Numero 2 Aprile - Giugno - San Camillo

ANNALI DEGLI OSPEDALI
San Camillo e Forlanini
Volume 8, Numero 2, Aprile - Giugno 2006
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FRANCESCO CREMONESE, ALBERTO DELITALA, EUGENIO DEL TOMA, FILIPPO DE MARINIS, LORENZO DE MEDICI,
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ANNALI DEGLI OSPEDALI
San Camillo e Forlanini
Volume 8, Numero 2, Aprile-Giugno 2006
Contenuto
EDITORIALE
Infertilità nell’uomo anziano
L. GANDINI
Male aging and infertility
ARTICOLO ORIGINALE
PoliClinicCart: cartella clinica informatizzata polispecialistica integrata a moduli
O. ARIGANELLO, F. MASCHIETTI, F. DE MARINIS
PoliClinicCart: medical record computerized polispecialistic integrated
CASO CLINICO
Il trattamento percutaneo di un adenoma paratiroideo ectopico iperfunzionante
S. PIERI, P. AGRESTI, G. COPPI, M. SCOPPIO, F. STEFANO
Percutaneous treatment of an ectopic hyperfunctioning parathyroid adenoma
COMUNICAZIONE BREVE
La prevenzione secondaria del danno biologico nei fumatori
E. SORESI, C. BONFIOLI, R. ACCINNI
Biological damage in smokers: secondary prevention
RASSEGNE
Malattia mentale e psicoterapia alla luce dei principi bioetici
P. SEMINARA, G. SEMINARA
Mental illness and psychotherapy at the light of bioetich principles
Defensine alfa: semplici polipeptidi antimicrobici o qualcosa di più?
G. PAONE, F. CARBONE, G. GIANNUNZIO, I. CAMMARELLA, G. SCHMID
Alpha defensins: simple antimicrobial peptides or something more?
GESTIONE E ORGANIZZAZIONE SANITARIA
Aspetti psicologici del dolore in fase pre-operatoria e post-operatoria:
un modello d’intervento cognitivo-comportamentale e educativo-relazionale
P. CIURLUINI, C. DI FONZO
Pain psychological aspects during perioperative and postoperative period:
a model of cognitive-comportamental and educative-relational intervention
RECENSIONE
Volume educazionale GOIM 2006
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ANNALI DEGLI OSPEDALI
San Camillo e Forlanini
Volume 8, Numero 2, Aprile-Giugno 2006
Editoriale
INFERTILITÀ NELL’UOMO ANZIANO
MALE AGING AND INFERTILITY
LOREDANA GANDINI
Dipartimento di Fisiopatologia Medica,
Policlinico “Umberto I” - Università “La Sapienza” - Roma
Parole chiave: Invecchiamento maschile, Infertilità, Liquido seminale.
Key words: Male aging, Infertility, Semen quality.
Uno dei fenomeni epidemiologici più
inquietanti nel mondo occidentale è rappresentato dall’invecchiamento della popolazione. Infatti, a partire dagli anni ‘70
del secolo scorso si è verificato un progressivo aumento della popolazione anziana
dovuto alla coincidenza di una ridotta natalità e di una maggiore durata di vita.
In Italia l’attesa di vita alla nascita è
passata da 45 anni circa nel 1900, a 82 anni per la donna e 75 anni per l’uomo ad oggi. Su cento nati il 90% donne e l’80% degli uomini sopravvivono oltre i 65 anni
rappresentando oggi il 17,8% della popolazione generale. Secondo lo United Nations World Population Prospects (1999)
nel 2050 la quota di persone di età maggiore di 60 anni sarà, per la prima volta
nella storia, maggiore di quella di giovani
con età inferiore ai 15 anni e 13 Paesi
avranno più del 10% di grandi anziani
(>80 anni) nella loro popolazione. L’effetto
più vistoso di questa modificazione demografica è la transizione epidemiologica
rappresentata dal fatto che sono in diminuzione le malattie acute e sono in netto
aumento le malattie croniche. In questo
quadro di globale invecchiamento della
popolazione ci troviamo a fronteggiare la
richiesta di prole da parte di una popolazione maschile sempre più anziana. Nell’uomo si osserva un graduale declino della capacità fecondante a partire da un’età
tra i 55 e i 65 anni, sebbene non si possa
parlare di una situazione del tutto analoga a quella della donna nella quale la menopausa rappresenta una linea di demarcazione temporale tra il periodo della fertilità e quello di una maturità sessuale
priva di finalità riproduttive. La gametogenesi maschile a differenza di quella
femminile è un fenomeno continuo fino alla tarda età e consente, in teoria, di ottenere una gravidanza anche in età molto
avanzata. La fertilità può essere conservata fino a età superiore agli 80 anni anche se la paternità per uomini al di sopra
di 70 anni è un fenomeno estremamente
raro. Infatti con il passare degli anni la
spermatogenesi subisce alterazioni più o
meno profonde, come riportato dai dati
della letteratura, che confermano che, a
partire dalla 6° decade di vita, si possono
verificare importanti modificazioni delle
caratteristiche seminali, dell’assetto ormonale e della struttura isto-citologica testicolare.
La funzione gonadica nel maschio è inserita in un complesso meccanismo di controllo neuro-endocrino-metabolico. Iniziando dal livello neuro-psichico e scendendo fino alle gonadi, i principali neurotrasmettitori chiamati in causa nei meccanismi di collegamento interneuronale
sono la noradrenalina (attivatore), la dopamina e serotonina (inibitori). Inoltre a
livello delle cellule ipotalamiche viene secreto il decapeptide GnRH che regola sia
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Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 2, 2006
la sintesi che il rilascio pulsatile delle gonadotropine ipofisarie LH e FSH. A queste
glicoproteine compete il controllo trofico e
funzionale delle gonadi, sia per quanto riguarda la parte germinativa (spermatozoi) sia per quella endocrina (testosterone
e, in parte anche nel maschio, estrogeni).
La componente endocrina testicolare è
influenzata anche dal metabolismo periferico. Il trasporto del testosterone è affidato ad una proteina di sintesi epatica, la
sex hormone binding globulin (SHBG).
L'interazione con il recettore nucleare e la
sequenza degli eventi post-recettoriali sono simili a quelli di altri steroidi.
A livello periferico, infine, l'effetto biologico di tale ormone è condizionato anche
dall'attività enzimatica, che porta da un
lato alla trasformazione del testosterone
in deidrotestosterone (DHT) e dall'altro
alla sua aromatizzazione ad estrogeno.
L'invecchiamento coinvolge ciascuno
degli eventi sopra riportati, per cui l'involuzione, a cui la gonade maschile va incontro col passare degli anni, è certamente un fenomeno multifattoriale.
Nei soggetti anziani viene alterato il
sofisticato equilibrio neuroendocrino che
regola l'asse ipotalamo-ipofisi-gonadi.
Per quanto riguarda l'unità ipotalamoipofisaria, a partire dalla sesta decade di
vita si assiste ad un progressivo aumento
dei livelli plasmatici di FSH e LH. Vi è,
peraltro, un certo numero di pazienti anziani che non mostra tale aumento, soprattutto per quanto riguarda LH, ciò potrebbe suggerire una sensibilità variabile
dell'unità ipotalamo-ipofisaria ai diminuiti livelli circolanti di testosterone biodisponibile. Numerosi studi hanno dimostrato una diminuzione dei livelli di testosterone plasmatico circolante già a partire
dalla fine del 50° anno di vita. In particolare in gruppi di soggetti anziani (età media 70 anni) sottoposti a prelievi seriali
per 24 ore, si è appunto evidenziata una
riduzione dei livelli di testosterone non legato alla SHBG ed una perdita del ritmo
circadiano, mentre la quantità totale di
ormone può essere normale.
La diminuita produzione testicolare di
testosterone è stata confermata anche misurando direttamente le concentrazioni di
tale ormone nel sangue venoso spermatico
(prelevato nel corso di intervento chirurgico per ernia inguinale) di soggetti di varia
età ed è stata confermata una riduzione
correlata con l'invecchiamento.
Negli anziani, infine, è stata riscontrata un'aumentata aromatizzazione periferica degli androgeni, secondaria ad un incremento della percentuale di grasso corporeo, con ulteriore incremento degli
estrogeni.
Schematizzando i dati sopra riportati,
sotto il profilo funzionale, le prove più evidenti del danno gonadico sono la riduzione della secrezione di testosterone, la riduzione dei livelli ematici basali del DHT,
la diminuita risposta allo stimolo con
HCG mentre, contemporaneamente, i livelli di LH e soprattutto di FSH appaiono
in progressivo incremento età ed individuo-correlato e, inoltre, un significativo
aumento, anch'esso età-correlato, della
proteina di trasporto SHBG, con inevitabile interferenza negativa sulla quota di
testosterone libero.
Infine va aggiunto che il trasferimento
del testosterone, con la mediazione della
Androgen Binding Protein (ABP), dalla
cellula di Leydig al vicino settore germinativo, risulta diminuito sia per la ridotta
secrezione testosteronica sia per una diminuita sintesi della proteina di trasporto
ABP, a livello della cellula del Sertoli.
I primi lavori relativi all’effetto dell’invecchiamento sulla fertilità maschile risalgono agli anni 80 ed hanno dimostrato
nel plasma dei soggetti anziani una diminuzione dei livelli di testosterone sia totale che libero ed un aumento dei livelli di
SHBG e di FSH ed LH, rispetto al plasma
di soggetti più giovani.
Alterazioni della spermatogenesi si associano spesso ad alterazioni della funzione delle cellule di Leydig come recentemente dimostrato da Andersson et al.
(2004) che hanno riscontrato nel 15% di
uomini con diminuita spermatogenesi anche bassi valori di testosteronemia o più
alti livelli di LH.
Altri Autori hanno evdenziato un ridotto numero di cellule germinali in corso di
differenziazione ed una riduzione numerica delle cellule di Leydig e delle cellule del
L. Gandini: Infertilità nell’uomo anziano
Sertoli in campioni bioptici testicolari di
uomini di età superiore ai 70 anni. Tale
dato è stato confermato dall’analisi dei parametri seminali dei soggetti in grado di
effettuare lo spermiogramma, da cui risultava una concentrazione nemaspermica fortemente variabile, una riduzione
della motilità e del volume dell’eiaculato
rispetto a quanto evidenziato in soggetti
più giovani.
Sempre negli anni ’80 è stata valutata
la linea spermatogenetica per grammo di
tessuto, su testicoli asportati post-mortem
di soggetti anziani deceduti improvvisamente senza patologie endocrine. Dai dati
è emersa una progressiva riduzione numerica di tutte le cellule germinative, in
parallelo con la riduzione numerica delle
cellule di Leydig e con l’aumento del FSH
plasmatico. Tale dato è stato ulteriormente confermato da studi successivi che hanno evidenziato una marcata degenerazione cellulare a livello della seconda divisione meiotica, in relazione alla diminuzione
della produzione gametica, in soggetti di
età avanzata.
Le principali modificazioni che si verificano a livello testicolare, in funzione dell'età, sono rappresentate dall'ispessimento della tunica albuginea e dall'aumento
della percentuale del peso delle tuniche rispetto al peso totale testicolare, con conseguente riduzione del peso parenchimale
testicolare.
A livello del compartimento spermatogenetico si riscontra una diminuzione del
volume dei tubuli e dell'epitelio seminifero, del numero delle cellule del Sertoli e
degli spermatidi, associato all'ispessimento della membrana basale, con presenza di
fibrosi peritubulare. Vi è inoltre una riduzione della massa testicolare totale per il
ridotto volume dei tubuli seminiferi. La
riduzione degli spermatidi si traduce in
una riduzione della produzione giornaliera di spermatozoi che, in media, si può
calcolare di circa il 50% rispetto ai soggetti giovani di controllo. D'altra parte il declino della spermatogenesi è un fenomeno
graduale e progressivo e funzione dello
stato di salute generale del soggetto, che
presenta una notevole variabilità individuale, per cui alcuni soggetti anziani pos-
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sono avere una produzione testicolare di
spermatozoi uguale a quella di soggetti
giovani.
Peraltro è importante sottolineare come la elevata concentrazione degli spermatozoi riscontrata, in alcuni studi, negli
anziani può essere in parte dovuta al prolungato periodo di astinenza precedente
alla raccolta del liquido seminale che risulta essere maggiore di 10 giorni nella
maggior parte dei soggetti anziani.
Per quanto riguarda la capacità fecondante Dondero et al. (1985) hanno studiato in maniera estesa i parametri seminali
di soggetti appartenenti a varie fasce di
età. I risultati dello studio hanno evidenziato una progressiva riduzione della concentrazione nemaspermica dopo i 40 anni,
più significativa dopo i 60 anni e un decremento graduale e costante della motilità degli spermatozoi anch’esso più drastico ed evidente dopo i 60 anni con un parallelo deterioramento della morfologia
nemaspermica. Più recentemente in uno
studio comparativo della qualità seminale
in uomini anziani (con età ≥ 50 anni) e più
giovani (età compresa fra 21 e 25 anni)
Jung et al. (2002) hanno dimostrato che la
motilità rettilinea, la percentuale di forme
normali ed il volume seminale sono significativamente più bassi nel gruppo degli
anziani rispetto ai soggetti più giovani. La
concentrazione nemaspermica risulta non
alterata dal progredire dell’età. Infine, un
dato molto interessante riguarda il livello
di testosterone sierico che risulta significativamente più basso nel gruppo dei soggetti più anziani, confermando che l’ipogonadismo di questi soggetti è il responsabile delle alterazioni seminali. Tali dati sono stati confermati recentemente da
Eskenazi et al. (2003) in un lavoro che include un numero di soggetti anziani relativamente più alto rispetto alla maggior
parte degli studi precedenti.
Sono stati ipotizzati vari meccanismi
per spiegare le alterazioni seminali con
l’età. Per quanto riguarda la diminuizione
del volume dell’eiaculato si ritiene che sia
dovuta ad una progressiva atrofia delle
vescicole seminali che contribuiscono a
formare la maggior parte del volume seminale stesso. Questo dato insieme alla
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Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 2, 2006
progressiva riduzione dei valori del fruttosio può essere interpretato come una alterazione della funzione delle ghiandole accessorie da alterata secrezione di testosterone. La astenozoospermia, cioè la riduzione della motilità nemaspermica, potrebbe dipendere dalla progressiva atrofia
della muscolatura liscia delle vescicole seminali con riduzione della componente
proteica e acquosa e conseguente alterazione della motilità. Sempre a proposito
della motilità sono state ipotizzate alterazioni strutturali dell’epididimo con modificazione del meccanismo di maturazione
nemaspermica (Hamilton e Naftolin,
1981). Infatti l’integrità della struttura
epididimaria è indispensabile perchè durante il transito nell’epididimo gli spermatozoi completano la loro maturazione
acquisendo motilità e capacità fecondante. La morfologia nemaspermica è un
buon indicatore dello status dell’epitelio
germinale. Le modificazioni degenerative
dell’epitelio germinale nel paziente anziano potrebbero determinare alterazioni
dell’assetto morfologico dello spermatozoo. È controverso, invece, se l’invecchiamento si associ ad una diminuzione della
concentrazione nemaspermica anche se è
plausibile che tale fenomeno possa accadere. Con l’avanzare dell’età, infatti, vi è
un restringimento ed una sclerosi del lume dei tubuli, una riduzione dell’attività
spermatogenetica, una degenerazione delle cellule germinali ed una diminuzione
quantitativa e qualitativa delle cellule di
Leydig. Oltre al fisiologico processo di invecchiamento è necessario considerare
che il paziente anziano è più soggetto a
patologie croniche di tipo internistico e di
conseguenza a terapie di lunga durata che
possono ulteriormente alterare la qualità
del seme in genere interferendo con la
produzione o l’attività biologica degli androgeni e sui meccanismi di replicazione
cellulare.
Per citare solo alcuni esempi, l’intolleranza glucidica è presente nel 25% degli
ottantenni, il diabete mellito nel 6-9% della popolazione tra i 65 e gli 84 anni, l’ipertensione arteriosa è presente nel 40%
dei soggetti tra i 55 e i 65 anni e in età
avanzata aumentano significativamente
le patologie coronariche, polmonari e renali; tutte queste patologie nonché le terapie ad esse correlate sono in grado di deteriorare la qualità seminale.
Un altro fattore da non trascurare è il
periodo di astinenza di 3-5 giorni da rispettare per la corretta esecuzione dell’analisi del liquido seminale. Nel soggetto
anziano tale periodo è difficilmente rispettato e può risultare più lungo, alterando
la valutazione di alcuni parametri dipendenti da questa variabile, quali la concentrazione e la motilità degli spermatozoi.
Infine bisogna considerare le oggettive
difficoltà di raccolta del campione per masturbazione legate alla maggiore incidenza di deficit erettile e disturbi eiaculatori
dell’anziano.
Possiamo pertanto concludere che con
il trascorrere degli anni, in misura più rilevante dopo i 70 anni di età, nell’uomo si
determinano chiare modificazioni della
capacità riproduttiva e la sua fertilità, pur
conservata, diminuisce. Si assiste ad una
progressiva minore efficienza del testicolo
nelle sue due principali funzioni, secrezione del testosterone e produzione di spermatozoi, con possibile aumento nell’eiaculato di forme immobili o alterate nella loro morfologia ed incapaci, quindi, di fecondare.
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
Andersson AM, Jorgensen N, Frydelund-Larsen
L, Rajpert-De Meyts E, Skakkebaek NE. Impaired Leydig cell function in infertile men: a study
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Baccetti B, Renieri T, Selmi MG, Soldani P.
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Dondero F, Isidori A. Il liquido seminale. J. Endocrinol. Invest. 1980; 3 (suppl.2): 123.
Eskenazi B, Wyrobek AJ, Sloter E, et al. The association of age and semen quality in healthy
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Schwartz D, Mayaux MJ, Spira A et al. Semen characteristics as a function of age in 833
fertile men. Fertil. Steril. 1983; 39: 530.
United Nations Pubblication, (ST/ESA/SER.A/179),
Sales N°. E.99.XIII.11, Copyright © United Nations 1999.
____
Per richiesta estratti:
Dott.ssa Loredana Gandini
Dipartimento di Fisiopatologia Medica
Policlinico “Umberto I”, Università “La Sapienza” - Roma;
Tel. 337 815631 - Fax 06 49970717
e-mail: [email protected]
ANNALI DEGLI OSPEDALI
San Camillo e Forlanini
Volume 8, Numero 2, Aprile-Giugno 2006
Articolo Originale
POLICLINICCART: CARTELLA CLINICA INFORMATIZZATA
POLISPECIALISTICA INTEGRATA A MODULI
POLICLINICCART: MEDICAL RECORD COMPUTERIZED
POLISPECIALISTIC INTEGRATED
OTTAVIANO ARIGANELLO, FABIO MASCHIETTI, FILIPPO DE MARINIS
V Unità Operativa Complessa di Pneumologia Oncologica
Azienda Ospedaliera San Camillo-Forlanini – Roma
Parole chiave: Cartella clinica, Informatizzata, Polispecialistica
Key words: Medical record, Computerized, Polispecialistic
INTRODUZIONE
Il progetto di Cartella Clinica Polispecialistica, PoliClinicCart, affonda le radici
alla fine degli anni ’80, quando furono realizzate le prime versioni di Cartella Clinica Pneumologica, attraverso il programma di videoscrittura Easy Script per il
Commodore 64 e il data base Works per i
processori 386-486.
Negli anni successivi, PneumoCart, la
cartella clinica informatizzata per la Pneumologia, fu realizzata con l’ausilio del database relazionale Access2; fu pubblicata nel
numero I degli Annali degli Ospedali San
Camillo e Forlanini, integrata con il modulo
per l’Oncologia (OncCart), e fu presentata al
Forum della Pubblica Amministrazione Sanità nelle sessioni 2001-2002, oltre che in
vari congressi nazionali e regionali AIPO ed
AIOM, sotto forma di poster o di abstract.
MATERIALI E METODI:
DATI TECNICI
La naturale evoluzione del progetto si
identifica con la traduzione in un linguaggio più professionale, Visual Basic, su
piattaforma access 2000, e ASP.NET su
piattaforma SQLserver.
L’analisi è stata estesa e finalizzata alla gestione delle Unità Operative afferen-
ti al medesimo Dipartimento o Presidio
Ospedaliero, con l’obiettivo di coprire, in
termini di flussi informativi, l’intero e
complesso percorso clinico assistenziale,
dalla gestione della fase di emergenza del
paziente critico alla gestione della preospedalizzazione, della fase del ricovero
ordinario, del DH e del D-service, dell’assistenza domiciliare, oltre all’integrazione
e all’interfacciamento con il Medico di Famiglia ed il Pediatra di base.
Attenzione particolare si attribuisce alle problematiche di ordine medico-legale,
in materia di privacy e riservatezza, di sicurezza dei dati "sensibili" e di controllo
degli errori, ampiamente rappresentate
nel DPR 318 del 28 luglio 1999 e nel DL
30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia
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per i quali è prevista la disattivazione in
caso di perdita dei requisiti o di mancato
utilizzo per un periodo superiore ai sei
O. Ariganello et al.: PoliClinicCart: Cartella clinica informatizzata polispecialistica integrata a moduli
mesi; qualora si verifichino degli errori
nell’immissione dei dati, è contemplata la
possibilità di una correzione, con il rispetto cronologico degli eventi registrati.
La rete telematica locale su cavo (LAN)
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l’utilizzo di sistemi di cifratura, quali ad
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5 Hard Disk da 200 GB.
Qualora PoliClinicCart sia condiviso da
Unità Operative del medesimo dipartimento o di diversi ospedali della rete ospedaliera regionale, il server deve essere posto in un ambiente accessibile solo all’Amministratore.
PoliClinicCart è un programma, che
guarda al futuro e quindi il cablaggio della rete locale deve prevedere anche l’utilizzo di tecnologie wireless, che permettano di gestire le informazioni fino al letto
del malato attraverso tablet e palmari: la
componente cartacea verrà compilata alla
dimissione e al malato verrà consegnato
un supporto elettronico, che contenga la
storia del suo ricovero, mentre il Medico
di famiglia potrà essere informato direttamente via Internet.
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RISULTATI:
ANALISI DEL PROGRAMMA
Attivando l’icona posta sul desktop, appare la schermata di accesso, che richiede
all’utente di inserire il proprio codice
identificativo e la parola chiave (fig. 1).
Figura 1. - Id utente e parola chiave
La parola chiave, scelta dall’utente e
suscettibile di modifica ogni 3 mesi, è nota anche all’Amministratore e identifica,
altresì, l’Unità Operativa di appartenenza, per permettere unicamente l’accesso ai
dati sensibili dei malati in carico alla medesima U.O., nel rispetto delle norme previste dal DPR 318 del 28 luglio 1999 e successive modifiche e integrazioni legislative.
Ad alcune figure professionali è concesso un controllo più esteso. Non è previsto
un periodo di tempo per la disconnessione
automatica nel caso di inattività, ma l’utente deve essere responsabilizzato a
mantenere attivo il programma in sua
presenza e a disconnetterlo dopo avere ultimato le sue operazioni; il mancato rispetto di questa procedura rende l’operatore inadempiente responsabile delle iniziative intraprese da altri a suo nome, poiché tutte le operazioni vengono registrate
in un archivio, dove rimane traccia, tra
l’altro, anche del codice dell’utente, della
data e dell’ora delle modifiche.
Il riconoscimento della parola chiave
permette l’accesso al programma, che si
apre con la videata descrittiva delle caratteristiche del programma e delle note
identificative degli Autori, seguita dopo
12
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 2, 2006
alcuni secondi dalla schemata del Menu
principale (fig. 2).
Figura 2. - Menu principale
L’attivazione dei pulsanti, posti nella
parte centrale (corpo) del Menu principale, permette l’accesso immediato alle sezioni di gestione dell’anagrafica, della farmacia, del movimento malati, delle diete,
della gestione del magazzino; permette,
inoltre, l’apertura diretta dei Moduli del
DH, dell’Ambulatorio, dei Protocolli, del
Prontuario farmaceutico.
I menu a tendina, posti in apice, consentono gli spostamenti tra le varie sezioni e l’attivazione degli altri moduli disponibili: Chirurgia, Pneumologia, Endoscopia toracica, Medicina del lavoro, Pediatria; permettono, inoltre, la stampa di documenti e di seguire percorsi statistici
predefiniti.
Nel sotto-apice sono riportati i tasti gestionali della cartella clinica di base dall’anagrafica fino alla prescrizione della terapia
e alla richiesta degli esami. L’attivazione di
un tasto primario, che assume uno sfondo di
colore rosso vivo, apre un sottomenu per l’esecuzione delle operazioni successive.
