ANNALI DEGLI OSPEDALI San Camillo e Forlanini Volume 8, Numero 2, Aprile - Giugno 2006 Direttore FRANCO SALVATI Comitato di redazione ALFONSO ALTIERI, FRANCESCO BELLI, MAURO CALVANI, GIUSEPPE CARDILLO, PAOLO MATTIA, GIOVANNI MINARDI, MAURIZIO MORUCCI, FABRIZIO NESI, BRUNO NOTARGIACOMO, SERGIO PILLON, ELIO QUARANTOTTO, MAURIZIO RUSSO, PIETRO SACCUCCI, MICHELE SCOPPIO, GIAN DOMENICO SEBASTIANI, MARIO VALLE Segreteria di redazione: RITA VESCOVO, ALMERINDA ILARIA Comitato scientifico-editoriale Coordinatore ROBERTO CANOVA LOREDANA ADAMI, MARIO GIUSEPPE ALMA, CATERINA AMODDEO, MARCELLO ASSUMMA, GIANLUCA BELLOCCHI, FRANCO BIANCO, PIETRO BORMIOLI, PIO BUONCRISTIANI, ALESSANDRO CALISTI, ILIO CAMMARELLA, ALBERTO CIANETTI, MASSIMO CICCHINELLI, ENRICO COTRONEO, FRANCESCO CREMONESE, ALBERTO DELITALA, EUGENIO DEL TOMA, FILIPPO DE MARINIS, LORENZO DE MEDICI, CARLO DE SANCTIS, SALVATORE DI GIULIO, GIUSEPPE DI LASCIO, CLAUDIO DONADIO, ALDO FELICI, MARIA ANTONIETTA FUSCO, ALFREDO GAROFALO, LAURA GASBARRONE, GIAMPIERO GASPARRO, CLAUDIO GIANNELLI, EZIO GIOVANNINI, LUCIA GRILLO, MASSIMO LENTINI, IGNAZIO MAJOLINO, CARLO MAMMARELLA, LUCIO MANGO, EMILIO MANNELLA, LAURO MARAZZA, MIRELLA MARIANI, MASSIMO MARTELLI, ANTONIO MENICHETTI, GIOVANNI MINISOLA, CINZIA MONACO, FRANCESCO MUSUMECI, GIULIO CESARE NICOTRA, MICHEL VOINO ORANSKY, REMO ORSETTI, PAOLO ORSI, GIOVACCHINO PEDICELLI, GIUSEPPE PIAZZA, ROBERTO PISA, LUIGI PORTALONE, COSIMO PRANTERA, GIOVANNI PUGLISI, GIORGIO RABITTI, SANDRO ROSSETTI, ENRICO SANTINI, ALESSANDRO SCHIRRU, GIOVANNI SCHMID, CIRIACO SCOPPETTA, FABRIZIO SOCCORSI, CORA STERNBERG, GIUSEPPE STORNIELLO, PIERO TANZI, ROBERTO TERSIGNI, ANNA RITA TODINI, CLAUDIO TONDO, MIRELLA TRONCI, ROBERTO VIOLINI Segreteria: GIOVANNA DE PAOLA NUOVA EDITRICE GRAFICA Azienda Ospedaliera San Camillo-Forlanini Roma Direttore Generale: Luigi Macchitella Direttore Sanitario: Fulvio Forino Direttore Amministrativo: Roberto Noto NUOVA EDITRICE GRAFICA Abbonamenti 2006: istituzionali 100, privati 73 Per la richiesta di abbonamenti e per la richiesta di inserzioni pubblicitarie rivolgersi a Nuova Editrice Grafica srl, Via Francesco Donati, 180 - 00126 Roma Tel. 065219380 - Fax 06 5219399 Internet: www.negeditrice.it E-mail: [email protected] Garanzia e riservatezza per gli abbonati L’editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e la possibilità di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione scrivendo a: Nuova Editrice Grafica srl, Via Francesco Donati, 180 - 00126 Roma. 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DE MARINIS PoliClinicCart: medical record computerized polispecialistic integrated CASO CLINICO Il trattamento percutaneo di un adenoma paratiroideo ectopico iperfunzionante S. PIERI, P. AGRESTI, G. COPPI, M. SCOPPIO, F. STEFANO Percutaneous treatment of an ectopic hyperfunctioning parathyroid adenoma COMUNICAZIONE BREVE La prevenzione secondaria del danno biologico nei fumatori E. SORESI, C. BONFIOLI, R. ACCINNI Biological damage in smokers: secondary prevention RASSEGNE Malattia mentale e psicoterapia alla luce dei principi bioetici P. SEMINARA, G. SEMINARA Mental illness and psychotherapy at the light of bioetich principles Defensine alfa: semplici polipeptidi antimicrobici o qualcosa di più? G. PAONE, F. CARBONE, G. GIANNUNZIO, I. CAMMARELLA, G. SCHMID Alpha defensins: simple antimicrobial peptides or something more? GESTIONE E ORGANIZZAZIONE SANITARIA Aspetti psicologici del dolore in fase pre-operatoria e post-operatoria: un modello d’intervento cognitivo-comportamentale e educativo-relazionale P. CIURLUINI, C. DI FONZO Pain psychological aspects during perioperative and postoperative period: a model of cognitive-comportamental and educative-relational intervention RECENSIONE Volume educazionale GOIM 2006 F. SALVATI 5 10 22 29 34 40 47 64 ANNALI DEGLI OSPEDALI San Camillo e Forlanini Volume 8, Numero 2, Aprile-Giugno 2006 Editoriale INFERTILITÀ NELL’UOMO ANZIANO MALE AGING AND INFERTILITY LOREDANA GANDINI Dipartimento di Fisiopatologia Medica, Policlinico “Umberto I” - Università “La Sapienza” - Roma Parole chiave: Invecchiamento maschile, Infertilità, Liquido seminale. Key words: Male aging, Infertility, Semen quality. Uno dei fenomeni epidemiologici più inquietanti nel mondo occidentale è rappresentato dall’invecchiamento della popolazione. Infatti, a partire dagli anni ‘70 del secolo scorso si è verificato un progressivo aumento della popolazione anziana dovuto alla coincidenza di una ridotta natalità e di una maggiore durata di vita. In Italia l’attesa di vita alla nascita è passata da 45 anni circa nel 1900, a 82 anni per la donna e 75 anni per l’uomo ad oggi. Su cento nati il 90% donne e l’80% degli uomini sopravvivono oltre i 65 anni rappresentando oggi il 17,8% della popolazione generale. Secondo lo United Nations World Population Prospects (1999) nel 2050 la quota di persone di età maggiore di 60 anni sarà, per la prima volta nella storia, maggiore di quella di giovani con età inferiore ai 15 anni e 13 Paesi avranno più del 10% di grandi anziani (>80 anni) nella loro popolazione. L’effetto più vistoso di questa modificazione demografica è la transizione epidemiologica rappresentata dal fatto che sono in diminuzione le malattie acute e sono in netto aumento le malattie croniche. In questo quadro di globale invecchiamento della popolazione ci troviamo a fronteggiare la richiesta di prole da parte di una popolazione maschile sempre più anziana. Nell’uomo si osserva un graduale declino della capacità fecondante a partire da un’età tra i 55 e i 65 anni, sebbene non si possa parlare di una situazione del tutto analoga a quella della donna nella quale la menopausa rappresenta una linea di demarcazione temporale tra il periodo della fertilità e quello di una maturità sessuale priva di finalità riproduttive. La gametogenesi maschile a differenza di quella femminile è un fenomeno continuo fino alla tarda età e consente, in teoria, di ottenere una gravidanza anche in età molto avanzata. La fertilità può essere conservata fino a età superiore agli 80 anni anche se la paternità per uomini al di sopra di 70 anni è un fenomeno estremamente raro. Infatti con il passare degli anni la spermatogenesi subisce alterazioni più o meno profonde, come riportato dai dati della letteratura, che confermano che, a partire dalla 6° decade di vita, si possono verificare importanti modificazioni delle caratteristiche seminali, dell’assetto ormonale e della struttura isto-citologica testicolare. La funzione gonadica nel maschio è inserita in un complesso meccanismo di controllo neuro-endocrino-metabolico. Iniziando dal livello neuro-psichico e scendendo fino alle gonadi, i principali neurotrasmettitori chiamati in causa nei meccanismi di collegamento interneuronale sono la noradrenalina (attivatore), la dopamina e serotonina (inibitori). Inoltre a livello delle cellule ipotalamiche viene secreto il decapeptide GnRH che regola sia 6 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 2, 2006 la sintesi che il rilascio pulsatile delle gonadotropine ipofisarie LH e FSH. A queste glicoproteine compete il controllo trofico e funzionale delle gonadi, sia per quanto riguarda la parte germinativa (spermatozoi) sia per quella endocrina (testosterone e, in parte anche nel maschio, estrogeni). La componente endocrina testicolare è influenzata anche dal metabolismo periferico. Il trasporto del testosterone è affidato ad una proteina di sintesi epatica, la sex hormone binding globulin (SHBG). L'interazione con il recettore nucleare e la sequenza degli eventi post-recettoriali sono simili a quelli di altri steroidi. A livello periferico, infine, l'effetto biologico di tale ormone è condizionato anche dall'attività enzimatica, che porta da un lato alla trasformazione del testosterone in deidrotestosterone (DHT) e dall'altro alla sua aromatizzazione ad estrogeno. L'invecchiamento coinvolge ciascuno degli eventi sopra riportati, per cui l'involuzione, a cui la gonade maschile va incontro col passare degli anni, è certamente un fenomeno multifattoriale. Nei soggetti anziani viene alterato il sofisticato equilibrio neuroendocrino che regola l'asse ipotalamo-ipofisi-gonadi. Per quanto riguarda l'unità ipotalamoipofisaria, a partire dalla sesta decade di vita si assiste ad un progressivo aumento dei livelli plasmatici di FSH e LH. Vi è, peraltro, un certo numero di pazienti anziani che non mostra tale aumento, soprattutto per quanto riguarda LH, ciò potrebbe suggerire una sensibilità variabile dell'unità ipotalamo-ipofisaria ai diminuiti livelli circolanti di testosterone biodisponibile. Numerosi studi hanno dimostrato una diminuzione dei livelli di testosterone plasmatico circolante già a partire dalla fine del 50° anno di vita. In particolare in gruppi di soggetti anziani (età media 70 anni) sottoposti a prelievi seriali per 24 ore, si è appunto evidenziata una riduzione dei livelli di testosterone non legato alla SHBG ed una perdita del ritmo circadiano, mentre la quantità totale di ormone può essere normale. La diminuita produzione testicolare di testosterone è stata confermata anche misurando direttamente le concentrazioni di tale ormone nel sangue venoso spermatico (prelevato nel corso di intervento chirurgico per ernia inguinale) di soggetti di varia età ed è stata confermata una riduzione correlata con l'invecchiamento. Negli anziani, infine, è stata riscontrata un'aumentata aromatizzazione periferica degli androgeni, secondaria ad un incremento della percentuale di grasso corporeo, con ulteriore incremento degli estrogeni. Schematizzando i dati sopra riportati, sotto il profilo funzionale, le prove più evidenti del danno gonadico sono la riduzione della secrezione di testosterone, la riduzione dei livelli ematici basali del DHT, la diminuita risposta allo stimolo con HCG mentre, contemporaneamente, i livelli di LH e soprattutto di FSH appaiono in progressivo incremento età ed individuo-correlato e, inoltre, un significativo aumento, anch'esso età-correlato, della proteina di trasporto SHBG, con inevitabile interferenza negativa sulla quota di testosterone libero. Infine va aggiunto che il trasferimento del testosterone, con la mediazione della Androgen Binding Protein (ABP), dalla cellula di Leydig al vicino settore germinativo, risulta diminuito sia per la ridotta secrezione testosteronica sia per una diminuita sintesi della proteina di trasporto ABP, a livello della cellula del Sertoli. I primi lavori relativi all’effetto dell’invecchiamento sulla fertilità maschile risalgono agli anni 80 ed hanno dimostrato nel plasma dei soggetti anziani una diminuzione dei livelli di testosterone sia totale che libero ed un aumento dei livelli di SHBG e di FSH ed LH, rispetto al plasma di soggetti più giovani. Alterazioni della spermatogenesi si associano spesso ad alterazioni della funzione delle cellule di Leydig come recentemente dimostrato da Andersson et al. (2004) che hanno riscontrato nel 15% di uomini con diminuita spermatogenesi anche bassi valori di testosteronemia o più alti livelli di LH. Altri Autori hanno evdenziato un ridotto numero di cellule germinali in corso di differenziazione ed una riduzione numerica delle cellule di Leydig e delle cellule del L. Gandini: Infertilità nell’uomo anziano Sertoli in campioni bioptici testicolari di uomini di età superiore ai 70 anni. Tale dato è stato confermato dall’analisi dei parametri seminali dei soggetti in grado di effettuare lo spermiogramma, da cui risultava una concentrazione nemaspermica fortemente variabile, una riduzione della motilità e del volume dell’eiaculato rispetto a quanto evidenziato in soggetti più giovani. Sempre negli anni ’80 è stata valutata la linea spermatogenetica per grammo di tessuto, su testicoli asportati post-mortem di soggetti anziani deceduti improvvisamente senza patologie endocrine. Dai dati è emersa una progressiva riduzione numerica di tutte le cellule germinative, in parallelo con la riduzione numerica delle cellule di Leydig e con l’aumento del FSH plasmatico. Tale dato è stato ulteriormente confermato da studi successivi che hanno evidenziato una marcata degenerazione cellulare a livello della seconda divisione meiotica, in relazione alla diminuzione della produzione gametica, in soggetti di età avanzata. Le principali modificazioni che si verificano a livello testicolare, in funzione dell'età, sono rappresentate dall'ispessimento della tunica albuginea e dall'aumento della percentuale del peso delle tuniche rispetto al peso totale testicolare, con conseguente riduzione del peso parenchimale testicolare. A livello del compartimento spermatogenetico si riscontra una diminuzione del volume dei tubuli e dell'epitelio seminifero, del numero delle cellule del Sertoli e degli spermatidi, associato all'ispessimento della membrana basale, con presenza di fibrosi peritubulare. Vi è inoltre una riduzione della massa testicolare totale per il ridotto volume dei tubuli seminiferi. La riduzione degli spermatidi si traduce in una riduzione della produzione giornaliera di spermatozoi che, in media, si può calcolare di circa il 50% rispetto ai soggetti giovani di controllo. D'altra parte il declino della spermatogenesi è un fenomeno graduale e progressivo e funzione dello stato di salute generale del soggetto, che presenta una notevole variabilità individuale, per cui alcuni soggetti anziani pos- 7 sono avere una produzione testicolare di spermatozoi uguale a quella di soggetti giovani. Peraltro è importante sottolineare come la elevata concentrazione degli spermatozoi riscontrata, in alcuni studi, negli anziani può essere in parte dovuta al prolungato periodo di astinenza precedente alla raccolta del liquido seminale che risulta essere maggiore di 10 giorni nella maggior parte dei soggetti anziani. Per quanto riguarda la capacità fecondante Dondero et al. (1985) hanno studiato in maniera estesa i parametri seminali di soggetti appartenenti a varie fasce di età. I risultati dello studio hanno evidenziato una progressiva riduzione della concentrazione nemaspermica dopo i 40 anni, più significativa dopo i 60 anni e un decremento graduale e costante della motilità degli spermatozoi anch’esso più drastico ed evidente dopo i 60 anni con un parallelo deterioramento della morfologia nemaspermica. Più recentemente in uno studio comparativo della qualità seminale in uomini anziani (con età ≥ 50 anni) e più giovani (età compresa fra 21 e 25 anni) Jung et al. (2002) hanno dimostrato che la motilità rettilinea, la percentuale di forme normali ed il volume seminale sono significativamente più bassi nel gruppo degli anziani rispetto ai soggetti più giovani. La concentrazione nemaspermica risulta non alterata dal progredire dell’età. Infine, un dato molto interessante riguarda il livello di testosterone sierico che risulta significativamente più basso nel gruppo dei soggetti più anziani, confermando che l’ipogonadismo di questi soggetti è il responsabile delle alterazioni seminali. Tali dati sono stati confermati recentemente da Eskenazi et al. (2003) in un lavoro che include un numero di soggetti anziani relativamente più alto rispetto alla maggior parte degli studi precedenti. Sono stati ipotizzati vari meccanismi per spiegare le alterazioni seminali con l’età. Per quanto riguarda la diminuizione del volume dell’eiaculato si ritiene che sia dovuta ad una progressiva atrofia delle vescicole seminali che contribuiscono a formare la maggior parte del volume seminale stesso. Questo dato insieme alla 8 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 2, 2006 progressiva riduzione dei valori del fruttosio può essere interpretato come una alterazione della funzione delle ghiandole accessorie da alterata secrezione di testosterone. La astenozoospermia, cioè la riduzione della motilità nemaspermica, potrebbe dipendere dalla progressiva atrofia della muscolatura