EDUCAZIONE E COMUNICAZIONE UNA PASSIONE PASTORALE

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EDUCAZIONE E COMUNICAZIONE
UNA PASSIONE PASTORALE INDISPENSABILE PER VIVERE IL
VANGELO OGGI
Il contributo di S.E. Mons. Staglianò,
Vescovo di Noto e delegato della CESi per la Cultura e le Comunicazioni sociali
«Tra i compiti affidati dal Maestro alla Chiesa c’è la cura del bene delle persone,
nella prospettiva di un umanesimo integrale e trascendente13. Ciò comporta la
specifica responsabilità di educare al gusto dell’autentica bellezza della vita, sia
nell’orizzonte proprio della fede, che matura nel dono pasquale della vita nuova, sia
come prospettiva pedagogica e culturale, aperta alle donne e agli uomini di qualsiasi
religione e cultura, ai non credenti, agli agnostici e a quanti cercano Dio. Chi educa è
sollecito verso una persona concreta, se ne fa carico con amore e premura costante,
perché sboccino, nella libertà, tutte le sue potenzialità. Educare comporta la
preoccupazione che siano formate in ciascuno l’intelligenza, la volontà e la capacità di
amare, perché ogni individuo abbia il coraggio di decisioni definitive14. Riecheggia
in queste parole l’insegnamento del Concilio Vaticano II: “Ogni uomo ha il dovere di
tener fermo il concetto della persona umana integrale, in cui eccellono i valori della
intelligenza, della volontà, della coscienza e della fraternità, che sono fondati tutti in
Dio Creatore e sono stati mirabilmente sanati ed elevati in Cristo”» (CEI, Educare
alla vita buona del Vangelo, n.5).
Gli Orientamenti pastorali della CEI per il decennio che sta trascorrendo – Educare
alla vita buona del Vangelo -, ripropongono al centro dell’attenzione di tutti il tema
dell’educazione, rimettendosi nel solco della tradizione educativa della Chiesa, e
richiedendo un supplemento di impegno perché si lavori «a una formazione totale
della persona». Svolgendola riflessione sulla educazione in rapporto alla
comunicazione nella cultura digitale di oggi, si afferma al n. 51: «La comunità
cristiana guarda con particolare attenzione al mondo della comunicazione come a una
dimensione dotata di una rilevanza imponente per l’educazione. La tecnologia digitale,
superando la distanza spaziale, moltiplica a dismisura la rete dei contatti e la
possibilità di informarsi, di partecipare e di condividere, anche se rischia di far
perdere il senso di prossimità e di rendere più superficiali i rapporti. La crescita
vorticosa e la diffusione planetaria di questi mezzi, favorite dal rapido sviluppo delle
tecnologie digitali, in molti casi acuiscono il divario tra le persone, i gruppi sociali e i
popoli. Soprattutto, non cresce di pari passo la consapevolezza delle implicazioni
sociali, etiche e culturali che accompagnano il diffondersi di questo nuovo contesto
esistenziale. Agendo sul mondo vitale, i processi mediatici arrivano a dare forma alla
realtà stessa. Essi intervengono in modo incisivo sull’esperienza delle persone e
permettono un ampliamento delle potenzialità umane. Dall’influsso più o meno
consapevole che esercitano, dipende in buona misura la percezione di noi stessi, degli
altri e del mondo. Essi vanno considerati positivamente, senza pregiudizi, come delle
risorse, pur richiedendo uno sguardo critico e un uso sapiente e responsabile». Gli
appunti meditativi che seguono intenderemo costituire una sorta di “commentoapprofondimento” di questo testo, con particolare riferimento (benché non specifico)
alla realtà giovanile.
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Educare i giovani, accompagnarli nel loro cammino di crescita, aiutare la loro
intelligenza e il loro cuore a maturare con consapevolezza critica e apertura d’animo,
è il compito più importante per la società civile di oggi e per le nostre famiglie. La
Chiesa ha una storia millenaria nell’ambito della formazione e dell’educazione. E’
giusto allora che l’attuale “emergenza educativa” la interpelli direttamente e che
ricomincino a sorgere nuovi spazi formativi, nei quali la trasmissione dei saperi venga
fatta rispettando tutte le dimensioni che entrano in gioco nel processo educativo: per
educare, infatti, non basta semplicemente informare, ma è necessario forgiare il cuore
e la mente, perciò si educa la persona, non soltanto il suo cervello. Una delle crisi
della scuola di oggi, per esempio, sta proprio nel fatto che mentre istruisce, non riesce
più ad educare, perciò non riesce neanche ad istruire: l’istruzione infatti presuppone
l’educazione ed è essa stessa un fatto educativo.