L'apertura dell’Anagrafica consente
l’inserimento dei nuovi pazienti o la ricerca di quelli già archiviati attraverso vari
filtri di ricerca (nome, cognome, data di
nascita, città…); contiene tutti i dati identificativi del malato attivo distribuiti in 5
pagine:
1) nella prima pagina
sono riportati i dati
anagrafici strettamente intesi, è compreso
anche l’elenco completo di tutti i Comuni e
le Province d’Italia, è
calcolato il codice fiscale con il relativo codice a barre e l’età del
malato;
2) nella seconda pagina sono riportati i dati
relativi alla residenzadomicilio;
3) la terza pagina riguarda la riservatezza
con l’individuazione
delle persone che possono essere informate
sullo stato di salute
del malato;
4) la quarta pagina interessa i rapporti
con il SSN, la scelta del Medico di famiglia, del Pediatra di base e lo storico
delle esenzioni dal pagamento del
ticket;
5) nella quinta pagina vengono annotate
notizie riguardanti l’etnia, la religione
e i genitori (fig. 3).
I dati anagrafici sono normalmente aggiornati dal Personale dell’Accettazione
amministrativa o dal personale dell’Unità
Operativa per i casi di ricovero diretto in
reparto; potrebbero, comunque, essere
estrapolati dall’anagrafe regionale, ove ciò
sia permesso; in questo caso si potrebbe
ottenere anche lo storico della scelta del
Medico di base e dell’esenzione dal ticket.
Il Programma segue il Malato dal suo
ingresso in Ospedale fino alla dimissione.
La sezione del P.S./Accettazione è costituita da due parti: il triage infermieristico e
l’accettazione medica.
Il termine ”triage” deriva dal francese e
significa selezione; fu introdotto la prima
volta durante le guerre napoleoniche,
quando il chirurgo francese Barone Jean
Dominique Larry, organizzò i primi soccorsi individuando criteri di priorità sulla
O. Ariganello et al.: PoliClinicCart: Cartella clinica informatizzata polispecialistica integrata a moduli
Figura 3. - Anagrafica
Figura 4. - Triage
Figura 5. - Indici di gravità
13
base della gravità delle ferite da
guerra (fig. 4).
Le pagine del triage sono composte dalla sezione della scheda di
accettazione, i cui dati anagrafici
sono estrapolati dall’accettazione
amministrativa, della raccolta
delle informazioni, dell’obiettività, della rilevazione dei parametri vitali e degli indici di gravità,
Glasgow Coma Scale (G.C.S.), Revised Trauma Score (RTS), Injury
Severity Score (ISS): il calcolo del
punteggio relativo alla gravità è
automatico e può essere registrato
più volte anche da diversi operatori sanitari (fig. 5).
L’ultima pagina del triage offre
una sintesi di quanto riportato
nelle pagine precedenti e permette l’individuazione del codice di
gravità:
1) Codice 4 Rosso, estrema
urgenza
2) Codice 3 Giallo, urgenza
primaria
3) Codice 2 Verde, urgenza
secondaria
4) Codice 1 Bianco non urgenza.
In alcune realtà, sono riportati
altri due codici: il codice nero indica il decesso e il codice azzurro avvia l’utente all’ambulatorio del
medico di famiglia, che talora è
ospitato negli stessi locali del P.S..
Sulla base della tipologia del
triage il malato è indirizzato all’ambulatorio competente, dove il
medico lo visita, richiede gli esami
e le consulenze del caso, pone la
diagnosi, prescrive la terapia d’urgenza e destina il malato al reparto
di competenza per patologia, previo
controllo della disponibilità dei posti letto, che è rappresentata graficamente in una scheda dedicata.
La cartella dei ricoveri è costituita, tra l’altro, dai campi della
diagnosi di accettazione, della data d’ingresso, della tipologia del
ricovero, del numero di letto, della
data di uscita dal reparto: qualora
il Malato venga dimesso definiti-
14
Figura 6. - Ricovero
Figura 7. - Cartella infermieristica
Figura 8. - Anamnesi patologica remota
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 2, 2006
vamente viene calcolata la degenza globale, qualora il Malato sia
trasferito in altra Unità Operativa si calcola la degenza parziale
ed appaiono i campi attinenti alla
diagnosi di trasferimento e al reparto dove il malato è trasferito:
ciò permette una continuità nella
gestione della malattia e del Malato (fig. 6). L’elenco dei ricoveri
complessivi sofferti dal malato è
riportato in una sezione apposita;
attivando la data corrispondente,
si apre la scheda del ricovero prescelto.
La pagina delle diagnosi è collegata all’elenco completo dei
DRG ministeriali con i relativi codici; si può ottenere la creazione di
un archivio personalizzato delle
patologie più frequentemente presenti nell’Unità Operativa; è possibile inoltre attingere all’elenco
delle malattie riportate nell’anamnesi patologica remota. Questo metodo, da una parte, semplifica e velocizza l’inserimento delle
patologie, dall’altra offre un quadro complessivo delle patologie attive del malato ai fini del calcolo
dei DRG.
Le procedure chirurgiche sono
estrapolate dall’elenco ministeriale e dalla lista degli esami invasivi e degli interventi chirurgici,
eseguiti durante il ricovero, immediatamente disponibili ed utilizzabili per un’accurata compilazione della scheda di dimissione.
La Cartella Infermieristica, disegnata sulla falsa riga di quella
cartacea in uso presso la nostra
U.O, e la Cartella Clinica di base
sono interfacciabili e si integrano:
i parametri vitali, l’anamnesi patologica remota, la terapia domiciliare, l’elenco degli esami richiesti
sono riportati simultaneamente
su entrambe le cartelle (fig. 7).
La cartella infermieristica si
completa con il diario clinico, dove
si aggiornano quotidianamente
tutti i parametri vitali e sono ri-
O. Ariganello et al.: PoliClinicCart: Cartella clinica informatizzata polispecialistica integrata a moduli
15
multiple, ricavate dalla semeiotica medica
portati i provvedimenti diagnostici e terae chirurgica, aggiornabili e modificabili
peutici. L’asse portante della Cartella Clidal medico a seconda delle proprie esigennica di base è rappresentato dalla anamze (fig. 10).
nesi, dall’esame obiettivo, dalla richiesta
Per semplificare, gli esami sono stati
degli esami e dalla prescrizione della teraraccolti in 3 grandi raggruppamenti, affepia. L’anamnesi familiare è riprodotta in
renti ai vari Servizi e Unità Operative:
forma tabellare, come anche l’anamnesi
1) Esami iconografici, includenti tutti gli
patologica remota, che si sviluppa su più
esami/consulenze che presuppongono
pagine; le malattie sono filtrate a seconda
l’inserimento di immagini.
che si tratti di patologie attive, in tratta2) Esami di laboratorio: Ematochimica,
mento terapeutico cronico, di patologie
Sierologia, Microbiologia, Markers onpregresse, non suscettibili di ulteriore tecologici, Esame chimico-fisico dei materapia, di traumi, di infortuni e di interriali biologici, altri.
venti chirurgici (fig. 8).
3) Istopatologia (fig. 11).
Alle malattie infettive è dedicata una
Il raggruppamento predefinito di esami
sezione, dove sono riportate le malattie di
anche di tipo diverso, collegati a protocolpiù comune riscontro.
li di studio o a patologie, ne facilita da una
Nell’anamnesi fisiologica, particolare
parte la compilazione, dall’altra ne stanattenzione si dedica alla valutazione del
fumo di sigaretta; è stato creato
un archivio delle marche di sigarette più comuni con la quantità
di nicotina e di condensato, contenuti in ogni singola sigaretta; si
calcola il numero di sigarette totali, il n. pacchetti/anno, la quantità
di nicotina e di condensato inalati;
è possibile così effettuare delle valutazioni epidemiologico-statistiche retrospettive (fig. 9).
L’anamnesi patologica prossima è impostata su due pagine parallele: nella prima, le notizie possono essere inserite direttamente
in formato testo, nella seconda le
varie sezioni dell’anamnesi (intro- Figura 9. - Anamnesi fisiologica
duzione, corpo e conclusioni) sono
predefinite, ma modificabili.
L’anamnesi epidemiologica individua la familiarità con patologie, che presentano più impatto
sociale, con patologie attinenti a
viaggi all’estero o a emotrasfusione; è possibile riportare, soprattutto in tema di Medicina del Lavoro, la tipologia delle varie attività svolte nella vita lavorativa,
indicandone la durata, il luogo e i
fattori di rischio.
L’esame obiettivo generale e l’esame obiettivo locale sono predefiniti per la normalità e tutti i cam- Figura 10. - Esame Obiettivo
pi sono del tipo combo a scelte
16
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 2, 2006
dardizza e omogeneizza l’uso nella medesima realtà lavorativa.
Le schede degli esami iconografici ed
istopatologici permettono la memorizza-
Figura 11. - Esami iconografici
Figura 12. - Misurazione delle immagini
Figura 13. - Terapia
zione delle immagini, che possono essere
misurate, confrontate e valutate in tempi
diversi, in correlazione alla somministrazione o meno di terapia; possono essere misurati i diametri maggiori, un diametro (Recist), la superficie ed il volume
a seconda delle indicazioni presenti
nel protocollo di studio (fig. 12).
La terapia medica è riportata in
forma tabellare ed i farmaci sono legati al prontuario farmaceutico, a
cui si può attingere in forma diretta
per la scelta di essi: si può inserire la
modalità e l’orario di somministrazione, la data di inizio e di fine, il
rapporto con i pasti e la patologia.
È in studio l’opportunità di riportare tutte le indicazioni e le correlazioni tra farmaci, in forma tabellare:
ciò comporta una revisione dei principi attivi del prontuario terapeutico
(fig. 13 - 14). Il Prontuario terapeutico proposto è stato estrapolato da
quello ministeriale; è possibile richiamare la scheda tecnica, le note
per principio attivo e per patologia.
La scelta del nome commerciale
del farmaco comporta l’elencazione
dei farmaci omonimi per principio
attivo in un’apposita tabella dedicata (fig. 15). Le note AIFA possono essere ricercate per farmaco e patologia (fig. 16). Per ogni patologia si può
creare un raggruppamento di farmaci predefiniti, comunque modificabile, per facilitarne l’inserimento.
La terapia medica può essere prescritta per lo stesso malato da varie
sezioni e postazioni, ottenendo una
farmacopea personalizzata, a cui si
può attingere per richiamare l’elenco dei farmaci abitualmente assunti.
La terapia prescritta è riportata
nel report di stampa del diario clinico, della cartella clinica, della dimissione, dell’ambulatorio e della cartella infermieristica: è inoltre possibile riprodurre la terapia sul ricettario personale del Medico, (oltre che
utilizzando) e sul modulo della ricetta regionale.
Particolare attenzione è stata dedicata alla realizzazione dell’agenda
O. Ariganello et al.: PoliClinicCart: Cartella clinica informatizzata polispecialistica integrata a moduli
Figura 14. - Modalità somministrazione della terapia
Figura 15. - Prontuario
Figura 16. - Note
17
elettronica, che dovrà sostituire la
miriade di agende cartacee; tutti gli
appuntamenti sono registrati e possono essere richiamati per reparto,
per medico, per data, per tipologia;
possono essere eseguite delle ricerche multiple predefinite filtrate per
regime di ricovero ordinario, DH,
ambulatorio. È consentita la stampa del modulo di richiesta dell’esame, che può essere inviata anche
via fax o e-mail (fig. 17). La sezione
dedicata al DH è costituita da un
form a pagine multiple, che permette la gestione di tutte le operazioni svolte in DH, rappresentate in
forma tabellare (fig. 18).
Nella prima pagina, per default,
è riproposto l’elenco di tutti i malati attivi in DH e l’elenco degli appuntamenti alla data predefinita di
“oggi”; la ricerca degli appuntamenti degli altri giorni si ottiene scegliendo la data da un calendario dedicato o inserendo direttamente la
data nel campo “relativo”. Il numero di accessi al DH è calcolato sulle
persone e non sul numero di esami
eseguiti in quel giorno. I protocolli
si studio sono standardizzati, vengono riportati i criteri di inclusione
e di esclusione, le procedure nello
screening, durante il trattamento e
nel follow-up e sono disegnati i
bracci di terapia. Una volta assolti
i criteri di inclusione e di esclusione, inserendo la data d’ingresso
nello studio, si ottiene la tempistica
delle procedure e della terapia per i
vari bracci (fig. 19). Per il modulo
oncologia, OncCart, particolare attenzione è stata posta alla compilazione della scheda oncologica di base, in cui sono riportati sinteticamente tutti i dati del malato oncologico; esso viene rapportato ai protocolli di studio, alla stadiazione interattiva, alla tossicità WHO-NCI,
all’istopatologia, alla farmacia oncologica, alla chirurgia toracica ed
alla radioterapia (fig. 20 - 21). L’estensione della malattia neoplastica è individuata nella sezione della
18
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 2, 2006
stadiazione dei tumori, che è un
programma autonomo, e permette
l’identificazione, in tempo reale e
con modalità interattive, delle
estensioni TNM secondo il sistema
UICC 2002 (Unione Internazionale
Contro il Cancro) (fig. 22 - 23). Il
calcolo della superficie corporea, del
B.M.I., della creatinina clearance,
dell’AUC per il carboplatino, del dosaggio dei chemioterapici, della frequenza di somministrazione e della
riduzione percentuale sono alcune
delle funzioni svolte (fig. 24).
Inoltre, è possibile quantificare,
semplificando il compito della farmacia oncologica, la ricostituzione Figura 17. - Agenda
e la concentrazione del farmaco, il
tempo e la modalità di somministrazione. Il modulo della pneumologia, PneumoCart comprende dei
sottomoduli: l’endoscopia toracica,
l’allergologia respiratoria, la fisiopatologia respiratoria. Tutti gli
esami, riguardanti la fisiopatologia respiratoria, riprodotti attraverso strumenti computerizzati,
possono essere memorizzati nelle
schede degli esami iconografici,
oppure, conoscendo il codice dei
software degli strumenti, è possibile creare un’interfaccia condivisa, che permetta la memorizzazione dell’esame anche nel form dedicato. Le stesse considerazioni val- Figura 18. - DH
gono per i software della radiologia, dell’istopatologia e dei laboratori di analisi.
Il modulo della Pediatria, che
non è stato ancora tradotto in Visual Basic, è in funzione in versione Access2 presso uno studio pediatrico ed è integrato con i percentili per il peso, per l’altezza e
per la circonferenza cranica, riferiti ai percentili pubblicati da Scalamandrè del 1975 per la popolazione infantile italiana; parallelamente vengono create tabelle di
percentili in base all’etnia e alla
popolazione pediatrica, che freFigura 19. - Protocollo
quenta lo studio.
Il Modulo dell’Ambulatorio, at-
O. Ariganello et al.: PoliClinicCart: Cartella clinica informatizzata polispecialistica integrata a moduli
Figura 20. - Scheda oncologica di base
Figura 21. - Farmacia oncologica
Figura 22. - Stadiazione estensione T
19
tualmente in uso anche presso
uno studio di Medicina di base,
permette, tra l’altro, la stampa
delle prescrizioni su ricettario regionale, secondo la recente normativa, e può interfacciarsi con la
Cartella Clinica Ospedaliera per
la condivisione del percorso clinico
territoriale del Malato.
Delle statistiche, alcune sono
predefinite, altre possono essere
impostate dall’utente (fig. 25).
Il Modulo della videoconferenza
si propone due obiettivi (fig. 26):
1) La comunicazione a distanza
tra Medici con la possibilità di
potere condividere immagini
su una lavagna elettronica
2) Il controllo continuo del malato
critico e degli spazi comuni da
parte del personale infermieristico.
La sicurezza di trasmissione è
fornita dal Communication Server,
che sfrutta il protocollo SSL (Secure Sockets Layer) per realizzare
comunicazioni cifrate e utilizza la
crittografia per fornire sicurezza
nelle comunicazioni su Internet;
consente, inoltre, alle applicazioni
client/server di comunicare in modo tale da prevenire la manomissione dei dati, la falsificazione e
l'intercettazione (fig. 26).
Il riepilogo delle attività svolte
nell’Unità operativa è rappresentato nella figura 27: nella tabella
di sinistra è riportato l’elenco dei
pazienti attivi filtrati per DH, regime ordinario, D Service, Ambulatorio, Pre-ospedalizzaione, Assistenza domiciliare. All’attivazione
di un paziente, corrisponde a destra l’elenco delle relative prestazioni erogate e da erogare (fig. 27).
Questa scheda permette di avere un controllo globale ed aggiornato della condizione clinico-terapeutica di tutti i Malati, che potrebbe essere oggetto di discussione in riunioni preliminari alla visita medica in corsia, nel rispetto
della legge sulla riservatezza.
20
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 2, 2006
DISCUSSIONE
E CONCLUSIONI
Lentamente, ma inesorabilmente, l’informatica sta invadendo tutti gli spazi lavorativi
degli operatori sanitari e negli
ultimi anni si è notato un proliferare di software ad uso esclusivo, personalizzati, compilati in
vari linguaggi, capaci, comunque, di soddisfare le esigenze dei
singoli, ma incapaci di dialogo
con altri software della medesima o di altre Unità Operative,
per accedere ai quali occorre
uscire dal programma in uso, in- Figura 23. - Stadiazione estensione N
serire la password dedicata, richiamare l’anagrafica, controllare i dati per poi riaprire il precedente programma: questa è una
metodica sicuramente non bene
accetta dagli utenti, poiché comporta manovre ripetitive con elevato rischio di errore.
L’uso di un solo software idoneo a soddisfare le esigenze di
tutti gli operatori rappresenta
l’auspicio del nostro lavoro.
L’informatica, abbattendo le ultime resistenze e riserve, si sta avvicinando al letto del malato, finora irragiungibile a causa del difficoltoso e impraticabile uso del Figura 24. - Schedula di chemioterapia
computer in quella sede.
Nella nostra realtà, questo
obiettivo sta per essere raggiunto
a causa dalla coincidenza della
proposizione di due progetti:
1) Il progetto della nostra Azienda
Ospedaliera di robotizzare il
percorso medico-infermieristicofarmaceutico del farmaco, per
una più razionale e responsabile prescrizione e distribuzione e
per un migliore controllo della
gestione del rischio da farmaco,
previo cablaggio ed installazione di una rete senza fili fino al
letto del malato;
2) Il progetto, che coinvolge il
software PoliClinicCart, pre- Figura 25. - Statistiche
sentato nell’ambito dell’inizia-
O. Ariganello et al.: PoliClinicCart: Cartella clinica informatizzata polispecialistica integrata a moduli
Figura 26. - Videoconferenza
21
stribuzione del farmaco, ma anche per la gestione informatizzata
del malato nella sua interezza.
L’interfacciamento tra i due
software è requisito indispensabile per la buona riuscita del progetto e si dovrebbe trovare anche
una convergenza sul metodo di riconoscimento del malato.
L’uso del lettore ottico in corsia
sembra poco professionale, scomodo e obsoleto; la tecnologia
RFID (Radio Frequency Identification), che sarà integrata in PoliClinicCart, è una tecnologia innovativa di acquisizione dati e di
identificazione automatica; essa
permette di individuare il malato,
a cui sarà fornito un dispositivo,
che contiene i suoi dati (TAG),
quando il computer entrerà nel
suo raggio d’azione, senza alcuna
forma di ricerca attiva da parte
dell’operatore sanitario.
L’eventuale definitiva integrazione della miriade di software in
funzione presso la nostra Azienda
ospedaliera rappresenta l’obiettivo finale per la globale informatizzazione della cartella cinica
ospedaliera.
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
Figura 27. - Sintesi delle attività dell’attività dell’U.O.
tiva aziendale, relativa ai progetti di
appropriatezza, dal titolo: “Informatizzazione medico-sanitaria nella 5° U.O.
di Pneumologia Oncologica quale strumento per la gestione del rischio da
farmaco”.
La perfetta sintonia dei due progetti
offre l’opportunità di utilizzare la tecnologia realizzata dall’Azienda, computer, tablet, cablaggio Wireless non solo per la di-
1.Ariganello O., De Marinis F. “Progetto
di informatizzazione clinica del dipartimento di malattie polmonari. Studio
preliminare”Annali degli Ospedali
San Camillo Forlanini 1999; 1: 96104.
2.Nasotti A. Access2: programmare con le
macro. Milano 1995
3.Perry Greg. Access2: Esempi di programmazione. Milano Jakson libri
1994
4.Roger Jennings. Rom Person Jakson libri Milano 1994
____
Per richiesta estratti:
Dr. Ottaviano Ariganello
Via dei Fulvi, 67 - 00174 Roma
ANNALI DEGLI OSPEDALI
San Camillo e Forlanini
Volume 8, Numero 2, Aprile-Giugno 2006
Caso Clinico
IL TRATTAMENTO PERCUTANEO DI UN ADENOMA PARATIROIDEO
ECTOPICO IPERFUNZIONANTE
PERCUTANEOUS TREATMENT OF
AN ECTOPIC HYPERFUNCTIONING PARATHYROID ADENOMA
STEFANO PIERI, PAOLO AGRESTI, GIOVANNI COPPI,1 MICHELE SCOPPIO,3 STEFANO FEDELI2
1
Servizio di Radiologia Vascolare ed Interventistica
D.H. Endocrinologia - 2 Radiologia TC Busi - 3 U.O.Nefrologia
Azienda Ospedaliera San Camillo-Forlanini – Roma
Riassunto. Gli autori descrivono l’impiego della soluzione terapeutica percutanea nel trattamento di un caso di adenoma paratiroideo iperfunzionante ectopico, utilizzando la metodica TC
per la guida e il controllo dell'alcoolizzazione in un paziente di 58 anni, con diagnosi d’iperparatiroidismo primario, sostenuta da un adenoma paratiroideo iperfunzionante, con localizzazione
mediastinica, che ha rifiutato la soluzione chirurgica. L’ablazione percutanea è stata eseguita con
iniezione di alcool, sotto il controllo TC.
L’iperparatiroidismo primario è sostenuto da un singolo adenoma nell’85% dei casi, facilmente accessibile alla terapia chirurgica. Nelle localizzazioni ectopiche della ghiandola le tradizionali soluzioni terapeutiche chirurgiche possono non offrire risposte soddisfacenti. La guida e il controllo TC sono fondamentali per conferire all’ablazione percutanea con alcool la mininvasività e l’efficacia della procedura.
Parole chiave: Ghiandola paratiroide - Localizzazione ectopica - Alcoolizzazione
Summary. The authors describe the percutaneous approach in the treatment of an hyperfunctioning ectopic parathyroid gland, under TC assistance in a 58 years old man, with a diagnosis
of primary hyperparathyroidism, from an ectopic hyperfunctioning parathyroid gland, with mediastinal position. The patient refused surgical option. Percutaneous ablation technique was
performed with alcool injection, under TC assistance.
Primary hyperparathyroidism is caused by a single hyperfunctioning adenoma in 85%, easy to
cure with surgical solutions. In ectopic parathyroid glands traditional surgical options may be
unsuitable. TC assistance is fundamental to warrant effectiveness and minimally invasivity to
the percutaneous ablation with alcohol.
Key words: Parathyroid glands - Percutaneous ablation
INTRODUZIONE
I motivi che spingono il radiologo ad interessarsi di iperparatiroidismo primario
sono sostanzialmente due: l’elevato contributo a tale diagnosi fornita dai reperti radiologici collaterali (alterazioni ossee, calcoli renali, calcificazioni dei tessuti molli),
incidentalmente riscontrati nel corso d’indagini strumentali richieste per motivi di-
versi e la ricerca della localizzazione paratiroidea responsabile della malattia.
L’iperparatiroidismo primario, disendocrinia legata ad iperincrezione di paratormone da parte di tessuto paratiroideo
primitivamente iperfunzionante, è generalmente sostenuto da un adenoma singolo (85% dei casi); le rimanenti cause sono
rappresentate da iperplasia (5-10%), da
duplice adenoma (5%) o da neoplasia (1%)1.
S. Pieri et al.: Il trattamento percutaneo di un adenoma paratiroideo ectopico iperfunzionante
Sulle ghiandole paratiroidee, strutture
endocrine di derivazione branchiale, generalmente due per lato a ridosso della superficie postero-mediale della tiroide, le
statistiche riportano un’ampia variabilità
di numero e di sede in rapporto a possibili duplicazioni degli abbozzi primitivi e a
modalità diverse di migrazione2.
Sull’iperparatiroidismo, gli esperti dibattono se sia necessario o meno localizzare pre-operatoriamente le lesioni paratiroidee: alcuni chirurghi ritengono di poterle reperire con precisione nel 95% dei
casi, senza dover ricorrere ad una preventiva individuazione3; altri, invece, sostengono che una localizzazione preoperatoria
può essere utile sia per ridurre il numero
di operazioni con esito negativo che per limitare l’approccio chirurgico ad una dissezione unilaterale del collo4.