liscia delle vescicole seminali con riduzione della componente proteica e acquosa e conseguente alterazione della motilità. Sempre a proposito della motilità sono state ipotizzate alterazioni strutturali dell’epididimo con modificazione del meccanismo di maturazione nemaspermica (Hamilton e Naftolin, 1981). Infatti l’integrità della struttura epididimaria è indispensabile perchè durante il transito nell’epididimo gli spermatozoi completano la loro maturazione acquisendo motilità e capacità fecondante. La morfologia nemaspermica è un buon indicatore dello status dell’epitelio germinale. Le modificazioni degenerative dell’epitelio germinale nel paziente anziano potrebbero determinare alterazioni dell’assetto morfologico dello spermatozoo. È controverso, invece, se l’invecchiamento si associ ad una diminuzione della concentrazione nemaspermica anche se è plausibile che tale fenomeno possa accadere. Con l’avanzare dell’età, infatti, vi è un restringimento ed una sclerosi del lume dei tubuli, una riduzione dell’attività spermatogenetica, una degenerazione delle cellule germinali ed una diminuzione quantitativa e qualitativa delle cellule di Leydig. Oltre al fisiologico processo di invecchiamento è necessario considerare che il paziente anziano è più soggetto a patologie croniche di tipo internistico e di conseguenza a terapie di lunga durata che possono ulteriormente alterare la qualità del seme in genere interferendo con la produzione o l’attività biologica degli androgeni e sui meccanismi di replicazione cellulare. Per citare solo alcuni esempi, l’intolleranza glucidica è presente nel 25% degli ottantenni, il diabete mellito nel 6-9% della popolazione tra i 65 e gli 84 anni, l’ipertensione arteriosa è presente nel 40% dei soggetti tra i 55 e i 65 anni e in età avanzata aumentano significativamente le patologie coronariche, polmonari e renali; tutte queste patologie nonché le terapie ad esse correlate sono in grado di deteriorare la qualità seminale. Un altro fattore da non trascurare è il periodo di astinenza di 3-5 giorni da rispettare per la corretta esecuzione dell’analisi del liquido seminale. Nel soggetto anziano tale periodo è difficilmente rispettato e può risultare più lungo, alterando la valutazione di alcuni parametri dipendenti da questa variabile, quali la concentrazione e la motilità degli spermatozoi. Infine bisogna considerare le oggettive difficoltà di raccolta del campione per masturbazione legate alla maggiore incidenza di deficit erettile e disturbi eiaculatori dell’anziano. Possiamo pertanto concludere che con il trascorrere degli anni, in misura più rilevante dopo i 70 anni di età, nell’uomo si determinano chiare modificazioni della capacità riproduttiva e la sua fertilità, pur conservata, diminuisce. Si assiste ad una progressiva minore efficienza del testicolo nelle sue due principali funzioni, secrezione del testosterone e produzione di spermatozoi, con possibile aumento nell’eiaculato di forme immobili o alterate nella loro morfologia ed incapaci, quindi, di fecondare. BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE Andersson AM, Jorgensen N, Frydelund-Larsen L, Rajpert-De Meyts E, Skakkebaek NE. Impaired Leydig cell function in infertile men: a study of 357 idiopathic infertile men and 318 proven fertile controls. J Clin Endocrinol Metab. 2004; 89: 3161-7. Baccetti B, Renieri T, Selmi MG, Soldani P. Sperm structure and function in 70 years old human. In: Andre J. (Ed.), The sperm cell. Boston / London Martinus Nijhoff Publishers, The Hague, 1983, 19. Davidson JM, Chen JJ, Crapo L, Gray GD, Greenleaf WJ, Catania JA Hormonal changes and sexual function in ageing men. J. Clin. Endocrinol. Metab. 1983; 57: 71. Dondero F, Mazzilli F, Giovenco P, Lenzi A, Cesararo M. Fertility in elderly men. J. Endocrinol. Invest. 1985; 8 (suppl.2): 87. 9 L. Gandini: Infertilità nell’uomo anziano Dondero F, Isidori A. Il liquido seminale. J. Endocrinol. Invest. 1980; 3 (suppl.2): 123. Eskenazi B, Wyrobek AJ, Sloter E, et al. The association of age and semen quality in healthy men. Hum Reprod. 2003; 18: 447-54. Fabbrini A, Francavilla S, Moscardelli S. Structural and functional aspects of aging testis and sex accessory organs. J. Endocrinol. Invest. 1985; 8 (Suppl.2): 47. Hamilton, D, Naftolin, F. Basic Reproductive Cambridge, UK Medicine. MIT Press. Johnson L, Grumbles JS, Bagheri A, Petty SC. Increased germ cell degeneration during postprophase of meiosis is related to increased serum follicle stimulating hormone concentrations and reduced daily sperm production in aged men. Biol. Reprod. 1990; 42: 281. Johnson L, Nguyen HB, Peety SC, Neaves WB. Quantification of human spermatogenesis: germ cell degeneration during spermatocytogenesis and meiosis in testes from younger and older adult men. Biol. Reprod. 1987; 37: 739-47. Neaves WB, Johnson L, Porter JC, Parker CR, Petty CS. Leydig cell numbers, daily sperm production, and serium gonadotropin levels in ageing men. J. Clin. Endocrinol. Metab. 1984; 55: 676. Schwartz D, Mayaux MJ, Spira A et al. Semen characteristics as a function of age in 833 fertile men. Fertil. Steril. 1983; 39: 530. United Nations Pubblication, (ST/ESA/SER.A/179), Sales N°. E.99.XIII.11, Copyright © United Nations 1999. ____ Per richiesta estratti: Dott.ssa Loredana Gandini Dipartimento di Fisiopatologia Medica Policlinico “Umberto I”, Università “La Sapienza” - Roma; Tel. 337 815631 - Fax 06 49970717 e-mail: [email protected] ANNALI DEGLI OSPEDALI San Camillo e Forlanini Volume 8, Numero 2, Aprile-Giugno 2006 Articolo Originale POLICLINICCART: CARTELLA CLINICA INFORMATIZZATA POLISPECIALISTICA INTEGRATA A MODULI POLICLINICCART: MEDICAL RECORD COMPUTERIZED POLISPECIALISTIC INTEGRATED OTTAVIANO ARIGANELLO, FABIO MASCHIETTI, FILIPPO DE MARINIS V Unità Operativa Complessa di Pneumologia Oncologica Azienda Ospedaliera San Camillo-Forlanini – Roma Parole chiave: Cartella clinica, Informatizzata, Polispecialistica Key words: Medical record, Computerized, Polispecialistic INTRODUZIONE Il progetto di Cartella Clinica Polispecialistica, PoliClinicCart, affonda le radici alla fine degli anni ’80, quando furono realizzate le prime versioni di Cartella Clinica Pneumologica, attraverso il programma di videoscrittura Easy Script per il Commodore 64 e il data base Works per i processori 386-486. Negli anni successivi, PneumoCart, la cartella clinica informatizzata per la Pneumologia, fu realizzata con l’ausilio del database relazionale Access2; fu pubblicata nel numero I degli Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini, integrata con il modulo per l’Oncologia (OncCart), e fu presentata al Forum della Pubblica Amministrazione Sanità nelle sessioni 2001-2002, oltre che in vari congressi nazionali e regionali AIPO ed AIOM, sotto forma di poster o di abstract. MATERIALI E METODI: DATI TECNICI La naturale evoluzione del progetto si identifica con la traduzione in un linguaggio più professionale, Visual Basic, su piattaforma access 2000, e ASP.NET su piattaforma SQLserver. L’analisi è stata estesa e finalizzata alla gestione delle Unità Operative afferen- ti al medesimo Dipartimento o Presidio Ospedaliero, con l’obiettivo di coprire, in termini di flussi informativi, l’intero e complesso percorso clinico assistenziale, dalla gestione della fase di emergenza del paziente critico alla gestione della preospedalizzazione, della fase del ricovero ordinario, del DH e del D-service, dell’assistenza domiciliare, oltre all’integrazione e all’interfacciamento con il Medico di Famiglia ed il Pediatra di base. Attenzione particolare si attribuisce alle problematiche di ordine medico-legale, in materia di privacy e riservatezza, di sicurezza dei dati "sensibili" e di controllo degli errori, ampiamente rappresentate nel DPR 318 del 28 luglio 1999 e nel DL 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali). PoliClinicCart è un programma multiutente, che deve essere configurato in rete e la sicurezza dei dati è ottimizzata attraverso vari livelli di controllo: identificazione degli utenti accreditati, protezione della rete locale, salvaguardia dei dati via internet, sicurezza elettrica, copia periodica di salvataggio (backup). A tutela della sicurezza e della riservatezza dei dati, a ogni utente sono attribuiti un codice identificativo e una password, per i quali è prevista la disattivazione in caso di perdita dei requisiti o di mancato utilizzo per un periodo superiore ai sei O. Ariganello et al.: PoliClinicCart: Cartella clinica informatizzata polispecialistica integrata a moduli mesi; qualora si verifichino degli errori nell’immissione dei dati, è contemplata la possibilità di una correzione, con il rispetto cronologico degli eventi registrati. La rete telematica locale su cavo (LAN) o senza fili (WLAN) deve essere protetta da eventuali “attacchi” esterni attraverso l’utilizzo di sistemi di cifratura, quali ad esempio SSL/TLS, e la protezione da possibili intercettazioni via Internet deve avvenire attraverso l’adozione di firewall e di antivirus informatici, idonei a creare una barriera protettiva del perimetro della rete, dove sono custodite le informazioni sensibili. La sicurezza elettrica della rete locale deve essere garantita da sistemi di stabilizzazione dell’alimentazione e da gruppi di continuità. La memoria dei dati è assicurata dalla realizzazione automatizzata di copie (backup), che non interferisce con la routine di lavoro e che può essere attivata manualmente in qualsiasi momento. Per quanto concerne l’architettura del sistema, PoliClinicCart richiede la creazione di una struttura con diverse stazioni di lavoro, che garantisca agli utenti l’accesso contemporaneo e da più punti alle medesime informazioni. È, quindi, prevista l’installazione di un server dedicato con i requisiti di processore pentium 4 da 3,2 GHz, con 1 Mb L2, 2 Gb di Ram, una configurazione in RAID di 5 Hard Disk da 200 GB. Qualora PoliClinicCart sia condiviso da Unità Operative del medesimo dipartimento o di diversi ospedali della rete ospedaliera regionale, il server deve essere posto in un ambiente accessibile solo all’Amministratore. PoliClinicCart è un programma, che guarda al futuro e quindi il cablaggio della rete locale deve prevedere anche l’utilizzo di tecnologie wireless, che permettano di gestire le informazioni fino al letto del malato attraverso tablet e palmari: la componente cartacea verrà compilata alla dimissione e al malato verrà consegnato un supporto elettronico, che contenga la storia del suo ricovero, mentre il Medico di famiglia potrà essere informato direttamente via Internet. 11 RISULTATI: ANALISI DEL PROGRAMMA Attivando l’icona posta sul desktop, appare la schermata di accesso, che richiede all’utente di inserire il proprio codice identificativo e la parola chiave (fig. 1). Figura 1. - Id utente e parola chiave La parola chiave, scelta dall’utente e suscettibile di modifica ogni 3 mesi, è nota anche all’Amministratore e identifica, altresì, l’Unità Operativa di appartenenza, per permettere unicamente l’accesso ai dati sensibili dei malati in carico alla medesima U.O., nel rispetto delle norme previste dal DPR 318 del 28 luglio 1999 e successive modifiche e integrazioni legislative. Ad alcune figure professionali è concesso un controllo più esteso. Non è previsto un periodo di tempo per la disconnessione automatica nel caso di inattività, ma l’utente deve essere responsabilizzato a mantenere attivo il programma in sua presenza e a disconnetterlo dopo avere ultimato le sue operazioni; il mancato rispetto di questa procedura rende l’operatore inadempiente responsabile delle iniziative intraprese da altri a suo nome, poiché tutte le operazioni vengono registrate in un archivio, dove rimane traccia, tra l’altro, anche del codice dell’utente, della data e dell’ora delle modifiche. Il riconoscimento della parola chiave permette l’accesso al programma, che si apre con la videata descrittiva delle caratteristiche del programma e delle note identificative degli Autori, seguita dopo 12 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 2, 2006 alcuni secondi dalla schemata del Menu principale (fig. 2). Figura 2. - Menu principale L’attivazione dei pulsanti, posti nella parte centrale (corpo) del Menu principale, permette l’accesso immediato alle sezioni di gestione dell’anagrafica, della farmacia, del movimento malati, delle diete, della gestione del magazzino; permette, inoltre, l’apertura diretta dei Moduli del DH, dell’Ambulatorio, dei Protocolli, del Prontuario farmaceutico. I menu a tendina, posti in apice, consentono gli spostamenti tra le varie sezioni e l’attivazione degli altri moduli disponibili: Chirurgia, Pneumologia, Endoscopia toracica, Medicina del lavoro, Pediatria; permettono, inoltre, la stampa di documenti e di seguire percorsi statistici predefiniti. Nel sotto-apice sono riportati i tasti gestionali della cartella clinica di base dall’anagrafica fino alla prescrizione della terapia e alla richiesta degli esami. L’attivazione di un tasto primario, che assume uno sfondo di colore rosso vivo, apre un sottomenu per l’esecuzione delle operazioni successive. L'apertura dell’Anagrafica consente l’inserimento dei nuovi pazienti o la ricerca di quelli già archiviati attraverso vari filtri di ricerca (nome, cognome, data di nascita, città…); contiene tutti i dati identificativi del malato attivo distribuiti in 5 pagine: 1) nella prima pagina sono riportati i dati anagrafici strettamente intesi, è compreso anche l’elenco completo di tutti i Comuni e le Province d’Italia, è calcolato il codice fiscale con il relativo codice a barre e l’età del malato; 2) nella seconda pagina sono riportati i dati relativi alla residenzadomicilio; 3) la terza pagina riguarda la riservatezza con l’individuazione delle persone che possono essere informate sullo stato di salute del malato; 4) la quarta pagina interessa i rapporti con il SSN, la scelta del Medico di famiglia, del Pediatra di base e lo storico delle esenzioni dal pagamento del ticket; 5) nella quinta pagina vengono annotate notizie riguardanti l’etnia, la religione e i genitori (fig. 3). I dati anagrafici sono normalmente aggiornati dal Personale dell’Accettazione amministrativa o dal personale dell’Unità Operativa per i casi di ricovero diretto in reparto; potrebbero, comunque, essere estrapolati dall’anagrafe regionale, ove ciò sia permesso; in questo caso si potrebbe ottenere anche lo storico della scelta del Medico di base e dell’esenzione dal ticket. Il Programma segue il Malato dal suo ingresso in Ospedale fino alla dimissione. La sezione del P.S./Accettazione è costituita da due parti: il triage infermieristico e l’accettazione medica. Il termine ”triage” deriva dal francese e significa selezione; fu introdotto la prima volta durante le guerre napoleoniche, quando il chirurgo francese Barone Jean Dominique Larry, organizzò i primi soccorsi individuando criteri di priorità sulla O. Ariganello et al.: PoliClinicCart: Cartella clinica informatizzata polispecialistica integrata a moduli Figura 3. - Anagrafica Figura 4. - Triage Figura 5. - Indici di gravità 13 base della gravità delle ferite da guerra (fig. 4). Le pagine del triage sono composte dalla sezione della scheda di accettazione, i cui dati anagrafici sono estrapolati dall’accettazione amministrativa, della raccolta delle informazioni, dell’obiettività, della rilevazione dei parametri vitali e degli indici di gravità, Glasgow Coma Scale (G.C.S.), Revised Trauma Score (RTS), Injury Severity Score (ISS): il calcolo del punteggio relativo alla gravità è automatico e può essere registrato più volte anche da diversi operatori sanitari (fig. 5). L’ultima pagina del triage offre una sintesi di quanto riportato nelle pagine precedenti e permette l’individuazione del codice di gravità: 1) Codice 4 Rosso, estrema urgenza 2) Codice 3 Giallo, urgenza primaria 3) Codice 2 