Il grande rischio di oggi è infatti quello di una educazione “mozzata”. Pensiamo solo
per esempio al problema della istruzione-formazione-educazione nelle scuole: una
scuola che puntasse esclusivamente e in maniera esagerata all’istruzione come “arido
intellettualismo” o “enciclopedismo senza vita” al quale viene a mancare tutto il lato
estetico, etico, religioso, non farebbe un buon servizio alla formazione integrale della
persona. La predilezione degli aspetti tecnico-scientifici nella formazione scolastica a
scapito di quelli umanistici è solo un segnale dell’impoverimento verso cui tende il
sistema educativo generale.
E’ questione che interpella non solo la scuola, ma ogni luogo o tempo formativo,
ovviamente anche la comunicazione umana in tutte le sue forme, specialmente
l’annuncio del Vangelo che, da sempre, ha la pretesa di educare l’umano degli uomini,
propiziando l’incontro con una persona vivente, il Cristo, l’unico maestro, capace di
conferire all’esistenza degli uomini e delle donne, specialmente dei giovani, quel
gusto nuovo di vivere, nel quale splende la bellezza dell’umano.
Educare significa “introdurre alla realtà”, a tutta la realtà, per affrontarla con
competenza e creatività. E’ un insegnamento che presuppone la capacita della fede
cristiana di generare nuova cultura: il cristianesimo apre gli occhi sulla realtà e
dispone l’uomo ad assumersi responsabilmente i compiti anche difficili della vita,
senza “fuggire dalla realtà”. Oltre dunque inutili pregiudizi (più o meno moderni),
occorre ribadire che la fede favorisce l’autonomia della cultura e la libertà della
ricerca culturale, dà ad esse solide fondamenta e, nel rispetto dei metodi e dei
linguaggi dei vari saperi, ne indica un esito propositivo. Sicchè, il riferimento esplicito
e diretto alla fede cattolica aiuta la trasmissione dei saperi scientifici nell’orizzonte di
una razionalità vera, aperta alla questione della verità e dei grandi valori iscritti
nell’essere stesso dell’uomo e aperta pertanto al trascendente, a Dio. E’ necessario
allora preoccuparsi di offrire ‫״‬un sapere per la vita‫״‬, ossia di fornire strumenti utili ad
interpretare e ordinare criticamente i messaggi ricevuti da più parti e in vario modo,
oltre che utili ad introdurre nella cultura significati umani, personali e collettivi, che
superino una visione ‫״‬neutrale‫ ״‬del sapere. Si tratta di educare delle persone e
l’educazione è educazione della persona. Perciò, la libertà viene assunta “come clima
e come metodo”, nell’affermazione della propria identità e dei propri valori di
riferimento. Non si deve allora educare al pluralismo, come se tutte le opinioni
fossero vere, ma educare nel pluralismo, con l’affermazione delle proprie convinzioni,
pur nella conoscenza e nel rispetto di quelle altrui. Dovremmo puntare – come
afferma Benedetto XVI, in continuità con la tradizione cattolica, specie del XX secolo
- a un umanesimo integrale comprensivo di ogni dimensione dell’educazione (quella
civile e politica non meno di quella morale e religiosa), nell’ottica di una laicità
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rettamente intesa. Certo, tutto deve accadere nella drammatica dell’odierna libertà. E’
tempo di una “nuova creatività” educativa, per mettere le ali alla capacità di ognuno e
di tutti, per inventare percorsi formativi ed educativi idonei ad affrontare le grandi
sfide dell’odierna società complessa, multiculturale e pluralistica.
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Cor ad cor loquitur (Newman). Per essere feconda l’educazione ha da essere
“personalizzante” e diventa inevitabilmente “comunicazione interpersonale”. In
generale, certo, ma soprattutto in particolare quando si tratti di educare alla fede e di
educare nella fede. E’ un processo delicato con il quale ci si impegna farsi spazio nei
cuori delle persone, per guidare le coscienze di ognuno sulle vie della fraternità, della
solidarietà cristiana e del prendersi cura, senza disattendere quelle della giustizia
sociale, dell’onesta politica e del bene comune. Mi pare che la testimonianza
comunicativa di Papa Francesco vada in questa direzione e si sta presentando come un
buon “modello” comunicativo, in grado di ridare nuova credibilità al cattolicesimo,
pur dentro i tanti disastri e le diverse “disgrazie” del tempo presente (si pensi al
problema dei preti pedofili e le tante forme di corruzione che avvelenano il segno
comunionale proprio della Chiesa). E’ interessante su questo leggere il piccolo
opuscolo di Jorge Mario Bergoglio-Francesco “Guarire dalla corruzione” (Emi,
Bologna 2013).
Per il primo aspetto (educare alla fede) l’annuncio del Vangelo resta imprescindibile,
come annuncio, predicazione e celebrazione liturgica: è la comunicazione tipica dei
cristiani, inseriti in una tradizione vivente, nella quale ricevono da secoli l’amore di
Cristo attraverso la celebrazione dell’Eucarestia e si impegnano a loro volta a
trasmettere-comunicare lo stesso amore in relazioni umane improntate alla sincera
amicizia e ad una feconda ospitalità.