Il trattamento convenzionale dell’adenoma paratiroideo, che in mani esperte
può raggiungere il 95-97% di efficacia terapeutica, è l’escissione chirurgica della/e
ghiandola/e anormale/i5. Tuttavia in alcune condizioni, per la coesistenza di patologie concomitanti, o per gli esiti di un pregresso intervento chirurgico o per la sede
anatomica in cui è localizzata la ghiandola ectopica, la chirurgia può non essere
praticabile o risulta tecnicamente difficile; studi retrospettivi suggeriscono che
l’ectopia mediastinica è stata riscontrata
in percentuale oscillante dall’1% al 20%,
per la maggior parte localizzata nella porzione superiore, anteriore o posteriore, accessibile attraverso un’incisione cervicale;
nell’1,4 - 20% è però necessaria la sternotomia5,6. Per i motivi appena esposti, nei
pazienti con localizzazione mediastinica è
evidente la necessità della localizzazione
preoperatoria anche al fine di valutare se
tecnicamente possono essere impiegate
soluzioni terapeutiche alternative quali
l’ablazione con catetere angiografico e l’iniezione intralesionale di vari agenti7 o,
più recentemente, l’ablazione percutanea
con iniezione nell’adenoma di alcool etilico
assoluto8,9.
Riportiamo la nostra esperienza sul
trattamento di un adenoma paratiroideo
localizzato nel mediastino anteriore, mediante ablazione percutanea TC guidata.
23
CASO CLINICO
Uomo di 58 anni, giunto alla nostra osservazione nel Novembre 2001, in occasione di una colica renale da litiasi. Nel corso degli accertamenti clinici e radiologici
di inquadramento, risultavano anche alterati la calcemia (16,3 mg/dL), la fosforemia (3,8 mg/dL) e il paratormone (12
pmol/L). Il paziente presentava un’anamnesi familiare positiva per ipercalcemia: il
padre era deceduto per insufficienza renale cronica da calcolosi renale a stampo.
Una sorella paratiroidectomizzata per
adenoma iperfunzionante.
Nel nostro paziente risultavano negativi l’esame ecografico del collo e la scintigrafia delle paratiroidi; la RM, invece, dimostrava una formazione mediastinica
anteriore, piuttosto omogenea, di forma
regolare, con dimensioni di mm.17,6 per
26,4, a margini ben definiti, con le caratteristiche proprie dell’adenoma e permetteva di definirne i rapporti con le strutture circostanti [Figura 1,2].
Ulteriori accertamenti escludevano in
questo paziente la presenza di una MEN
(multi endocrine neoplasm), permettendo
di inquadrarlo in una forma di ipercalcemia familiare.
Trattandosi di patologia intratoracica
veniva interpellato lo specialista chirurgo,
che descriveva al paziente il tipo e la complessità dell’atto operatorio e lo informava
sulle altre possibilità terapeutiche; il paziente, obbligato professionalmente a continui viaggi intercontinentali, optava per
le soluzioni alternative all’atto chirurgico;
veniva eseguito uno studio T.C. del mediastino [Figura. 3, 4] che confermava le indicazioni della RM e consentiva di analizzare la possibilità di un’alcolizzazione percutanea; verificatane la fattibilità tecnica
e, ottenuto il consenso informato, si procedeva all’ablazione.
Dopo una blanda sedazione, in presenza dell’anestesista, il paziente è stato sottoposto a TC del mediastino, con scansioni condotte senza somministrazione di
mezzo di contrasto per la ricerca della regione d’interesse, scansioni dopo somministrazione di mezzo di contrasto (Sche-
24
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 2, 2006
Figura 1. - Immagine RM, con scansione assiale. Nel mediastino
anteriore, è presente una lesione ovalare, iso-ipointensa nella sequenza turbo T2 pesate, a contorni ben definiti, in stretta vicinanza con la aorta toracica.
Figura 3. - Immagine TC con scansione trasversale e finestra per i tessuti molli. Nel mediastino anteriore si conferma la presenza di
una lesione ovalare, delle dimensioni di cm
2,6 per 1,7, ipodensa dopo somministrazione
di mezzo di contrasto, ma con notevole rinforzo nella porzione più periferica.
Figura 2. - Immagine RM, con scansione
sagittale. Nel mediastino anteriore si
conferma la presenza di una lesione ovalare nella sequenza T1 pesata, a margini
ben definiti, separata da un piano di clivaggio dalle strutture vascolari. L’anamnesi del paziente, l’assenza in sede cervicale e la presenza di tale lesione, in sede
tipica per una paratiroide fa porre diagnosi di lesione paratiroidea ectopica
iperfunzionante.
Figura 4. - Immagine TC con scansione trasversale e finestra per il parenchima epatico. Si conferma la presenza della lesione, dietro il manubrio sternale, con una minima possibilità di aggressione percutanea in senso obliquo, con eventuale ingresso dell’ago a livello dei muscoli
pettorali e non latero sternale, per evitare di attraversare le arterie mammarie.
S. Pieri et al.: Il trattamento percutaneo di un adenoma paratiroideo ectopico iperfunzionante
ring 370, Schering Milano, Italy) per la localizzazione del punto d’ingresso e la scelta della migliore traiettoria dell’ago, mantenendo il paziente in apnea espiratoria
durante le scansioni.
Una volta stabilito il livello d’ingresso
ed eseguite le misurazioni di profondità
della lesione da trattare, senza anestesia
locale, con il paziente in apnea espiratoria, è stato inserito un ago 21 G (H.S. ); ottenuta la conferma che la traiettoria dell’ago era diretta verso la lesione e che nel
contempo non venivano attraversate
strutture importanti [Figura 5], la punta
dell’ago è stata portata quasi a contatto
con la parete esterna sinistra della paratiroide ectopica, per poter poi iniettare alcool etilico al 95% [Figura 6].
Vista la localizzazione della ghiandola
ectopica, non potendosi programmare altre sedute, se non per trattare una eventuale recidiva e volendo ottenere la massima efficacia dal trattamento, abbiamo deciso di iniettare un volume di alcool pari a
quello della ghiandola, maggiorato del
Figura 5. - Immagine TC, in scansione trasversale, eseguita durante la fase iniziale
della procedura. In apnea espiratoria è stato
inserito un ago 21G. L’ingresso dell’ago è a livello del muscolo pettorale destro, 2 cm circa
al di sotto della clavicola. Questo tipo d’ingresso molto obliquo ha sicuramente evitato
la puntura dell’arteria mammaria, ha favorito l’ingresso tra parenchima polmonare e
sterno, in modo da minimizzare il trauma sul
polmone. La traiettoria dell’ago è correttamente rivolta verso l’adenoma ectopico.
25
10%. L’iniezione è avvenuta molto lentamente, con un intervallo di attesa di 5’ dopo l’iniezione di ogni 2,5 cc di alcool, con
una retrazione dell’ago di 5 mm. prima di
intraprendere una nuova iniezione del
farmaco. Il controllo TC al termine della
procedura ha escluso la presenza di pneumotorace o altre complicanze.
I controlli bioumorali sono risultati
normali già a 3 mesi di distanza (calcemia
9,3 mg/dL, fosforemia 3,2 mg/dL, paratormone 4,8 pmol/L), rimanendo nei valori di
normalità nei successivi controlli ematici
trimestrali, per un periodo di follow-up di
16 mesi. Non è stato possibile ripetere
una RM di controllo.
DISCUSSIONE
L’iperparatiroidismo primario è una
condizione clinica molto spesso causata da
adenoma singolo o multiplo, meno frequentemente da iperplasia della ghiandola; assai raramente da carcinoma.1,10
Figura 6. - Immagine TC con scansione trasversale. Questa immagine conferma l’avvenuto ingresso dell’ago all’interno dell’adenoma paratiroideo ectopico iperfunzionante; successivamente la punta dell’ago sarà portata a
lambire il margine interno sinistro della lesione prima
d’iniziare l’iniezione di alcool.
26
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 2, 2006
Figura 7. - Immagine TC con scansione trasversale. Al termine della procedura di alcoolizzazione, si
conferma l’assenza di complicanze polmonari e di
strutture vascolari.
Le paratiroidi, in genere quattro di numero, sono di solito situate vicino alla porzione posteriore della tiroide;10 rispetto alle inferiori, le superiori, che originano dalla quarta tasca branchiale, sono più costanti nella loro localizzazione perché non
migrano durante lo sviluppo ; nell’80% dei
casi sono localizzabili in un’area di 2 cm.,
tra l’intersezione del nervo laringeo ricorrente e l’arteria tiroidea inferiore. La seconda sede più comune delle ghiandole superiori è la superficie posteriore del polo
superiore della tiroide5. Le paratiroidi inferiori sono molto più variabili nella loro
localizzazione: possono essere dovunque,
dalla biforcazione carotidea e/o regione
ipo-faringea fino al mediastino. Questa
ampia variabilità di localizzazione va
messa in relazione con lo sviluppo embriologico della terza tasca branchiale dalla
quale derivano; fin dalla loro origine le
ghiandole inferiori migrano con il timo a
distanza variabile, per cui possono localizzarsi lungo tutto il percorso compiuto dal
timo nella sua discesa fino al mediastino
anteriore. Approssimativamente, un buon
60% delle ghiandole paratiroidee inferiori
sono localizzate lateralmente, posteriormente o inferiormente al polo inferiore
della tiroide; un’altra localizzazione tipica
è il legamento tireo-timico (15%).5
Anche se vengono riportare elevate
percentuali di successo con il trattamento
chirurgico senza ricorrere preventivamente ad indagini diagnostiche di immagine10, da cui l’aforisma di Doppman secondo cui “in un paziente con iperparatiroidismo l’unico studio di localizzazione necessario è quello di trovare un chirurgo
esperto sulle paratiroidi”,7 l’individuazione pre-operatoria della lesione è una procedura semplice da eseguire, vista la superficialità della sede da esaminare, e potrebbe limitarsi ad una esplorazione ecografica del collo, con sonda di frequenza
compresa fra 7,5 e 10 MHz. Il tessuto paratiroideo anormale è generalmente rappresentato da una formazione ipoecogena
o anecogena in relazione al circostante
tessuto tiroideo; si localizza in sede posteriore o laterale alla tiroide e ha un diametro superiore al centimetro; la ghiandola
anormale mostra un’intensa vascolarizzazione al color power Doppler, specie nelle
forme carcinomatose.11 Quando l’esame ultrasonografico mostra la presenza di una
lesione, con le caratteristiche morfologiche e di sede tipiche, l’indagine può considerarsi conclusiva. Viceversa, quando la
ricerca risulti negativa, come nel nostro
caso, la localizzazione pre-operatoria diventa imperativa, visto che la soluzione
chirurgica diventa più complicata e c’è
un’elevata probabilità di ghiandole ectopiche.12,13 In tali casi sarebbe bene associare una tecnica diagnostica funzionale
(scintigrafia) con una tecnica anatomica
(RM).10
Numerose sono le tecniche medico-nucleari impiegate per localizzare gli adenomi paratiroidei: la più diffusa è quella al
tallio e al tecnezio con sottrazione di immagine, dove il tecnezio si fissa solo nella
ghiandola tiroidea, mentre il tallio si fissa
in entrambe.14 Sottraendo la prima dalla
seconda, qualora sia presente un adenoma, si può assistere ad una concentrazione focale del radio-isotopo. Una tecnica
più recente, superiore per sensibilità tanto da essere attualmente la prima metodica scintigrafica impiegata per tale scopo è
quella al tecnezio sestamibi, che adotta lo
stesso principio di differente persistenza
dell’isotopo nell’adenoma paratiroideo rispetto al tessuto tiroideo.15 Questa tecnica
S. Pieri et al.: Il trattamento percutaneo di un adenoma paratiroideo ectopico iperfunzionante
ha validità se la lesione è parzialmente o
completamente separata dalla tiroide.
È ideale per scoprire eventuali lesioni
ectopiche nel collo, mentre le lesioni nel
mediastino non sono visualizzate perché
l’isotopo è attenuato dallo sterno, come è
capitato nel nostro caso.
La RM rappresenta un ulteriore passaggio nella ricerca della localizzazione anatomica della paratiroide ectopica iperfunzionante: nel nostro caso la ghiandola si presentava come una formazione iso-ipo-intensa sulle immagini T1 pesate, a TR e TE
corti, e iperdensa nelle immagini T2 pesate, con un intensa impregnazione del mezzo di contrasto. La diagnosi, pur con i limiti della tecnica, si è basata sulla dimostrazione che la lesione sospetta è localizzata in
una sede tipica per una ghiandola paratiroidea ectopica iperfunzionante.10,16
Una volta individuatane la sede, viene
il momento di decidere quale opzione terapeutica praticare. Il ricorso alla tradizionale terapia chirurgica è in continua
diminuzione, specie nelle forme mediastiniche, per l’elevato numero di esplorazioni
non conclusive, per l’elevato numero di
complicanze associate, per l’invasività
della soluzione terapeutica che obbliga alla sternotomia, necessaria a garantire un
approccio al mediastino anteriore e intermedio migliore di quello fornito dalla sola
toracotomia.6,13 Nel nostro paziente, la toracotomia non era proponibile, perché
avrebbe comportato un campo operatorio
limitato e una difficoltà tecnica a trattare
una ghiandola posta proprio dietro lo sterno; la scelta obbligata era, quindi, la sternotomia mediana.
Per ovviare ai limiti della soluzione
chirurgica, in passato sono state proposte
due soluzioni terapeutiche non chirurgiche: l’ablazione mediante catetere angiografico e iniezione di vari agenti7 e l’ablazione con iniezione percutanea di alcool8.
La prima è stata suggerita dopo l’occasionale riscontro dell’efficacia dell’impiego
del mdC ionico iniettato durante il cateterismo selettivo dell’arteria di rifornimento
di un adenoma paratiroideo ectopico, con
risoluzione permanente dell’ipercalcemia.
Gli Autori ritennero che il mezzo di
contrasto ionico, iniettato con un catetere
27
fermamente posizionato nell’arteria di
rifornimento in un sistema vascolare
chiuso, avesse potuto comportare una dilatazione dei capillari e causare una trasudazione interstiziale con impregnazione
parenchiamale. Fu ipotizzato che l’iperosmolarità e la chemiotossicità del mezzo
di contrasto non diluito comportarono un
danno cellulare. L’edema acuto, in una
ghiandola dotata di capsula, può comportare un decremento di flusso e aggiungere
il fattore ischemico alla azione lesiva; il
mezzo di contrasto, quindi, provocò infarto e necrosi del tessuto paratiroideo.
L’invasività della soluzione terapeutica
proposta, la presenza di complicanze tardive, anche se inferiori a quelle proprie
dell’opzione chirurgica, l’impiego di radiazioni ionizzanti, la necessità di dover ricorrere a strutture tecnologiche costose ed
ingombranti e ad operatori molto esperti,
ha portato gli stessi Autori a suggerirne
un impiego molto limitato.7
L’opzione terapeutica percutanea, proposta da Solbiati8, rappresenta ancora oggi la soluzione più vantaggiosa, sia per l’estrema rapidità e selettività d’azione, sia
per l’elevata efficacia terapeutica.
Nel nostro paziente, la particolare localizzazione dell’adenoma obbligava a rendere risolutiva in un’unica seduta la metodica percutanea; in virtù di questa considerazione è stata ricercata una obliquità
d’ingresso dell’ago, che consentisse alla
punta dell’ago di raggiungere la superficie
sinistra della ghiandola. In questo modo è
stato anche possibile applicare con successo la regola d’iniettare un volume di alcool
pari al volume della lesione maggiorato di
un 10%, retraendo di 5mm l’ago per ogni
2,5 cc di alcool iniettato.
Il criterio per definire efficace tale procedura è il ritorno alla normalità dei livelli
di calcemia, fosforemia e/o paratormone.17
Nel nostro caso questo si è verificato già
dopo tre mesi dalla applicazione; i livelli di
tali parametri sono rimasti sempre nei limiti della normalità per un periodo di tempo di follow-up di 16 mesi. Non abbiamo
avuto però l’occasione di documentare con
una tecnica radiologica non invasiva (RM)
le modificazioni indotte dalla terapia sulla
ghiandola paratiroide trattata.
28
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 2, 2006
In conclusione, sebbene la chirurgia
continui a rimanere il trattamento di elezione per l’iperparatiroidismo causato da
adenomi paratiroidei con localizzazione
cervicale, l’ablazione percutanea deve essere considerata una valida alternativa
terapeutica, spesso definitiva, in quei pazienti che presentano una localizzazione
ectopica, mediastinica, della ghiandola.
Questa soluzione percutanea, mininvasiva, si è dimostrata efficace e consente di
evitare la toracotomia ed i problemi connessi alle eventuali complicanze operatorie e al periodo post-operatorio.
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____
Per richiesta estratti:
Dott. Stefano Pieri
Via F. Algarotti, 8 - 00137 - Roma;
e-mail: [email protected]
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ANNALI DEGLI OSPEDALI
San Camillo e Forlanini
Volume 8, Numero 2, Aprile-Giugno 2006
Comunicazione breve
LA PREVENZIONE SECONDARIA DEL DANNO BIOLOGICO NEI FUMATORI
BIOLOGICAL DAMAGE IN SMOKERS: SECONDARY PREVENTION
ENZO SORESI,1 CLAUDIO BONFIOLI,2 ROBERTO ACCINNI3
1
Pneumologia. Ospedale di Niguarda – Milano,
Servizio di Radiologia. Policlinico S. Marco – Zingonia (Bergamo),
3
C.N.R. Ospedale di Niguarda – Milano
2
Parole chiave: Stress ossidativo, Carcinoma polmonare, Broncopneumopatia Cronica Ostruttiva,
Coronaropatie, Prevenzione secondaria.
Key words: Oxidative stress, Lung carcinoma, COPD, Coronary diseases, Secondary prevention.
INTRODUZIONE
Sulla base dei deludenti risultati riguardanti
tuttora la prevenzione primaria in Italia, da
qualche anno ci si è impegnati nell’affrontare il
tema della prevenzione secondaria allo scopo di
valutare la reale possibilità di identificare oggi,alla luce di innovative indagini diagnostiche,
il reale fattore di rischio di ogni fumatore e la
possibilità di correggerlo o almeno contenerlo nel
caso, purtroppo assai frequente, che il fumatore
non riuscisse a smettere.
Le due grandi novità che hanno permesso questa scelta derivano dall’area diagnostica e sono:
1° la possibilità di eseguire nei fumatori un pannello di esami ematologici in grado di valutare il bilancio ossidativo individuale
2° la comparsa da qualche anno,come presidio
diagnostico, della Tomografia assiale computerizzata spirale (TAC-S) del torace, in grado
di dare una lettura morfologica analitica dell’apparato respiratorio e cioè di identificare
da una parte tutti i danni anatomici espressi
dopo vari anni di fumo e dall’altra parte diagnosticare i tumori polmonari di dimensioni
inferiori ad un cm. spesso non visibili alla radiografia standard del torace.
FATTORI DI RISCHIO PER I FUMATORI:
I RADICALI LIBERI
Il fumo rappresenta un fattore di rischio per
malattie cardiovascolari,respiratorie e neoplastiche: il danno organico che porta alla malattia
conclamata è la risultante del danno biologico
che si produce ai diversi livelli del metabolismo
cellulare principalmente a seguito dello stress
ossidativo, cioè conseguenza dell’eccesso di produzione di Specie Reattive dell’Ossigeno (ROS). I
polmoni sono infatti esposti al danno ossidativo
come sono esposti ad un ambiente ricco di ossigeno e tossine.
Oltre al fumo altri fattori (iperomocisteinemia, dislipidemia, diabete, infiammazione sono
in grado di provocare disfunzione endoteliale sia
agendo singolarmente che in associazione.
Uno dei sistemi più sensibili allo stress ossidativo è l’endotelio che reagisce attivandosi secondo un meccanismo proinfiammatorio che conduce,attraverso una cascata di eventi,alla placca
aterosclerotica. Il termine ROS,(Specie Reattive
dell’Ossigeno) descrive una serie di radicali liberi come O2 e OH e altre molecole ossigenate non
radicali come il perossido di idrogeno (H2O2) e
l’acido ipocloroso. Di fronte alla formazione di
ROS il nostro organismo possiede un complesso
sistema di difesa antiossidante, enzimatico e
non, in grado di neutralizzare i danni che i ROS
producono. Tale sistema può essere profondamente danneggiato dal fumo,mediante intrinseca induzione di stress ossidativo, favorendo la
progressione di malattie cardiovascolari, respiratorie e neoplastiche. L’equilibrio tra le specie
ossidate e ridotte dei tioli nel plasma, lo stato redox ed il substrato energetico cellulare contribuisce a mantenere l’efficienza del sistema antiossidante,(Total Antioxidant Capacity: TAC),
risultando essi indici e marcatori specifici di
omeostasi cellulare.
30
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 2, 2006
METODOLOGIA
Nel Centro di Eccellenza per le Ricerche e lo
Studio dello Stress Ossidativo (CERS) sono stati
sviluppati metodi per monitorare sia i singoli
componenti antiossidanti sia lo stato complessivo del sistema antiossidante e infiammatorio;è
stata inoltre ottimizzata e validata la seguente
serie di valutazioni, (principalmente in HPLC
per la valutazione dell’omeostasi e dello stato redox ed energetico cellulare):
a) valutazione dello stato antiossidante e dello
stress ossidativo;
b) valutazione dello stato infiammatorio;
c) valutazione dell’omeostasi cellulare-stato redox dei tioli;
d) valutazione dello stato redox cellulare;
e) valutazione del substrato energetico.
Questo pannello di esami può essere impiegato parzialmente o nella sua globalità nei due settori chiave della diagnostica clinica:
a) screening di prevenzione primaria: per scoprire ed identificare i soggetti con basse difese antiossidanti ed elevati livelli di ROS che
possono essere a rischio più elevato di sviluppare malattie indotte dai ROS.
b) monitoraggio diagnostico: sia per la valutazione qualitativa e quantitativa del sistema
antiossidante e dei livelli di ROS sia per determinare la risposta ottimale a eventuali
trattamenti correttivi effettuati con farmaci o
integratori alimentari o più semplicemente
modificando lo stile di vita.
Sulla base di queste considerazioni e possibilità diagnostiche, in collaborazione con il CNR
dell’Ospedale di Niguarda è stata da noi impostata una ricerca su un gruppo di 35 fumatori di
30 packs/year (30 anni di fumo con una media di
20 sigarette al giorno), non intenzionati a smettere e senza alcuna evidenza di malattia o sintomi correlati al fumo. L’attenzione nel reclutamento è stata verso lo stile di vita individuale legato all’abitudine al fitness ed al tipo di alimentazione in relazione al consumo di pesce, carne,
frutta e verdura.
L’obbiettivo di questo studio era quello di confermare come questa tipologia di soggetti, forti
fumatori, fosse esposta ad uno stress ossidativo
cronico, premessa dello sviluppo di patologie cardiovascolari, respiratorie e neoplastiche e se fosse stato possibile, una volta avuta questa conferma dagli esami ematologici,correggere con la
somministrazione di antiossidanti specifici, que-
sto tipo di esposizione al rischio.
Gli esami basali del sangue prevedevano oltre alla valutazione di colesterolo totale, HDL,
LDL, trigliceridi, omocisteina, folati serici ed intraeritrocitari, vitamina B12, i ROS determinati
nel siero come lipoperossidi, la CAT o capacità
antiossidante totale valutata con un KIT commerciale (OXI assorbent-Caratelli, Grosseto);
inoltre venivano valutati Nucleotidi adenosinici
e pirimidinici, ossidati e ridotti: ATP, ADP, AMP,
NAD, NADH, NADP e NADPH nel sangue intero usando una apparecchiatura HPLC con rivelatore fluorimetrico.
Sempre con lo stesso tipo di apparecchiatura
in HPLC veniva valutato lo stato redox dei tioli
dosando cisteina, omocisteina, cisteinilglicina e
glutatione totale e ridotto.
Sulla base dei risultati ottenuti si è definito
uno “score di rischio” per ogni soggetto avendo
conferma che i fumatori si differenziavano dai
controlli (selezionati fra i non fumatori e di età
analoga), per una profonda alterazione degli esami basali con identificazione di nuovi fattori di
rischio per la malattia cardiovascolare riguardanti l’alterata omeostasi cellulare, il basso potere riducente e la riduzione del substrato energetico.
Per due mesi a questi soggetti sono stati somministrati integratori alimentari regolarmente in
commercio a base di omega 3 ed omega 6 addizionati con vit. E ed un pool di antiossidanti costituito da vitamine del gruppo B e sali minerali a
basse dosi.
Il prelievo ematico di controllo confermava la
riduzione dei fattori di rischio con spostamento
dello “score” in modo assai variabile nei singoli
soggetti, ma statisticamente significativo per il
gruppo trattato rispetto ai controlli.
A) VALUTAZIONE DEL DANNO
POLMONARE CON TC SPIRALE
La grande novità di questi ultimi anni è stata quella di osservare gli effetti del danno biologico nel fumatore mediante un esame morfologico in grado di evidenziare le alterazioni anatomiche dell’apparato respiratorio più precocemente rispetto alla comparsa del danno funzionale.