Verde, urgenza secondaria 4) Codice 1 Bianco non urgenza. In alcune realtà, sono riportati altri due codici: il codice nero indica il decesso e il codice azzurro avvia l’utente all’ambulatorio del medico di famiglia, che talora è ospitato negli stessi locali del P.S.. Sulla base della tipologia del triage il malato è indirizzato all’ambulatorio competente, dove il medico lo visita, richiede gli esami e le consulenze del caso, pone la diagnosi, prescrive la terapia d’urgenza e destina il malato al reparto di competenza per patologia, previo controllo della disponibilità dei posti letto, che è rappresentata graficamente in una scheda dedicata. La cartella dei ricoveri è costituita, tra l’altro, dai campi della diagnosi di accettazione, della data d’ingresso, della tipologia del ricovero, del numero di letto, della data di uscita dal reparto: qualora il Malato venga dimesso definiti- 14 Figura 6. - Ricovero Figura 7. - Cartella infermieristica Figura 8. - Anamnesi patologica remota Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 2, 2006 vamente viene calcolata la degenza globale, qualora il Malato sia trasferito in altra Unità Operativa si calcola la degenza parziale ed appaiono i campi attinenti alla diagnosi di trasferimento e al reparto dove il malato è trasferito: ciò permette una continuità nella gestione della malattia e del Malato (fig. 6). L’elenco dei ricoveri complessivi sofferti dal malato è riportato in una sezione apposita; attivando la data corrispondente, si apre la scheda del ricovero prescelto. La pagina delle diagnosi è collegata all’elenco completo dei DRG ministeriali con i relativi codici; si può ottenere la creazione di un archivio personalizzato delle patologie più frequentemente presenti nell’Unità Operativa; è possibile inoltre attingere all’elenco delle malattie riportate nell’anamnesi patologica remota. Questo metodo, da una parte, semplifica e velocizza l’inserimento delle patologie, dall’altra offre un quadro complessivo delle patologie attive del malato ai fini del calcolo dei DRG. Le procedure chirurgiche sono estrapolate dall’elenco ministeriale e dalla lista degli esami invasivi e degli interventi chirurgici, eseguiti durante il ricovero, immediatamente disponibili ed utilizzabili per un’accurata compilazione della scheda di dimissione. La Cartella Infermieristica, disegnata sulla falsa riga di quella cartacea in uso presso la nostra U.O, e la Cartella Clinica di base sono interfacciabili e si integrano: i parametri vitali, l’anamnesi patologica remota, la terapia domiciliare, l’elenco degli esami richiesti sono riportati simultaneamente su entrambe le cartelle (fig. 7). La cartella infermieristica si completa con il diario clinico, dove si aggiornano quotidianamente tutti i parametri vitali e sono ri- O. Ariganello et al.: PoliClinicCart: Cartella clinica informatizzata polispecialistica integrata a moduli 15 multiple, ricavate dalla semeiotica medica portati i provvedimenti diagnostici e terae chirurgica, aggiornabili e modificabili peutici. L’asse portante della Cartella Clidal medico a seconda delle proprie esigennica di base è rappresentato dalla anamze (fig. 10). nesi, dall’esame obiettivo, dalla richiesta Per semplificare, gli esami sono stati degli esami e dalla prescrizione della teraraccolti in 3 grandi raggruppamenti, affepia. L’anamnesi familiare è riprodotta in renti ai vari Servizi e Unità Operative: forma tabellare, come anche l’anamnesi 1) Esami iconografici, includenti tutti gli patologica remota, che si sviluppa su più esami/consulenze che presuppongono pagine; le malattie sono filtrate a seconda l’inserimento di immagini. che si tratti di patologie attive, in tratta2) Esami di laboratorio: Ematochimica, mento terapeutico cronico, di patologie Sierologia, Microbiologia, Markers onpregresse, non suscettibili di ulteriore tecologici, Esame chimico-fisico dei materapia, di traumi, di infortuni e di interriali biologici, altri. venti chirurgici (fig. 8). 3) Istopatologia (fig. 11). Alle malattie infettive è dedicata una Il raggruppamento predefinito di esami sezione, dove sono riportate le malattie di anche di tipo diverso, collegati a protocolpiù comune riscontro. li di studio o a patologie, ne facilita da una Nell’anamnesi fisiologica, particolare parte la compilazione, dall’altra ne stanattenzione si dedica alla valutazione del fumo di sigaretta; è stato creato un archivio delle marche di sigarette più comuni con la quantità di nicotina e di condensato, contenuti in ogni singola sigaretta; si calcola il numero di sigarette totali, il n. pacchetti/anno, la quantità di nicotina e di condensato inalati; è possibile così effettuare delle valutazioni epidemiologico-statistiche retrospettive (fig. 9). L’anamnesi patologica prossima è impostata su due pagine parallele: nella prima, le notizie possono essere inserite direttamente in formato testo, nella seconda le varie sezioni dell’anamnesi (intro- Figura 9. - Anamnesi fisiologica duzione, corpo e conclusioni) sono predefinite, ma modificabili. L’anamnesi epidemiologica individua la familiarità con patologie, che presentano più impatto sociale, con patologie attinenti a viaggi all’estero o a emotrasfusione; è possibile riportare, soprattutto in tema di Medicina del Lavoro, la tipologia delle varie attività svolte nella vita lavorativa, indicandone la durata, il luogo e i fattori di rischio. L’esame obiettivo generale e l’esame obiettivo locale sono predefiniti per la normalità e tutti i cam- Figura 10. - Esame Obiettivo pi sono del tipo combo a scelte 16 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 2, 2006 dardizza e omogeneizza l’uso nella medesima realtà lavorativa. Le schede degli esami iconografici ed istopatologici permettono la memorizza- Figura 11. - Esami iconografici Figura 12. - Misurazione delle immagini Figura 13. - Terapia zione delle immagini, che possono essere misurate, confrontate e valutate in tempi diversi, in correlazione alla somministrazione o meno di terapia; possono essere misurati i diametri maggiori, un diametro (Recist), la superficie ed il volume a seconda delle indicazioni presenti nel protocollo di studio (fig. 12). La terapia medica è riportata in forma tabellare ed i farmaci sono legati al prontuario farmaceutico, a cui si può attingere in forma diretta per la scelta di essi: si può inserire la modalità e l’orario di somministrazione, la data di inizio e di fine, il rapporto con i pasti e la patologia. È in studio l’opportunità di riportare tutte le indicazioni e le correlazioni tra farmaci, in forma tabellare: ciò comporta una revisione dei principi attivi del prontuario terapeutico (fig. 13 - 14). Il Prontuario terapeutico proposto è stato estrapolato da quello ministeriale; è possibile richiamare la scheda tecnica, le note per principio attivo e per patologia. La scelta del nome commerciale del farmaco comporta l’elencazione dei farmaci omonimi per principio attivo in un’apposita tabella dedicata (fig. 15). Le note AIFA possono essere ricercate per farmaco e patologia (fig. 16). Per ogni patologia si può creare un raggruppamento di farmaci predefiniti, comunque modificabile, per facilitarne l’inserimento. La terapia medica può essere prescritta per lo stesso malato da varie sezioni e postazioni, ottenendo una farmacopea personalizzata, a cui si può attingere per richiamare l’elenco dei farmaci abitualmente assunti. La terapia prescritta è riportata nel report di stampa del diario clinico, della cartella clinica, della dimissione, dell’ambulatorio e della cartella infermieristica: è inoltre possibile riprodurre la terapia sul ricettario personale del Medico, (oltre che utilizzando) e sul modulo della ricetta regionale. Particolare attenzione è stata dedicata alla realizzazione dell’agenda O. Ariganello et al.: PoliClinicCart: Cartella clinica informatizzata polispecialistica integrata a moduli Figura 14. - Modalità somministrazione della terapia Figura 15. - Prontuario Figura 16. - Note 17 elettronica, che dovrà sostituire la miriade di agende cartacee; tutti gli appuntamenti sono registrati e possono essere richiamati per reparto, per medico, per data, per tipologia; possono essere eseguite delle ricerche multiple predefinite filtrate per regime di ricovero ordinario, DH, ambulatorio. È consentita la stampa del modulo di richiesta dell’esame, che può essere inviata anche via fax o e-mail (fig. 17). La sezione dedicata al DH è costituita da un form a pagine multiple, che permette la gestione di tutte le operazioni svolte in DH, rappresentate in forma tabellare (fig. 18). Nella prima pagina, per default, è riproposto l’elenco di tutti i malati attivi in DH e l’elenco degli appuntamenti alla data predefinita di “oggi”; la ricerca degli appuntamenti degli altri giorni si ottiene scegliendo la data da un calendario dedicato o inserendo direttamente la data nel campo “relativo”. Il numero di accessi al DH è calcolato sulle persone e non sul numero di esami eseguiti in quel giorno. I protocolli si studio sono standardizzati, vengono riportati i criteri di inclusione e di esclusione, le procedure nello screening, durante il trattamento e nel follow-up e sono disegnati i bracci di terapia. Una volta assolti i criteri di inclusione e di esclusione, inserendo la data d’ingresso nello studio, si ottiene la tempistica delle procedure e della terapia per i vari bracci (fig. 19). Per il modulo oncologia, OncCart, particolare attenzione è stata posta alla compilazione della scheda oncologica di base, in cui sono riportati sinteticamente tutti i dati del malato oncologico; esso viene rapportato ai protocolli di studio, alla stadiazione interattiva, alla tossicità WHO-NCI, all’istopatologia, alla farmacia oncologica, alla chirurgia toracica ed alla radioterapia (fig. 20 - 21). L’estensione della malattia neoplastica è individuata nella sezione della 18 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 2, 2006 stadiazione dei tumori, che è un programma autonomo, e permette l’identificazione, in tempo reale e con modalità interattive, delle estensioni TNM secondo il sistema UICC 2002 (Unione Internazionale Contro il Cancro) (fig. 22 - 23). Il calcolo della superficie corporea, del B.M.I., della creatinina clearance, dell’AUC per il carboplatino, del dosaggio dei chemioterapici, della frequenza di somministrazione e della riduzione percentuale sono alcune delle funzioni svolte (fig. 24). Inoltre, è possibile quantificare, semplificando il compito della farmacia oncologica, la ricostituzione Figura 17. - Agenda e la concentrazione del farmaco, il tempo e la modalità di somministrazione. Il modulo della pneumologia, PneumoCart comprende dei sottomoduli: l’endoscopia toracica, l’allergologia respiratoria, la fisiopatologia respiratoria. Tutti gli esami, riguardanti la fisiopatologia respiratoria, riprodotti attraverso strumenti computerizzati, possono essere memorizzati nelle schede degli esami iconografici, oppure, conoscendo il codice dei software degli strumenti, è possibile creare un’interfaccia condivisa, che permetta la memorizzazione dell’esame anche nel form dedicato. Le stesse considerazioni val- Figura 18. - DH gono per i software della radiologia, dell’istopatologia e dei laboratori di analisi. Il modulo della Pediatria, che non è stato ancora tradotto in Visual Basic, è in funzione in versione Access2 presso uno studio pediatrico ed è integrato con i percentili per il peso, per l’altezza e per la circonferenza cranica, riferiti ai percentili pubblicati da Scalamandrè del 1975 per la popolazione infantile italiana; parallelamente vengono create tabelle di percentili in base all’etnia e alla popolazione pediatrica, che freFigura 19. - Protocollo quenta lo studio. Il Modulo dell’Ambulatorio, at- O. Ariganello et al.: PoliClinicCart: Cartella clinica informatizzata polispecialistica integrata a moduli Figura 20. - Scheda oncologica di base Figura 21. - Farmacia oncologica Figura 22. - Stadiazione estensione T 19 tualmente in uso anche presso uno studio di Medicina di base, permette, tra l’altro, la stampa delle prescrizioni su ricettario regionale, secondo la recente normativa, e può interfacciarsi con la Cartella Clinica Ospedaliera per la condivisione del percorso clinico territoriale del Malato. Delle statistiche, alcune sono predefinite, altre possono essere impostate dall’utente (fig. 25). Il Modulo della videoconferenza si propone due obiettivi (fig. 26): 1) La comunicazione a distanza tra Medici con la possibilità di potere condividere immagini su una lavagna elettronica 2) Il controllo continuo del malato critico e degli spazi comuni da parte del personale infermieristico. La sicurezza di trasmissione è fornita dal Communication Server, che sfrutta il protocollo SSL (Secure Sockets Layer) per realizzare comunicazioni cifrate e utilizza la crittografia per fornire sicurezza nelle comunicazioni su Internet; consente, inoltre, alle applicazioni client/server di comunicare in modo tale da prevenire la manomissione dei dati, la falsificazione e l'intercettazione (fig. 26). Il riepilogo delle attività svolte nell’Unità operativa è rappresentato nella figura 27: nella tabella di sinistra è riportato l’elenco dei pazienti attivi filtrati per DH, regime ordinario, D Service, Ambulatorio, Pre-ospedalizzaione, Assistenza domiciliare. All’attivazione di un paziente, corrisponde a destra l’elenco delle relative prestazioni erogate e da erogare (fig. 27). Questa scheda permette di avere un controllo globale ed aggiornato della condizione clinico-terapeutica di tutti i Malati, che potrebbe essere oggetto di discussione in riunioni preliminari alla visita medica in corsia, nel rispetto della legge sulla riservatezza. 20 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 2, 2006 DISCUSSIONE E CONCLUSIONI Lentamente, ma inesorabilmente, l’informatica sta invadendo tutti gli spazi lavorativi degli operatori sanitari e negli ultimi anni si è notato un proliferare di software ad uso esclusivo, personalizzati, compilati in vari linguaggi, capaci, comunque, di soddisfare le esigenze dei singoli, ma incapaci di dialogo con altri software della medesima o di altre Unità Operative, per accedere ai quali occorre uscire dal programma in uso, in- Figura 23. - Stadiazione estensione N serire la password dedicata, richiamare l’anagrafica, controllare i dati per poi riaprire il precedente programma: questa è una metodica sicuramente non bene accetta dagli utenti, poiché comporta manovre ripetitive con elevato rischio di errore. L’uso di un solo software idoneo a soddisfare le esigenze di tutti gli operatori rappresenta l’auspicio del nostro lavoro. L’informatica, abbattendo le ultime resistenze e riserve, si sta avvicinando al letto del malato, finora irragiungibile a causa del difficoltoso e impraticabile uso del Figura 24. - Schedula di chemioterapia computer in quella sede. Nella nostra realtà, questo obiettivo sta per essere raggiunto a causa dalla coincidenza della proposizione di due progetti: 1) Il progetto della nostra Azienda Ospedaliera di robotizzare il percorso medico-infermieristicofarmaceutico del farmaco, per una più razionale e responsabile prescrizione e distribuzione e per un migliore controllo della gestione del rischio da farmaco, previo cablaggio ed installazione di una rete senza fili fino al letto del malato; 2) Il progetto, che coinvolge il software PoliClinicCart, pre- Figura 25. - Statistiche sentato nell’ambito dell’inizia- O. Ariganello et al.: PoliClinicCart: Cartella clinica informatizzata polispecialistica integrata a moduli Figura 26. - Videoconferenza 21 stribuzione del farmaco, ma anche per la gestione informatizzata del malato nella sua interezza. L’interfacciamento tra i due software è requisito indispensabile per la buona riuscita del progetto e si dovrebbe trovare anche una convergenza sul metodo di riconoscimento del malato. L’uso del lettore ottico in corsia sembra poco professionale, scomodo e obsoleto; la tecnologia RFID (Radio Frequency Identification), che sarà integrata in PoliClinicCart, è una tecnologia innovativa di acquisizione dati e di identificazione automatica; essa permette di individuare il malato, a cui sarà fornito un dispositivo, che contiene i suoi dati (TAG), quando il computer entrerà nel suo raggio d’azione, senza alcuna forma di ricerca attiva da parte dell’operatore sanitario. L’eventuale definitiva integrazione della miriade di software in funzione presso la nostra Azienda ospedaliera rappresenta l’obiettivo finale per la globale informatizzazione della cartella cinica ospedaliera. BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE Figura 27. - Sintesi delle attività dell’attività dell’U.O. tiva aziendale, relativa ai progetti di appropriatezza, dal titolo: “Informatizzazione medico-sanitaria nella 5° U.O. di Pneumologia Oncologica quale strumento per la gestione del rischio da farmaco”. La perfetta sintonia dei due progetti offre l’opportunità di utilizzare la tecnologia realizzata dall’Azienda, computer, tablet, cablaggio Wireless non solo per la di- 1.Ariganello O., De Marinis F. “Progetto di informatizzazione clinica del dipartimento di malattie polmonari. Studio preliminare”Annali degli Ospedali San Camillo Forlanini 1999; 1: 96104. 