Per il secondo aspetto (educare nella fede) è quanto mai necessario che la verità del
Vangelo getti luce sui tanti sentieri della vita degli uomini e delle donne del nostro
tempo, senza dimenticarne nessuno: così, la predicazione cristiana – primo compito
della Chiesa - diventa servizio intelligente al discernimento del bene di tutti, della
fiducia sociale per convivere insieme nella pace e nel rispetto della dignità della
persona umana, dell’ambiente da salvaguardare per sopravvivere nel nostro pianeta,
delle relazioni sociali nelle quali in maniera speciale si gioca il futuro dello sviluppo
del nostro territorio. Nel Vangelo di Gesù che è identico alla sua persona (la persona
della Verità o la Verità in persona) è “il” nuovo umanesimo, secondo il titolo del
Convengo ecclesiale di Firenze del Dicembre 2015.
Insistendo su questo secondo aspetto, senza per altro abbassare la guardia circa il
primo, la Chiesa non entra affatto in terreni che non sarebbero propri della fede.
Tutt’altro, si impegna invece a correggere certo devozionalismo serpeggiante dentro
le comunità cristiane, spesso chiuse in pratiche pietistiche che non formano coscienze
di cristiani adulti e maturi nella fede, capaci di assumersi le dovute responsabilità
sociali nella propria vita quotidiana e nella propria storia personale e comunitaria. Il
nuovo umanesimo, sgorga dalla fede cattolica ed è coscienza che il cattolicesimo è
realmente un cattolicesimo sociale. Dovrebbe essere un fatto scontato, ma va ribadito,
ricordato opportunamente, rilanciato, tenendo conto della direttiva dominante oggi: la
comunicazione. Su questo campo i credenti e le parrocchie, in dialogo con tutti gli
uomini di buona volontà, devono poter tenere testa ai tanti problemi che travagliano la
cultura di oggi, cangiante e vorticosamente accelerata.
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Per dare speranza agli uomini di oggi è necessario favorire “ecosistemi comunicativi”.
Così, comunicare non è solo una questione del buon uso dei mezzi della
comunicazione sociale (giornali, televisione etc.). La comunicazione è un fenomeno
più ampio e coglie l’uomo nella sua realtà profonda: la comunicazione è relazione e,
poichè l’uomo è relazione , allora la comunicazione è una vera condizione esistenziale
dell’uomo che nella sua stessa essenza è “animale comunicativo”. Come tale, l’uomo
comunica anche quando non comunica. Si, un “esperto di comunicazione” si può oggi
epistemologicamente definire “antropologo”.
E’ vero, si tratta di noi. Attraverso la nostra capacità di comunicare si realizza la
nostra gioia, la nostra felicità, la serenità nei rapporti umani, la fiducia sociale, una
nuova civiltà improntata sulla giustizia, sulla pace, sul riconoscimento dei diritti e
anche sull’attenzione alla vecchie e nuove povertà. Perciò il tema della
comunicazione interessa la comunità cristiana, per la testimonianza che deve dare, ma
coglie anche il cuore stesso della nostra convivenza civile. Da qui l’invito è rivolto a
tutti, credenti e non credenti, praticanti e “uomini della soglia”: impegniamoci a
favorire “ecosistemi comunicativi”, spazi di dialogo, fautori di speranza per il
richiamo alla centralità della persona nelle concretezza della sua storia.
Questo diventa denuncia e compito. Anzitutto è denuncia di certa “spudoratezza” della
comunicazione sociale che smaniosamente vuole rendere tutto pubblico, appiattendo i
messaggi in una esposizione di problemi, di stati d’animo, di situazioni personali,
divenuti oggetti di mercato, offerti senza regole nella vetrina del villaggio globale. E’
anche impegno per la cura delle altre forme comunicative che non appaiono
immediatamente collegate con i mass-media e però costituiscono gli spazi del
possibile compimento dell’uomo in un rapporto comunicativo che realizza esperienze
di comunione, nelle quali le persone ritrovano se stesse, i propri affetti, la propria
dignità, il riconoscimento della propria identità.
In questo contesto, anche il silenzio diventa forma di comunicazione e le parole non
dette o non pubblicizzate rafforzano la comunicazione. Su questo le comunità
cristiane, le parrocchie non possono distrarsi. Si deve lavorare molto per acquistare
competenza comunicativa. Oggi, questa competenza appare bloccata dalla mancanza
di un ambiente favorevole, mentre le antiche strutture, come la famiglia e la scuola, si
sfaldano e perdono il loro ruolo di integrazione sociale, lasciando i giovani soli con
loro stessi, esposti al bombardamento quotidiano della pubblicità commerciale che li
inghiotte e li rende incapaci di scelte vere nell’orizzonte di un consumismo in cui tutto,
veramente tutto, è relativizzato. Perciò, comunicare è una passione pastorale
indispensabile per la comunicazione del Vangelo oggi e qui.