L’esame che ha consentito una esplorazione
anatomica del polmone con la possibilità di identificare lesioni non riconoscibili sul radiogramma
E. Soresi et al.: La prevenzione secondaria del danno biologico nei fumatori
del torace è la TC spirale (TAC-S) oggi arrivata
alla sua evoluzione multistrato che consente di
esaminare l’intero torace nel tempo di pochi secondi.
L’utilizzazione di appositi programmi a bassa
dose ha ridotto l’esposizione entro limiti più che
accettabili tenuto anche conto che i soggetti esaminati si situano prevalentemente in una fascia
di età superiore ai 50 anni.
L’interesse per lo studio dell’apparato respiratorio con questa metodica è nato dall’evidenza
che era possibile riconoscere un numero di lesioni neoplastiche considerevolmente superiore rispetto al radiogramma del torace; sono quindi
iniziati in tutto il mondo programmi di screening
del cancro polmonare che prevedono un esame
TC-S annuale. Poichè è noto che la frequenza di
noduli polmonari non neoplastici è elevata, esistono protocolli diagnostici specifici per questi
noduli al fine di differenziare il nodulo benigno
dal nodulo maligno (studio ELCAP, studio giapponese, ecc,). Gli esami da integrare di fronte a
noduli di incerto significato sono la TAC con
mezzo di contrasto e la PET o, meglio ancora la
TC-PET.
L’associazione di TC e PET in una unica apparecchiatura (TC-PET) è particolarmente utile
in caso di noduli multipli perché consente di riconoscere la sede dei noduli captanti in corrispondenza con l’immagine TC.
Il nostro gruppo di lavoro che da anni si occupa di danni da fumo considera la prima TC-S dopo 20 anni di abitudine tabagica un esame importante per evidenziare le alterazioni morfologiche indotte dal fumo sull’apparato respiratorio: abbiamo riscontrato su soggetti fumatori dai
20 ai 30 packs/years, anche in assenza di sintomi, una serie di alterazioni morfologiche che rappresentano la premessa al danno funzionale dei
fumatori, danno che con gli esami di funzionalità
respiratoria emerge molto più tardivamente. La
bronchiolite respiratoria rappresenta il danno
più precoce del fumatore ed è caratterizzata da
una iperplasia della mucosa dei piccoli bronchi
con edema e con flogosi a valle della ostruzione
bronchiale. Questa alterazione dei bronchioli
rappresenta spesso un processo del tutto asintomatico ma è l’inizio del danno anatomico che porta come conseguenza all’air trapping, cioè intrappolamento aereo con conseguente sovradistensione dei lobuli polmonari determinata dall’impossibilità dell’aria ad essere espulsa in fase
espiratoria a causa dell’ostruzione dei piccoli
31
bronchi, ancora in assenza di lesioni alveolari.
Queste alterazioni spesso sono asintomatiche,
sono potenzialmente reversibili e il loro riconoscimento precoce consente al medico due tipi di
intervento: il primo diretto al fumatore con la
spiegazione dei danni iniziali osservati con l’esame TAC con conseguente più concreta motivazione ad abbandonare il fumo di sigaretta per la
preoccupazione di danni maggiori, ed il secondo
di prevenzione secondaria attraverso la prescrizione di broncodilatatori long-acting. Studi recenti hanno confermato che essi hanno l’effetto
di dilatare i bronchi e di sviluppare, specie nelle
terapie a lungo termine, una buona azione antinfiammatoria. È da precisare che nelle fasi iniziali del danno anatomico, con la semplice spirometria difficilmente si è in grado di evidenziare
queste alterazioni.
L’air trapping distrettuale, lasciato senza
trattamento e mantenendosi l’abitudine tabagica, evolve verso l’iperinsufflazione, primo danno
anatomico dimostrabile funzionalmente con un
accurato esame spirometrico valutando poi anche le resistenze respiratorie con la pletismografia.
L’iperinsufflazione rappresenta già, per il fumatore, un primo significativo danno funzionale,
con parziale riduzione della capacità respiratoria: l’aria inspirata rimanendo “ingabbiata” dall’ostruzione bronchiolare, dà inizio a quel meccanismo di progressiva dilatazione e rigidità della
gabbia toracica che porta successivamente alla
ipotrofia dei muscoli respiratori, in particolare
per quanto riguarda i muscoli intercostali. Integrando quindi l’informazione morfologica con la
misura della Capacità Vitale (CV) e del FEV 1, si
dispone così di una serie di dati che consentiranno gli interventi di prevenzione per evitare che
l’evoluzione del danno anatomico, se il fumatore
iperinsufflato continua a fumare, sfoci nell’enfisema polmonare con progressiva distruzione dei
setti alveolari.
B)VALUTAZIONE DELLO SCORE
CALCICO DELLE CORONARIE
Le deposizione di sali di calcio nella placca
aterosclerotica si verifica pressoché costantemente nell’evoluzione della malattia aterosclerotica. È noto come il fumatore, proprio per la premessa dello stress ossidativo che favorisce l’infiammazione dell’endotelio e di conseguenza il
32
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 2, 2006
deposito delle lipoproteine, sia più esposto al rischio cardio-vascolare aterosclerotico. La possibilità di disporre di marker di danno aterosclerotico è legata al pannello di esami di laboratorio
sopra indicati come idonei alla identificazione di
un precoce fattore di rischio, e all’impiego dell’ecodoppler per quanto riguarda in particolare lo
studio dei tronchi sovraortici e dell’aorta toracica ed addominale con l’identificazione di placche
aterosclerotiche più o meno stenosanti il lume.
Non va omesso, per altro, l’esame del fundus oculi che più precocemente di altri può dare indicazione di iniziali danni da aterosclerosi con l’accurata osservazione delle fini arterie retiniche. La
valutazione del grado di aterosclerosi a carico
delle pareti delle arterie coronariche è possibile
da qualche anno integrando nella medesima indagine TAC-S una acquisizione sincronizzata
con l’ECG e valutata con un software specifico
che permette il riconoscimento e la quantificazione del calcio coronarico con successiva elaborazione di uno score calcico specifico.
Per quanto questo esame non sia direttamente correlato con una presenza di una stenosi delle coronarie è in ogni caso indicativo dell’entità
della malattia aterosclerotica e mette in condizione il medico curante di attivare una maggiore
prevenzione quando il valore dello score calcico
sia elevato, in particolare in un soggetto giovane.
Proprio sul gruppo di 35 fumatori nei quali
abbiamo studiato lo stress ossidativo l’esame
TAC-S ha confermato che il valore di score calcico era più elevato nei soggetti fumatori e con alterato assetto dei lipidi raggiungendo punte superiori ad un valore complessivo di 500 o 600.
Poiché questo valore dello score calcico non dà
l’indicazione dei flussi coronarici, ma genericamente quella di danno aterosclerotico delle pareti, esso va integrato, laddove lo score finale risulti elevato, con ecocardiografia e con ecg da
sforzo nonché, quando presente sintomatologia
clinica o dubbio diagnostico, con scintigrafia miocardica dopo sforzo ed eventualmente con coronarografia.
CONCLUSIONI
Le nuove modalità di indagini, la biochimica
e la radiologica, consentono attualmente di definire un profilo biologico individuale sui singoli
fumatori per cui si possono arrivare ad osservare, come è avvenuto nella nostra esperienza, fu-
matori di oltre 40 packs/year con limitato danno
biologico e fumatori invece meno accaniti e più
giovani con danni respiratori e cardiovascolari
molto più rilevanti. D’altra parte se con la TAC
–S si è in grado di valutare un modico danno
anatomico individuale, ad esempio presenza di
enfisema circoscritto ai lobi superiori, già questo
rilievo può sensibilizzare il medico curante a tenere sotto più stretto controllo il paziente in
quanto questo è più esposto anche a rischio sia
neoplastico che infettivo proprio per la riduzione
delle difese cellulari, tessutali ed extracellulari
conseguenza della alterazione polmonare.
In questi pazienti a rischio elevato infatti è
sicuramente giustificato eseguire una TAC-S del
torace ogni anno dato il maggiore rischio di insorgenza di carcinoma polmonare; di fronte ad
episodi infettivi anche banali delle vie aeree si
può inoltre giustificare un tempestivo trattamento con terapia antibiotica a largo spettro, dato l’alto rischio di infezioni broncopolmonari batteriche cui sono esposti. Questo approccio di prevenzione secondaria che si propone consente al
medico di famiglia di affiancarsi al fumatore irriducibile e, con metodi non invasivi e molto innovativi,consente di ridurre significativamente i
fattori di rischio. È interessante inoltre sottolineare in base a quanto emerso dalle nostre osservazioni più che quadriennali di collaborazione
che spesso, dopo questi esami, si può ottenere
spontaneamente la cessazione dal fumo in quanto le prime osservazioni di danno biologico a livello ematico ed anatomico rappresentano un
elemento deterrente per il fumatore, come confermato da dati in letteratura relativi al programma multicentrico di screening del cancro
del polmone negli Stati Uniti, nel quale si è osservata una alta percentuale di stop al fumo.
È proprio per questo motivo che, se attuando
i protocolli di prevenzione proposti recentemente
da alcuni Istituti Oncologici milanesi (che prevedono per i fumatori oltre i 50 anni,dopo la prima
TAC-S la possibilità di eseguire questo esame
ogni anno, per 5 anni, gratuitamente o a costi ridotti, invece di limitarsi alla comunicazione telefonica di presenza o assenza di tumore) si può
comunque meglio evidenziare la presenza di
danni anatomici quali la bronchite cronica, l’air
trapping o l’enfisema polmonare oppure, come è
avvenuto nella nostra casistica, il riscontro occasionale di bolle sub-pleuriche o bronchiectasie:
con tutta probabilità si otterrebbero in tal modo
risultati molto migliori nell’ambito della preven-
33
E. Soresi et al.: La prevenzione secondaria del danno biologico nei fumatori
zione primaria.
In conclusione la rilevanza di questo escursus
diagnostico consiste nel fatto che attualmente il
medico di famiglia ha la reale possibilità di “toccare con mano” i danni anatomici genericamente
da lui descritti al fumatore ed impostare quindi
una prevenzione molto più specifica sia per i
danni dell’apparato respiratorio che per quelli
cardiovascolari e per quelli neoplastici a varia
sede (vescica, ecc.). Diverso è infatti il leggere sul
pacchetto di sigarette “il fumo uccide” ovvero
l’osservare alla TAC-S i primi nefasti segnali di
un danno organico sia a carico del polmone che a
carico delle coronarie. Se poi dall’esame TAC-S
emergesse un enfisema quantificabile in percentuale superiore al 50 % del parenchima polmonare, l’integrazione diagnostica con il test del
cammino, che valuta la saturazione di ossigeno
nel sangue in 6 minuti di cammino e con una spirometria completa che valuti anche il transfer
alveolo-capillare, consentirebbe di sviluppare
tempestivamente una adeguata prevenzione assai prima che il soggetto presenti ipossiemia cronica e di conseguenza entri nella schiera degli
assistiti domiciliari con ossigenoterapia a lungo
termine (OLT) con i rilevanti costi che si riversano poi sul contribuente. Con un adeguato programma di fisiokinesiterapia respiratoria, una
camminata veloce di almeno 30 minuti al giorno
e l’abbandono del fumo, lo spettro della OLT si
potrà allontanare; nella nostra casistica abbiamo
osservato soggetti, fumatori con grave enfisema
non desaturare in pedana durante il test del
cammino in quanto avevano praticato costantemente sport attivo: è evidente che si debba riflettere sull’importanza del fitness che potrà con-
trastare e ritardare, unitamente ad una buona
nutrizione, l’inizio della decadenza senile che avviene per sarcopenia, cioè perdita di massa magra (muscolo).
Tutto ciò conferma che gli interventi prevenzione secondaria fortemente suggeriti da noi
pneumologi ai medici di famiglia possano rappresentare anch’essi un primo sostanziale aspetto di medicina preventiva nei confronti del tabagismo, unitamente alla ancor più essenziale prevenzione primaria.
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____
Per richiesta estratti:
Prof. Enzo Soresi
Via De Amicis, 42 - 20123 Milano
ANNALI DEGLI OSPEDALI
San Camillo e Forlanini
Volume 8, Numero 2, Aprile-Giugno 2006
Rassegne
MALATTIA MENTALE E PSICOTERAPIA
ALLA LUCE DEI PRINCIPI BIOETICI
MENTAL ILLNESS AND PSYCHOTHERAPY
AT THE LIGHT OF BIOETICH PRINCIPLES
PAOLO SEMINARA, GIUSEPPE SEMINARA
Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura – Complesso Ospedaliero
Chiaravalle-Soverato – Regione Calabria – (CZ)
Riassunto. L’importanza dell’applicazione dei principi bioetici alla pratica psichiatrica e psicoterapeutica discende dalla considerazione del malato come “persona” e dall’esigenza di garantire a
quest’ultimo un trattamento rispettoso della sua dignità. Dobbiamo guardare, pertanto, all’approccio psichiatrico e psicoterapeutico in prospettiva interdisciplinare, intanto, e di procedere ad un’attenta analisi dei metodi finora applicati al fine di elaborare ed utilizzare metodi fondati rigidamente
sui principi bioetici. I diversi usi impropri che sono stati fatti della psichiatria, il rapporto terapeuta-malato, lo stesso concetto di malattia mentale, vanno rivisitati, anche alla luce di teorie come
l’antropoanalisi, la quale mette in primo piano la “persona” e la conoscenza del suo modo di essere
nel mondo.
Parole chiave: Malattia mentale, Psicoterapia, Bioetica.
Summary. The importance of applying bioetich principles to psychiatric and psycotherapeutic
practice is due to the consideration of the sick as a “person” and of the need to grant him a respectful
treatment of his dignity. We must look, therefore, to psychiatrical and psychotherapeutical approach in interdisciplinary perspective, and to go on in a careful analysis of the methods since now applyed to elaborate and to employ the methods based on bioetich principles. The different and improper uses employed by psychiatry, the relationship between therapeutist and patient, the concept
of mental illness, itself have to be examined, also at the light of anthropoanalysis, wich emphasires
the “person” and the knowledge of his way of being in the world.
Key words: Bioetichs, Mental disorders, Psychotherapy.
INTRODUZIONE
L’affermazione secondo la quale la
bioetica costituisce l’ambito entro il quale
si definisce l’applicazione dei principi ai
quali si deve ispirare il comportamento
umano, rispetto alle categorie di vero e di
falso, di giusto e di ingiusto, di bene e di
male e, soprattutto l’uso di tutte quelle
scienze che hanno come oggetto la salute e
la vita stessa dell’uomo, come la medicina,
nei confronti della quale l’etica ha maturato un antico rapporto, è ormai univer-
salmente condivisa. La psichiatria e la
psicoterapia devono rientrare a pieno titolo in quest’ambito, soprattutto perché in
questo delicatissimo settore non si può fare riferimento puramente e semplicemente alla biologia, poiché ogni possibile pretesa di riferimento in senso assoluto viene
trascesa dalla considerazione primaria
delle funzioni psichiche del soggetto umano, quando quest’ultimo sia affetto da malattie che inficiano il rapporto soma-psiche perché qualcosa non funziona nel secondo termine di tale rapporto.
P. Seminara et al.: Malattia mentale e psicoterapia alla luce dei principi bioetici
In effetti la malattia mentale inficia
qualcosa di diverso della costituzione biologica, in quanto opera sul complesso di
caratteristiche costitutive proprie dell’uomo e che, differenziandolo profondamente
dagli esseri viventi, lo caratterizzano come “persona”. Ma, poiché il concetto di
persona è stato considerato come qualcosa
di impalpabile, l’attenzione della bioetica
alla psichiatria è stata per molto tempo
assai scarsa. Tutto ciò si giustifica, secondo l’opinione di uno studioso, perché gli
accadimenti legati alle malattie mentali
non si rivelano con aspetti particolarmente eclatanti, tali da interessare vivamente
l’opinione pubblica, come avviene per argomenti come l’aborto, l’eutanasia, i trapianti, la maternità assistita ed altri ancora, che hanno attirato immediatamente
l’attenzione degli studiosi sul versante
bioetico e, spesso, anche religioso. Vi era
sempre stato, da parte della società, poca
disponibilità ad occuparsi del problema
delle malattie mentali, dal momento che
già istituzioni totalizzanti se ne occupavano e che tutto ciò che riguardava la malattia mentale poteva far pensare che l’alienato (così come il portatore di handicap
grave) potesse non esser considerato “persona” alla stregua dei normodotati. Oggi
tale atteggiamento può considerarsi come
largamente superato dall’assunto che in
nessun caso è lecito considerare un individuo meno che “persona”.
Vi sono, pertanto, alcuni aspetti del
settore psicologico e di quello psichiatrico,
sui quali la bioetica a buon diritto interviene, proprio al fine di tutelare non soltanto il diritto alla salute, ma anche quello a non veder misconosciuta o degradata
la dignità individuale. Tali è l’ambito della terapia psicofarmacologica, dove il problema bioetico si pone rispetto all’uso di
determinate sostanze medicinali, in quanto l’uso di questi farmaci muove dal concetto che la mente umana sia puramente
e semplicemente qualcosa di assolutamente e strettamente fisiologico e che la
malattia mentale sia il risultato di disfunzioni di natura neuro-endocrina. Ciò che
si contesta, dal punto di vista della bioetica, è la riduzione dell’uomo a semplice
meccanismo e il conseguente uso psichia-
35
trico di determinati medicinali, della terapia a somministrazione di pillole, come se
invece di un soggetto si avesse di fronte
un bidone da riempire. L’arbitrio, diretto
contro la dignità della persona, consiste
nel fatto che attraverso siffatte cure si mira a cambiare la mente senza riguardo alcuno per la persona; oggetto dell’intervento terapeutico non è l’eziologia, ma la patogenesi, trascurando il fatto che quest’ultima ha matrice puramente biologica,
mentre l’eziologia del disturbo psichico ha
molto spesso origine nell’alterazione di
rapporti affettivi, emotivi, in altre parole,
nei modi di essere nel mondo del soggetto.
Il che ben difficilmente potrebbe essere
curato soltanto con l’intervento farmaceutico.
Un secondo aspetto che richiede l’applicazione dei principi bioetici è costituito
dalla psicoterapia, per una varietà di ragioni: in primo luogo, il fatto che l’intervento terapeutico possa essere esercitato
anche da persone non scientificamente ed
eticamente preparate, il che comporta che
un intruso entra con violenza in un rapporto caratterizzato da una particolare
delicatezza e fragilità, per le interferenze
fantasmatiche che comporta. In secondo
luogo la psicoterapia può essere applicata
in modo scorretto anche da persona realmente preparata, dal punto di vista tecnico, in quanto è possibile che lo psicoterapeuta si lasci prendere la mano dalla tentazione di imporsi al paziente, magari in
buona fede, fino al limite del plagio. Esiste
la possibilità che lo psicoterapeuta agisca
scorrettamente anche sul piano della dimensione libidica, adducendo a propria
giustificazione l’assunto di Freud secondo
il quale la psicoterapia rappresenta un sistema di cura mediante l’amore. Una scusa che ovviamente non convince nessuno,
ma che testimonia, in compenso, dell’abuso consumato ai danni del paziente, approfittando dello stato di dipendenza di
quest’ultimo.
Infine si prende in considerazione il
fatto che la psicoterapia potrebbe appropriarsi di tecniche che non le sono proprie,
anche in vista di ciò che la psicoterapia
deve essere per definizione: un approccio
terapeutico fondato sulla comunicazione
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Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 2, 2006
di ciò che è stato in qualche modo non comunicato perché cancellato, rimosso. Si è
tentato di definire, a questo proposito,
quale debba essere il fine ultimo della psicoterapia e cosa essa debba essere in
realtà: la psicoterapia consiste essenzialmente nel far parlare ciò che è stato scomunicato; recuperarlo alla comunicazione
è il fine unico e programmatico di ogni psicoterapia; essa è la pratica dell’ascolto
non della prescrizione o della persuasione.
Altro campo di applicazione delle regole della bioetica è l’uso delle terapie psichiatriche invasive, alcune convulsivanti,
altre distruttive. L’intervento della bioetica è finalizzato a limitare drasticamente
le prime (si pensa, ad esempio, all’elettroshock) ed eliminare le seconde (come la lobotomia, ormai da tempo proibita in Italia).
In psichiatria simili interventi sono
proibiti, mentre non lo sono in neurologia,
dove interventi di tipo demolitorio vengono utilizzati nella cura dei tumori, nel
trattamento chirurgico del morbo di
Parkinson, in altre malattie che coinvolgono il sistema neurocerebrale. In questi
casi quel tipo di terapia è ampiamente
giustificato perché ordinato a salvare e
prolungare la vita del paziente con il minimo danno possibile. Ma, nel caso della
psichiatria, il discorso è completamente
diverso; il disturbo psichiatrico è da considerare come un’anomalia della mente,
non del cervello, ed è noto che le due cose
non coincidono. Così, mentre appare lecito, dal punto di vista bioetico, l’intervento
distruttivo in campo neurologico, non lo è
assolutamente in campo psichiatrico.
Vi è, infine, l’uso della psichiatria per
fini politici, quando essa serve a dichiarare “alienato” l’oppositore al regime dominante. Ovviamente ciò è praticamente impossibile in regime di democrazia, ma,
quando accade, la psichiatria diventa una
sorta di strumento di mantenimento del
potere attraverso la “prescrizione” di
provvedimenti e cure che altro fine non
hanno se non l’eliminazione degli avversari politici. Vi è, in tutto ciò, il più assoluto
disprezzo della persona umana e dei suoi
diritti; la bioetica interviene con i suoi
principi regolatori, per evitare che possa
essere messo in non cale il concetto di dignità della persona e che si prostituisca la
scienza (e la coscienza) agli interessi del
potere.
Vi sono, ancora, i rapporti tra la psichiatria e il sacro, dove la bioetica interviene per tentare di discriminare ciò che è
autentico da ciò che non lo è, cosa peraltro
non facile. Lo psichiatra potrebbe infatti,
anche in rapporto ai personali convincimenti religiosi, ritenere senz’altro nevrotici alcuni atteggiamenti, atti, pensieri
che abbiano un contenuto religioso, così
come potrebbe avallare tali manifestazioni anche quando esse sono inautentiche.
Occorre quindi, perché psichiatria e
psicoterapia agiscano nell’ambito dei
principi bioetici, definire alcuni principi
comuni, sulla base di alcuni concetti come
quelli di normalità, di malattia mentale,
di diagnosi psichiatrica, di prerequisito
etico, nonché alcuni elementi altrettanto
fondanti come le modalità del rapporto
psichiatra-paziente, la normativa riguardante il trattamento sanitario obbligatorio, l’uso degli psicofarmaci, ed altri elementi da valutare caso per caso.
L’attenzione della bioetica si è progressivamente accentrata sulle nuove frontiere della tecnologia biologica, sui problemi
della riproduzione artificiale, sulla clonazione, prendendo a base, l’etica medica e i
valori che a tale etica possono essere ricondotti. Si è avuto quindi, uno “spostamento clinico” della bioetica, nel senso che
l’attenzione si è accentrata sui problemi
etici connessi alle nuove frontiere della
medicina. In realtà ormai da più parti si
chiede, con sempre maggior forza, un ritorno alla idea originaria di bioetica, intesa come scienza che guida l’azione, come
sapienza che consente all’uomo di usare il
proprio sapere per assicurarsi la sopravvivenza, pur nel continuo tentativo di migliorare la qualità della vita.
Pertanto la bioetica deve orientarsi, come di fatto si orienta, verso una considerazione di tipo interdisciplinare delle due
componenti di maggiore rilievo: le scienze
biologiche, sulle quali si fondano le speranze di sopravvivenza, quando esse siano
rettamente intese ed applicate, ed i valori
umani. Questo significa che la bioetica de-
P. Seminara et al.: Malattia mentale e psicoterapia alla luce dei principi bioetici
ve valorizzare gli apporti di scienze come
l’antropologia, le scienze sociali, la stessa
filosofia, intesa nell’antico senso di amore
per il sapere; e non è un caso che Binswanger abbia fondato il suo metodo antropoanalitico sulla filosofia.
Si tratta quindi di esplorare, anche, le
questioni di metodo, ma in un panorama
più ampio di quello finora considerato.
Pertanto, agli studiosi, agli scienziati, si
richiede, oggi, un sapere che non si limiti
alla pura e semplice conoscenza della loro
disciplina, ma che si arricchisca di tutto
quel complesso di conoscenze che viene
dalle scienze umane, in modo da potere
coniugare utilmente la conoscenza che
proviene dallo studio del mondo fisico e
biologico con ciò che è peculiare della natura umana. Tanto più questa esigenza è
cogente quanto più ci si accorge che il destino del mondo riposa sull’integrazione,
preservazione ed estensione di quel sapere biologico ed etico che sta appena iniziando a farci rendere conto di quanto è
insufficiente il cammino verso un’adeguata qualità di vita.