2.Nasotti A. Access2: programmare con le macro. Milano 1995 3.Perry Greg. Access2: Esempi di programmazione. Milano Jakson libri 1994 4.Roger Jennings. Rom Person Jakson libri Milano 1994 ____ Per richiesta estratti: Dr. Ottaviano Ariganello Via dei Fulvi, 67 - 00174 Roma ANNALI DEGLI OSPEDALI San Camillo e Forlanini Volume 8, Numero 2, Aprile-Giugno 2006 Caso Clinico IL TRATTAMENTO PERCUTANEO DI UN ADENOMA PARATIROIDEO ECTOPICO IPERFUNZIONANTE PERCUTANEOUS TREATMENT OF AN ECTOPIC HYPERFUNCTIONING PARATHYROID ADENOMA STEFANO PIERI, PAOLO AGRESTI, GIOVANNI COPPI,1 MICHELE SCOPPIO,3 STEFANO FEDELI2 1 Servizio di Radiologia Vascolare ed Interventistica D.H. Endocrinologia - 2 Radiologia TC Busi - 3 U.O.Nefrologia Azienda Ospedaliera San Camillo-Forlanini – Roma Riassunto. Gli autori descrivono l’impiego della soluzione terapeutica percutanea nel trattamento di un caso di adenoma paratiroideo iperfunzionante ectopico, utilizzando la metodica TC per la guida e il controllo dell'alcoolizzazione in un paziente di 58 anni, con diagnosi d’iperparatiroidismo primario, sostenuta da un adenoma paratiroideo iperfunzionante, con localizzazione mediastinica, che ha rifiutato la soluzione chirurgica. L’ablazione percutanea è stata eseguita con iniezione di alcool, sotto il controllo TC. L’iperparatiroidismo primario è sostenuto da un singolo adenoma nell’85% dei casi, facilmente accessibile alla terapia chirurgica. Nelle localizzazioni ectopiche della ghiandola le tradizionali soluzioni terapeutiche chirurgiche possono non offrire risposte soddisfacenti. La guida e il controllo TC sono fondamentali per conferire all’ablazione percutanea con alcool la mininvasività e l’efficacia della procedura. Parole chiave: Ghiandola paratiroide - Localizzazione ectopica - Alcoolizzazione Summary. The authors describe the percutaneous approach in the treatment of an hyperfunctioning ectopic parathyroid gland, under TC assistance in a 58 years old man, with a diagnosis of primary hyperparathyroidism, from an ectopic hyperfunctioning parathyroid gland, with mediastinal position. The patient refused surgical option. Percutaneous ablation technique was performed with alcool injection, under TC assistance. Primary hyperparathyroidism is caused by a single hyperfunctioning adenoma in 85%, easy to cure with surgical solutions. In ectopic parathyroid glands traditional surgical options may be unsuitable. TC assistance is fundamental to warrant effectiveness and minimally invasivity to the percutaneous ablation with alcohol. Key words: Parathyroid glands - Percutaneous ablation INTRODUZIONE I motivi che spingono il radiologo ad interessarsi di iperparatiroidismo primario sono sostanzialmente due: l’elevato contributo a tale diagnosi fornita dai reperti radiologici collaterali (alterazioni ossee, calcoli renali, calcificazioni dei tessuti molli), incidentalmente riscontrati nel corso d’indagini strumentali richieste per motivi di- versi e la ricerca della localizzazione paratiroidea responsabile della malattia. L’iperparatiroidismo primario, disendocrinia legata ad iperincrezione di paratormone da parte di tessuto paratiroideo primitivamente iperfunzionante, è generalmente sostenuto da un adenoma singolo (85% dei casi); le rimanenti cause sono rappresentate da iperplasia (5-10%), da duplice adenoma (5%) o da neoplasia (1%)1. S. Pieri et al.: Il trattamento percutaneo di un adenoma paratiroideo ectopico iperfunzionante Sulle ghiandole paratiroidee, strutture endocrine di derivazione branchiale, generalmente due per lato a ridosso della superficie postero-mediale della tiroide, le statistiche riportano un’ampia variabilità di numero e di sede in rapporto a possibili duplicazioni degli abbozzi primitivi e a modalità diverse di migrazione2. Sull’iperparatiroidismo, gli esperti dibattono se sia necessario o meno localizzare pre-operatoriamente le lesioni paratiroidee: alcuni chirurghi ritengono di poterle reperire con precisione nel 95% dei casi, senza dover ricorrere ad una preventiva individuazione3; altri, invece, sostengono che una localizzazione preoperatoria può essere utile sia per ridurre il numero di operazioni con esito negativo che per limitare l’approccio chirurgico ad una dissezione unilaterale del collo4. Il trattamento convenzionale dell’adenoma paratiroideo, che in mani esperte può raggiungere il 95-97% di efficacia terapeutica, è l’escissione chirurgica della/e ghiandola/e anormale/i5. Tuttavia in alcune condizioni, per la coesistenza di patologie concomitanti, o per gli esiti di un pregresso intervento chirurgico o per la sede anatomica in cui è localizzata la ghiandola ectopica, la chirurgia può non essere praticabile o risulta tecnicamente difficile; studi retrospettivi suggeriscono che l’ectopia mediastinica è stata riscontrata in percentuale oscillante dall’1% al 20%, per la maggior parte localizzata nella porzione superiore, anteriore o posteriore, accessibile attraverso un’incisione cervicale; nell’1,4 - 20% è però necessaria la sternotomia5,6. Per i motivi appena esposti, nei pazienti con localizzazione mediastinica è evidente la necessità della localizzazione preoperatoria anche al fine di valutare se tecnicamente possono essere impiegate soluzioni terapeutiche alternative quali l’ablazione con catetere angiografico e l’iniezione intralesionale di vari agenti7 o, più recentemente, l’ablazione percutanea con iniezione nell’adenoma di alcool etilico assoluto8,9. Riportiamo la nostra esperienza sul trattamento di un adenoma paratiroideo localizzato nel mediastino anteriore, mediante ablazione percutanea TC guidata. 23 CASO CLINICO Uomo di 58 anni, giunto alla nostra osservazione nel Novembre 2001, in occasione di una colica renale da litiasi. Nel corso degli accertamenti clinici e radiologici di inquadramento, risultavano anche alterati la calcemia (16,3 mg/dL), la fosforemia (3,8 mg/dL) e il paratormone (12 pmol/L). Il paziente presentava un’anamnesi familiare positiva per ipercalcemia: il padre era deceduto per insufficienza renale cronica da calcolosi renale a stampo. Una sorella paratiroidectomizzata per adenoma iperfunzionante. Nel nostro paziente risultavano negativi l’esame ecografico del collo e la scintigrafia delle paratiroidi; la RM, invece, dimostrava una formazione mediastinica anteriore, piuttosto omogenea, di forma regolare, con dimensioni di mm.17,6 per 26,4, a margini ben definiti, con le caratteristiche proprie dell’adenoma e permetteva di definirne i rapporti con le strutture circostanti [Figura 1,2]. Ulteriori accertamenti escludevano in questo paziente la presenza di una MEN (multi endocrine neoplasm), permettendo di inquadrarlo in una forma di ipercalcemia familiare. Trattandosi di patologia intratoracica veniva interpellato lo specialista chirurgo, che descriveva al paziente il tipo e la complessità dell’atto operatorio e lo informava sulle altre possibilità terapeutiche; il paziente, obbligato professionalmente a continui viaggi intercontinentali, optava per le soluzioni alternative all’atto chirurgico; veniva eseguito uno studio T.C. del mediastino [Figura. 3, 4] che confermava le indicazioni della RM e consentiva di analizzare la possibilità di un’alcolizzazione percutanea; verificatane la fattibilità tecnica e, ottenuto il consenso informato, si procedeva all’ablazione. Dopo una blanda sedazione, in presenza dell’anestesista, il paziente è stato sottoposto a TC del mediastino, con scansioni condotte senza somministrazione di mezzo di contrasto per la ricerca della regione d’interesse, scansioni dopo somministrazione di mezzo di contrasto (Sche- 24 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 2, 2006 Figura 1. - Immagine RM, con scansione assiale. Nel mediastino anteriore, è presente una lesione ovalare, iso-ipointensa nella sequenza turbo T2 pesate, a contorni ben definiti, in stretta vicinanza con la aorta toracica. Figura 3. - Immagine TC con scansione trasversale e finestra per i tessuti molli. Nel mediastino anteriore si conferma la presenza di una lesione ovalare, delle dimensioni di cm 2,6 per 1,7, ipodensa dopo somministrazione di mezzo di contrasto, ma con notevole rinforzo nella porzione più periferica. Figura 2. - Immagine RM, con scansione sagittale. Nel mediastino anteriore si conferma la presenza di una lesione ovalare nella sequenza T1 pesata, a margini ben definiti, separata da un piano di clivaggio dalle strutture vascolari. L’anamnesi del paziente, l’assenza in sede cervicale e la presenza di tale lesione, in sede tipica per una paratiroide fa porre diagnosi di lesione paratiroidea ectopica iperfunzionante. Figura 4. - Immagine TC con scansione trasversale e finestra per il parenchima epatico. Si conferma la presenza della lesione, dietro il manubrio sternale, con una minima possibilità di aggressione percutanea in senso obliquo, con eventuale ingresso dell’ago a livello dei muscoli pettorali e non latero sternale, per evitare di attraversare le arterie mammarie. S. Pieri et al.: Il trattamento percutaneo di un adenoma paratiroideo ectopico iperfunzionante ring 370, Schering Milano, Italy) per la localizzazione del punto d’ingresso e la scelta della migliore traiettoria dell’ago, mantenendo il paziente in apnea espiratoria durante le scansioni. Una volta stabilito il livello d’ingresso ed eseguite le misurazioni di profondità della lesione da trattare, senza anestesia locale, con il paziente in apnea espiratoria, è stato inserito un ago 21 G (H.S. ); ottenuta la conferma che la traiettoria dell’ago era diretta verso la lesione e che nel contempo non venivano attraversate strutture importanti [Figura 5], la punta dell’ago è stata portata quasi a contatto con la parete esterna sinistra della paratiroide ectopica, per poter poi iniettare alcool etilico al 95% [Figura 6]. Vista la localizzazione della ghiandola ectopica, non potendosi programmare altre sedute, se non per trattare una eventuale recidiva e volendo ottenere la massima efficacia dal trattamento, abbiamo deciso di iniettare un volume di alcool pari a quello della ghiandola, maggiorato del Figura 5. - Immagine TC, in scansione trasversale, eseguita durante la fase iniziale della procedura. In apnea espiratoria è stato inserito un ago 21G. L’ingresso dell’ago è a livello del muscolo pettorale destro, 2 cm circa al di sotto della clavicola. Questo tipo d’ingresso molto obliquo ha sicuramente evitato la puntura dell’arteria mammaria, ha favorito l’ingresso tra parenchima polmonare e sterno, in modo da minimizzare il trauma sul polmone. La traiettoria dell’ago è correttamente rivolta verso l’adenoma ectopico. 25 10%. L’iniezione è avvenuta molto lentamente, con un intervallo di attesa di 5’ dopo l’iniezione di ogni 2,5 cc di alcool, con una retrazione dell’ago di 5 mm. prima di intraprendere una nuova iniezione del farmaco. Il controllo TC al termine della procedura ha escluso la presenza di pneumotorace o altre complicanze. I controlli bioumorali sono risultati normali già a 3 mesi di distanza (calcemia 9,3 mg/dL, fosforemia 3,2 mg/dL, paratormone 4,8 pmol/L), rimanendo nei valori di normalità nei successivi controlli ematici trimestrali, per un periodo di follow-up di 16 mesi. Non è stato possibile ripetere una RM di controllo. DISCUSSIONE L’iperparatiroidismo primario è una condizione clinica molto spesso causata da adenoma singolo o multiplo, meno frequentemente da iperplasia della ghiandola; assai raramente da carcinoma.1,10 Figura 6. - Immagine TC con scansione trasversale. Questa immagine conferma l’avvenuto ingresso dell’ago all’interno dell’adenoma paratiroideo ectopico iperfunzionante; successivamente la punta dell’ago sarà portata a lambire il margine interno sinistro della lesione prima d’iniziare l’iniezione di alcool. 26 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 2, 2006 Figura 7. - Immagine TC con scansione trasversale. Al termine della procedura di alcoolizzazione, si conferma l’assenza di complicanze polmonari e di strutture vascolari. Le paratiroidi, in genere quattro di numero, sono di solito situate vicino alla porzione posteriore della tiroide;10 rispetto alle inferiori, le superiori, che originano dalla quarta tasca branchiale, sono più costanti nella loro localizzazione perché non migrano durante lo sviluppo ; nell’80% dei casi sono localizzabili in un’area di 2 cm., tra l’intersezione del nervo laringeo ricorrente e l’arteria tiroidea inferiore. La seconda sede più comune delle ghiandole superiori è la superficie posteriore del polo superiore della tiroide5. Le paratiroidi inferiori sono molto più variabili nella loro localizzazione: possono essere dovunque, dalla biforcazione carotidea e/o regione ipo-faringea fino al mediastino. Questa ampia variabilità di localizzazione va messa in relazione con lo sviluppo embriologico della terza tasca branchiale dalla quale derivano; fin dalla loro origine le ghiandole inferiori migrano con il timo a distanza variabile, per cui possono localizzarsi lungo tutto il percorso compiuto dal timo nella sua discesa fino al mediastino anteriore. Approssimativamente, un buon 60% delle ghiandole paratiroidee inferiori sono localizzate lateralmente, posteriormente o inferiormente al polo inferiore della tiroide; un’altra localizzazione tipica è il legamento tireo-timico (15%).5 Anche se vengono riportare elevate percentuali di successo con il trattamento chirurgico senza ricorrere preventivamente ad indagini diagnostiche di immagine10, da cui l’aforisma di Doppman secondo cui “in un paziente con iperparatiroidismo l’unico studio di localizzazione necessario è quello di trovare un chirurgo esperto sulle paratiroidi”,7 l’individuazione pre-operatoria della lesione è una procedura semplice da eseguire, vista la superficialità della sede da esaminare, e potrebbe limitarsi ad una esplorazione ecografica del collo, con sonda di frequenza compresa fra 7,5 e 10 MHz. Il tessuto paratiroideo anormale è generalmente rappresentato da una formazione ipoecogena o anecogena in relazione al circostante tessuto tiroideo; si localizza in sede posteriore o laterale alla tiroide e ha un diametro superiore al centimetro; la ghiandola anormale mostra un’intensa vascolarizzazione al color power Doppler, specie nelle forme carcinomatose.11 Quando l’esame ultrasonografico mostra la presenza di una lesione, con le caratteristiche morfologiche e di sede tipiche, l’indagine può considerarsi conclusiva. Viceversa, quando la ricerca risulti negativa, come nel nostro caso, la localizzazione pre-operatoria diventa imperativa, visto che la soluzione chirurgica