Allora, è divenuto indispensabile per tutti educare alla comunicazione e lasciarsi
educare alla comunicazione umana vera. Come non si ama per istinto, così non si
comunica per istinto: comunicare è un arte, che si apprende in modo sempre più
profondo, dentro le concrete situazioni della vita e della società.
Si pensi a quanto sta accadendo nel nostro territorio italiano ed europeo con il
continuo migrare di uomini e donne dalle zone più misere del globo terrestre. Questo
richiede da tutti che si attivi un processo complesso e difficile di reciproca
comprensione interculturale affinché la comunicazione umana non cada nel vuoto o si
esprima in forme di dominio e di sfruttamento, di disuguaglianza e di conflittualità, e
talvolta tragicamente di annientamento. Ritorno allora sulla distinzione (che è solo
logica, ma non effettiva, perché nella vita questi aspetti si danno assieme) tra
comunicare come “educare alla fede” e comunicare come “educare nella fede”. Questi
due aspetti si fondono ora. Occorre, infatti, rigenerare comunità cristiane nuove,
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capaci di un annuncio del Vangelo più incisivo, testimoniale, incarnato, capace di
penetrare nel profondo delle mentalità, dei valori condivisi, per rigenerare l’ethos
della gente, contribuendo alla realizzazione di un futuro più degno dell’uomo,
maggiormente rispettoso dell’umano e così dare speranza oggi.
Diventa allora urgente tentare la comunicazione del novum dell’evento cristiano con
una consapevole avvertenza: appare necessario un particolare discernimento critico
dei trend attuali, culturalmente rilevanti, che forgiano “usi e costumi” dell’uomo del
terzo millennio, sia per i tanti aspetti negativi, e sia anche per i tanti segni si speranza
diffusi nel mondo. Perciò l’impegno di evangelizzazione si fa cura della crescita della
“pietà” e della “devozione” dei cristiani, ma nella maturazione di una “fede adulta”
che non dimentichi di abitare con creatività i luoghi propri nei quali l’umano
dell’uomo splende nella sua bellezza o viene deturpato fino al disprezzo: così la
Chiesa abita legittimamente i luoghi del sociale e in essi offre il proprio contributo di
sapienza e di umanità. Già la Chiesa – secondo una bella espressione di Paolo VI -, è
“maestra in umanità” e pertanto vuole comunicare, magari nella forma più alta della
comunicazione che è l’amore. “Il nuovo umanesimo” non può non esaltare l’umano
dell’uomo, e tuttavia deve anche mostrare la sua capacità di dare risposte concrete alle
tante forme del degrado e della barbarie, diventando sapienza di vita (con risposte
concrete e praticabili) rispetto ai tanti drammi dell’odierna scena del mondo: la
riarticolazione del rapporto di genere (maschio-femmina) anzitutto, la configurazione
delle famiglie, la società solidale e partecipativa, l’economia umana e civile, la civiltà
dell’amore.
L’umanesimo cristiano è umanesimo integrale, promuove la cultura della
comunicazione, nel senso che sa comunicare una cultura (qui la fede diventa cultura e
crea cultura nuova) crismatica che esalta i rapporti tra le persone, mette le persone
realmente in comunicazione, perché può far anche conto della comunicazione
fondante lo stesso potere comunicativo degli uomini, il Logos (come legame), lo
Spirito (come comunione), “il divino nell’uomo” (come apertura ed estasi nella
bellezza del cosmo).
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Non sempre è però “Pentecoste” nella comunicazione umana. Molto più
spesso è “Babele”. Esistono, infatti, condizioni culturali e sociali (in cui versano
soprattutto tanti giovani di oggi) che impediscono rapporti veri tra le persone e
bloccano la comunicazione. Il disagio sociale giovanile è visibile nel consumo di
alcool che comincia ad interessare 7 su 10 dei nostri ragazzi (l’età si è abbassata) nei
festini dell’happy hour; la facilità con cui i figli derubano i genitori di qualche
prezioso ricordo per andarlo a cambiare subito e ricavarne denaro; la ludopatia è la
malattia più diffusa oggi in strati molto ampi della popolazione. Si potrebbe
continuare in una lunga lista di “fenomeni disumani” che attestano come il disagio
sociale ed il disorientamento culturale dei giovani non possono più essere disattesi.
Questi dati statitistici fanno pensare. Esigono un intervento di urgenza, per stabilire
loro una comunicazione, capace di trasmettere valori. Non è possibile lasciarli soli.