Ma questo implica pensare e proporre
stili di vita che l’uomo moderno ancora
non conosce, anche se in qualche modo li
intuisce. Nessuno è in grado di possedere
tutte le conoscenze necessarie sulla base
delle quali tali nuovi stili possono essere
codificati e trasmessi a tutti, attraverso
un beninteso processo educativo, il che
sottintende una politica che si faccia carico di questo non lieve peso.
In questa prospettiva, l’oggetto della
bioetica è la ricerca di una sempre migliore qualità della vita, come, del resto, discende dalle numerose definizioni che di
questa disciplina sono state date e dalle finalità che già alla nascita della disciplina
venivano a questa assegnate dai suoi fondatori, Potter ed Hellegers.
L’oggetto di fondo non muta anche
quando si passa ad esaminare le diverse
branche della bioetica: che si tratti di etica biomedica, clinica, farmaceutica, di metabioetica, di pedabioetica, lo scopo è pur
sempre quello di ricercare gli strumenti
capaci di migliorare la vita. In ciascuno di
questi settori, infatti, si intende fare in
modo che tutte le azioni umane derivanti
37
direttamente dalle conoscenze scientifiche
e tecnologiche vengano usate alla luce dell’etica. In questo senso la bioetica si pone
come scienza capace di costruire una visione globale del mondo e dell’essere dell’uomo (ma non soltanto di quest’ultimo)
nel mondo. Si è affermato, infatti, che l’orizzonte contemporaneo della bioetica diventa sempre più ampio e nella prospettiva della qualità della vita, affrontata ormai da tutti gli studiosi e dai centri di ricerca.
Dunque la bioetica, oggi, va concepita
in modo ‘‘globale’’, anche quando si occupa
di settori specifici. Il rapporto tra l’uomo
ed il suo ambiente va posto a fondamento
dello studio dei diversi fenomeni che riguardano l’uomo, in una prospettiva largamente interdisciplinare, poiché è soltanto in questa prospettiva ‘‘globale’’ che
la disciplina acquista realmente pregnanza e significato.
Il grande problema del “capire psichiatrico”, fondamentale per un corretto approccio al soggetto ed al disturbo di cui
questi è portatore, ha generato, nel tempo,
posizioni diverse che hanno dato origine a
un dibattito, più che mai attuale, nel quale le diverse teorie si confrontano dialetticamente cercando, ciascuna di esse, una
legittimazione che la renda quanto più
possibile aderente alla realtà rappresentata dal paziente e dalla sua malattia.
Di conseguenza il “conoscere” psichiatrico si è strutturato secondo modelli differenti, ciascuno dei quali trova la propria
giustificazione nella ricerca scientifica,
condotta secondo metodologie diverse, ma
non sempre aperti ad un ripensamento
critico delle basi teoriche; questa mancanza di apertura in genere è causata dal fatto che l’approccio al disturbo psichiatrico
è, per ammissione comune, irto di difficoltà. Si è osservato, sul punto, che le categorie mediche svaniscono, non si riesce
a trovare un ubi consistam, a meno di non
partire già con idee pre-date, con opzioni
pre-costituite, con comportamenti pre-parati, per inserirvi questo o quel segmento
dell’umana presenza. L’approccio, sempre
problematico, viene in qualche modo ridimensionato perché si può far conto su alcuni elementi di cui ci si sente relativa-
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Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 2, 2006
mente sicuri e che sembrano garantire almeno una prima base per la comprensione
del caso. Da qui l’accettazione, spesso
acritica, di alcune posizioni teoriche e l’assunzione di modelli specifici ritenuti adeguati
Vi sono quindi diverse forme di approccio al “comprendere psichiatrico”. Vi è un
‘‘conoscere per spiegazione’’ i cui fondamenti sono essenzialmente di natura biologica o funzionalistica. Secondo questo
modello l’indagine conoscitiva va fondata
essenzialmente sulla neurofisiologia, per
cui tutti i fenomeni psichici vengono considerati come manifestazioni naturali, e
quindi come disturbi riconducibili in ogni
caso a particolari disfunzioni dell’organismo psichico. Oggetto precipuo della conoscenza è la causa del disturbo, o meglio,
“la precisazione del principio causale” per
cui, dato un sintomo, o una malattia, se ne
ricerca la causa, senza prendere in considerazione il fatto che tra causa ed effetto
non sempre vi è rapporto di significato. Si
ha, di conseguenza una riduzione del caso
alla pura e semplice diagnosi, per cui il
paziente, il soggetto, diventa un mero caso clinico: l’allontanamento tra esaminatore ed esaminato, tra paziente e medico,
si è così realizzato, e di conseguenza si sono precluse le possibilità di interventi fondati su altre possibilità di approccio. Si
tratta, in conclusione, di un metodo che si
fonda su teorie anatomo-cliniche, oggi ritenute del tutto insufficienti per un approccio corretto al disturbo psichiatrico.
Vi è poi il modello interpretativo psicoanalitico: l’ambito privilegiato della conoscenza è quello naturalistico, ma finisce
con lo sconfinare nel meccanicismo, dal
momento che il disturbo viene definito come una sorta di disturbo naturale, dipendente dalla natura pulsionale propria dell’uomo, o anche fenomeno derivante in
qualche modo dalla dinamica della libido.
L’effetto, ossia il fenomeno che si osserva,
viene fatto risalire ad una causa o ad un
motivo di natura inconscia, ed è questa
causa o motivo che diventa l’oggetto della
ricerca conoscitiva. In questo modello si
ha un rapporto diretto tra lo psichiatrapsicoterapeuta ed il paziente, ma, come è
stato sottolineato, nel momento del tran-
sfer l’avvicinamento interumano è massimo, mentre diventa massimo il distanziamento nel momento riduttivo esplicativo.
Questo modello, come quello precedente,
seppure in misura diversa, non favorisce
in misura piena il rapporto interumano, il
quale già da qualche tempo viene considerato come un elemento indispensabile del
comprendere psichiatrico. I fondamenti
teorici del modello si ritrovano nei concetti di libido, pulsione, ed altri ancora, tutti
comunque riconducibili alla sfera del meccanicistico, dell’energetico. Altro fondamento si trova nel concetto di transfert, il
quale ultimo però sembra appartenere più
propriamente alla sfera antropologica.
A questi due modi del conoscere, che
possono essere considerati di tipo ‘‘classico’’ se ne aggiungono altri due, scaturiti
dalle nuove scuole di pensiero, entrambi
fondati sul rapporto interumano. Il primo
di essi, ossia il “conoscere come comprensione” assume come oggetto dell’indagine
psichiatrica la comprensione del soggetto,
e quindi il motivo delle sue manifestazioni psichiche, comprensione che può realizzarsi solo in presenza di un rapporto interumano all’interno del quale l’eventuale
allontanamento viene sofferto tanto dal
soggetto quanto dall’esaminatore, il quale
ultimo considera l’allontanamento stesso
come una vera e propria sconfitta. Per
quanto riguarda in particolare questo metodo, si è osservato che dal punto di vista
dottrinario, grande importanza viene qui
attribuita al criterio analogico: è un comprendere che ci apparenta a quello del
senso comune. Infatti il metodo considera
i fenomeni psichici come elementi che attraverso il rapporto interumano svelano
all’esaminatore ciò che è altro-da-sé, sia
quando si realizza la conoscenza dell’esperienza interiore del soggetto, sia quando si
rivelano gli effetti di tale esperienza.
Il secondo dei due modelli è il “conoscere antropoanalitico” che trova la sua organizzazione teoretica nel pensiero di Binswanger. I fondamenti di questo modello si
ritrovano in un’antropologia teoreticamente ateorica, fondata sull’indagine della
presenza umana nel suo essere-al-mondo.
L’oggetto del metodo è la conoscenza
dell’essenza del fenomeno psichico inda-
P. Seminara et al.: Malattia mentale e psicoterapia alla luce dei principi bioetici
gato in relazione strettissima con la conoscenza del modo di essere del soggetto. La
comprensione dell’essenza del fenomeno
in quanto legata al modo di essere dello
specifico individuo non può soffrire riduttività, dal momento che non si intende ridurre i fenomeni a particolari categorie
successivamente generalizzabili. Infatti,
si è osservato, i fenomeni sono intesi come
espressivi dell’umano, non soltanto nella
loro forma e struttura, ma anche e soprattutto come riferentisi direttamente a quella singola presenza, non importa se ‘sana’
o ‘malata’. Diventa pertanto indispensabile, per lo psichiatra, finalizzare l’osservazione alla conoscenza dell’essenza “con cui
un altro esprime il suo modo di essere”. I
momenti dell’osservazione potranno fare
registrare avvicinamenti ed allontanamenti, ma questi sono da considerare come ‘‘fisiologici’’ quando si esercita una autentica riflessione critica “sulla profonda
antinomia sistolica e diastolica dell’esistenza”. Pertanto, i fondamenti teoretici
di questo modello vanno rinvenuti nel
passaggio dall’esperire all’esprimere, dal
piano dell’esperienza a quello dell’espressività, il che implica, di fatto, la necessità
di risalire ai diversi modi di essere ed alle
norme cui ciascuno di essi obbedisce, e
quindi ad una vera e propria ontologia dei
modi dell’essere, il che vanifica praticamente del tutto il concetto di normalità
sul quale si fonda in buona parte il modello precedente.
Infine si può accennare ad un quinto
modello del comprendere, quello sociologico, che assume due aspetti distinti. Nel
primo caso si ha un conoscere di tipo causale ed interpretativo, che si fonda essenzialmente sulla relazione Io-ambiente e
quindi su generalizzazioni di origine empirica; la base teorica è di natura positivista e psicologista. Nel secondo caso si ha
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un conoscere che considera i fenomeni dell’uomo come manifestazioni della presenza del soggetto insieme ad altri. I fondamenti teoretici sono di natura storicistica
e dialettica. Nel primo caso l’avvicinamento rimane problematico e l’allontanamento assai più facile, mentre nel secondo caso l’avvicinamento viene mantenuto, ma
quasi esclusivamente sul piano dialettico.
Resta la domanda: come considerare la
malattia mentale? Nel pensiero di Binswanger viene considerata come “possibilità dell’esserci”: una tesi che ha affascinato e convinto, che ha innescato un dibattito ancora attuale, ma che ha comunque additato un itinerario da percorrere e
sviluppare nel tentativo di trovare una risposta esaustiva alla domanda che lo psichiatra non deve mai cessare di porsi. È
da questa risposta, in definitiva, che può
discendere l’appropriatezza dell’intervento psichiatrico e, con essa, l’aderenza alle
norme bioetiche.
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____
Per richiesta estratti:
Prof. Paolo Seminara
Tel. 0967 21722 - Fax 0967 25958
e-mail: [email protected]
ANNALI DEGLI OSPEDALI
San Camillo e Forlanini
Volume 8, Numero 2, Aprile-Giugno 2006
DEFENSINE ALFA: SEMPLICI POLIPEPTIDI ANTIMICROBICI
O QUALCOSA DI PIÙ?
ALPHA DEFENSINS: SIMPLE ANTIMICROBIAL PEPTIDES
OR SOMETHING MORE?
GREGORINO PAONE,1,2 FRANCESCO CARBONE,1 GILDA GIANNUNZIO,1
ILIO CAMMARELLA,1 GIOVANNI SCHMID1,2
1
Centro Universitario Broncopneumopatie Emergenti Ospedale Carlo Forlanini – Roma
Fondazione Don Gnocchi “S.Maria Della Pace” - Via Maresciallo Caviglia 30 – Roma.
2
Riassunto. Le defensine sono piccoli peptidi cationici della lunghezza di 29-42 aminoacidi e con un
peso molecolare compreso tra i 3 e i 5 kDa. Tale famiglia di molecole è ulteriormente suddivisa in alfa e beta defensine che differiscono tra loro nella posizione dei ponti disolfuro intramolecolari. Le alfa defensine sono contenute nei granuli primari dei neutrofili e nelle cellule intestinali del Paneth,
mentra le beta sono prodotte dalle cellule epiteliali.
La maggior parte delle defensine mostra un ampio spettro antimicrobico diretto verso batteri (Grame Gram +), miceti, micobatteri ed alcuni virus capsulati. Molti studi hanno suggerito che tali molecole, oltre alla loro azione antimicrobica, possono avere un ruolo nell’infiammazione, nella risposta
immune e nella cicatrizzazione delle ferite. Livelli elevati di defensine alfa sono stati evidenziati in
molti disordini polmonari cronici (BPCO, asma, fibrosi cistica, deficienza di alfa 1 antitripsina, sarcoidosi)
Le defensine hanno dimostrato attività citotossica verso le cellule epiteliali delle vie aeree e i macrofagi alveolari e stimolano la produzione di molecole proinfiammatorie.
Recentemente è stato dimostrato che enzimi transferasi presenti sulla superficie dell’epitelio delle
vie aeree sono in grado di inibire l’attività antimicrobica delle defensine ma non alterano quella “infiammatoria”.
Parole chiave: Defensine, Malattie infiammatorie del polmone, Risposta immune, Transferasi.
Titolo corrente: Defensine e polmone.
Summary. Human defensins are small cationic peptides 29-42 amino acid long, with a molecolar
weight of 3-5 kDa. Two major subfamilies are recognized: alfa defensins and beta defensins, that differ in the placement and disulfide pairing of their six cisteine residues. The a defensins are found in
the primary granules of neutrophils and into intestinal Paneth’s cells, whereas b defensins are produced by epithelial cells. Most defensins show a broad spectrum of microbicidal activity against bacteria (Gram positive and Gram negative), fungi, mycobacteria and some enveloped viruses. Besides
their antimicrobial capacity several studies have suggested that these molecules may have a role in
inflammation, immune response and wound repair.
Increased alpha defensins’ levels have been shown in many pulmonary chronic inflammatory disorders (e.g. chronic obstructive pulmonary disease, asthma, cistic fibrosis, alpha 1 antitrypsin deficiency, sarcoidosis). Defensins have demonstrated cytotoxic activity toward airway epithelial cells
and alveolar macrophages and stimulate proinflammatory molecules production by several cell types. Recently transferases anchored on airway epithelium surface have been demonstrated to be able
to inhibit defensins’ cytotoxicity but not their “inflammatory” activity.
Key words: Defensins, Lung inflammation, Immune response, Transferases.
Running title: Defensins and lung.
G. Paone et al.: Defensine alfa: semplici polipeptidi antimicrobici o qualcosa di più?
INTRODUZIONE
I neutrofili rivestono un ruolo di primo
piano nella difesa dell’organismo nei confronti della moltitudine di microrganismi
con cui quotidianamente esso viene in
contatto.
Queste cellule migrano nel sito dell’infezione rispondendo a stimoli chemotattici di varia natura trasportandovi così un
sorprendente arsenale di sostanze ad
azione antimicrobica.
Tali sostanza possono variare da composti semplici come il perossido di idrogeno e l’ossido nitrico a composti più complessi come polipeptidi e vere e proprie
proteine. Per convenzione le proteine antimicrobiche con meno di 100 aminoacidi
vengono definite “antimicrobial peptides”.
Le proteine antimicrobiche sono perciò
elementi di prima linea nella difesa dell’organismo ospite e si trovano sulla mucosa epiteliale, nei fluidi corporei e negli
organelli microbicidi delle cellule fagocitiche.
Tali proteine si differenziano per grandezza, struttura e attività, ma la maggior
parte ha proprietà anfoteriche, esponendo
sia la superficie cationica sia quell’idrofobica.
Tra esse un posto di particolare rilievo
spetta alle defensine, polipeptidi di piccolo peso molecolare che sono state identificate in una moltitudine di esseri viventi
(piante, animali, uomo).
La struttura delle defensine è caratterizzata dalla presenza di 6 residui di cisteina che si dispongono a formare 3 ponti disolfuro intramolecolari la cui posizione nell’ambito della molecola permette di
suddividerle ulteriormente in 3 sottoclassi: alfa defensine, beta defensine, defensine degli insetti.
STRUTTURA E GENE
DELLE DEFENSINE
Le defensine sono peptidi il cui numero
di aminoacidi varia tra 29 e 42 con un peso molecolare compreso tra 3 e 5 kDa.
Le a-defensine umane, furono descritte
la prima volta nel 1985 e comprendono at-
41
tualmente 6 membri1; quattro di loro, le
Human Neutrophil Peptides (HNPs 1-4)
sono localizzate nei granuli azzurrofili dei
neutrofili; due, le Human Defensin (HD-5
e HD-6) sono presenti nei granuli secretori delle cellule di Paneth del tratto intestinale e nelle cellule epiteliali del tratto genitale femminile2.
Nei primi anni 90 una seconda classe
di defensine fu identificata nei neutrofili,
nelle cellule epiteliali della lingua e nella
trachea dei bovini3. Tali peptidi strutturalmente differenti dalle defensine, furono denominate ß-defensine. Ricerche successive rivelarono che l’espressione delle
ß-defensine aumentava in vivo durante
l’infiammazione ed in vitro in risposta ai
lipopolisaccaridi batterici4. La prima ß-defensina umana (hBD-1) fu isolata nel
19955 e fu identificata più tardi nelle cellule epiteliali in vari organi, incluso il polmone6. Nel 1997 la seconda ß-defensina
umana (hBD-2) fu isolata dalle lesioni di
pazienti affetti da psoriasi7. La terza ß-defensina umana fu identificata nel 2001 nel
cuore, nel muscolo scheletrico, nella pelle,
nei cheratinociti gengivali, nell’esofago e
nella trachea8. La quarta ß-defensina è
stata individuata nel 2002 dall’analisi della sequenza genomica sul cluster genomico delle altre defensine: questa defensina
viene espressa maggiormente a livello dei
testicoli ed in minor misura dell’antro gastrico, mentre bassi livelli di espressione
sono stati osservati nell’utero, nei neutrofili, nella tiroide e nel rene9. Le defensine
umane sono codificate da un cluster genico presente sul cromosoma 8p23, che include i geni per tutte le a-defensine conosciute, con l’esclusione dell’HNP-210. Poiché l’HNP-2 non presenta l’aminoacido Nterminale dell’HNP-1 e dell’HNP-3, si ritiene che l’HNP-2 sia un prodotto di proteolisi di uno o di entrambi i peptidi HNP1 e HNP-3.
Le a-defensine umane (HNPs 1-4) sono
piccole, cationiche, ricche di arginina e
prive di attività enzimatica10. Le HNP contengono 6 residui cisteinici che formano 3
caratteristici ponti disolfuro intramolecolari essenziali per la loro attività antimicrobica. Mentre le prime 3 a-defensine
(HNPs 1-3) sono molto simili e differisco-
42
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 2, 2006
no solo per un singolo aminoacido N-terminale, HNP-4 è marcatamente differente
nella sua sequenza aminoacidica complessiva, con solo il 32% di omologia con le altre a-defensine11.
Anche i geni per le ß-defensine sono localizzati sul cromosoma 8p2312. La localizzazione del gene per hBD-1 è a circa 100
kb da quello del gene per HNP-1, suggerendo che essi si dividono un comune gene
ancestrale. Il gene per l’hBD-1 è notevolmente omologo alle altre ß-defensine di
mammifero. Le ß-defensine si differenziano dalle a-defensine a livello genomico e
delle sequenze pre-peptidiche3. La forma
matura dell’hBD-1 consta di 36 aminoacidi e contiene anche essa i 6 caratteristici
residui cisteinici12. Gli accoppiamenti cisteinici differenziano le ß dalle a-defensine; mentre nelle a-defensine le cisteine
formano le seguenti coppie 1-6, 2-4, 3-5
nelle ß-defensine esse sono associate nelle
seguenti posizioni 1-5, 2-4 e 3-6. La presenza dei 6 residui di cisteina, oltre ad essere responsabile della caratteristica stabilità alla molecola, ne determina la
conformazione strutturale. Il gene dell’hBD-2 si estende per circa 2 kb ed si trova a circa 5-600 kb dall’hBD-113. Il gene
dell’hBD-3 si trova 13 kb a monte del gene dell’hBD-2, è trascritto nella stessa direzione e codifica per un peptide di 67
aminoacidi che è per il 43% identico al
hBD-28.
ATTIVITÀ ANTIMICROBICA
Le defensine furono originariamente
identificate per la loro attività antimicrobica, che è diretta contro batteri gram-negativi e gram-positivi, miceti e virus capsulati1. Poiché le HNP 1-3 costituiscono
dal 5 al 7% delle proteine totali contenute
nei neutrofili umani, e dal 30 al 50% delle
proteine contenute nei granuli azzurrofili,
possono essere considerate le principali
proteine antimicrobiche presenti nei neutrofili. Al contrario, l’HNP-4 ammonta approssimativamente all’1% delle defensine
totali contenute ed è quella dotata di minor attività antimicrobica. Il range di concentrazione in cui le defensine svolgono
attività antimicrobica è tra 1 e 100 µg/ml,
e lo stesso potere antimicrobico è ottimale
in assenza di siero1; perciò le a-defensine
esercitano la loro azione antimicrobica
principalmente all’interno del fagolisosoma, dove esse raggiungono le più alte concentrazioni rispetto allo spazio extracellulare.
Il meccanismo attraverso il quale le
a-defensine uccidono i batteri è stato studiato sui gram-negativi, e si suppone che
sia un processo a due tappe che richiede
una cellula bersaglio metabolicamente attiva1: nella prima fase le defensine cationiche si legano alla membrana batterica
portando alla alterazione della funzione di
barriera della membrana stessa. Nella seconda fase determinano la formazione di
canali di membrana alterando la normale
permeabilità della stessa14; le defensine
quindi si portano all’interno della cellula e
in ultimo determinano la morte cellulare.
Si ritiene che l’azione citotossica delle defensine all’interno della cellula si svolga
attraverso danneggiamento del DNA ed
alterazione della sintesi proteica. Le defensine sono prive di attività antivirale
nei confronti dei virus privi di involucro
esterno e ciò suggerisce che l’interazione
con la membrana da parte delle defensine
è fondamentale per lo svolgimento della
loro attività antimicrobica. L’attività antivirale delle defensine si svolge contro virus capsulati (es. Herpes simplex virus,
Cytomegalovirus) compreso il virus dell’HIV15-17. In uno studio è stato dimostrato
che la somministrazione endovenosa di
LTB4 in soggetti infettati dal virus dell’HIV causa un incremento dose-dipendente dei livelli plasmatici delle a-defensine e della proteina macrofagica infiammatoria (MIP 1ß), che hanno attività antiHIV18. Inoltre Zhang et al. hanno ritenuto
di identificare nelle a-defensine, e precisamente nelle HNP-1, HNP-2 ed HNP-3, il
fattore cellulare antivirale (CAF) che sopprime la replicazione del virus e che sarebbe responsabile della lunga sopravvivenza che si riscontra in alcuni individui
infettati dall’HIV: infatti un gruppo di
proteine, riconducibili alle a-defensine,
sono secrete quando i linfociti CD8 di tali
pazienti sono stimolati19. Si ritiene perciò
G. Paone et al.: Defensine alfa: semplici polipeptidi antimicrobici o qualcosa di più?
che l’azione delle defensine nei confronti
del virus dell’HIV possa svolgersi in duplice modo come è stato rilevato in uno
studio di Chang: da una parte un’azione
diretta tossica sul virus, inibita in presenza di siero, e dall’altra una inibizione da
parte dell’HNP-1 a livello dei passi successivi alla trascrizione inversa ed all’integrazione20.
Recentemente è stato inoltre dimostrato che le HNP sono in grado di inibire, in
modo non competitivo, il fattore letale della tossina del Bacillo dell’antrace proteggendo in vivo i topi dalle conseguenze letali di tale tossina21.
Anche le ß-defensine dispongono di potere antimicrobico contro numerosi batteri gram-positivi e negativi e determinati
miceti7; l’hBD-2 è in questo senso dieci
volte più potente dell’hBD-1. È importante notare che l’attività antimicrobica delle
ß-defensine si riduce in presenza di alte
concentrazioni di cloruro di sodio22. Il meccanismo attraverso il quale le ß-defensine
uccidono i loro target è probabilmente legato, in analogia con le a-defensine, alla
formazione di canali nelle membrane cellulari.
DEFENSINE E POLMONE
Gli studi iniziali sulle a-defensine avevano focalizzato l’attenzione sulla loro attività antimicrobica, ma studi successivi
evidenziarono che tali molecole potevano
avere un ruolo importante nell’infiammazione, nella riparazione delle ferite e nella
regolazione della risposta immunitaria.
Ci sono crescenti evidenze che i livelli
di a-defensine sono aumentati nei pazienti con patologie caratterizzate da processi
infiammatori che coinvolgono i neutrofili.