diventa più complicata e c’è un’elevata probabilità di ghiandole ectopiche.12,13 In tali casi sarebbe bene associare una tecnica diagnostica funzionale (scintigrafia) con una tecnica anatomica (RM).10 Numerose sono le tecniche medico-nucleari impiegate per localizzare gli adenomi paratiroidei: la più diffusa è quella al tallio e al tecnezio con sottrazione di immagine, dove il tecnezio si fissa solo nella ghiandola tiroidea, mentre il tallio si fissa in entrambe.14 Sottraendo la prima dalla seconda, qualora sia presente un adenoma, si può assistere ad una concentrazione focale del radio-isotopo. Una tecnica più recente, superiore per sensibilità tanto da essere attualmente la prima metodica scintigrafica impiegata per tale scopo è quella al tecnezio sestamibi, che adotta lo stesso principio di differente persistenza dell’isotopo nell’adenoma paratiroideo rispetto al tessuto tiroideo.15 Questa tecnica S. Pieri et al.: Il trattamento percutaneo di un adenoma paratiroideo ectopico iperfunzionante ha validità se la lesione è parzialmente o completamente separata dalla tiroide. È ideale per scoprire eventuali lesioni ectopiche nel collo, mentre le lesioni nel mediastino non sono visualizzate perché l’isotopo è attenuato dallo sterno, come è capitato nel nostro caso. La RM rappresenta un ulteriore passaggio nella ricerca della localizzazione anatomica della paratiroide ectopica iperfunzionante: nel nostro caso la ghiandola si presentava come una formazione iso-ipo-intensa sulle immagini T1 pesate, a TR e TE corti, e iperdensa nelle immagini T2 pesate, con un intensa impregnazione del mezzo di contrasto. La diagnosi, pur con i limiti della tecnica, si è basata sulla dimostrazione che la lesione sospetta è localizzata in una sede tipica per una ghiandola paratiroidea ectopica iperfunzionante.10,16 Una volta individuatane la sede, viene il momento di decidere quale opzione terapeutica praticare. Il ricorso alla tradizionale terapia chirurgica è in continua diminuzione, specie nelle forme mediastiniche, per l’elevato numero di esplorazioni non conclusive, per l’elevato numero di complicanze associate, per l’invasività della soluzione terapeutica che obbliga alla sternotomia, necessaria a garantire un approccio al mediastino anteriore e intermedio migliore di quello fornito dalla sola toracotomia.6,13 Nel nostro paziente, la toracotomia non era proponibile, perché avrebbe comportato un campo operatorio limitato e una difficoltà tecnica a trattare una ghiandola posta proprio dietro lo sterno; la scelta obbligata era, quindi, la sternotomia mediana. Per ovviare ai limiti della soluzione chirurgica, in passato sono state proposte due soluzioni terapeutiche non chirurgiche: l’ablazione mediante catetere angiografico e iniezione di vari agenti7 e l’ablazione con iniezione percutanea di alcool8. La prima è stata suggerita dopo l’occasionale riscontro dell’efficacia dell’impiego del mdC ionico iniettato durante il cateterismo selettivo dell’arteria di rifornimento di un adenoma paratiroideo ectopico, con risoluzione permanente dell’ipercalcemia. Gli Autori ritennero che il mezzo di contrasto ionico, iniettato con un catetere 27 fermamente posizionato nell’arteria di rifornimento in un sistema vascolare chiuso, avesse potuto comportare una dilatazione dei capillari e causare una trasudazione interstiziale con impregnazione parenchiamale. Fu ipotizzato che l’iperosmolarità e la chemiotossicità del mezzo di contrasto non diluito comportarono un danno cellulare. L’edema acuto, in una ghiandola dotata di capsula, può comportare un decremento di flusso e aggiungere il fattore ischemico alla azione lesiva; il mezzo di contrasto, quindi, provocò infarto e necrosi del tessuto paratiroideo. L’invasività della soluzione terapeutica proposta, la presenza di complicanze tardive, anche se inferiori a quelle proprie dell’opzione chirurgica, l’impiego di radiazioni ionizzanti, la necessità di dover ricorrere a strutture tecnologiche costose ed ingombranti e ad operatori molto esperti, ha portato gli stessi Autori a suggerirne un impiego molto limitato.7 L’opzione terapeutica percutanea, proposta da Solbiati8, rappresenta ancora oggi la soluzione più vantaggiosa, sia per l’estrema rapidità e selettività d’azione, sia per l’elevata efficacia terapeutica. Nel nostro paziente, la particolare localizzazione dell’adenoma obbligava a rendere risolutiva in un’unica seduta la metodica percutanea; in virtù di questa considerazione è stata ricercata una obliquità d’ingresso dell’ago, che consentisse alla punta dell’ago di raggiungere la superficie sinistra della ghiandola. In questo modo è stato anche possibile applicare con successo la regola d’iniettare un volume di alcool pari al volume della lesione maggiorato di un 10%, retraendo di 5mm l’ago per ogni 2,5 cc di alcool iniettato. Il criterio per definire efficace tale procedura è il ritorno alla normalità dei livelli di calcemia, fosforemia e/o paratormone.17 Nel nostro caso questo si è verificato già dopo tre mesi dalla applicazione; i livelli di tali parametri sono rimasti sempre nei limiti della normalità per un periodo di tempo di follow-up di 16 mesi. Non abbiamo avuto però l’occasione di documentare con una tecnica radiologica non invasiva (RM) le modificazioni indotte dalla terapia sulla ghiandola paratiroide trattata. 28 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 2, 2006 In conclusione, sebbene la chirurgia continui a rimanere il trattamento di elezione per l’iperparatiroidismo causato da adenomi paratiroidei con localizzazione cervicale, l’ablazione percutanea deve essere considerata una valida alternativa terapeutica, spesso definitiva, in quei pazienti che presentano una localizzazione ectopica, mediastinica, della ghiandola. Questa soluzione percutanea, mininvasiva, si è dimostrata efficace e consente di evitare la toracotomia ed i problemi connessi alle eventuali complicanze operatorie e al periodo post-operatorio. BIBLIOGRAFIA 1. Wang C A. Surgical management of primary hyperparathyroidism Endocrinology. vol 2 Edited by Degroot L. New York: Grune and Stratton 1979; 735-37. 2. Scarfati E, DeAngelis P, D’Acremont B, et al. Anatomic localization of parathyroid adenomas. Experience with 1200 cases of primary hyperparathyroidism. Minerva Chir 1992; 47: 89-94. 3. Clark O H, Duh Q Y. Primary hyperparathyroidism. A surgical perspective. Endocrinol Metab Clin North Am 1989; 18: 701-14. 4. Murchison J, McIntosh C, Aitken A G F, et al. Ultrasound detection of parathyroid adenomas. Br J Radiol 1991; 64: 679-82. 5. Maxwell R, Carter Bradford W, Smith R M, Perry R R. Multiple ectopic parathyroid glands. Am Surg 2000; 66: 1028-31. 6. Boushey R, Todd R J. Middle mediastinal parathyroid: diagnosis and surgical approach. Ann Thorac Surg 2001; 71: 699-701. 7. Doppman J L, Brown E M, Brennan M F, et Al. Angiographic ablation of parathyroid adenomas Radiology 1979; 130: 577-82. ____ Per richiesta estratti: Dott. Stefano Pieri Via F. Algarotti, 8 - 00137 - Roma; e-mail: [email protected] 8. Solbiati L, Giangrande A, Del Pra L, et Al. Percutaneous ethanol injection of parathyroid tumors under US guidance: treatment of secondary hyperparathyroidism. Radiology 1985; 155: 607-710. 9. Karstrup S, Holm H H, Glenthoj A et A. Non surgical treatment of primary hyperparathyroidism with sonographically guided percutaneous injection of ethanol: results in a selected series of patients. AJR 1990; 154: 1087-90. 10. Gotway M B, Leung J W T, Gooding G A et al. Hyperfunctioning parathyroid tissue: spectrum of appearances on noninvasive imaging. A J R 2002; 179: 495-502. 11. Lane M J, Desser T S, Weigel R J, Jeffrey R B. Use of color Doppler sonography to identify feeding arteries associated with parathyroid adenomas. A J R 1998; 171: 819-23. 12. Carter W B, Carter D L, Cohn H E. Cause and current management of reoperative hyperparathyroidism Am Surg 1993; 59: 120-4. 13. Brennan M F, Norton J A. Reoperation for persistent and recurrent hyperparathyroidism. Ann Surg 1984; 201: 40-4. 14. Thompson C T, Bowers J, Broadie T A. Preoperative ultrasound and thallium-technetium subtraction scintigraphy in localizing parathyroid lesions in patients with hyperparathyroidism. Am Surg 1993; 59: 509-11. 15. O’Doherty M J, Kettle A G, Wells P. Parathyroid imaging with technetium-99m sestamibi: preoperative localization and tissue uptake studies. J Nucl Med 1992; 33: 313-8. 16. Lee V S, Spritzer C E. MR imaging of abnormal parathyroid glands. A J R 1998; 170: 1097-103. 17.Harman R C, Grant C S, Haj J D, et Al: Indications, technique and efficacy of alchool injection of enlarged parathyroid glands in patients with primary hyperparathyroidism. Surgery 1998; 124: 1011-20. ANNALI DEGLI OSPEDALI San Camillo e Forlanini Volume 8, Numero 2, Aprile-Giugno 2006 Comunicazione breve LA PREVENZIONE SECONDARIA DEL DANNO BIOLOGICO NEI FUMATORI BIOLOGICAL DAMAGE IN SMOKERS: SECONDARY PREVENTION ENZO SORESI,1 CLAUDIO BONFIOLI,2 ROBERTO ACCINNI3 1 Pneumologia. Ospedale di Niguarda – Milano, Servizio di Radiologia. Policlinico S. Marco – Zingonia (Bergamo), 3 C.N.R. Ospedale di Niguarda – Milano 2 Parole chiave: Stress ossidativo, Carcinoma polmonare, Broncopneumopatia Cronica Ostruttiva, Coronaropatie, Prevenzione secondaria. Key words: Oxidative stress, Lung carcinoma, COPD, Coronary diseases, Secondary prevention. INTRODUZIONE Sulla base dei deludenti risultati riguardanti tuttora la prevenzione primaria in Italia, da qualche anno ci si è impegnati nell’affrontare il tema della prevenzione secondaria allo scopo di valutare la reale possibilità di identificare oggi,alla luce di innovative indagini diagnostiche, il reale fattore di rischio di ogni fumatore e la possibilità di correggerlo o almeno contenerlo nel caso, purtroppo assai frequente, che il fumatore non riuscisse a smettere. Le due grandi novità che hanno permesso questa scelta derivano dall’area diagnostica e sono: 1° la possibilità di eseguire nei fumatori un pannello di esami ematologici in grado di valutare il bilancio ossidativo individuale 2° la comparsa da qualche anno,come presidio diagnostico, della Tomografia assiale computerizzata spirale (TAC-S) del torace, in grado di dare una lettura morfologica analitica dell’apparato respiratorio e cioè di identificare da una parte tutti i danni anatomici espressi dopo vari anni di fumo e dall’altra parte diagnosticare i tumori polmonari di dimensioni inferiori ad un cm. spesso non visibili alla radiografia standard del torace. FATTORI DI RISCHIO PER I FUMATORI: I RADICALI LIBERI Il fumo rappresenta un fattore di rischio per malattie cardiovascolari,respiratorie e neoplastiche: il danno organico che porta alla malattia conclamata è la risultante del danno biologico che si produce ai diversi livelli del metabolismo cellulare principalmente a seguito dello stress ossidativo, cioè conseguenza dell’eccesso di produzione di Specie Reattive dell’Ossigeno (ROS). I polmoni sono infatti esposti al danno ossidativo come sono esposti ad un ambiente ricco di ossigeno e tossine. Oltre al fumo altri fattori (iperomocisteinemia, dislipidemia, diabete, infiammazione sono in grado di provocare disfunzione endoteliale sia agendo singolarmente che in associazione. Uno dei sistemi più sensibili allo stress ossidativo è l’endotelio che reagisce attivandosi secondo un meccanismo proinfiammatorio che conduce,attraverso una cascata di eventi,alla placca aterosclerotica. Il termine ROS,(Specie Reattive dell’Ossigeno) descrive una serie di radicali liberi come O2 e OH e altre molecole ossigenate non radicali come il perossido di idrogeno (H2O2) e l’acido ipocloroso. Di fronte alla formazione di ROS il nostro organismo possiede un complesso sistema di difesa antiossidante, enzimatico e non, in grado di neutralizzare i danni che i ROS producono. Tale sistema può essere profondamente danneggiato dal fumo,mediante intrinseca induzione di stress ossidativo, favorendo la progressione di malattie cardiovascolari, respiratorie e neoplastiche. L’equilibrio tra le specie ossidate e ridotte dei tioli nel plasma, lo stato redox ed il substrato energetico cellulare contribuisce a mantenere l’efficienza del sistema antiossidante,(Total Antioxidant Capacity: TAC), risultando essi indici e marcatori specifici di omeostasi cellulare. 30 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 2, 2006 METODOLOGIA Nel Centro di Eccellenza per le Ricerche e lo Studio dello Stress Ossidativo (CERS) sono stati sviluppati metodi per monitorare sia i singoli componenti antiossidanti sia lo stato complessivo del sistema antiossidante e infiammatorio;è stata inoltre ottimizzata e validata la seguente serie di valutazioni, (principalmente in HPLC per la valutazione dell’omeostasi e dello stato redox ed energetico cellulare): a) valutazione dello stato antiossidante e dello stress ossidativo; b) valutazione dello stato infiammatorio; c) valutazione dell’omeostasi cellulare-stato redox dei tioli; d) valutazione dello stato redox cellulare; e) valutazione del substrato energetico. Questo pannello di esami può essere impiegato parzialmente o nella sua globalità nei due settori chiave della diagnostica clinica: a) screening di prevenzione primaria: per scoprire ed identificare i soggetti con basse difese antiossidanti ed elevati livelli di ROS che possono essere a rischio più elevato di sviluppare malattie indotte dai ROS. b) monitoraggio diagnostico: sia per la valutazione qualitativa e quantitativa del sistema antiossidante e dei livelli di ROS sia per determinare la risposta ottimale a eventuali trattamenti correttivi effettuati con farmaci o integratori alimentari o più semplicemente modificando lo stile di vita. Sulla base di queste considerazioni e possibilità diagnostiche, in collaborazione con il CNR dell’Ospedale di Niguarda è stata da noi impostata una ricerca su un gruppo di 35 fumatori di 30 packs/year (30 anni di fumo con una media di 20 sigarette al giorno), non intenzionati a smettere e senza alcuna evidenza di malattia o sintomi correlati al fumo. L’attenzione nel reclutamento è stata verso lo stile di vita individuale legato all’abitudine al fitness ed al tipo di alimentazione in relazione al consumo di pesce, carne, frutta e verdura. L’obbiettivo di questo studio era quello di confermare come questa tipologia di soggetti, forti fumatori, fosse esposta ad uno stress ossidativo cronico, premessa dello sviluppo di patologie cardiovascolari, respiratorie e neoplastiche e se fosse stato possibile, una volta avuta questa conferma dagli esami ematologici,correggere con la somministrazione di antiossidanti specifici, que- sto tipo di esposizione al rischio. Gli esami basali del sangue prevedevano oltre alla valutazione di colesterolo totale, HDL, LDL, trigliceridi, omocisteina, folati serici ed intraeritrocitari, vitamina B12, i ROS determinati nel siero come lipoperossidi, la CAT o capacità antiossidante totale valutata con un KIT commerciale (OXI assorbent-Caratelli, Grosseto); inoltre venivano valutati Nucleotidi adenosinici e pirimidinici, ossidati e ridotti: ATP, ADP, AMP, NAD, NADH, NADP e NADPH nel sangue intero usando una apparecchiatura HPLC con rivelatore fluorimetrico. Sempre con lo stesso tipo di apparecchiatura in HPLC veniva valutato lo stato redox dei tioli dosando cisteina, omocisteina, cisteinilglicina e glutatione totale e ridotto. Sulla base dei risultati ottenuti si è definito uno “score di rischio” per ogni soggetto avendo conferma che i fumatori si differenziavano dai controlli (selezionati fra i non fumatori e di età analoga), per una profonda alterazione degli esami basali con identificazione di nuovi fattori di rischio per la malattia cardiovascolare riguardanti l’alterata omeostasi cellulare, il basso potere riducente e la riduzione del substrato energetico. Per due mesi a questi soggetti sono stati somministrati integratori alimentari