In realtà, le giovani generazioni diventano nel temperamento sempre più fragili,
mentre si perde progressivamente il senso stesso dell’autorità e della tradizione. La
vita si vive all’insegna dell’esperimento, dentro una fiumana di sentimenti e di
decisioni che non valgono nemmeno l’istante in cui sono prodotte: tutto scorre, e
velocemente. La provvisorietà estrema è la condizione di tutti gli affetti e i legami, da
quelli familiari e politici, a quelli religiosi e sociali. L’appartenenza – come forma di
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adesione stabile a chicchessia – è totalmente in crisi e con essa il disorientamento
incalza nella perdita della propria identità, quanto più cercata tanto più compromessa
ed evanescente. Tutti allora devono interrogarsi sulla propria scarsa “presa
comunicativa”. Le istituzioni pubbliche hanno potere di aggregare? I giovani
consumano tutto nell’individualismo. Le parrocchie e la Chiesa in genere conoscono
le difficoltà della comunicazione tra i giovani. I sociologi parlano di un
disorientamento dell’io per il quale il soggetto si disperde in una marea di scelte che
non lo liberano, ma lo opprimono, come una condanna, senza poter avere il
riferimento a basi stabili o a certezze che aiutino la persona a decidersi per scelte che
durano, che valgano la fedeltà di una vita. Da una parte, l’organizzazione tecnologica
forgia un mondo apparentemente dominato dalla razionalità, l’ordine degli affetti è
lasciato a uno spontaneismo sregolato, nel quale ognuno fa da sé, con una forte
tendenza al conformismo e all’omologazione, con una progressiva perdita della
capacità di unificazione della propria esistenza, anche attraverso il sentimento della
memoria, dell’essere cioè legati a un passato.
A forgiare questa nuova condizione umana hanno contribuito anche le accelerazioni
del quotidiano vivere causate dalle innovazioni tecnologiche nel campo dei media: le
reti di comunicazione ridefiniscono l’idea stessa di comunità, rompono i quadri di
riferimento del passato, stabiliscono nuovi ritmi all’esistenza, introducendo una
dirompente destrutturazione del nucleo familiare. La famiglia (ma anche la parrocchia)
ha difficoltà a definirsi come luogo in cui si trasmettono contenuti.
Tanto più che il successo dei new media sembra consacrare l’atto dello scambio
comunicativo (prevalentemente emozionale) con una abbondante indifferenza circa i
contenuti trasmessi. La comunicazione virtuale la vince sulla comunicazione di
presenza, per cui contenuti “pesanti” come quelli relativi all’identità religiosa
sembrano risentire di crescenti difficoltà sul territorio della comunicazione
emozionale tipica delle nuove reti. La trasmissione culturale (= accogliere e
trasmettere) viene consistentemente compromessa, perché la stessa esperienza
fondamentale del ricevere-donare tende ad assumere dimensioni individualistici ed è
spesso tarlata da una logica mercantile e consumistica. Anche il neopagano U.
Galimberti sostiene in un suo libro dal titolo - L’ospite inquietante. Il nichilismo e i
giovani (Feltrinelli 2008) -, che per estirpare in modo radicale l’insicurezza la via non
è quella dell’utopia modernista dell’onnipotenza umana: «la strada da seguire è
un’altra: quella della costruzione di legami affettivi e di solidarietà capaci di spingere
le persone fuori dall’isolamento nel quale la società tende a rinchiuderle, in nome
degli ideali individualistici che, a partire dall’America, si vanno paurosamente
diffondendo anche da noi». E’ quanto il cristianesimo predica e si impegna a vivere e
a costruire da due secoli. Galimberti se ne accorge oggi. Meglio tardi che mai.
♦
La comunicazione umana – base di ogni trasmissione culturale – evidenzia
fenomeni contraddittori: da una parte si espande tecnologicamente, dischiudendo
ampie e inedite possibilità, dall’altra sembra sfuggire “alla problematica del senso e
dei valori”, funzionando più come veicolazione di conoscenze e di informazioni che
non come trasmissione di esperienze. Occorre avvertire con maggiore acutezza critica
il “blocco” e “il cortocircuito comunicativo” di comunicazioni solo apparenti, ma in
realtà non autentiche, dove c’è spazio solo per rapporti conflittuali: qui, gli altri sono
solo l’inferno, nella mancanza di quell’amore e di quella gratuità che fondano la
relazione. La fede cristiana ha la pretesa di entrare nel sociale della comunicazione
come energia liberante, come forza di vita, come ragione di speranza e di gioia, come
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radice di solidarietà e di impegno. Qui si parla il linguaggio della persona e non
semplicemente dell’individuo. Chi si concepisce come individuo pretende che
vengano riconosciuti i propri “diritti” e non si apre allo sguardo sull’altro e sui suoi
bisogni: trasforma tutto in una grande specchiera nella quale dappertutto (in alto, in
basso, a destra o a sinistra) viene riflessa sempre e solo la propria faccia.
Nell’individualismo diffuso delle nostre società, il narcisismo abita comodamente, ma
anche la smaniosa tendenza a dominare l’altro, a trasformarlo in strumento utile per i
propri scopi o merce da consumare sui mercati del mondo. La vera comunicazione
non è possibile tra individui centrati su se stessi, e però sclerotizzati, né può esserlo in
mezzo alla massa, nello stato di massa. Per rompere il cortocircuito della
comunicazione occorre ritornare alla persona. Che ogni uomo si riconosca e
riconosca gli altri come persona: l’uomo è persona, creato da Dio, con diritti
inalienabili: alla vita e alla crescita armonica in una famiglia unita e in un ambiente
morale che aiutino lo sviluppo della sua personalità. L’uomo è persona e lo è nel dono
di sé, fondamento di una convivenza solidale e pacifica tra persone e tra popoli.