Le defensine sono aumentate nel plasma dei pazienti con Fibrosi Polmonare
Idiopatica (IPF), e vi è una tendenza, però
non significativa, all’aumento dei livelli di
HNP nel BAL degli stessi pazienti. Si è
inoltre visto che in questi stessi pazienti i
livelli di defensine nel plasma presentano
una correlazione inversamente proporzionale con alcuni parametri della malattia,
quali la PaO2, il VC, FEV1, e diffusione al
43
CO. Nel BAL dei pazienti con IPF vi è correlazione tra i livelli di defensine e quelli
di IL-8 e questo concorda con ciò che è stato riportato per quel che riguarda la stessa correlazione presente anche nelle malattie infettive polmonari23. L’IL-8 possiede una potente azione chemoattraente nei
confronti dei neutrofili e può indurre il rilascio di a-defensine da parte degli stessi.
A loro volta le defensine stimolano la sintesi di IL-8 da parte delle cellule epiteliali delle vie aeree e di conseguenza medierebbero indirettamente il reclutamento di
altri neutrofili nella sede dell’infiammazione24. Il ruolo dell’IL-8 nella patogenesi
della IPF è oggi considerato importante: è
stato evidenziato infatti che i livelli di IL8 incrementati nel BAL dei pazienti con
IPF sono in correlazione diretta con l’incremento dei neutrofili nello stesso BAL;
vi è inoltre correlazione positiva tra i livelli di IL-8 del BAL e quelli sierici negli
stessi pazienti IPF. Pertanto i livelli sierici di IL-8 correlando positivamente con la
percentuale dei neutrofili nel BAL, indicano in questo modo il grado di alveolite
neutrofilica nell’IPF. Inoltre è stato evidenziato che i livelli sierici di IL-8 si correlano in modo inversamente proporzionale con importanti indicatori della funzionalità polmonare come la PaO2, il VC,
la TLC e la diffusione al CO, dato quest’ultimo che concorda con ciò che è stato
trovato per le defensine.
Le a-defensine si accumulano nelle secrezioni delle vie aeree dei pazienti con altre malattie infiammatorie polmonari, come la fibrosi cistica25, la bronchite cronica
ostruttiva26, il deficit di a1-antitripsina27 e
l’Adult Respiratory Distress Syndrome.
Inoltre in alcune patologie i livelli di
defensine correlano con l’incremento di
IL-826.
Le a-defensine sono in grado di stimolare la produzione di leukotriene B4
(LTB4) e di IL-8 da parte dei macrofagi
alveolari28. Studi in vitro hanno mostrato
che le defensine possiedono attività chemiotattica per i monociti ed i linfociti T29,
ma non per i neutrofili. Quest’ultima funzione, come detto in precedenza, si potrebbe svolgere in vivo in modo indiretto, come
è stato dimostrato anche da uno studio in
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Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 2, 2006
cui l’inoculazione sottocutanea di defensine nel topo aveva determinato infiltrazione di tipo neutrofilo e mononucleato.
Le a-defensine potrebbero essere coinvolte nella risposta immunitaria specifica
inducendo il rilascio da parte dei linfociti
T, di citochine quali IFN-y, IL-6, ed IL-10;
in accordo con questa ipotesi le a-defensine hanno mostrato di essere capaci di incrementare le IgG sistemiche, ma non le
IgA, in risposta alla liberazione intranasale di antigene nel topo30.
Le a-defensine, inoltre, potrebbero promuovere il danneggiamento cellulare legandosi ai membri della famiglia degli inibitori delle serino proteasi, come a1-antitripsina impedendo a quest’ultima di legarsi ed inattivare l’elastasi neutrofila.
Nel BAL dei pazienti con deficit di a1-antitripsina le defensine sono aumentate e,
a concentrazioni presenti nei pazienti con
maggiore grado di infiammazione, risultano citotossiche in vitro nei confronti dei
macrofagi alveolari sia di soggetti normali che di individui con deficit di a1-antitripsina. Inoltre incubando con dosi crescenti di a-defensine i macrofagi alveolari si
ha un significativo incremento nella liberazione di LTB4 ed IL-8; le defensine e l’elastasi neutrofilica agiscono sinergicamente determinando un ulteriore incremento della liberazione extramacrofagica
di LTB4 ma non di IL-8; l’aggiunta di a1antitripsina è in grado di prevenire completamente l’aumento dell’LTB4 27.
Altra proprietà delle a-defensine è
quella di ridurre i livelli di glutatione nelle cellule delle vie aeree31. Il glutatione è
un potente antiossidante presente nel polmone e contrasta gli agenti ossidanti endogeni ed esogeni. La riduzione, indotta
dalle HNP, del glutatione potrebbe determinare un aumento della suscettibilità
delle cellule epiteliali ai danni indotti dagli agenti ossidanti, come è evidenziato
dal fatto che le a-defensine e l’H2O2 interagiscono in modo sinergico portando alla
lisi cellulare32,33. Diversi studi hanno mostrato che nei polmoni di pazienti con malattie mediate dall’azione dei neutrofili come la Bronchite Cronica Ostruttiva
(COPD) ci sono segnali di un incremento
dello stress ossidativi e di una riduzione
delle capacità antiossidanti34; le defensine
potrebbero contribuire a determinare questo squilibrio riducendo i livelli di glutatione nelle cellule epiteliali delle vie aeree.
In una grande varietà di malattie infiammatorie polmonari in cui sono coinvolti i neutrofili, compresa l’asma, è stato
evidenziato un aumento della permeabilità e del danno dell’epitelio e questo è stato attribuito alla azione delle proteinasi;
in realtà anche le defensine potrebbero
contribuire al danneggiamento delle cellule epiteliali delle vie aeree e questo è supportato da studi in vitro che hanno messo
in evidenza come le HNP in concentrazioni che sarebbero rilevanti in vivo causano
la lisi delle cellule epiteliali delle vie aeree. Secondo alcuni autori le a-defensine
avrebbero un ruolo nella patogenesi dell’asma ed in particolar modo dell’iperreattività bronchiale. Durante l’esacerbazioni
dell’asma vi sarebbe un numero aumentato di neutrofili nelle secrezioni delle vie
aeree. Inoltre è stato evidenziato che le
proteine cationiche sarebbero associate
all’iperreattività bronchiale e poiché le defensine sono la più abbondante proteina
cationica presente nei neutrofili, è stato
suggerito che le defensine potrebbero contribuire all’iperreattività delle vie aeree;
questo sarebbe avvalorato dal fatto che le
defensine incrementerebbero il rilascio di
istamina da parte delle mastcellule26.
Un recente studio ha evidenziato che le
HNP svolgono un ruolo di regolazione della risposta infiammatoria svolgendo una
azione antichemotattica nei confronti dei
leucociti polimorfonucleati, impedendone
una ulteriore migrazione nella stessa sede
di infiammazione35.
L’HNP-1 sembra essere coinvolta nell’uccisione di micobatteri tubercolari da
parte dei neutrofili; uno studio ha dimostrato che i neutrofili di soggetti sani era
capace di uccidere entro un’ora i micobatteri in coltura con una media del 40%, che
aumentava, se i neutrofili venivano trattati con TNF-a, all’85% circa: tale azione
citotossica era mediata dal HNP-1 come
dimostrava il significativo incremento dei
livelli di questa defensina all’interno dei
fagosomi contenenti i bacilli36.
G. Paone et al.: Defensine alfa: semplici polipeptidi antimicrobici o qualcosa di più?
Le a-defensine alla concentrazione di
10-9 -10-8 M incrementano la produzione di
TNF-a e di IL-1ß da parte dei monociti
umani attivati, mentre a più alte concentrazioni si ha un declino dell’effetto stimolatorio instaurandosi l’attività citotossica.
Quest’ultima viene soppressa in presenza
di siero.
Oltre a queste le a-defensine possono
svolgere anche attività antinfiammatoria,
in quanto inibiscono l’attivazione della via
classica del complemento e la fibrinolisi;
queste osservazioni potrebbero evidenziare un possibile ruolo delle defensine nei
pazienti con sepsi in cui si rilevano alti livelli di HNP nel plasma. Infine a concentrazioni più basse di quelle con le quali si
svolgono la maggior parte delle loro azioni
proinfiammatorie, le a-defensine, in vitro,
inducono la proliferazione delle cellule
epiteliali e quindi potrebbero essere coinvolte in vivo nella riparazione epiteliale
delle ferite26.
Un recente studio ha dimostrato che alcune transferasi presenti nell’epitelio delle vie aeree sono in grado di modulare l’azione delle defensine inibendone l’atticità
citotossica ma non alterando la produzione di IL-8 e la chemiotassi defensino-mediata37.
Per quel che riguarda le ß-defensine è
stato osservato che sia l’HBD-1 e sia
l’HBD-2 sono presenti nel BAL di pazienti con fibrosi cistica e fibrosi polmonare
idiopatica, ma solo l’HBD-1 si ritrova nei
soggetti sani22. Questo suggerisce che
l’HBD-1 è importante nella difesa dell’ospite in assenza di infiammazione, mentre
HBD-2 è importante durante lo stato di
infiammazione. Nei pazienti con Fibrosi
Cistica l’attività dei peptidi antimicrobici,
compresi HBD-1 e HBD-2, risulta attenuata nelle secrezioni delle vie aeree, a
causa dell’aumento della loro concentrazione salina38.
Uno studio recente ha valutato il possibile coinvolgimento delle ß-defensine nella patogenesi della infezione tubercolare:
è stato evidenziato che vi è, in vitro, un incremento nell’espressione dell’HBD-2 mRNA nelle cellule epiteliali delle vie aeree
infettate, a diverse concentrazioni, dal
Micobatterio tubercolare, mentre i macro-
45
fagi alveolari esprimono il gene del HBD2 solo ad alte concentrazioni di micobatterio; studi di microscopia elettronica hanno
confermato questo e rilevato l’aderenza
dell’HBD-2 alla membrana del M. Tubercolare39.
Le ß-defensine sono prodotte anche
dalle cellule tumorali polmonari e in una
ricerca recente è stato evidenziato che i livelli sierici di HBD-1 e HBD-2 erano significativamente più alti nei pazienti con
cancro polmonare rispetto ai livelli osservati nei soggetti sani ed in quelli con polmonite40.
Scoperte nei primi anni ottanta e ritenute molecole in grado di esplicare la loro
azione solamente attraverso la formazione di “a bunch of holes” sulle molecole
bersaglio, le defensine si sono, con il passare del tempo, arricchite di nuovi ruoli
assumendo sempre più intriganti e complessi compiti nell’ambito della risposta
infiammatoria sistemica e del polmone in
particolare.
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____
Per richiesta estratti:
Prof. Gregorino Paone
Centro Universitario Broncopneumopatie Emergenti
Piazza Carlo Forlanini 1 - 00152 Roma
Tel. 06 55552553
e-mail: [email protected]
ANNALI DEGLI OSPEDALI
San Camillo e Forlanini
Volume 8, Numero 2, Aprile-Giugno 2006
Gestione e Organizzazione Sanitaria
ASPETTI PSICOLOGICI DEL DOLORE
IN FASE PRE-OPERATORIA E POST-OPERATORIA:
UN MODELLO D'INTERVENTO COGNITIVO-COMPORTAMENTALE
E EDUCATIVO-RELAZIONALE
PAIN PSYCHOLOGICAL ASPECTS DURING PERIOPERATIVE
AND POSTOPERATIVE PERIOD:
A MODEL OF COGNITIVE-COMPORTAMENTAL
AND EDUCATIVE-RELATIONAL INTERVENTION
PAOLA CIURLUINI, CRISTINA DI FONZO
U.O. Psicologia Oncologica, Azienda Ospedaliera San Camillo-Forlanini – Roma
Parole chiave: Dolore Pre-operatorio e Post-operatorio/ Trattamento del Dolore.
Key words: Pain, preoperative postoperative Pain Treatment.
1. INTRODUZIONE
Il dolore acuto o cronico affligge decine
di milioni di esseri umani e altera la qualità della loro vita fino a renderli invalidi.
Esistono dolori che durano soltanto giorni:
come quelli causati da traumi, postumi di
operazioni, malattie che si riacutizzano; e
quelli cronici, che durano mesi o anni,
creando dei veri invalidi.
Negli ultimi 20 anni le ricerche sui
meccanismi della nocicezione e le prove
cliniche nella terapia del dolore hanno
stabilito che la psicologia del dolore è una
componente essenziale sia nella ricerca
che nella terapia.
Il passaggio fondamentale nella terapia del dolore e nel ruolo dello psicologo è
costituito dalla pubblicazione della Gate
Control Theory di Melzack e Wall1 che ha
ammesso la psicologia nel novero delle discipline basilari per comprendere il complesso fenomeno del dolore. Questa sottolineava l’importanza dell’azione inibitoria
delle sensazioni non dolorose nella percezione algica. Essi suggerirono come attività cognitive quali l’attenzione, la suggestione o l’ansia possano influenzare il dolore agendo come attivanti o inibitori.
Il dolore è dunque visto come un’interfaccia fra aspetti fisici, psicologici e sociali.
L’applicazione pratica della teoria ha
decretato la diffusione delle cliniche multidisciplinari del dolore che negli USA
avevano raggiunto il numero di 825 già
nel 1980. La considerazione che il dolore
sia un’emozione piuttosto che una sensazione risale agli antichi greci che lo consideravano una componente emozionale
dello spirito umano in contrapposizione
negativa con il piacere. La storia fino alle
epoche più recenti ha riportato la diatriba
tra modello sensoriale del dolore e modello emozionale. La prevalenza del primo è
coincisa con la mole di conoscenze scientifiche che si sono accumulate negli ultimi
100 anni che hanno contribuito a mettere
in ombra gli aspetti emozionali del dolore.
Il concetto unidimensionale legato alla
componente sensoriale ha goduto del netto predominio fino a quando la Gate Control Theory non ha riportato le dimensioni
cognitive ed emozionali sullo stesso piano
di quelle sensoriali. Nell’ambito del trattamento del dolore il modello medico è
stato progressivamente messo in crisi dalla ricerca psicologica sulla base dei successi diagnostici e terapeutici. Esso infatti descrive la malattia come l’espressione
di un’anormalità funzionale o strutturale
del corpo del paziente. La conseguenza di
questo modello è di restringere il fenomeno doloroso a pura espressione sintomatica di un processo biologico. Gli psicologi
48
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 2, 2006
che si sono orientati nella ricerca secondo
i parametri del modello medico hanno tentato di dimostrare che i pazienti con dolore cronico possiedono un particolare profilo di personalità. Ma ben presto si ci è resi conto che il dolore cronico sfugge ai tentativi di etichettamento ed i test di personalità non evidenziano un profilo tipico
relativo ad una patologia dolorosa.
La diffusione nel tempo delle metodologie dei due approcci, comportamentale e
cognitivo-comportamentale, nell’ambito
della terapia del dolore, è stata talmente
ampia che sono le sole ad avere una gamma di ricerche sulla loro efficacia2.
Per quanto riguarda il primo approccio,
è interessante il contributo di Fordyce3
sull’uso delle tecniche derivanti dal condizionamento operante per la terapia del dolore cronico. Il focus passa dal sintomo del
paziente al suo comportamento e a quello
dei suoi familiari. Lo scopo della terapia
comportamentale è di aiutare il paziente a
identificare i comportamenti scorretti e
modificarli anche attraverso l’aumento
dell’attività generale e di quella motoria
specifica. In seguito a quest’ argomentazione
è stato valorizzato il lavoro di Basmajian4
che nel 1963 aveva dimostrato che si può
imparare a controllare volontariamente
sia l’attività muscolare che le funzioni del
sistema nervoso autonomo.
Le tecniche di biofeedback vengono migliorate progressivamente e ai pazienti
con dolore viene insegnato ad apprendere
nuove modalità di risposta psicofisiologica
a stress di varia natura.
Con l’evoluzione del comportamentismo si afferma sempre più prepotentemente l’importanza dei fattori cognitivi
necessari per comprendere il comportamento umano. Il paziente diventa un’agente attivo della propria terapia e si tengono in considerazione, oltre che l’atteggiamento comportamentale, anche quello
dei processi mentali interposti fra Stimolo
e Risposta. I progressi teorici ed applicativi del nuovo approccio terapeutico favoriscono l’utilizzazione anche con problemi di
dolore cronico, dove si risentiva della refrattarietà di alcune patologie alla sola terapia comportamentale. Attraverso la terapia cognitivo-comportamentale si supe-
ra il limitato ambiente terapeutico e si favorisce la generalizzazione all’esterno.
Il paziente apprende una serie di metodologie che hanno lo scopo di migliorare la
gestione autonoma del dolore nel corso dei
diversi momenti della vita quotidiana.
Questo capitolo, oltre ad evidenziare le
attuali ricerche e gli aspetti psicologici del
dolore in fase preoperatoria e postoperatoria, vuole offrire un modello di intervento
psicologico nella prassi ospedaliera.
Essendo il dolore un problema multidisciplinare, si è determinata l’esigenza di
creare un modello operativo di intervento
anch’esso multidisciplinare,che presuppone una nuova cultura assistenziale basata
sul coinvolgimento e consenso di tutti coloro che fanno parte del processo di cura
(medici, infermieri, volontari, paziente e
famiglia).
2. IL DOLORE ACUTO
Come disse Bonica5, il dolore acuto è
“una complessa costellazione di penose
esperienze sensoriali, percettive ed emotive che si accompagna a risposte vegetative, psicologiche, emotive, comportamentali”. Esso è generalmente associato ad una
lesione identificabile chiaramente, è generalmente di breve durata e produce reazioni di difesa e di protezione che comprendono:
• alterazioni dell'umore (depressione,
ansietà, paura);
• atteggiamenti clinici, postura, espressioni verbali;
• modificazioni del Sistema Nervoso Autonomo (alterazione della frequenza
cardiaca, pressione arteriosa, resistenza elettrica cutanea, nausea, vomito,
sudorazione). Dopo questa fase esso diviene causa di manifestazioni abnormi
e deleterie per l'individuo (dolore infartuale, post-operatorio, post-partum).
Normalmente tende a regredire con la
guarigione e/o l’allontanamento dello stimolo nocivo.
Le componenti psicologiche nel dolore
acuto sono state ben evidenziate da
Chapman6, il quale propose una concezio-
P. Ciurluini et al.: Aspetti psicologici del dolore in fase pre-operatoria e post-operatoria
ne multidisciplinare del dolore in cui ogni
componente influenza e viene influenzata
dalle altre.
Le componenti in esame sono:
- afferenza sensoriale nociva (l’aspetto
sensoriale-discriminativo del dolore),
- componente motivazionale-emozionale
(che rappresenta sia l’aspetto emotivo
che la capacità del soggetto di favorire
azioni che portino sollievo),
- dimensione concettuale-valutativa e
componente socio-culturale (influenze
culturali e sociali).
Gli stati emozionali possono amplificare l’intensità del dolore che a sua volta
può produrre intensi disagi emotivi. Tuttavia per quanto i fattori psicologici possano influenzare l’esperienza del dolore
acuto, esso non è mai determinato, salvo
rare eccezioni, da componenti primariamente psichiche od ambientali.
Dobbiamo distinguere tra il dolore "sintomo" e il dolore "malattia". Quando il dolore diventa esso stesso l’aspetto predominante di un quadro clinico si parlerà di dolore malattia. Dopo un intervento chirurgico il dolore è da considerarsi malattia
perché ci avverte di un danno tissutale
che ben conosciamo apportando solo ulteriore sofferenza. Nelle malattie neoplastiche il sollievo dal dolore è uno degli aspetti principe del trattamento terapeutico.
3. REAZIONI AL DOLORE
Il dolore è la manifestazione di un conflitto che esprime una rottura, che l’organismo non riesce a superare.
Quindi espressione di un bisogno di ricerca di un nuovo equilibrio.
3.1 ANSIA
La caratteristica più importante del dolore acuto, ed in particolare del dolore postoperatorio, deve addebitarsi all’ansia.
L’intervento chirurgico è considerato tra-
49
dizionalmente una proceduta cruenta fortemente stressogena. Diversi studi, condotti su persone adulte, confermano che
l’evento chirurgico rappresenta una minaccia fisica e psichica, con conseguente
aumento dei valori dell’ansia fino al giorno dell’intervento stesso, che poi scendono
gradualmente sino a stabilizzarsi su valori ritenuti normali. Un elevato grado d’ansietà agisce influenzando spesso lo stato
psicologico dei pazienti ed incidendo sfavorevolmente sul buon decorso postoperatorio.
3.1.1 FASE PRE-OPERATORIA
L’ansia preoperatoria è relativa all’ansia di attesa di un qualcosa che non si conosce e, proprio per questo, si teme ancora di più. Tutto il periodo antecedente all’operazione è vissuto nell’ambito del ricovero ospedaliero, con una serie di esami di
routine che introducono al giorno prestabilito per l’intervento. All’ansia si accompagnano tutta una serie di paure che
spesso sono strettamente collegate a pregiudizi culturali, all'apprendimento diretto o per modellamento che contribuiscono
ad alzare il livello di incertezza.
I rapporti interpersonali precedenti all’operazione sono fatti di comunicazioni
monotematiche sia con i familiari che con
altri pazienti.
In più possono aggiungersi preoccupazioni
a) di tipo affettivo nei riguardi dei familiari,
b) logistiche per la distanza dall’ospedale
e le difficoltà di spostamento,
c) lavorative per l’assenza dal posto di lavoro e per il dubbio di poter riprendere
l’attività in tempi brevi o addirittura di
perdere l’impiego,
d) economiche perché il fermo momentaneo ha comportato una serie di spese
non indifferenti a fronte di una carenza
di ricavi, progettuali in relazione al
dubbio di poter effettivamente raggiungere gli obiettivi proposti. Le paure
principali sono superficialmente legate
all’esito dell’operazione e all’anestesia,
ma in profondità aleggia la paura della
50
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 2, 2006
morte.
Nonostante ci sia fiducia nello staff medico, la probabilità che l’operazione non
funzioni perfettamente o che possano esserci delle complicazioni turba in modo
quasi ossessivo il paziente che pesca nella
sua memoria tutti i racconti e le informazioni a sostegno di questa ipotesi negativa.
L’anestesia è vissuta da molti pazienti
come una tecnica capace di far perdere il
controllo della coscienza, di far dire cose
inopportune, di perdere la consapevolezza
di quanto stia avvenendo, di perdere il
controllo delle proprie facoltà mentali.
Inoltre la capacità di anticipare il dolore è stata rilevata sia nella ricerca che
nella clinica. I soggetti sperimentali che si
attendono di ricevere delle stimolazioni
dolorose hanno un atteggiamento ansioso
o di stress che tende ad anticipare l’evento effettivo, in tal caso si parla di ansia
anticipatoria.
Un effetto ansiogeno legato ai timori rispetto all’anestesia è la paura di perdere
il controllo. Si tratta di una paura che il
paziente tenta di ridurre aumentando il
controllo stesso e ponendo una resistenza
psicologica all’abbandono ai farmaci anestetici. Questo tipo di strategia produce
un’ansia che si esaspera al risveglio,
quando si ha paura di dire sciocchezze o di
averne dette durante l’anestesia.
3.1.2 FASE POST-OPERATORIA
L’ansia che interviene dopo l’operazione può essere causata da tre fattori principali:
- il primo è lo spavento come reazione al
dolore che insorge non appena scompare l’effetto dell’anestesia;
- il secondo è l’insicurezza. Il paziente
non sa che cosa aspettarsi dopo l’intervento anche se aveva fatto delle previsioni. La realtà è composta di sensazioni strane e dolorose;
- il terzo è l’incapacità a fronteggiare la
nuova situazione per la quale deve dipendere da qualche personaggio esterno come il medico o l’infermiere.
Questi tre fattori interagenti aumenta-
no il livello d’ansia e, di conseguenza, innescano un circolo vizioso che abbassa la
soglia del dolore aumentandone la percezione.
Nel 1958 Janis aveva elaborato un modello curvilineo dei rapporti tra livelli di
ansia pre-operatori e post-operatori.
Secondo questo modello un livello moderato di ansia prima dell’operazione chirurgica predice un recupero post-operatorio soddisfacente mentre livelli troppo
bassi o troppo elevati peggiorano l’impatto con l’intervento. Prima dell’intervento
il paziente aumenta il proprio livello di attivazione emozionale ed inizia a svolgere
quello che Janis ha definito “compito di
preoccuparsi” cioè una vera e propria preparazione psicologica rispetto agli agenti
stressanti. Invece pazienti con un accentuato atteggiamento difensivo non hanno
ansia preoperatoria e risultano impreparati rispetto agli stress favorendo un recupero postoperatorio difficoltoso.
Queste caratteristiche non sono state
confermate da ricerche successive.
Molti studi hanno evidenziato una correlazione lineare positiva tra l’ansia preoperatoria e l’ansia postoperatoria, pertanto a bassi livelli di ansia preoperatoria
corrispondono bassi livelli di ansia postoperatoria, mentre ad alti livelli iniziali
corrispondono anche livelli finali elevati.