regolarmente in commercio a base di omega 3 ed omega 6 addizionati con vit. E ed un pool di antiossidanti costituito da vitamine del gruppo B e sali minerali a basse dosi. Il prelievo ematico di controllo confermava la riduzione dei fattori di rischio con spostamento dello “score” in modo assai variabile nei singoli soggetti, ma statisticamente significativo per il gruppo trattato rispetto ai controlli. A) VALUTAZIONE DEL DANNO POLMONARE CON TC SPIRALE La grande novità di questi ultimi anni è stata quella di osservare gli effetti del danno biologico nel fumatore mediante un esame morfologico in grado di evidenziare le alterazioni anatomiche dell’apparato respiratorio più precocemente rispetto alla comparsa del danno funzionale. L’esame che ha consentito una esplorazione anatomica del polmone con la possibilità di identificare lesioni non riconoscibili sul radiogramma E. Soresi et al.: La prevenzione secondaria del danno biologico nei fumatori del torace è la TC spirale (TAC-S) oggi arrivata alla sua evoluzione multistrato che consente di esaminare l’intero torace nel tempo di pochi secondi. L’utilizzazione di appositi programmi a bassa dose ha ridotto l’esposizione entro limiti più che accettabili tenuto anche conto che i soggetti esaminati si situano prevalentemente in una fascia di età superiore ai 50 anni. L’interesse per lo studio dell’apparato respiratorio con questa metodica è nato dall’evidenza che era possibile riconoscere un numero di lesioni neoplastiche considerevolmente superiore rispetto al radiogramma del torace; sono quindi iniziati in tutto il mondo programmi di screening del cancro polmonare che prevedono un esame TC-S annuale. Poichè è noto che la frequenza di noduli polmonari non neoplastici è elevata, esistono protocolli diagnostici specifici per questi noduli al fine di differenziare il nodulo benigno dal nodulo maligno (studio ELCAP, studio giapponese, ecc,). Gli esami da integrare di fronte a noduli di incerto significato sono la TAC con mezzo di contrasto e la PET o, meglio ancora la TC-PET. L’associazione di TC e PET in una unica apparecchiatura (TC-PET) è particolarmente utile in caso di noduli multipli perché consente di riconoscere la sede dei noduli captanti in corrispondenza con l’immagine TC. Il nostro gruppo di lavoro che da anni si occupa di danni da fumo considera la prima TC-S dopo 20 anni di abitudine tabagica un esame importante per evidenziare le alterazioni morfologiche indotte dal fumo sull’apparato respiratorio: abbiamo riscontrato su soggetti fumatori dai 20 ai 30 packs/years, anche in assenza di sintomi, una serie di alterazioni morfologiche che rappresentano la premessa al danno funzionale dei fumatori, danno che con gli esami di funzionalità respiratoria emerge molto più tardivamente. La bronchiolite respiratoria rappresenta il danno più precoce del fumatore ed è caratterizzata da una iperplasia della mucosa dei piccoli bronchi con edema e con flogosi a valle della ostruzione bronchiale. Questa alterazione dei bronchioli rappresenta spesso un processo del tutto asintomatico ma è l’inizio del danno anatomico che porta come conseguenza all’air trapping, cioè intrappolamento aereo con conseguente sovradistensione dei lobuli polmonari determinata dall’impossibilità dell’aria ad essere espulsa in fase espiratoria a causa dell’ostruzione dei piccoli 31 bronchi, ancora in assenza di lesioni alveolari. Queste alterazioni spesso sono asintomatiche, sono potenzialmente reversibili e il loro riconoscimento precoce consente al medico due tipi di intervento: il primo diretto al fumatore con la spiegazione dei danni iniziali osservati con l’esame TAC con conseguente più concreta motivazione ad abbandonare il fumo di sigaretta per la preoccupazione di danni maggiori, ed il secondo di prevenzione secondaria attraverso la prescrizione di broncodilatatori long-acting. Studi recenti hanno confermato che essi hanno l’effetto di dilatare i bronchi e di sviluppare, specie nelle terapie a lungo termine, una buona azione antinfiammatoria. È da precisare che nelle fasi iniziali del danno anatomico, con la semplice spirometria difficilmente si è in grado di evidenziare queste alterazioni. L’air trapping distrettuale, lasciato senza trattamento e mantenendosi l’abitudine tabagica, evolve verso l’iperinsufflazione, primo danno anatomico dimostrabile funzionalmente con un accurato esame spirometrico valutando poi anche le resistenze respiratorie con la pletismografia. L’iperinsufflazione rappresenta già, per il fumatore, un primo significativo danno funzionale, con parziale riduzione della capacità respiratoria: l’aria inspirata rimanendo “ingabbiata” dall’ostruzione bronchiolare, dà inizio a quel meccanismo di progressiva dilatazione e rigidità della gabbia toracica che porta successivamente alla ipotrofia dei muscoli respiratori, in particolare per quanto riguarda i muscoli intercostali. Integrando quindi l’informazione morfologica con la misura della Capacità Vitale (CV) e del FEV 1, si dispone così di una serie di dati che consentiranno gli interventi di prevenzione per evitare che l’evoluzione del danno anatomico, se il fumatore iperinsufflato continua a fumare, sfoci nell’enfisema polmonare con progressiva distruzione dei setti alveolari. B)VALUTAZIONE DELLO SCORE CALCICO DELLE CORONARIE Le deposizione di sali di calcio nella placca aterosclerotica si verifica pressoché costantemente nell’evoluzione della malattia aterosclerotica. È noto come il fumatore, proprio per la premessa dello stress ossidativo che favorisce l’infiammazione dell’endotelio e di conseguenza il 32 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 2, 2006 deposito delle lipoproteine, sia più esposto al rischio cardio-vascolare aterosclerotico. La possibilità di disporre di marker di danno aterosclerotico è legata al pannello di esami di laboratorio sopra indicati come idonei alla identificazione di un precoce fattore di rischio, e all’impiego dell’ecodoppler per quanto riguarda in particolare lo studio dei tronchi sovraortici e dell’aorta toracica ed addominale con l’identificazione di placche aterosclerotiche più o meno stenosanti il lume. Non va omesso, per altro, l’esame del fundus oculi che più precocemente di altri può dare indicazione di iniziali danni da aterosclerosi con l’accurata osservazione delle fini arterie retiniche. La valutazione del grado di aterosclerosi a carico delle pareti delle arterie coronariche è possibile da qualche anno integrando nella medesima indagine TAC-S una acquisizione sincronizzata con l’ECG e valutata con un software specifico che permette il riconoscimento e la quantificazione del calcio coronarico con successiva elaborazione di uno score calcico specifico. Per quanto questo esame non sia direttamente correlato con una presenza di una stenosi delle coronarie è in ogni caso indicativo dell’entità della malattia aterosclerotica e mette in condizione il medico curante di attivare una maggiore prevenzione quando il valore dello score calcico sia elevato, in particolare in un soggetto giovane. Proprio sul gruppo di 35 fumatori nei quali abbiamo studiato lo stress ossidativo l’esame TAC-S ha confermato che il valore di score calcico era più elevato nei soggetti fumatori e con alterato assetto dei lipidi raggiungendo punte superiori ad un valore complessivo di 500 o 600. Poiché questo valore dello score calcico non dà l’indicazione dei flussi coronarici, ma genericamente quella di danno aterosclerotico delle pareti, esso va integrato, laddove lo score finale risulti elevato, con ecocardiografia e con ecg da sforzo nonché, quando presente sintomatologia clinica o dubbio diagnostico, con scintigrafia miocardica dopo sforzo ed eventualmente con coronarografia. CONCLUSIONI Le nuove modalità di indagini, la biochimica e la radiologica, consentono attualmente di definire un profilo biologico individuale sui singoli fumatori per cui si possono arrivare ad osservare, come è avvenuto nella nostra esperienza, fu- matori di oltre 40 packs/year con limitato danno biologico e fumatori invece meno accaniti e più giovani con danni respiratori e cardiovascolari molto più rilevanti. D’altra parte se con la TAC –S si è in grado di valutare un modico danno anatomico individuale, ad esempio presenza di enfisema circoscritto ai lobi superiori, già questo rilievo può sensibilizzare il medico curante a tenere sotto più stretto controllo il paziente in quanto questo è più esposto anche a rischio sia neoplastico che infettivo proprio per la riduzione delle difese cellulari, tessutali ed extracellulari conseguenza della alterazione polmonare. In questi pazienti a rischio elevato infatti è sicuramente giustificato eseguire una TAC-S del torace ogni anno dato il maggiore rischio di insorgenza di carcinoma polmonare; di fronte ad episodi infettivi anche banali delle vie aeree si può inoltre giustificare un tempestivo trattamento con terapia antibiotica a largo spettro, dato l’alto rischio di infezioni broncopolmonari batteriche cui sono esposti. Questo approccio di prevenzione secondaria che si propone consente al medico di famiglia di affiancarsi al fumatore irriducibile e, con metodi non invasivi e molto innovativi,consente di ridurre significativamente i fattori di rischio. È interessante inoltre sottolineare in base a quanto emerso dalle nostre osservazioni più che quadriennali di collaborazione che spesso, dopo questi esami, si può ottenere spontaneamente la cessazione dal fumo in quanto le prime osservazioni di danno biologico a livello ematico ed anatomico rappresentano un elemento deterrente per il fumatore, come confermato da dati in letteratura relativi al programma multicentrico di screening del cancro del polmone negli Stati Uniti, nel quale si è osservata una alta percentuale di stop al fumo. È proprio per questo motivo che, se attuando i protocolli di prevenzione proposti recentemente da alcuni Istituti Oncologici milanesi (che prevedono per i fumatori oltre i 50 anni,dopo la prima TAC-S la possibilità di eseguire questo esame ogni anno, per 5 anni, gratuitamente o a costi ridotti, invece di limitarsi alla comunicazione telefonica di presenza o assenza di tumore) si può comunque meglio evidenziare la presenza di danni anatomici quali la bronchite cronica, l’air trapping o l’enfisema polmonare oppure, come è avvenuto nella nostra casistica, il riscontro occasionale di bolle sub-pleuriche o bronchiectasie: con tutta probabilità si otterrebbero in tal modo risultati molto migliori nell’ambito della preven- 33 E. Soresi et al.: La prevenzione secondaria del danno biologico nei fumatori zione primaria. In conclusione la rilevanza di questo escursus diagnostico consiste nel fatto che attualmente il medico di famiglia ha la reale possibilità di “toccare con mano” i danni anatomici genericamente da lui descritti al fumatore ed impostare quindi una prevenzione molto più specifica sia per i danni dell’apparato respiratorio che per quelli cardiovascolari e per quelli neoplastici a varia sede (vescica, ecc.). Diverso è infatti il leggere sul pacchetto di sigarette “il fumo uccide” ovvero l’osservare alla TAC-S i primi nefasti segnali di un danno organico sia a carico del polmone che a carico delle coronarie. Se poi dall’esame TAC-S emergesse un enfisema quantificabile in percentuale superiore al 50 % del parenchima polmonare, l’integrazione diagnostica con il test del cammino, che valuta la saturazione di ossigeno nel sangue in 6 minuti di cammino e con una spirometria completa che valuti anche il transfer alveolo-capillare, consentirebbe di sviluppare tempestivamente una adeguata prevenzione assai prima che il soggetto presenti ipossiemia cronica e di conseguenza entri nella schiera degli assistiti domiciliari con ossigenoterapia a lungo termine (OLT) con i rilevanti costi che si riversano poi sul contribuente. Con un adeguato programma di fisiokinesiterapia respiratoria, una camminata veloce di almeno 30 minuti al giorno e l’abbandono del fumo, lo spettro della OLT si potrà allontanare; nella nostra casistica abbiamo osservato soggetti, fumatori con grave enfisema non desaturare in pedana durante il test del cammino in quanto avevano praticato costantemente sport attivo: è evidente che si debba riflettere sull’importanza del fitness che potrà con- trastare e ritardare, unitamente ad una buona nutrizione, l’inizio della decadenza senile che avviene per sarcopenia, cioè perdita di massa magra (muscolo). Tutto ciò conferma che gli interventi prevenzione secondaria fortemente suggeriti da noi pneumologi ai medici di famiglia possano rappresentare anch’essi un primo sostanziale aspetto di medicina preventiva nei confronti del tabagismo, unitamente alla ancor più essenziale prevenzione primaria. BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE Accinni R, Caruso R, Rosina M, Della Noce C, Bonfioli C, Soresi E. Fumo e fattori di rischio cardiovascolare. Congresso di Medicina estetica. Università Cattolica. Roma. Ottobre 2003. De Caterina R “Attivazione endoteliale e aterosclerosi”. Edizioni Primula Multimedia. Greco G, Gattone M: Patologia cardiovascolare fumo-correlata. Ital Heart J. 2001 (Suppl.1): 3743. Hari S: Radicali liberi. Come combatterli per prevenire l’invecchiamento e le malattie. Edizioni Tecniche Nuove. Collana di Medicina Naturale. 1995. Kaneko M, Eguchi K. Peripheral lung cancer: screening and detection with low-dose spiral TC versus radiography. Radiology 1996; 201: 798802. Remy-Jardin M, Remy J, Boulenguez C et al.: Morphologic effects of cigarette smoking on airwais and pulmonary parenchyma in healty adult volunteers: CT evaluation and correlation with pulmonary function tests. Radiology 1993; 186: 107-15. ____ Per richiesta estratti: Prof. Enzo Soresi Via De Amicis, 42 - 20123 Milano ANNALI DEGLI OSPEDALI San Camillo e Forlanini Volume 8, Numero 2, Aprile-Giugno 2006 Rassegne MALATTIA MENTALE E PSICOTERAPIA ALLA LUCE DEI PRINCIPI BIOETICI MENTAL ILLNESS AND PSYCHOTHERAPY AT THE LIGHT OF BIOETICH PRINCIPLES PAOLO SEMINARA, GIUSEPPE SEMINARA Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura – Complesso Ospedaliero Chiaravalle-Soverato – Regione Calabria – (CZ) Riassunto. L’importanza dell’applicazione dei principi bioetici alla pratica psichiatrica e psicoterapeutica discende dalla considerazione del malato come “persona” e dall’esigenza di garantire a quest’ultimo un trattamento rispettoso della sua dignità. Dobbiamo guardare, pertanto, all’approccio psichiatrico e psicoterapeutico in prospettiva interdisciplinare, intanto, e di procedere ad un’attenta analisi dei metodi finora applicati al fine di elaborare ed utilizzare metodi fondati rigidamente sui principi bioetici. I diversi usi impropri che sono stati fatti della psichiatria, il rapporto terapeuta-malato, lo stesso concetto di malattia mentale, vanno rivisitati, anche alla luce di teorie come l’antropoanalisi, la quale mette in primo piano la “persona” e la conoscenza del suo modo di essere nel mondo. Parole chiave: Malattia mentale, Psicoterapia, Bioetica. Summary. The importance of applying bioetich principles to psychiatric and psycotherapeutic practice is due to the consideration of the sick as a “person” and of the need to grant him a respectful treatment of his dignity. We must look, therefore, to psychiatrical and psychotherapeutical approach in interdisciplinary perspective, and to go on in a careful analysis of the methods since now applyed to elaborate and to employ the methods based on bioetich principles. The different and improper uses employed by psychiatry, the relationship between therapeutist and patient, the concept of mental illness, itself have to be examined, also at the light of anthropoanalysis, wich emphasires the “person” and the knowledge of his way of being in the world. Key words: Bioetichs, Mental disorders, Psychotherapy. INTRODUZIONE L’affermazione secondo la quale la bioetica