L’uomo è persona perché è capacità di autotrascendimento, ultimamente fondata nella
dimensione trascendente del suo essere, in quanto relazionato al Trascendente
assoluto, cioè a Dio.
Qui, la fede cristiana mette in gioco il suo contenuto più prezioso nel nuovo
umanesimo, la sua “perla” nel dialogo culturale o se si vuole nella “controversia
culturale”: l’affermazione di Dio è principio della salvaguardia della persona
nell’uomo, il criterio forte e irriducibile che ne impedisce la sua manipolazione, il suo
sfruttamento, la sua mercificazione, la sua riduzione ad un “semplice essere vitale” tra
i tanti esseri esistenti, nella perdita della sua singolarità, della sua peculiarità nativa.
La centralità dell’uomo nel cosmo trova la sua ultima giustificazione nel fatto che
l’uomo ha in sé l’immagine di Dio: «Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di
Dio lo creò; maschio e femmina li creò» (Gen 1,27). Corpo (basar), anima (nephes),
spirito (ruah), l’uomo trova la sua dignità nell’essere in relazione con Dio. Parte del
cosmo, condivide la condizione di vivente con tutti gli esseri animati, ma egli è
“spirito”: sintonizzato a una fonte da cui attinge vita come da una sorgente
inesauribile, non solo l’esistenza, ma la vita, cioè l’esperienza di una esistenza attuata
nella relazione d’amore, nella comunione di affetti, nella esplosione della gioia.
L’amore di Dio è il suo vero grembo, in un senso del tutto speciale, quello per cui egli
è Figlio del Padre, ma per questo anche padre (trasparenza della paternità di Dio)
degli uomini, figli di Dio. L’uomo ha così la capacità di specchiare l’origine e di
farsene trasmettitore. L’immagine dell’origine è la sua realtà: maschio e femmina,
l’uomo è relazione (non ha relazioni, ma è le sue relazioni). L’uomo è persona, cioè
relazione amativa. L’uomo persona non può vivere senza amare e l’amore è il grembo
specifico in cui ogni uomo matura come persona, nella capacità di donarsi e di
comunicare in modo autentico.
Come attivare la capacità comunicativa propria della relazione amativa che è l’uomo,
creato a “immagine e somiglianza di Dio”? Il divino nell’uomo, l’essere divino che
costituisce l’umano dell’uomo e rende l’anmale-uomo umano, splende
nell’autotrascendimento di sé vero l’altro/altri/Altro. Questa attuazione dell’umano,
proprio perché porta i tratti seri e responsabili della persona libera, si vive nella
drammatica di una lotta (= agonia) che ben conosce il patire, la sofferenza prodotta
dal male nella storia degli uomini. Il male affligge la comunicazione umana: perciò la
comunicazione va redenta.
♦
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L’annuncio di Dio della fede cristiana è un evento di redenzione perché gli uomini
imparino a dialogare, a comunicare e lavorare insieme per l’onestà, la giustizia e la
dignità di tutti. “Il nuovo umanesimo” nasce come esperienza di salvezza e di
liberazione, come vittoria sul male e sulla morte.
Esiste il male? Cosa è? Dove lo si vede con tanta evidenza? E tutti lo possono
riconoscere? Le notizie riguardanti l’umano (nel sociale, nel politico anche negli spazi
della Chiesa, talvolta) elargiscono a buon mercato – anche dentro certa enfasi
giornalistica – una immagine piuttosto degradata della nostra realtà ambientale e
sociale: alla fine è sempre un problema di inquinamento dell’ambiente (terra e mare)
e dell’umano (intelligenza e cuore). Il male c’è ed ha forme crude e disastrose, non ha
limiti e tende ad espandersi. Il male non è una realtà anonima, ha degli attori con nomi
e cognomi, benché il più delle volte ama restare nel nascondimento, invisibile, pronto
ad aggredire al momento opportuno. Il male è “il nulla”. Nel male è chiaro che si
perde tutto il bene, tutta la gioia e la serenità, tutta la riconciliazione con Dio, tutta la
speranza del cielo. Il male è come un aneurisma che scoppia nel cuore: è possibile
prevenire l’implosione, e però si è spesso stolti a tal punto da non vederlo. Anzi, da
fingere di non vederlo, fino al punto da non accorgersi che ormai ha raggiunto limiti
responsabilmente insopportabili. Lasciamoci provocare dall’interrogativo di V.
