'entinema, all'induzione l'esempio. L'entinema è un sillogismo in cui una o più premesse vengono lasciate implicite con lo scopo di ottenere una migliore efficacia persuasiva. È facile persuadere un uditorio composto da un pubblico generico accostando in modo intuitivo alcune proposizioni, mentre la disamina dell'intero procedimento argomentativo susciterebbe problemi che in quel contesto non possono essere risolti. L'esempio, invece, si differenzia dall'induzione perché prende in esame non molti casi, ma solo uno e cerca di suscitare la persuasione mediante la particolare evidenza o forza emotiva del caso che si è scelto di presentare. Aristotele distingue la retorica in tre grandi generi: deliberativo (in politica), giudiziario (nei processi) ed epidittico (negli encomi).