costituisce l’ambito entro il quale si definisce l’applicazione dei principi ai quali si deve ispirare il comportamento umano, rispetto alle categorie di vero e di falso, di giusto e di ingiusto, di bene e di male e, soprattutto l’uso di tutte quelle scienze che hanno come oggetto la salute e la vita stessa dell’uomo, come la medicina, nei confronti della quale l’etica ha maturato un antico rapporto, è ormai univer- salmente condivisa. La psichiatria e la psicoterapia devono rientrare a pieno titolo in quest’ambito, soprattutto perché in questo delicatissimo settore non si può fare riferimento puramente e semplicemente alla biologia, poiché ogni possibile pretesa di riferimento in senso assoluto viene trascesa dalla considerazione primaria delle funzioni psichiche del soggetto umano, quando quest’ultimo sia affetto da malattie che inficiano il rapporto soma-psiche perché qualcosa non funziona nel secondo termine di tale rapporto. P. Seminara et al.: Malattia mentale e psicoterapia alla luce dei principi bioetici In effetti la malattia mentale inficia qualcosa di diverso della costituzione biologica, in quanto opera sul complesso di caratteristiche costitutive proprie dell’uomo e che, differenziandolo profondamente dagli esseri viventi, lo caratterizzano come “persona”. Ma, poiché il concetto di persona è stato considerato come qualcosa di impalpabile, l’attenzione della bioetica alla psichiatria è stata per molto tempo assai scarsa. Tutto ciò si giustifica, secondo l’opinione di uno studioso, perché gli accadimenti legati alle malattie mentali non si rivelano con aspetti particolarmente eclatanti, tali da interessare vivamente l’opinione pubblica, come avviene per argomenti come l’aborto, l’eutanasia, i trapianti, la maternità assistita ed altri ancora, che hanno attirato immediatamente l’attenzione degli studiosi sul versante bioetico e, spesso, anche religioso. Vi era sempre stato, da parte della società, poca disponibilità ad occuparsi del problema delle malattie mentali, dal momento che già istituzioni totalizzanti se ne occupavano e che tutto ciò che riguardava la malattia mentale poteva far pensare che l’alienato (così come il portatore di handicap grave) potesse non esser considerato “persona” alla stregua dei normodotati. Oggi tale atteggiamento può considerarsi come largamente superato dall’assunto che in nessun caso è lecito considerare un individuo meno che “persona”. Vi sono, pertanto, alcuni aspetti del settore psicologico e di quello psichiatrico, sui quali la bioetica a buon diritto interviene, proprio al fine di tutelare non soltanto il diritto alla salute, ma anche quello a non veder misconosciuta o degradata la dignità individuale. Tali è l’ambito della terapia psicofarmacologica, dove il problema bioetico si pone rispetto all’uso di determinate sostanze medicinali, in quanto l’uso di questi farmaci muove dal concetto che la mente umana sia puramente e semplicemente qualcosa di assolutamente e strettamente fisiologico e che la malattia mentale sia il risultato di disfunzioni di natura neuro-endocrina. Ciò che si contesta, dal punto di vista della bioetica, è la riduzione dell’uomo a semplice meccanismo e il conseguente uso psichia- 35 trico di determinati medicinali, della terapia a somministrazione di pillole, come se invece di un soggetto si avesse di fronte un bidone da riempire. L’arbitrio, diretto contro la dignità della persona, consiste nel fatto che attraverso siffatte cure si mira a cambiare la mente senza riguardo alcuno per la persona; oggetto dell’intervento terapeutico non è l’eziologia, ma la patogenesi, trascurando il fatto che quest’ultima ha matrice puramente biologica, mentre l’eziologia del disturbo psichico ha molto spesso origine nell’alterazione di rapporti affettivi, emotivi, in altre parole, nei modi di essere nel mondo del soggetto. Il che ben difficilmente potrebbe essere curato soltanto con l’intervento farmaceutico. Un secondo aspetto che richiede l’applicazione dei principi bioetici è costituito dalla psicoterapia, per una varietà di ragioni: in primo luogo, il fatto che l’intervento terapeutico possa essere esercitato anche da persone non scientificamente ed eticamente preparate, il che comporta che un intruso entra con violenza in un rapporto caratterizzato da una particolare delicatezza e fragilità, per le interferenze fantasmatiche che comporta. In secondo luogo la psicoterapia può essere applicata in modo scorretto anche da persona realmente preparata, dal punto di vista tecnico, in quanto è possibile che lo psicoterapeuta si lasci prendere la mano dalla tentazione di imporsi al paziente, magari in buona fede, fino al limite del plagio. Esiste la possibilità che lo psicoterapeuta agisca scorrettamente anche sul piano della dimensione libidica, adducendo a propria giustificazione l’assunto di Freud secondo il quale la psicoterapia rappresenta un sistema di cura mediante l’amore. Una scusa che ovviamente non convince nessuno, ma che testimonia, in compenso, dell’abuso consumato ai danni del paziente, approfittando dello stato di dipendenza di quest’ultimo. Infine si prende in considerazione il fatto che la psicoterapia potrebbe appropriarsi di tecniche che non le sono proprie, anche in vista di ciò che la psicoterapia deve essere per definizione: un approccio terapeutico fondato sulla comunicazione 36 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 2, 2006 di ciò che è stato in qualche modo non comunicato perché cancellato, rimosso. Si è tentato di definire, a questo proposito, quale debba essere il fine ultimo della psicoterapia e cosa essa debba essere in realtà: la psicoterapia consiste essenzialmente nel far parlare ciò che è stato scomunicato; recuperarlo alla comunicazione è il fine unico e programmatico di ogni psicoterapia; essa è la pratica dell’ascolto non della prescrizione o della persuasione. Altro campo di applicazione delle regole della bioetica è l’uso delle terapie psichiatriche invasive, alcune convulsivanti, altre distruttive. L’intervento della bioetica è finalizzato a limitare drasticamente le prime (si pensa, ad esempio, all’elettroshock) ed eliminare le seconde (come la lobotomia, ormai da tempo proibita in Italia). In psichiatria simili interventi sono proibiti, mentre non lo sono in neurologia, dove interventi di tipo demolitorio vengono utilizzati nella cura dei tumori, nel trattamento chirurgico del morbo di Parkinson, in altre malattie che coinvolgono il sistema neurocerebrale. In questi casi quel tipo di terapia è ampiamente giustificato perché ordinato a salvare e prolungare la vita del paziente con il minimo danno possibile. Ma, nel caso della psichiatria, il discorso è completamente diverso; il disturbo psichiatrico è da considerare come un’anomalia della mente, non del cervello, ed è noto che le due cose non coincidono. Così, mentre appare lecito, dal punto di vista bioetico, l’intervento distruttivo in campo neurologico, non lo è assolutamente in campo psichiatrico. Vi è, infine, l’uso della psichiatria per fini politici, quando essa serve a dichiarare “alienato” l’oppositore al regime dominante. Ovviamente ciò è praticamente impossibile in regime di democrazia, ma, quando accade, la psichiatria diventa una sorta di strumento di mantenimento del potere attraverso la “prescrizione” di provvedimenti e cure che altro fine non hanno se non l’eliminazione degli avversari politici. Vi è, in tutto ciò, il più assoluto disprezzo della persona umana e dei suoi diritti; la bioetica interviene con i suoi principi regolatori, per evitare che possa essere messo in non cale il concetto di dignità della persona e che si prostituisca la scienza (e la coscienza) agli interessi del potere. Vi sono, ancora, i rapporti tra la psichiatria e il sacro, dove la bioetica interviene per tentare di discriminare ciò che è autentico da ciò che non lo è, cosa peraltro non facile. Lo psichiatra potrebbe infatti, anche in rapporto ai personali convincimenti religiosi, ritenere senz’altro nevrotici alcuni atteggiamenti, atti, pensieri che abbiano un contenuto religioso, così come potrebbe avallare tali manifestazioni anche quando esse sono inautentiche. Occorre quindi, perché psichiatria e psicoterapia agiscano nell’ambito dei principi bioetici, definire alcuni principi comuni, sulla base di alcuni concetti come quelli di normalità, di malattia mentale, di diagnosi psichiatrica, di prerequisito etico, nonché alcuni elementi altrettanto fondanti come le modalità del rapporto psichiatra-paziente, la normativa riguardante il trattamento sanitario obbligatorio, l’uso degli psicofarmaci, ed altri elementi da valutare caso per caso. L’attenzione della bioetica si è progressivamente accentrata sulle nuove frontiere della tecnologia biologica, sui problemi della riproduzione artificiale, sulla clonazione, prendendo a base, l’etica medica e i valori che a tale etica possono essere ricondotti. Si è avuto quindi, uno “spostamento clinico” della bioetica, nel senso che l’attenzione si è accentrata sui problemi etici connessi alle nuove frontiere della medicina. In realtà ormai da più parti si chiede, con sempre maggior forza, un ritorno alla idea originaria di bioetica, intesa come scienza che guida l’azione, come sapienza che consente all’uomo di usare il proprio sapere per assicurarsi la sopravvivenza, pur nel continuo tentativo di migliorare la qualità della vita. Pertanto la bioetica deve orientarsi, come di fatto si orienta, verso una considerazione di tipo interdisciplinare delle due componenti di maggiore rilievo: le scienze biologiche, sulle quali si fondano le speranze di sopravvivenza, quando esse siano rettamente intese ed applicate, ed i valori umani. Questo significa che la bioetica de- P. Seminara et al.: Malattia mentale e psicoterapia alla luce dei principi bioetici ve valorizzare gli apporti di scienze come l’antropologia, le scienze sociali, la stessa filosofia, intesa nell’antico senso di amore per il sapere; e non è un caso che Binswanger abbia fondato il suo metodo antropoanalitico sulla filosofia. Si tratta quindi di esplorare, anche, le questioni di metodo, ma in un panorama più ampio di quello finora considerato. Pertanto, agli studiosi, agli scienziati, si richiede, oggi, un sapere che non si limiti alla pura e semplice conoscenza della loro disciplina, ma che si arricchisca di tutto quel complesso di conoscenze che viene dalle scienze umane, in modo da potere coniugare utilmente la conoscenza che proviene dallo studio del mondo fisico e biologico con ciò che è peculiare della natura umana. Tanto più questa esigenza è cogente quanto più ci si accorge che il destino del mondo riposa sull’integrazione, preservazione ed estensione di quel sapere biologico ed etico che sta appena iniziando a farci rendere conto di quanto è insufficiente il cammino verso un’adeguata qualità di vita. Ma questo implica pensare e proporre stili di vita che l’uomo moderno ancora non conosce, anche se in qualche modo li intuisce. Nessuno è in grado di possedere tutte le conoscenze necessarie sulla base delle quali tali nuovi stili possono essere codificati e trasmessi a tutti, attraverso un beninteso processo educativo, il che sottintende una politica che si faccia carico di questo non lieve peso. In questa prospettiva, l’oggetto della bioetica è la ricerca di una sempre migliore qualità della vita, come, del resto, discende dalle numerose definizioni che di questa disciplina sono state date e dalle finalità che già alla nascita della disciplina venivano a questa assegnate dai suoi fondatori, Potter ed Hellegers. L’oggetto di fondo non muta anche quando si passa ad esaminare le diverse branche della bioetica: che si tratti di etica biomedica, clinica, farmaceutica, di metabioetica, di pedabioetica, lo scopo è pur sempre quello di ricercare gli strumenti capaci di migliorare la vita. In ciascuno di questi settori, infatti, si intende fare in modo che tutte le azioni umane derivanti 37 direttamente dalle conoscenze scientifiche e tecnologiche vengano usate alla luce dell’etica. In questo senso la bioetica si pone come scienza capace di costruire una visione globale del mondo e dell’essere dell’uomo (ma non soltanto di quest’ultimo) nel mondo. Si è affermato, infatti, che l’orizzonte contemporaneo della bioetica diventa sempre più ampio e nella prospettiva della qualità della vita, affrontata ormai da tutti gli studiosi e dai centri di ricerca. Dunque la bioetica, oggi, va concepita in modo ‘‘globale’’, anche quando si occupa di settori specifici. Il rapporto tra l’uomo ed il suo ambiente va posto a fondamento dello studio dei diversi fenomeni che riguardano l’uomo, in una prospettiva largamente interdisciplinare, poiché è soltanto in questa prospettiva ‘‘globale’’ che la disciplina acquista realmente pregnanza e significato. Il grande problema del “capire psichiatrico”, fondamentale per un corretto approccio al soggetto ed al disturbo di cui questi è portatore, ha generato, nel tempo, posizioni diverse che hanno dato origine a un dibattito, più che mai attuale, nel quale le diverse teorie si confrontano dialetticamente cercando, ciascuna di esse, una legittimazione che la renda quanto più possibile aderente alla realtà rappresentata dal paziente e dalla sua malattia. Di conseguenza il “conoscere” psichiatrico si è strutturato secondo modelli differenti, ciascuno dei quali trova la propria giustificazione nella ricerca scientifica, condotta secondo metodologie diverse, ma non sempre aperti ad un ripensamento critico delle basi teoriche; questa mancanza di apertura in genere è causata dal fatto che l’approccio al disturbo psichiatrico è, per ammissione comune, irto di difficoltà. Si è osservato, sul punto, che le categorie mediche svaniscono, non si riesce a trovare un ubi consistam, a meno di non partire già con idee pre-date, con opzioni pre-costituite, con comportamenti pre-parati, per inserirvi questo o quel segmento dell’umana presenza. L’approccio, sempre problematico, viene in qualche modo ridimensionato perché si può far conto su alcuni elementi di cui ci si sente relativa- 38 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 2, 2006 mente sicuri e che sembrano garantire almeno una prima base per la comprensione del caso. Da qui l’accettazione, spesso acritica, di alcune posizioni teoriche e l’assunzione di modelli specifici ritenuti adeguati Vi sono quindi diverse forme di approccio al “comprendere psichiatrico”. Vi è un ‘‘conoscere per spiegazione’’ i cui fondamenti sono essenzialmente di natura biologica o funzionalistica. Secondo questo modello l’indagine conoscitiva va fondata essenzialmente sulla neurofisiologia, per cui tutti i fenomeni psichici vengono considerati come manifestazioni naturali, e quindi come disturbi riconducibili in ogni caso a particolari disfunzioni dell’organismo psichico. Oggetto precipuo della conoscenza è la causa del disturbo, o meglio, “la precisazione del principio causale” per cui, dato un sintomo, o una malattia, se ne ricerca la causa, senza prendere in considerazione il fatto che tra causa ed effetto non sempre vi è rapporto di significato. Si ha, di conseguenza una riduzione del caso alla pura e semplice diagnosi, per cui il paziente, il soggetto, diventa un mero caso clinico: l’allontanamento tra esaminatore ed esaminato, tra paziente e medico, si è così realizzato, e di conseguenza si sono precluse le possibilità di interventi fondati su altre possibilità di approccio. Si tratta, in conclusione, di un metodo che si fonda su teorie anatomo-cliniche, oggi ritenute del tutto insufficienti per un approccio corretto al disturbo psichiatrico. Vi è poi il modello interpretativo psicoanalitico: l’ambito privilegiato della conoscenza è quello naturalistico, ma finisce con lo sconfinare nel meccanicismo, dal momento che il disturbo viene definito come una sorta di disturbo naturale, dipendente dalla natura