Soloviev nella sua prefazione a I tre dialoghi e il racconto dell’Anticristo: «E’ forse il
male soltanto un difetto di natura, un’imperfezione che scompare da sé con lo
sviluppo del bene oppure una forza effettiva che domina il mondo per mezzo delle sue
lusinghe sicché per una lotta vittoriosa contro di esso occorre avere un punto di
appoggio in un altro ordine di esistenza?».
Il mondo vive in una crisi che lo travaglia. L’ottimismo nel progresso inevitabile e i
grandi traguardi tecnologici del XX secolo si rivestono di un sentimento tragico per la
paura (non catastrofica, ma realistica) della scomparsa totale dell’umanità e della fine
della vita sul pianeta terra, per le tante tragedie ecologiche. Ma è soprattutto la gabbia
dell’egoismo a bloccare le energie di apertura comunicativa della libertà umana,
inibendo l’amore e ingigantendo l’odio. L’inquinamento dell’habitat comunicativo
nei rapporti sociali non è una metafora, ma è esperienza continua che si da in tanti
fraintendimenti, equivoci, incomprensibilità. Queste si sedimentano e si trasmettono
rendendo soffocante l’atmosfera comunicativa, ma anche producendo una
corrispondente invocazione di salvezza che non sembra possa giungere all’uomo da
progetti di autoemancipazione, quanto piuttosto da proposte di redenzione. Il male
affligge la comunicazione umana con quelle “dispersioni della presunzione
intellettuale” che impediscono di “vedere le cose così come sono”, per cui il mondo si
riempie di menzogne, di apparenze ingannevoli. Perciò la comunicazione umana va
redenta: il cristianesimo è nel mondo soprattutto per questo, per offrire salvezza,
redenzione. Il Dio, predicato dal cristianesimo, si impegna e impegna tutti in un’opera
di trasformazione della società nell’obbedienza al comandamento dell’amore, la cui
figura concreta è quella manifestata dal Crocifisso, l’amore che spinge il dono di sé
incondizionatamente e unilateralmente (ossia eucaristicamente) fino alla morte. La
donazione libera nella morte sprigiona attraverso la risurrezione una potente forza di
solidarietà universale che lega in un rapporto di comunione tutti gli uomini, oltre gli
stessi limiti temporali, mentre garantisce una comunicazione interumana improntata
alla giustizia e alla misericordia, nella disponibilità a sacrificare la propria vita pur di
rispettare nell’amore la libertà dell’altro, anche qualora questa libertà si
autoimponesse contraddittoriamente nel peccato come ripiegata e ostile, addirittura
pericolosamente nemica.
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Questa libertà, quale “legge nuova”, che trova nelle beatitudini del discorso della
montagna il suo paradigma normativo di autenticità, non sarà allora una conquista
dell’uomo (quasi fosse la costruzione di una base procedurale corretta del dialogo
comunitario), ma è frutto del dono dello Spirito, che fa l’uomo spirituale, cioè capace
di agire secondo lo Spirito, vivendo nell’amore che spinge al dono di sé fino alla
morte e, così, consuma la libertà, si compie in una libertà basata sull’amore in quanto
realizza un amore assolutamente libero, un amore vero, il solo capace di fondare una
comunicazione effettiva, comprensibile (perché universale e accessibile è il
linguaggio dell’amore), verace (perché l’amore è l’inquietudine più profonda del
cuore che soltanto soddisfa le sue tensioni umane radicali), esatta/giusta (poiché
l’amore accomuna tutti gli uomini come la finalità ultima di ogni esistenza), vera
(perché il segno dell’amore non è nemmeno visibile se non c’è corrispondenza tra ciò
che si pone come amore e il coinvolgimento personale della vita nel gesto del dono).
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Educare alla comunicazione, quando si è capito che la comunicazione è “stoffa
dell’umano” ed educare alla fede/nella fede, quando si è consapevoli che la fede
emancipa l’uomo rendendolo umano, sembrano convergere in uno stesso compito, in
una stessa mission. Perciò ho titolato questo contributo con “Educazione e
comunicazione: una passione pastorale indispensabile per vivere il Vangelo oggi”.
Si tratta di interpretare un fatto sociale di grande importanza oggi per offrire il
contributo dell’orientamento della fede a chiunque abbia cuore di comunicare il
Vangelo e desideri farlo, oltre ogni chiusura a riccio, nelle prospettive aperte dal
Vangelo e dalla Tradizione cattolica della Chiesa. C’è di più, la Chiesa - che deve
educare alla fede - ha chiara la consapevolezza che le odierne trasformazioni culturali
nell’ambito della comunicazione incidono potentemente nella stessa educazione e
nella trasmissione della fede. Perciò si sprigiona come un appello rivolto anzitutto ai
parroci e a tutti gli operatori pastorali: l’appello ad aprire gli occhi sulla realtà che
cambia, per evitare che la comunicazione del Vangelo sia inefficace o anche
impossibile, nonostante tutti gli sforzi organizzativi. E’sempre nuovo il compito
importante di illuminare le intelligenze di tutti, affinchè la Parola di Dio, la verità di
Cristo sia comunicata e giunga ad effetto: cioè umanizzi la vita dell’uomo, la renda
più bella, felice, gioiosa nel dono, nell’amore, nella solidarietà di uomini e donne che
comunicano non semplicemente idee o opinioni, ma loro stessi, che cioè si auto
comunicano (come entrando nel ritmo stesso dell’autocomunicarsi libero di Dio
all’uomo e così, giungendo all’epifania della propria piena identità: in Cristo,
rivelatore del Padre, Dio si autocomunica come agape trinitaria, amore in persona,
Spirito santo, effuso nei cuori degli uomini).