3.2 VARIABILITÀ INDIVIDUALE
E FATTORI DI RISCHIO
NELL’INSORGENZA DEL DOLORE
I meccanismi di percezione del dolore
sono tutt’altro che semplici in quanto bisogna considerare il contributo di caratteristiche quali: paura, ansia, depressione,
personalità del paziente, background culturale, apprendimento, locus of control,
aspettative sull’esperienza dolorosa, suggestionalità.
Anche le manifestazioni del dolore sono
diverse da individuo a individuo a causa
di fattori culturali, educativi, cognitivi ed
emozionali come hanno evidenziato Mamie
et al.7 (tabella n. 1).
C’è una variabilità interindividuale
nella soglia di tolleranza della sofferenza
P. Ciurluini et al.: Aspetti psicologici del dolore in fase pre-operatoria e post-operatoria
51
Tabella 1. - Fattori di rischio potenziali rilevati mediante un questionario somministrato in fase preoperatoria
FATTORI SOCIALI
FATTORI MEDICI
FATTORI PSICOLOGICI
genere
età
educazione
origini
occupazione
condizione sociale
nazionalità
n.ro di fratelli e sorelle
n.ro dei componenti della famiglia
famiglia con problemi di dolore
tossicomania
trattamento medico corrente
consapevolezza
della diagnosi chirurgica
trauma chirurgico
durata delle procedure
tipo di medicazione
tecniche anestetiche
n.ro dei giorni di ospedalizzazione
precedenti all’intervento
storia di eventuali problemi avuti
in passato con l’anestesia
storia di eventuali interventi
chirurgici avuti in passato
problemi con l’alcool
nella storia familiare
procedure chirurgiche mentalizzate
relazione con il chirurgo
relazione con l’anestesista
livello di soddisfazione
per l’informazione ricevuta
dal chirurgo
livello di soddisfazione
per l’informazione ricevuta
dall’anestesista
relazione con gli infermieri
livello di soddisfazione
per le pratiche ospedaliere
ansia relativa all’intervento
preoccupazione per i possibili
effetti collaterali dell’operazione
qualità del sonno abituale
qualità del sonno nelle 2-3 notti
precedenti l’intervento
stili di coping
livello di dolore pre-operatorio
livello di depressione
Conoscenze generali sul dolore:
aspettativa del livello di dolore dopo le procedure chirurgiche
paura in fase preoperatoria del dolore postoperatorio
conoscenza e fiducia nel trattamento del dolore
precedenti trattamenti del dolore postoperatorio e loro efficaci.
Informazione postoperatoria: (nei tre giorni successivi all’operazione):
valutazione di dolore a riposo
dolore durante le crisi di tosse
efficacia dell’analgesia
tempo trascorso dopo l’intervento
tempo trascorso dall’ultima somministrazione di analgesia nel momento della valutazione
quantità e tipo di analgesia stabilita
complicazioni dell’anestesia
Mamie et al. Acta Anaestesiol Scand 2004; 48: 234-242
52
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 2, 2006
fisica e nella quantità di oppio di cui si ha
bisogno per placarla, che nel caso del dolore postoperatorio, è dovuta da tali fattori sono:
- il profilo psicologico del paziente, gli
eventuali disturbi psichici e le sue caratteristiche fisiche;
- le esperienze precedenti di dolore, il ricordo del dolore ed il contesto in cui si
è verificato.
- la tecnica e la sede di intervento;
- la preparazione preoperatoria comprendente aspetti fisici, farmacologici e
psicologici;
- l’eventuale insorgenza di complicazioni
relative all’intervento;
- la tecnica anestesiologica;
- la qualità dell’assistenza postoperatoria8.
Molte ricerche suggeriscono che ci sono
molti fattori che influenzano l’intensità e
la gravità anche del dolore cronico, come
le differenze interetniche e culturali,le
esperienze di dolore vissute durante l’infanzia, il profilo psicologico dei pazienti, il
livello socio-economico, l’ambiente familiare, e le strategie di coping9.
L’influenza dei fattori di rischio sul dolore postoperatorio è stata studiata in
gruppi di pazienti, mediante metodologie
psicologiche sofisticate10.
3.2.1 ANSIA, DEPRESSIONE,
AGGRESSIVITÀ
Per quanto riguarda la prima classe di
fattori uno studio ha valutato i fattori
comportamentali e psicologici che possono
essere considerati predittivi di un maggior livello di dolore sofferto in fase postoperatoria; il disturbo cronico del sonno risulta essere un fattore significativo poichè
associato ad una maggiore intensità del
dolore postoperatorio. Tale sintomo, semplice da valutare ma non ancora del tutto
esaminato, dovrebbe essere preso in considerazione per avviare un tipo di trattamento analgesico postoperatorio efficace11.
I disturbi del sonno possono riflettere
un certo tipo di profilo psicologico, ansioso
o depresso; inoltre i risultati mostrano anche una relazione tra dolore cronico preo-
peratorio e intensità del dolore postoperatorio; difficoltà croniche del sonno potrebbero essere la conseguenza di dolore cronico e la relazione tra dolore cronico e depressione è ben documentata.
Esiste anche una relazione diretta tra
dolore e depressione, ansia, aggressività.
Mentre appare chiaro che c’è una relazione tra depressione e dolore, resta da
esaminarne la natura ed il grado. Romano
e Turner12 rivisitarono la letteratura su
questo argomento e trovarono conferme
alle seguenti ipotesi:
- la depressione scatena o peggiora il livello di dolore aumentando la sensibilità causando l’abbassamento della soglia di tolleranza del paziente al dolore
stesso;
- il dolore diviene una conseguenza della
depressione in pazienti con certe disposizioni;
- il dolore può agire anche da stressor
causando un disturbo depressivo;
- dolore e depressione possono occorrere
simultaneamente, ma sono correlate
solo perchè vi sono coinvolti simili meccanismi psicologici e/o biologici.
Inoltre recentemente è stato portato a
termine un altro studio13, in cui è stato dimostrato che i sintomi depressivi hanno
un certo peso nei pazienti con ernia al disco: è stata rilevata una chiara divisione
della popolazione in due sottogruppi: soggetti con alti livelli di dolore e sintomi depressivi rilevanti, e pazienti con bassi livelli di dolore e per nulla o poco depressi.
La depressione in fase preoperatoria è risultata essere un fattore importante e che
in qualche modo condiziona lo stato di salute dopo l’intervento. È ben chiaro che sono necessarie ulteriori ricerche.
L’aggressività è un altro stato affettivo
che può essere correlato al dolore, ed è
stato scoperto che in base agli stili di inibizione dell’aggressività di un paziente, si
può predire l’intensità del dolore manifestato. La repressione dell’aggressività è
stata anche connessa al verificarsi della
depressione in generale, in particolar modo in pazienti con dolore14; comunque sarebbero utili ulteriori ricerche e delucidazioni sulla natura di tale legame.
Pilowsky15 ha proposto un modello per
P. Ciurluini et al.: Aspetti psicologici del dolore in fase pre-operatoria e post-operatoria
spiegare l’interrelazione tra ansia e depressione e dolore sia cronico che acuto.
Egli ha suggerito che l’ansia potrebbe essere una caratteristica tipica del dolore
acuto, mentre la depressione tipica del dolore cronico, notando che i sintomi connessi al dolore acuto sono simili all’ansia
mentre i sintomi del dolore cronico ricordano maggiormente la depressione.
C’è un numero crescente di evidenze
empiriche che dimostrano che la misura
della sensazione di dolore nei pazienti è
correlata con l’ansia. In uno studio16, ad
esempio, il 36% di dolore in pazienti chirurgici potrebbe essere predetto dall’esame dei loro tratti psicologici, come l’autoregolazione, la paura e l’ansietà.
La percezione della gravità dell’evento
negativo è alterata in quegli individui con
predisposizione ad essere ansiosi, ovvero
lo stato d’ansia è accresciuto negli individui caratterizzati da un elevato tratto
d’ansia.
3.2.2 “LOCUS OF CONTROL”
Importanti per valutare la reazione al
dolore acuto, sono anche i fattori di controllo. Questi non sono solo relativi alla
paura di perdere il controllo della coscienza, di dire cose inopportune, di perdere la
consapevolezza di quanto stia avvenendo,
di smarrire il controllo delle proprie facoltà mentali. Esiste anche un controllo di
tipo attivo sulla capacità personale di venire fuori bene dall’operazione, o sulla fiducia allo staff medico o sul caso e la fortuna che può assistere il paziente. La nozione di Locus of Control è stata introdotta da Rotter17 per descrivere uno stile attribuzionale che si sviluppa tra due polarità: interno ed esterno. Per locus of control interno si intende la credenza che gli
eventi rinforzanti siano dipendenti dal
proprio comportamento, mentre il locus of
control esterno si riferisce alla convinzione che le conseguenze del comportamento
dipendano da fattori come il destino, la
fortuna, Dio o il potere di altri. L’attribuzione interna o esterna della causa e del
controllo del dolore, condizionano grandemente l’esperienza del dolore, l’evoluzione
53
prognostica e la risposta terapeutica; è
stato dimostrato che pazienti con locus of
control interno più elevato tollerano più
facilmente il loro dolore18. Sul piano specifico del dolore postoperatorio gli studi relativi alla chirurgia orale hanno evidenziato che i pazienti che si esprimono con
un controllo interno recepiscono meglio le
informazioni specifiche sull’operazione,
mentre i pazienti a controllo esterno beneficiano maggiormente di informazioni
generiche. Nonostante queste evidenze le
ricerche sul locus of control non sono riuscite a stabilire una correlazione chiara e
statisticamente significativa fra questo costrutto e l’ansia e il dolore postoperatorio.
3.2.3 STRESS E COPING
Centrale nell’esperienza di stress psicologico è il processo di valutazione cognitiva, che riguarda l’esame delle varie situazioni e la valutazione delle loro possibili implicazioni sul proprio benessere, determinando il modo in cui lo stress è vissuto. Più precisamente si parla di modalità di coping in riferimento ai pensieri e
comportamenti a cui le persone ricorrono
per gestire le situazioni stressanti e, in
questo caso, il dolore o le reazioni emotive
ad esso correlate. Esistono delle differenze individuali nell’affrontare le situazioni
stressanti, per cui anche nel caso del dolore postoperatorio bisogna considerare la
preferenza individuale e l’efficacia delle
personali strategie di coping, ai fini della
selezione di un trattamento efficace e
adatto alla persona. Il coping assume dunque un fattore di mediazione importante
nella relazione tra eventi di stress e l’adattamento fisico e psicologico. Secondo
Lazarus e Folkman19 è definito come “un
costante cambiamento cognitivo e sforzo
comportamentale nella gestione delle richieste esterne ed interne sulla base delle
risorse della persona”. Letteralmente coping significa “cavarsela”, “affrontare con
successo”. Lo stile di coping risulta in altre parole fondamentale nel determinare
le differenze individuali di reazione psicologica al dolore.
Tali processi possono essere:
54
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 2, 2006
- focalizzati sul problema: il soggetto
compie azioni per fronteggiare l’evento
stressante,
- o focalizzati sull’emozione: il soggetto
fa dei tentativi per regolare una risposta emotiva allo stress.
I pazienti possono ad esempio ricorrere
alla negazione, ovvero interpretare diversamente la situazione senza cambiarla
realmente, possono cercare informazioni
sull’evento stesso, o evitare, modificare o
minimizzare l’impatto di una situazione,
riducendo perciò il grado per il quale è valutato come stressante. Nella pratica clinica l’intervento di tipo cognitivo è orientato a modificare l’approccio soggettivo e
l’interpretazione degli eventi che influenzano negativamente la percezione e la risposta del dolore. Quindi un obiettivo delle tecniche cognitive è quello di modificare
gli stili di coping del paziente per promuovere una reazione migliore alla fase di dolore, aumentare la soglia e la tolleranza al
dolore stesso e diminuire i pain behaviors.
Turk20 ha classificato le strategie cognitive che le persone impiegano per controllare il dolore in sei categorie, che sono:
- la disattenzione immaginativa, che
consiste nell’immaginare una scena incompatibile con l’esperienza di dolore;
- la trasformazione immaginativa del dolore in cui le sensazioni dolorifiche vengono interpretate come qualcosa di diverso dal dolore;
- la trasformazione immaginativa del
contesto dove viene modificata la collocazione in cui sono percepite le sensazioni nocive;
- la deviazione dell’attenzione verso l’esterno, chiede al soggetto di focalizzarsi sulle
caratteristiche fisiche dell’ambiente;
- la deviazione dell’attenzione verso l’interno, cioè verso i pensieri autogenerati;
- la somatizzazione, che consiste nel concentrarsi sulla parte del corpo interessata al dolore, ma con un atteggiamento distaccato.
Altri fattori che possono influenzare la
riuscita includono l’efficacia percepita e il
coinvolgimento del soggetto.
3.2.4 ATTENZIONE
L’attenzione aumenta la sensibilità al
dolore attraverso un orientamento selettivo dei recettori sensoriali verso un unico
stimolo. Questo concetto ha avuto una serie di conferme soprattutto dalle ricerche
di neurofisiologia che hanno paragonato i
processi sensoriali con il funzionamento
del computer. Per entrambi ci sono processi in serie e processi in parallelo.
L’attenzione possiede un meccanismo
di selezione e uno di riflessione che consentono la scansione delle mappe sensoriali e operano estrazioni da ogni sede.
La selezione avrebbe lo scopo di filtrare
alcune caratteristiche dello stimolo in arrivo per poterne fare un’ulteriore elaborazione. Nel campo del dolore la selezione
può riguardare l’intensità o la durata dello stimolo nocicettivo mentre la riflessione
ha un ruolo interpretativo e valutativo degli schemi sensoriali.
3.2.5 FATTORI DI APPRENDIMENTO
Il mancato apprendimento di strategie
specifiche rispetto alle stimolazioni nocicettive e alla difficoltà nel discriminare
fra i pericoli importanti e quelli meno importanti incide pesantemente sulla percezione del dolore acuto. I tre modelli essenziali dell’apprendimento spiegano queste
assunzioni in modo sperimentale.
Il condizionamento classico (CC) o rispondente ha un grandissimo valore di
adattamento per qualsiasi tipo di organismo, perché permette di imparare ed eliminare una grande quantità di risposte in
rapporto alle richieste di un’ambiente in
continua modificazione. Nel dolore acuto
sono molto frequenti gli apprendimenti
determinati da un condizionamento classico.
Il condizionamento operante (CO) si basa sul concetto del rinforzo; un comportamento aumenta notevolmente la probabilità di essere ripetuto se ha subito dei
rinforzi sia negativi che positivi. Il rinforzo del comportamento disadattivo provoca
una sua frequenza e durata maggiore.
Il paradigma del CO ha trovato una
P. Ciurluini et al.: Aspetti psicologici del dolore in fase pre-operatoria e post-operatoria
vasta applicazione nella diagnosi e nella
terapia del dolore cronico benigno ed è alla base del trattamento multidisciplinare
nelle pain clinics.
Il modeling consiste nell’osservazione
dell’esperienza fatta da altri per il processo di ordinamento degli stimoli ambientali. L’osservazione del comportamento da
dolore espresso da altre persone ha importanti implicazioni nel trattamento del
dolore acuto. Se ad esempio la sala da attesa dell’ambulatorio è molto vicina al
luogo preciso in cui vengono poste in atto
medicazioni o trattamenti dolorosi, il paziente può apprendere la risposta al dolore semplicemente per modellamento delle
risposte verbali o uditive di altri che stanno sperimentando il dolore. Oppure la vista dell’espressione del volto del paziente
che esce dall’ambulatorio fa capire e imparare rapidamente quale sia la consistenza dolorosa e quali siano le risposte
comportamentali in relazione al trattamento.
3.2.6 ASPETTI CULTURALI
Grandi differenze culturali determinano atteggiamenti e reazioni diverse nei
confronti del dolore. Tale osservazione è
stata supportata da diversi studi, quali
una famosa ricerca di Zborowski nel 1969.
Egli studiò quattro gruppi di pazienti
ricoverati presso un ospedale di New York
rilevando considerevoli differenze tra italiani, ebrei, irlandesi e americani di antica immigrazione. Risultò che gli americani e gli irlandesi avevano un atteggiamento riservato nei confronti del dolore, tendendo ad isolarsi socialmente. Gli italiani
e gli ebrei, invece, si lamentavano ad alta
voce manifestando la loro sofferenza con
gemiti e pianto. Gli atteggiamenti dei due
gruppi sembravano comunque diversi:
mentre gli ebrei si preoccupavano di comprendere il significato del proprio dolore e
le sue implicazioni, gli italiani esprimevano chiaramente il loro desiderio di un’immediata liberazione dalla sensazione
sgradevole. Pertanto, è da ritenersi altamente probabile che le differenze significative nell’espressione e nella comunica-
55
zione del dolore, siano da ricondursi alle
conseguenze del modellamento e del condizionamento effettuato in età infantile
dalla famiglia, che a sua volta è espressione di un concetto di dolore comune al
gruppo etnico o razziale di appartenenza21. Per diversità culturale però si intendono anche quelle relative alla nostra nazione. Le evidenze cliniche insegnano che
le letture di ‘eventi critici’ sono estremamente differenziati da regione a regione e
non solo da nazione a nazione.
3.2.7 ALTRI FATTORI RILEVANTI
La letteratura sull’incidenza dei fattori
genere ed età presenta dati controversi.
Ad esempio Thomas et al.22 condussero
uno studio e conclusero che soggetti di giovane età, di genere femminile e con alto livello di dolore sofferto in fase preoperatoria percepiscono un dolore più acuto in fase postoperatoria, però questo modello
non è stato ancora validato.
Studiando pazienti con crisi di tosse in
fase postoperatoria, è stato anche rilevato
che il tipo di intervento a cui i pazienti
vengono sottoposti, è un fattore fortemente influente che deve quindi essere considerato nel momento in cui si scelgono le
dosi di trattamento analgesico23. Determinanti sono anche la durata dell’intervento
chirurgico e del trattamento del dolore postoperatorio., oltre che da una differente
compliance del paziente agli interventi di
terapia medica. Essa diminuisce anche in
presenza di una forte credenza della natura misteriosa del dolore.
La storia familiare di dolore risulta essere un altro fattore di rischio riconosciuto del dolore acuto, e ciò suggerisce l’esistenza di basi genetiche nell’intensità di
dolore provato in fase postoperatoria24.
Un ulteriore elemento è costituito dal
contesto in cui viene vissuta l’esperienza
dolorosa. La situazione dell’ammalato con
dolore postoperatorio è pervarsa da risvolti emotivi di stanchezza, ansia, sensazioni
di impotenza, convivenza con tutti i problemi legati al dolore. Questi elementi
hanno una rilevanza fondamentale non
solo nella percezione del dolore, ma nel
56
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 2, 2006
renderla tollerabile, vivibile, influenzando
anche le capacità del paziente di reagire
al dolore. L’ambiente ideale è costituito da
una situazione il più possibile isolata da
interferenze esterne, dove il soggetto è posto in condizioni di tranquillità.
Inoltre emerge un nesso tra dolore riferito ed esperienze affettive emozionali durante il ricovero in ICU. Coloro che hanno
vissuto l’esperienza postoperatoria intensivistica come fonte di ansia e di coinvolgimento emotivo tendono a ricordare più
spesso il dolore, in contrapposizione a coloro nei quali l’esperienza in ICU è stata
fonte di disagio e di limitazioni fisiche. I
soggetti ansiosi riportano al follow-up un
dolore maggiore di quello riferito dopo la
procedura25.
4. CONSEGUENZE DEL DOLORE
POSTOPERATORIO
Il dolore, se non adeguatamente trattato, può avere indesiderabili conseguenze
psicologiche e fisiologiche, come un ritardato ricovero, un ritorno tardivo alla vita
di tutti i giorni,e la diminuzione del senso
di soddisfazione del paziente. La mancanza di un adeguato trattamento del dolore
postoperatorio può causare dolore cronico
dopo l’intervento, che è spesso poco considerato, ed accresce l’ansia e le preoccupazioni per la propria salute.
In uno studio26 è stata valutata l’influenza dell’acutezza del dolore post-operatorio sul livello della Qualità di Vita Relativa alla Salute (HRQL) nella fase immediatamente postoperatoria. Anche se
gli effetti del dolore postoperatorio e delle
cure analgesiche sull’HRQL sono poco
chiari, ottimizzare la cura analgesica postoperatoria, in parte attraverso il controllo del dolore postoperatorio, minimizzando gli effetti collaterali relativi all’intervento (funzione cognitiva) o facilitando
la convalescenza dei pazienti, può teoricamente migliorare l’HRQL.
Dallo studio è emerso che l’intensità
del dolore postoperatorio è correlata con
un peggioramento nelle componenti sia fisiche che mentali nel periodo immediatamente successivo all’intervento chirurgi-
co. Invece la gravità degli effetti collaterali analgesici non sembra che influenzino
gravemente né le componenti fisiche né
quelle mentali.
Ci sono molti disturbi o complicazioni
fisiologiche che possono verificarsi nel periodo immediatamente postoperatorio che
potrebbero interferire con la durata e la
qualità del ricovero del paziente.; sintomi
significativi di stress (dolore, fatica,nausea e vomito), sono frequenti nel periodo
postoperatorio e possono quindi riflettersi
in un peggioramento dell’HRQL, mediante effetti negativi nelle componenti fisiche, cognitive e sociali.
5. VALUTAZIONI PSICOMETRICHE
Il dolore è un fenomeno complesso, soggettivo e percettivo, per cui non può essere quantificato obbiettivamente. Di conseguenza, la sua valutazione dipende dall’espressa comunicazione sia verbale che
comportamentale del paziente. Data la
complessità del dolore, bisogna valutare
non solo la componente somatica (sensitiva) ma anche l’umore del paziente, i suoi
atteggiamenti, il modo in cui fa fronte al
suo dolore, le sue risorse, le risposte da
parte dei familiari e l’impatto del dolore
sulla loro vita.
L'entità della valutazione varia con le
diverse circostanze. Nelle situazioni cliniche acute, e in particolare nella fase postoperatoria, si dovrà avere più attenzione
verso l'intensità, la sede e le caratteristiche temporali della componente sensoriale del dolore. Per i pazienti con dolore cronico-ricorrente, invece, maggior attenzione potrà essere riservata alla gamma dei
fattori psicosociali e comportamentalì.
Il processo di valutazione può aiutare a
determinare come i fattori biomedici, psicologici e sociali interagiscono per influenzare natura, gravità e persistenza del dolore e della invalidità. A tale scopo, inconcomitanza con i colloqui clinici, sono molto utilizzati strumenti psicometrici mediante:
a) somministrazione di questionari o scale specifici per la valutazione del dolore
acuto o cronico;
P. Ciurluini et al.: Aspetti psicologici del dolore in fase pre-operatoria e post-operatoria
b) somministrazione di test o scale per valutare gli altri fattori connessi al dolore, sia in fase pre-operatoria che postoperatoria (ansia, depressione, aggressività,..);
c) valutazione delle espressioni di dolore;
d) somministrazione di questionari sulla
qualità della vita.
È importante sottolineare che tali valutazioni non sostituiscono la dimensione di
rapporto con il paziente, ma la integrano.
Verrà fatta una breve descrizione degli
strumenti maggiormente utilizzati:
a) Tra i numerosi e semplici metodi che
permettono di determinare l'intensità
del dolore ricordiamo: scale analogiche
visuali (VAS), scale numeriche (NRS),
scale descrittive di valutazione (VRS) e
altri tipi di scale come cromatiche o a
quadretti.
La Visual Analogue Scale (VAS), di
Scott-Huskisson27 è il test più conosciuto e
maggiormente usato e misura il livello di
dolore percepito. Esso è costituito da un
segmento lungo 10 cm, dove un’estremità
corrisponde ad “assenza di dolore”, e l’altra al “più forte dolore immaginabile”. Ai
pazienti viene spesso chiesto di quantificare il dolore tramite un’unica stima generale: "Qual è il suo livello di dolore: lieve, moderato o severo?" e loro devono segnare sulla linea il loro livello di dolore attuale. La VAS può essere usata in posizione orizzontale o verticale. In alcune circostanze viene chiesto al paziente di quantificare e di dare una media del suo dolore
retrospettivamente. Il dolore, però, tende
a variare col tempo e con le diverse attività. In più, le stime del dolore usuali tendono a prendere, come punto di riferimento, il dolore in atto. Perciò, chiedendo del
dolore tipico o usuale questo può non riflettere la severità del dolore nel tempo.
Informazioni più valide si possono ottenere con domande sul dolore corrente.
Tra le scale numeriche, quella a maggior impiego clinico è stata proposta da
Sternback28; essa richiede al paziente di
graduare il proprio dolore in una scala da
0 a 100, dove per 0 si intende “nessun do-
57
lore” e per 100 “il più forte dolore immaginabile”. Tali strumenti risultano di semplice applicazione e di facile impiego.
Le Verbal Rating Scales di Houde e al.29
sono molto utili per interpretare alcuni
aspetti del dolore; esse devono essere
adattate all’età, il linguaggio, l’educazione
e lo stato cognitivo dei pazienti. Per il dolore acuto le VRS, offrendo ai pazienti una
lista di parole da scegliere che meglio descrivono l’intensità del loro dolore, provvedono un semplice e rapido metodo di valutazione del dolore chirurgico. Per la loro
semplicità, questi strumenti potrebbero
essere più adatti per pazienti anziani o
con lievi deficit cognitivi.
I limiti di queste scale consistono nel
fatto che esse hanno un approccio unilaterale alla valutazione del dolore omettendo
importanti fattori che invece vi sono inclusi e che possono aumentare o diminuire l’intensità o durata del dolore (cambiamenti cognitivi o comportamentali, disturbi del sonno o alimentari,frustrazione, comportamenti agitati e aggressivi, ritiro dalla famiglia e dagli amici, inattività…).
Lo strumento di valutazione del dolore
usato più frequentemente è il Mc Gill
Pain Questionnaire (MPQ) di Melzac e
al30. Si propone di valutare la qualità e la
quantità di dolore relativamente a tre dimensioni: sensoriale-discriminativa, motivazionale-affettiva e cognitiva-valutativa. Questo test supera i limiti delle Scale
di Valutazione in quanto offre una misura
più precisa del dolore, fornendo una grande quantità di informazioni, ma richiede
molto più tempo per essere completato
(15-30 minuti). Per tal motivo potrebbe
essere considerato intempestivo e inopportuno per valutare il dolore acuto, mentre più adatto per valutare il dolore cronico. La sua attendibilità e validità è stata
ampiamente dimostrata. È una lista di
102 aggettivi che descrivono vari aspetti
del dolore e può essere usata dal soggetto
stesso come autovalutazione o da un intervistatore esterno; l’ MPQ è composto da
tre parti che includono una scala descrittiva (Intensità del Dolore Attuale) con numeri che corrispondono ognuno ad uno di
cinque aggettivi: 1 (lieve), 2 (spiacevole), 3
58
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 2, 2006
(stressante), 4 (tremendo), 5 (insopportabile).
Una seconda parte include un disegno
frontale e dorsale di un corpo umano sul
quale il paziente indica la sede del suo dolore. La terza parte è un indice di stima
del dolore che si basa su una selezione di
aggettivi provenienti da venti categorie
che riflettono le componenti sensoriali, affettive e cognitive del dolore. Esiste una
versione ridotta della scala che consiste in
15 aggettivi rappresentanti le dimensioni
sensitive e affettive del dolore, ognuno dei
quali va da 0 (niente) a 3 (severo)5.
b) Valutazioni psicometriche degli affetti
connessi al dolore:
Spielberger e coll.31 nel 1970 hanno proposto il modello dell’ansia di stato e ansia
di tratto che ha trovato una quantificazione nello specifico test State-Trait Anxiety
inventory S.T.A.I.. È il test più usato per
misurare l’ansia, associata frequentemente al rischio di dolore più intenso. Si compone di due brevi subtest (20 items ognuno), a ciascuno dei quali si risponde su
una scala a quattro livelli d’intensità.
Il subtest X-1 si riferisce allo stato
d’ansia nel momento in cui il test viene
somministrato ed è stato costruito scegliendo items che ottenevano punteggi
medi in una situazione stressante e punteggi medi più bassi in una situazione di
rilassamento. Il subtest X-2 misura l’ansia come tratto, cioè la tendenza del soggetto a produrre reazioni ansiose in condizioni specifiche. Punteggi = o >40 sono
considerati clinicamente significativi.
Molte ricerche hanno confermato una adeguata attendibilità e validità di questo
strumento grazie alle sue eccellenti qualità psicometriche. Esso è semplice da
usare e generalmente richiede meno di 5
minuti per completarlo, inoltre è facile da
siglare.
L’Amsterdam Pre-operative Anxiety
and Information Scale (APAIS) di Moerman e al.32 comprende sei domande (a ciascuna delle quali si risponde su una scala
Likert a 5 livelli d’intensità), ed è stato costruito specificatamente per stimare il
punteggio dell’ansia preoperatoria (che va
da 4 a 20) e un valore del bisogno dei pazienti di informazioni riguardanti l’intervento chirurgico programmato e l’anestesia (il cui range va da 2 a 10).
Lo State-Trait Anger Expression Inventory (STAXI) di Spielberger33 comprende 44
items, divisi in 6 scale e due sottoscale che
misurano l’aggressività di tratto e di stato.
Sono stati riportati dati a conferma della
validità ed attendibilità di questo test.
La Self-Rating Depression Scale (SDS),
di Zung34 è costituita da 20 items che valutano i differenti sintomi della depressione, come ad esempio: umore depresso,
sensi di colpa, perdita di appetito, disturbi del sonno. Il punteggio totale è compreso tra 20 (assenza di depressione) e 80
(Depressione Maggiore). Il valore cut-off è
35, in quanto indica la presenta di rilevanti sintomi depressivi.
Il Beck Depression Inventory di Beck e
altri35 è tra i questionari brevi il più largamente diffuso. Si compone di 21 items
descrittivi di sintomi e atteggiamenti presenti in pazienti depressi. L’assunto di base è che il numero, la frequenza e l’intensità dei sintomi siano direttamente correlati con la profondità della depressione.
c) Valutazioni delle espressioni di dolore
I pazienti mostrano un ampio spettro
di reazioni - alcune controllabili, altre no,
che indicano dolore, angoscia e sofferenza.
Tra le manifestazioni chiare di dolore vi
sono i cosiddetti “comportamenti da dolore”. I comportamenti da dolore e l'autovalutazione del dolore sono correlabili in
maniera significativa.
Oltre ad essere associati con il dolore, i
comportamenti da dolore sono significativi di per sé stessi sia perchè osservabili
sia perché elicitano risposte dagli altri.
Vari supporti possono mantenere questi
comportamenti (ad esempio, attenzione,
evitare attività non piacevoli, indennizzo).
Si è dimostrato che i comportamenti da
dolore sono importanti nei pazienti affetti
da dolore cronico, essi risultano da un input nocicettivo o da un rafforzamento ambientale. Il paziente che mostra un comportamento da dolore non è conscio né è
motivato ad ottenere un supporto positivo
P. Ciurluini et al.: Aspetti psicologici del dolore in fase pre-operatoria e post-operatoria
dal suo comportamento. Un modo per valutare i comportamenti da dolore è di chiedere ai pazienti di tenere un diario delle
loro attività. Di solito i pazienti registrano
il numero di volte che compiono delle attività specifiche (ad esempio, sedere, camminare, stare distesi o in piedi) e quanto
tempo dedicano ad esse. Tali diari delle
attività spesso coincidono con le attività
funzionali descritte sopra.
Alcuni studiosi, recentemente, hanno
impiegato la Pain Behaviour Checklist36
tramutata in uno strumento di autovalutazione e hanno verificato una associazione significativa tra l'autovalutazione e i
comportamenti osservati. Le stesse scale
per l'osservazione dei comportamenti possono essere utilizzate anche dai familíari
del paziente.
Con l'osservazione il personale sanitario può quantificare sia i vari comportamenti da dolore, che i fattori che determinano un loro aumento o riduzione. Il paziente può essere osservato nella sala d'attesa, durante l'anamnesi o mentre compie
una serie di attività predeterminate.
d) Questionari sulla qualità della vita
tali questionari consentono in tempi relativamente brevi una valutazione standardizzata dell’impatto che il dolore ha
sulla vita del paziente. In genere viene indagata un’area fisica, psicologica, professionale e sociale. La valutazione sulla
qualità della vita produce benefici della
sopravvivenza, migliora il controllo degli
effetti collaterali della cura, favorisce l’adattamento alla fase di dolore, sensibilizza gli operatori all’intervento personalizzato del malato, mette in atto un supporto
psicologico adeguato.
L’HRQL37 è uno strumento che valuta
le cure mediche ricevute ed è stato usato
in varie ricerche svolte in anestesiologia.
La stima non include solo le dimensioni tipicamente valutate dagli operatori sanitari (il funzionamento fisico, alla salute
mentale alle funzioni cognitive e sintomi
come dolore, nausea ed emicrania), ma
anche i fattori di solito poco considerati
ma importanti per i pazienti (il ruolo ed il
funzionamento sociale, la percezione della
59
salute generale, il sonno ed il proprio livello di energia). L’HRQL è misurata con
validi questionari, che sono tipicamente
sia generici che specifici, ed è maggiormente utilizzata per stimare gli effetti a
lungo termine degli interventi chirurgici.
Il Sikness Impact Profile (SIP) di Bergner M ed altri38 consiste di 136 items raggruppati in 12 categorie di cui 3 concorrono a formare la dimensione del fattore fisico del questionario, 4 la dimensione psicosociale. Può essere utilizzato sia come
questionario di autocompilazione che come intervista strutturata. Il punteggio
viene espresso in termini di percentuale e
calcolato per ogni categoria.
Il Quality of Life-Index (QL_Index) di
Spitzer39 è formato da 5 aree distinte
ognuna delle quali è costituita da tre
items: attività, vita quotidiana, salute,
supporto, stato d’animo. Ad ogni area il
paziente trova 3 differenti affermazioni
alle quali viene attribuito un valore da 2 a
0 punti. Sommando il punteggio ottenuto
in ogni singola area, si avrà il punteggio
globale di qualità della vita del paziente
in esame. Più elevato è il punteggio più
elevata risulterà la qualità della vita del
paziente.
6. INTERVENTI PSICOLOGICI
Proprio perché il dolore è un’esperienza
multidimensionale, esso richiede un approccio multidimensionale nel suo trattamento. Esistono diversi approcci psicologici nel trattamento del dolore, più o meno efficaci. Di seguito verrà fatta una breve illustrazione dei modelli più ricorrenti.
L’effetto placebo. La maggior parte dei
medici e del personale paramedico usa il
placebo per: accertarsi che il dolore sia
reale, quando siano usati più farmaci di
quelli ritenuti necessari, pazienti problematici. Anche coloro che ritennero che il
placebo potesse alleviare il dolore 'organico' tendevano a riservare l'uso del placebo
per i pazienti con cui avessero avuto delle
difficoltà terapeutiche. È importante notare che la risposta al placebo non ci dice
nulla sulle origini del dolore. In una percentuale di pazienti il placebo è efficace
60
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 2, 2006
per un certo periodo di tempo, indipendentemente dall'eziologia del dolore.
L’ipnosi terapeutica è un processo di
apprendimento a sviluppare molteplici fenomeni, neuropsicologici e neurofisiologici, tra loro intimamente correlati, ed è a
un tempo uno stato fisiologico e una relazione interpersonale40. L’ipnosi è termine
che suscita ancora resistenze e reazioni di
incredulità e di sospetto, forse a causa della convinzione che chi la pratica debba essere dotato di poteri fuori dall'ordinario e
che comunque tale fenomeno abbia a che
fare con la ciarlataneria se non con l'imbroglio. I suoi effetti sul dolore derivano
dalla responsività ipnotica del paziente,
nonchè dalla natura delle suggestioni evocate; tali effetti possono essere influenzati
dalla motivazione del paziente e dall'intensità del dolore avvertito. Sono interessate sia le componenti sensitive sia quelle
reattive del dolore in individui ipnotizzabili, mentre nei soggetti poco ipnotizzabili
hanno importanza fattori aspecifici o placebo. L'applicazione dell'ipnosi per il controllo del dolore richiede lo stabilirsi di un
rapporto, una procedura di induzione, e
l'utilizzazione di suggestioni che permettano al paziente di ottenere la massima riduzione del dolore possibile. Essa è appropriata per il dolore acuto.
La musicoterapia. La musica si è dimostrata una tecnica utile per favorire il rilassamento muscolare e mentale. Essa può
agire come catalizzatore nel mobilizzare
sentimenti profondi e può aiutare nelle comunicazioni sia verbali che non verbali.
Efficace è anche l’ intervento di tipo
educativo-relazionale, come lo può essere
l’informazione preventiva, il colloquio con
le famiglie, la conoscenza preventiva dei
sistemi sanitari utilizzati. Essi hanno l’obiettivo di favorire la conoscenza del paziente (e dei suoi familiari) sugli interventi chirurgici, le malattie e le terapie, fornendo al contempo spazio per un’elaborazione delle difficoltà di natura psicosociale. Attraverso l’ausilio di materiale didattico come depliant, brevi manuali illustrativi, supporti audiovisivi che mirano a dare informazioni generali su argomenti diversi, i programmi psico-educazionali
hanno avuto applicazioni e diffusioni si-
gnificative41.
Il modello cognitivo- comportamentale
fa riferimento all’esperienza soggettiva
del dolore e all’assunto che le reazioni
emotive e il comportamento di un individuo sono determinati da un processo cognitivo di valutazione degli eventi. Il fine
di tale intervento è quello di modificare
direttamente i processi di pensiero per
renderli più adattivi ed attenuare di conseguenza il dolore; si prefigge cioè di insegnare al paziente nuove risposte cognitive
e comportamentali al dolore acuto dando
all’individuo maggior controllo sul dolore
e la capacità di ridurre le emozioni, i pensieri ei giudizi negativi su di esso. Gli approcci cognitivo-comportamentali permettono inoltre di rendere il paziente maggiormente consapevole dei fattori che aumentano il dolore e delle azioni che sono
in grado di alleviarlo. Nel complesso le
prove disponibili indicano che tale approccio è potenzialmente una buona modalità
di trattamento sia da solo che in associazione con altri approcci terapeutici
(IDEM).
Proprio per l’ampio utilizzo di questi
due ultimi modelli e per la loro efficacia in
ambito ospedaliero, come rilevato dalla letteratura internazionale, verrà delineato un
modello d’intervento di tipo cognitivo-comportamentale ed educativo-relazionale.
6.1 FASE PRE-OPERATORIA
Un trattamento psicologico prima dell’intervento potrebbe migliorare i risultati
in termini sia dell’entità di dolore sperimentato che dell’abilità a gestire e controllare il dolore efficacemente. Sviluppare l’autogestione per la riduzione della
percezione del dolore prima di un’esperienza dolorosa, appare essere associato
con un più basso livello di dolore42. È possibile che questo sia dovuto in parte ad
una simultanea riduzione dell’ansia. Intuitivamente, sembra corretto dire che pazienti con una migliore gestione in una
data situazione sperimentano, in quella
stessa situazione, un minor livello d’ansia. Ed è altrettanto vero che tecniche per
controllare il dolore (pensate apposita-
P. Ciurluini et al.: Aspetti psicologici del dolore in fase pre-operatoria e post-operatoria
mente per ridurre l’entità di dolore) sono
in effetti anche meccanismi efficaci per
controllare l’ansia.
Per esempio:
- le Tecniche di rilassamento;
- le Tecniche della respirazione;
- il Riorientamento cognitivo;
- le Tecniche di distrazione;
- le Tecniche di gestione dello stress
(Stress Inoculation, Locus of Control etc.);
usate prevalentemente per il trattamento del dolore, sono comunemente adoperate anche come tecniche efficaci nella
gestione dell’ansia. L’implicazione positiva
è che insegnando ai pazienti queste abilità, essi sono facilitati a ridurre entrambi.
Le “Tecniche di rilassamento” sono basate su tecniche che insegnano a riconoscere gli stati di tensione muscolare e addestrano a raggiungere gradi via via più
profondi di rilasciamento dei diversi distretti corporei. L’equilibrio generale dell’organismo si sposta dall’attivazione verso il riposo. È provato che un soddisfacente grado di rilassamento induce modificazioni di altri sistemi dell’organismo, quali
il sistema neuro-vegetativo e neuroendocrino. Per la loro riuscita è importante che
il soggetto abbia una buona motivazione,
sia cioè orientato verso un modo di pensare secondo cui bisogna essere attivi e non
passivi fruitori del ‘prodotto’43. Gli aspetti
cognitivi della risposta di rilassamento
consistono nella produzione di un punto di
vista distaccato e la ricerca di fonti di
energia interna. Tra le più note tecniche
di rilassamento ricordiamo il Training
Autogeno, il Rilassamento Progressivo, la
Risposta Rilassante, il Biofeedback, la Risposta di Quiete ed altre ancora. È importante a questo punto descrivere brevemente il Biofeedbeck essendo di ampio
utilizzo.
Il termine “ biofeedback” significa “retroazione biologica”, e con esso si intende
una particolare tecnica di autocontrollo
che consiste nell’utilizzo di una strumentazione che monitorizza eventi fisiologici
di due tipi: quelli connessi all’attività del
sistema nervoso autonomo e dei quali l’individuo non è normalmente consapevole; e
quelli relativi al sistema muscolo schele-
61
trico non più sottoposti a controllo volontario. Secondo vari studi i possibili fattori
che potrebbero contribuire all’effetto benefico del biofeedback comprendono la distrazione, il rilassamento muscolare, la riduzione dell’ansia e una maggior sensazione di controllo personale sui sintomi.
Nonostante la sua efficacia, ovviamente
l’uso di questa tecnica non può costituire
di per sé una forma autonoma di terapia.
6.1.2 IL RUOLO DELL’INFORMAZIONE
Le informazioni preparatorie per aiutare i pazienti ad acquisire il controllo sulle
procedure mediche avversive o dolorose,
rientrano, oltre che nelle modalità d’intervento psico-educazionale, anche tra quelle
cognitivo-comportamentali. Esse possono
riguardare sia gli aspetti obiettivi dell’evento spiacevole, sia le informazioni sulle
sensazioni specifiche che il soggetto potrebbe sperimentare. Si è dimostrata efficace l’esposizione del paziente a modelli
realistici che mostrino il comportamento
desiderato in tali situazioni (modeling).
Un’ulteriore modalità è fornire al paziente una descrizione delle sensazioni fisiche
che proverà in fase postoperatoria.
In uno studio di Manyande et al.44 è stato dimostrato che un livello moderato di
preoccupazione in fase preoperatoria può
aiutare i pazienti a prepararsi per l’intervento ed a ridurre il loro stress. L’informazione preoperatoria è risultata anche
rilevante nell’aiutare i pazienti a ridurre
l’ansia dovuta all’intervento. È stato mostrato che l’informazione data in modo
adeguato, tale da incoraggiare i pazienti a
verbalizzare il loro dolore allo staff, può
aiutarli a prendere un ruolo attivo nel
trattamento postoperatorio, supportando
le loro strategie di coping sull'affrontare il
dolore post-operatorio; l’informazione infatti agisce direttamente sulle componenti psichiche contribuendo a far diminuire
molto il dolore e lo stato d’ansia preoperatoria ed aumentare il livello di soddisfazione dei pazienti per il management del
dolore postoperatorio. Sebbene il valore
dato all’informazione dai singoli pazienti
dipende dagli stili di coping individuali,
62
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 2, 2006
per cui non sempre l’informazione preventiva ha esiti positivi, vari studi hanno comunque dimostrato che una buona informazione data ai pazienti che devono subire una procedura invasiva può promuovere uno stile di coping positivo nel contesto
di cura per la propria salute. Redman45 nel
suo modello di educazione per i pazienti
propone che il processo di insegnamentoascolto venga iniziato quando un individuo sente il bisogno di conoscere qualcosa.
La motivazione ad ascoltare può essere incrementata presentando materiale significativo e realistico per la persona.
6.2 FASE POSTOPERATORIA
Gli interventi psicologici postchirurgici
sono molto efficienti e utili. Le tecniche
utilizzate per placare l’ansia e ridurre l’intensità del dolore sono le stesse applicate
in fase prechirurgica.
Nei casi in cui il dolore persiste anche
dopo l’intervento, casi in cui si può parlare di dolore cronico, un “trattamento psicoterapeutico” può essere molto utile, soprattutto quando il paziente soffre di disturbi psichici di grave entità. Con la psicoterapia si dà al paziente una visione
realistica della propria malattia, permettendogli di esporre tutte le proprie paure
ed analizzandole una ad una. Ciò è particolarmente importante quando il dolore
ha una genesi prevalentemente somatica,
quale è ad esempio il dolore neoplastico.
Se non è possibile convincere il paziente che le sue idee sulla malattia sono decisamente sbagliate, occorre quantomeno
rassicurarlo sul fatto che sarà costantemente seguito con farmaci appropriati.
La psicoterapia risulta più facile e più efficace se ha il sostegno di una clinica multidisciplinare del dolore, che abbia già attentamente valutato i bisogni del paziente ed
abbia raccomandato le priorità della cura.
Nel caso specifico dell’approccio cognitivo-comportamentale, il trattamento psicoterapeutico implica un’interazione clinica complessa e l’uso di un’ampia gamma
di strategie e di tecniche di trattamento.
Gli interventi cognitivo-comportamentali
sono forme di trattamento strutturate, li-
mitate nel tempo che possono essere effettuate sia su base individuale che di gruppo. Tale programma di trattamento per i
pazienti con dolore è multidimensionale,
per singoli o per gruppi, e consiste in circa
14 sedute di un’ora ciascuna. Turk46 ne ha
fatto un descrizione dettagliata, suddividendo il trattamento in sei fasi che però si
sovrappongono:
a) valutazione iniziale;
b) riconcettualizzazione delle opinioni del
paziente sul dolore;
c) acquisizione e consolidamento di capacità, mediante tecniche di respirazione
controllata e di rilassamento;
d) prova cognitiva e comportamentale;
e) prevenzione dei fenomeni di generalizzazione-mantenimento delle ricadute;
f) follow-up di almeno due sedute dopo il
termine del trattamento.
Il trattamento incoraggia i pazienti a
mantenere un orientamento verso la soluzione dei problemi e a sviluppare un senso di pienezza di risorse piuttosto che un
senso di sconforto e abbandono.
Per l’operatore sanitario la difficoltà
sta nel valutare questi pazienti in modo
comprensivo.
Egli deve in particolar modo rivolgere
la sua attenzione ai casi in cui:
- l’invalidità ecceda ampiamente ciò che
ci si potrebbe aspettare dalla sola obbiettività fisica ;
- il paziente avanzi richieste eccessive;
- il paziente mostri uno stress psicologico significativo;
- vi sia un comportamento anormale da
parte del paziente che, ad esempio, rifiuta di assumere i farmaci prescritti o
rispetta scarsamente le indicazioni terapeutiche.
Il punto fondamentale da tenere a
mente comunque è che vada valutato il
paziente che riferisce di avere il dolore,
più che il dolore per sè47.
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____
Per richiesta estratti:
Dott.ssa Paola Ciurluini
Via Livio Tempesta, 11 - 00151 Roma
ANNALI DEGLI OSPEDALI
San Camillo e Forlanini
Volume 8, Numero 2, Aprile-Giugno 2006
Recensione
VOLUME EDUCAZIONALE GOIM 2006
Nel Volume curato dal prof. Massimo Lopez per i caratteri della Editrice SEU, Roma 2006, pagg. 204, sono
stati trattati sia argomenti di oncologia tradizionale sia argomenti di oncologia molecolare con l’obiettivo di
procedere ad una aggiornata revisione di un selezionato numero di problematiche oncologiche.
Tra i più rilevanti risultati recenti
è stata trattata la dimostrazione dell’efficacia del sunitinib nei GIST in
particolare per quanto riguarda i pazienti resistenti all’imatinib ma anche per quanto concerne l’attività dii
questa terapia molecolare nel carcinoma renale metastatico.
La terapia del carcinoma colorettale è stata riconsiderata alla luce
dei buoni risultati ottenuti con il cetuximab e con il bevacizumab in particolare per quanto riguarda la malattia in fase avanzata e per quanto
riguarda una revisione clinica della
farmacogenetica e della farmacogenomica.
Importanti acquisizioni sulla più
recente ricerca relativa al carcinoma
mammario sono state esposte relativamente all’efficacia del trastuzumab nel trattamento adiuvante delle
pazienti con neoplasie HER2-positive; compiutamente sviscerati i problemi di ordine psicologico relativi
alle neoplasie ereditarie della mammella soprattutto per quanto concerne la effettuazione di test genetici.
Particolarmente approfondita l’interpretazione dei meccanismi che sono alla base dell’espressione del recettore degli estrogeni in rapporto alla possibilità di fornire basi molecolari per un trattamento ormonale più
efficace.
Tra le altre neoplasie sono state
esposte le più recenti acquisizioni relative alla chemioterapia della prostata e le nuove prospettive nell’ambito del carcinoma dell’ovaio.
Ai tumori degli annessi cutanei è
stata dedicata una particolare attenzione soprattutto in relazione all’evidenza della necessità di una loro più
ampia conoscenza rispetto a quanto
si è verificato nel passato, data la loro rarità e le notevoli difficoltà nel
procedere ad una puntuale classificazione di essi. Il Volume si propone
con grande interesse per il suo carattere di aggiornamento immediato in
rapporto alla necessità di tenere il
passo con la realtà della rapida acquisizione di nuove informazioni in
campo oncologico.
Franco Salvati