Attenti dunque alle trasformazioni culturali. Si pensi, ad esempio all’attuale “fame di
simbolo” di gran parte della cultura postmoderna: la riscoperta del simbolico si sposa,
infatti, con la rinuncia alle forme forti del pensiero e, pertanto, enfatizza solo l’aspetto
superficiale dell’immagine, senza perdere tempo nel doveroso processo di
interiorizzazione: guarda, ammira, ma non aderisce, non partecipa; esalta la
spettacolarizzazione, ma non raccorda l’esperienza del simbolo con la scoperta della
verità (il logos della realtà) e con l’accoglienza del bene (la conversione etica). Il
rischio è quindi quello di una riduzione in chiave estetizzante, che non contribuisca
però a creare l’unità esistenziale.
Dentro questo quadro, anche la tradizione della fede cattolica può essere accolta come
una delle tante proposte di vita, comunque transitoria, come uno dei tanti prodotti di
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consumo con cui resistere nelle difficoltà dell’esistenza, finché strumentalmente
soddisfa i bisogni del momento, quello che hic et nunc si desidera. L’assorbimento di
certe spinte culturali dominanti riduce ai minimi termini la capacità di accettare
vincoli dottrinali, dischiude i cuori e le intelligenze a una vaga religiosità - indistinta
che si manifesta in forme soggettivistiche, irrazionali e patologiche - (possibilmente
esoterica: New Age), debole, materna, senza istituzioni o dogmi o gerarchie, rende
incomprensibili impegni di lunga durata (matrimonio, celibato ecclesiastico, fedeltà
coniugale, spiritualità vissuta) inabissando tutto nella controversia (divorzio, controllo
delle nascite, infallibilità del papa), senza possibilità di soluzioni comuni, in una
retorica infinita.
La fede sembra costretta da un individualismo e privatismo religioso che depaupera di
gran lunga l’esperienza credente: la fede non è più recepita nella sintesi vitale e perciò
viene considerata alternativamente e separatamente o come astratta dottrina
dogmatico-morale o come sentimento religioso ed emozione, senso senza verità. Il
rischio di impoverimento nella trasmissione della realtà della fede cristiana è scontato,
fino alla negazione della sua essenziale dimensione pubblica, perché appaiono
compromesse quelle condizioni culturali e contestuali (anche istituzionalizzate)
importanti per la comunicazione della fede nell’oggettività della sua proposta di
salvezza. La fede è più folklore che impegno di vita e l’attaccamento alle proprie
tradizioni religiose è rivendicato più per mantenere una identità culturale del paese –
perduta dentro i processi mercantili dell’odierna globalizzazione – che non per la
“vera devozione” ai Santi o alla Madonna nelle feste popolari. Così, la gente
appartiene alla Chiesa “con riserva”, cioè fino a quando e fintanto può decidere da sé
come comportarsi moralmente o a quali orientamenti della Chiesa attenersi,
selezionando secondo i propri gusti e i propri comodi. A queste condizioni,
comunicare nella Chiesa diventa impossibile e per altro inutile, anzitutto perché la
Chiesa è trasformata in uno spazio sacro nel quale il campo è dominato dal “secondo
me” o “se mi piace” o “se mi va” o “se il prete segue le mie opinioni”. Alla base c’è
la perdita della vera visione della Chiesa. Riscoprire la Chiesa nella sua vera essenza
e vocazione, riscoprirsi Chiesa – cioè, popolo di Dio in cammino, configurato
carismaticamente per servire l’umano dell’uomo e farlo splendere nella sua bellezza-,
appare oggi prioritario. Allora, si capisce che il rapporto “educazione e
comunicazione” si innesta nel prezioso processo di testimonianza dell’amore da
offrire a tutti (qui i santi avrebbero da dire molto), nel ritrovamento di una nuova
credibilità della Chiesa (“corpo dell’amore eucaristico di Cristo”): si tratta di educare
a comunicare la Chiesa, non tanto come organizzazione sociale, ma come “casa e
scuola di comunione”, come evento di antropologia realizzata, come modello di
pienezza dell’umano in uomini e donne felici di esistere, gioiosi di generare e
pacificati nel vivere insieme, solidali nelle opere del bene, capaci di sostenere la
testimonianza cristiana della vita bella e buona del Vangelo.
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