pulsionale propria dell’uomo, o anche fenomeno derivante in qualche modo dalla dinamica della libido. L’effetto, ossia il fenomeno che si osserva, viene fatto risalire ad una causa o ad un motivo di natura inconscia, ed è questa causa o motivo che diventa l’oggetto della ricerca conoscitiva. In questo modello si ha un rapporto diretto tra lo psichiatrapsicoterapeuta ed il paziente, ma, come è stato sottolineato, nel momento del tran- sfer l’avvicinamento interumano è massimo, mentre diventa massimo il distanziamento nel momento riduttivo esplicativo. Questo modello, come quello precedente, seppure in misura diversa, non favorisce in misura piena il rapporto interumano, il quale già da qualche tempo viene considerato come un elemento indispensabile del comprendere psichiatrico. I fondamenti teorici del modello si ritrovano nei concetti di libido, pulsione, ed altri ancora, tutti comunque riconducibili alla sfera del meccanicistico, dell’energetico. Altro fondamento si trova nel concetto di transfert, il quale ultimo però sembra appartenere più propriamente alla sfera antropologica. A questi due modi del conoscere, che possono essere considerati di tipo ‘‘classico’’ se ne aggiungono altri due, scaturiti dalle nuove scuole di pensiero, entrambi fondati sul rapporto interumano. Il primo di essi, ossia il “conoscere come comprensione” assume come oggetto dell’indagine psichiatrica la comprensione del soggetto, e quindi il motivo delle sue manifestazioni psichiche, comprensione che può realizzarsi solo in presenza di un rapporto interumano all’interno del quale l’eventuale allontanamento viene sofferto tanto dal soggetto quanto dall’esaminatore, il quale ultimo considera l’allontanamento stesso come una vera e propria sconfitta. Per quanto riguarda in particolare questo metodo, si è osservato che dal punto di vista dottrinario, grande importanza viene qui attribuita al criterio analogico: è un comprendere che ci apparenta a quello del senso comune. Infatti il metodo considera i fenomeni psichici come elementi che attraverso il rapporto interumano svelano all’esaminatore ciò che è altro-da-sé, sia quando si realizza la conoscenza dell’esperienza interiore del soggetto, sia quando si rivelano gli effetti di tale esperienza. Il secondo dei due modelli è il “conoscere antropoanalitico” che trova la sua organizzazione teoretica nel pensiero di Binswanger. I fondamenti di questo modello si ritrovano in un’antropologia teoreticamente ateorica, fondata sull’indagine della presenza umana nel suo essere-al-mondo. L’oggetto del metodo è la conoscenza dell’essenza del fenomeno psichico inda- P. Seminara et al.: Malattia mentale e psicoterapia alla luce dei principi bioetici gato in relazione strettissima con la conoscenza del modo di essere del soggetto. La comprensione dell’essenza del fenomeno in quanto legata al modo di essere dello specifico individuo non può soffrire riduttività, dal momento che non si intende ridurre i fenomeni a particolari categorie successivamente generalizzabili. Infatti, si è osservato, i fenomeni sono intesi come espressivi dell’umano, non soltanto nella loro forma e struttura, ma anche e soprattutto come riferentisi direttamente a quella singola presenza, non importa se ‘sana’ o ‘malata’. Diventa pertanto indispensabile, per lo psichiatra, finalizzare l’osservazione alla conoscenza dell’essenza “con cui un altro esprime il suo modo di essere”. I momenti dell’osservazione potranno fare registrare avvicinamenti ed allontanamenti, ma questi sono da considerare come ‘‘fisiologici’’ quando si esercita una autentica riflessione critica “sulla profonda antinomia sistolica e diastolica dell’esistenza”. Pertanto, i fondamenti teoretici di questo modello vanno rinvenuti nel passaggio dall’esperire all’esprimere, dal piano dell’esperienza a quello dell’espressività, il che implica, di fatto, la necessità di risalire ai diversi modi di essere ed alle norme cui ciascuno di essi obbedisce, e quindi ad una vera e propria ontologia dei modi dell’essere, il che vanifica praticamente del tutto il concetto di normalità sul quale si fonda in buona parte il modello precedente. Infine si può accennare ad un quinto modello del comprendere, quello sociologico, che assume due aspetti distinti. Nel primo caso si ha un conoscere di tipo causale ed interpretativo, che si fonda essenzialmente sulla relazione Io-ambiente e quindi su generalizzazioni di origine empirica; la base teorica è di natura positivista e psicologista. Nel secondo caso si ha 39 un conoscere che considera i fenomeni dell’uomo come manifestazioni della presenza del soggetto insieme ad altri. I fondamenti teoretici sono di natura storicistica e dialettica. Nel primo caso l’avvicinamento rimane problematico e l’allontanamento assai più facile, mentre nel secondo caso l’avvicinamento viene mantenuto, ma quasi esclusivamente sul piano dialettico. Resta la domanda: come considerare la malattia mentale? Nel pensiero di Binswanger viene considerata come “possibilità dell’esserci”: una tesi che ha affascinato e convinto, che ha innescato un dibattito ancora attuale, ma che ha comunque additato un itinerario da percorrere e sviluppare nel tentativo di trovare una risposta esaustiva alla domanda che lo psichiatra non deve mai cessare di porsi. È da questa risposta, in definitiva, che può discendere l’appropriatezza dell’intervento psichiatrico e, con essa, l’aderenza alle norme bioetiche. BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE Binswanger L., Essere nel mondo, Roma, Astrolabio: 1973 Binswanger L., La psichiatria come scienza dell’uomo, Firenze: Ponte alle Grazie 1992 Bassi M. et al., La questione etica in psichiatria, Roma: Il Pensiero Scientifico 2000 Callieri B., L’atto clinico come demitizzazione della nosologia, Attualità in Psicologia, 1992; 4: 5-12 Callieri B., Quando vince l’ombra, Roma: Città Nuova, 1982, 15. Potter V. R., Bioetica ponte verso il futuro, Messina: Sicania, 2000 Russo G., Bioetica fondamentale e generale, Torino: Società Editrice Internazionale, 1995 Russo G., Le nuove frontiere della bioetica clinica, Torino: Elle DI CI Leumann, 1996 Spinsanti B., Etica bio-medica, Cinisello Balsamo Edizioni Paoline, 19882. ____ Per richiesta estratti: Prof. Paolo Seminara Tel. 0967 21722 - Fax 0967 25958 e-mail: [email protected] ANNALI DEGLI OSPEDALI San Camillo e Forlanini Volume 8, Numero 2, Aprile-Giugno 2006 DEFENSINE ALFA: SEMPLICI POLIPEPTIDI ANTIMICROBICI O QUALCOSA DI PIÙ? ALPHA DEFENSINS: SIMPLE ANTIMICROBIAL PEPTIDES OR SOMETHING MORE? GREGORINO PAONE,1,2 FRANCESCO CARBONE,1 GILDA GIANNUNZIO,1 ILIO CAMMARELLA,1 GIOVANNI SCHMID1,2 1 Centro Universitario Broncopneumopatie Emergenti Ospedale Carlo Forlanini – Roma Fondazione Don Gnocchi “S.Maria Della Pace” - Via Maresciallo Caviglia 30 – Roma. 2 Riassunto. Le defensine sono piccoli peptidi cationici della lunghezza di 29-42 aminoacidi e con un peso molecolare compreso tra i 3 e i 5 kDa. Tale famiglia di molecole è ulteriormente suddivisa in alfa e beta defensine che differiscono tra loro nella posizione dei ponti disolfuro intramolecolari. Le alfa defensine sono contenute nei granuli primari dei neutrofili e nelle cellule intestinali del Paneth, mentra le beta sono prodotte dalle cellule epiteliali. La maggior parte delle defensine mostra un ampio spettro antimicrobico diretto verso batteri (Grame Gram +), miceti, micobatteri ed alcuni virus capsulati. Molti studi hanno suggerito che tali molecole, oltre alla loro azione antimicrobica, possono avere un ruolo nell’infiammazione, nella risposta immune e nella cicatrizzazione delle ferite. Livelli elevati di defensine alfa sono stati evidenziati in molti disordini polmonari cronici (BPCO, asma, fibrosi cistica, deficienza di alfa 1 antitripsina, sarcoidosi) Le defensine hanno dimostrato attività citotossica verso le cellule epiteliali delle vie aeree e i macrofagi alveolari e stimolano la produzione di molecole proinfiammatorie. Recentemente è stato dimostrato che enzimi transferasi presenti sulla superficie dell’epitelio delle vie aeree sono in grado di inibire l’attività antimicrobica delle defensine ma non alterano quella “infiammatoria”. Parole chiave: Defensine, Malattie infiammatorie del polmone, Risposta immune, Transferasi. Titolo corrente: Defensine e polmone. Summary. Human defensins are small cationic peptides 29-42 amino acid long, with a molecolar weight of 3-5 kDa. Two major subfamilies are recognized: alfa defensins and beta defensins, that differ in the placement and disulfide pairing of their six cisteine residues. The a defensins are found in the primary granules of neutrophils and into intestinal Paneth’s cells, whereas b defensins are produced by epithelial cells. Most defensins show a broad spectrum of microbicidal activity against bacteria (Gram positive and Gram negative), fungi, mycobacteria and some enveloped viruses. Besides their antimicrobial capacity several studies have suggested that these molecules may have a role in inflammation, immune response and wound repair. Increased alpha defensins’ levels have been shown in many pulmonary chronic inflammatory disorders (e.g. chronic obstructive pulmonary disease, asthma, cistic fibrosis, alpha 1 antitrypsin deficiency, sarcoidosis). Defensins have demonstrated cytotoxic activity toward airway epithelial cells and alveolar macrophages and stimulate proinflammatory molecules production by several cell types. Recently transferases anchored on airway epithelium surface have been demonstrated to be able to inhibit defensins’ cytotoxicity but not their “inflammatory” activity. Key words: Defensins, Lung inflammation, Immune response, Transferases. Running title: Defensins and lung. G. Paone et al.: Defensine alfa: semplici polipeptidi antimicrobici o qualcosa di più? INTRODUZIONE I neutrofili rivestono un ruolo di primo piano nella difesa dell’organismo nei confronti della moltitudine di microrganismi con cui quotidianamente esso viene in contatto. Queste cellule migrano nel sito dell’infezione rispondendo a stimoli chemotattici di varia natura trasportandovi così un sorprendente arsenale di sostanze ad azione antimicrobica. Tali sostanza possono variare da composti semplici come il perossido di idrogeno e l’ossido nitrico a composti più complessi come polipeptidi e vere e proprie proteine. Per convenzione le proteine antimicrobiche con meno di 100 aminoacidi vengono definite “antimicrobial peptides”. Le proteine antimicrobiche sono perciò elementi di prima linea nella difesa dell’organismo ospite e si trovano sulla mucosa epiteliale, nei fluidi corporei e negli organelli microbicidi delle cellule fagocitiche. Tali proteine si differenziano per grandezza, struttura e attività, ma la maggior parte ha proprietà anfoteriche, esponendo sia la superficie cationica sia quell’idrofobica. Tra esse un posto di particolare rilievo spetta alle defensine, polipeptidi di piccolo peso molecolare che sono state identificate in una moltitudine di esseri viventi (piante, animali, uomo). La struttura delle defensine è caratterizzata dalla presenza di 6 residui di cisteina che si dispongono a formare 3 ponti disolfuro intramolecolari la cui posizione nell’ambito della molecola permette di suddividerle ulteriormente in 3 sottoclassi: alfa defensine, beta defensine, defensine degli insetti. STRUTTURA E GENE DELLE DEFENSINE Le defensine sono peptidi il cui numero di aminoacidi varia tra 29 e 42 con un peso molecolare compreso tra 3 e 5 kDa. Le a-defensine umane, furono descritte la prima volta nel 1985 e comprendono at- 41 tualmente 6 membri1; quattro di loro, le Human Neutrophil Peptides (HNPs 1-4) sono localizzate nei granuli azzurrofili dei neutrofili; due, le Human Defensin (HD-5 e HD-6) sono presenti nei granuli secretori delle cellule di Paneth del tratto intestinale e nelle cellule epiteliali del tratto genitale femminile2. Nei primi anni 90 una seconda classe di defensine fu identificata nei neutrofili, nelle cellule epiteliali della lingua e nella trachea dei bovini3. Tali peptidi strutturalmente differenti dalle defensine, furono denominate ß-defensine. Ricerche successive rivelarono che l’espressione delle ß-defensine aumentava in vivo durante l’infiammazione ed in vitro in risposta ai lipopolisaccaridi batterici4. La prima ß-defensina umana (hBD-1) fu isolata nel 19955 e fu identificata più tardi nelle cellule epiteliali in vari organi, incluso il polmone6. Nel 1997 la seconda ß-defensina umana (hBD-2) fu isolata dalle lesioni di pazienti affetti da psoriasi7. La terza ß-defensina umana fu identificata nel 2001 nel cuore, nel muscolo scheletrico, nella pelle, nei cheratinociti gengivali, nell’esofago e nella trachea8. La quarta ß-defensina è stata individuata nel 2002 dall’analisi della sequenza genomica sul cluster genomico delle altre defensine: questa defensina viene espressa maggiormente a livello dei testicoli ed in minor misura dell’antro gastrico, mentre bassi livelli di espressione sono stati osservati nell’utero, nei neutrofili, nella tiroide e nel rene9. Le defensine umane sono codificate da un cluster genico presente sul cromosoma 8p23, che include i geni per tutte le a-defensine conosciute, con l’esclusione dell’HNP-210. Poiché l’HNP-2 non presenta l’aminoacido Nterminale dell’HNP-1 e dell’HNP-3, si ritiene che l’HNP-2 sia un prodotto di proteolisi di uno o di entrambi i peptidi HNP1 e HNP-3. Le a-defensine umane (HNPs 1-4) sono piccole, cationiche, ricche di arginina e prive di attività enzimatica10. Le HNP contengono 6 residui cisteinici che formano 3 caratteristici ponti disolfuro intramolecolari essenziali per la loro attività antimicrobica. Mentre le prime 3 a-defensine (HNPs 1-3) sono molto simili e differisco- 42 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 2, 2006 no solo per un singolo aminoacido N-terminale, HNP-4 è marcatamente differente nella sua sequenza aminoacidica complessiva, con solo il 32% di omologia con le altre a-defensine11. Anche i geni per le ß-defensine sono localizzati sul cromosoma 8p2312. La localizzazione del gene per hBD-1 è a circa 100 kb da quello del gene per HNP-1, suggerendo che essi si dividono un comune gene ancestrale. Il gene per l’hBD-1 è notevolmente omologo alle altre ß-defensine di mammifero. Le ß-defensine si differenziano dalle a-defensine a livello genomico e delle sequenze pre-peptidiche3. La forma matura dell’hBD-1 consta di 36 aminoacidi e contiene anche essa i 6 caratteristici residui cisteinici12. Gli accoppiamenti cisteinici differenziano le ß dalle a-defensine; mentre nelle a-defensine le cisteine formano le seguenti coppie 1-6, 2-4, 3-5 nelle ß-defensine esse sono associate nelle seguenti posizioni 1-5, 2-4 e 3-6. La presenza dei 6 residui di cisteina, oltre ad essere responsabile della caratteristica stabilità alla molecola, ne determina la conformazione strutturale. Il gene dell’hBD-2 si estende per circa 2 kb ed si trova a circa 5-600 kb dall’hBD-113. Il gene dell’hBD-3 si trova 13 kb a monte del gene dell’hBD-2, è trascritto nella stessa direzione e codifica per un peptide di 67 aminoacidi che è per il 43% identico al hBD-28. ATTIVITÀ ANTIMICROBICA Le defensine furono originariamente identificate per la loro attività antimicrobica, che è diretta contro batteri gram-negativi e gram-positivi, miceti e virus capsulati1. Poiché le HNP 1-3 costituiscono dal 5 al 7% delle proteine totali contenute nei neutrofili umani, e dal 30 al 50% delle proteine contenute nei granuli azzurrofili, possono essere considerate le principali proteine antimicrobiche presenti nei neutrofili. Al contrario, l’HNP-4 ammonta approssimativamente all’1% delle defensine totali contenute ed è quella dotata di minor attività antimicrobica. Il range di concentrazione in cui le defensine svolgono attività antimicrobica è tra 1 e 100 µg/ml, e lo stesso potere antimicrobico è ottimale in assenza di siero1; perciò le a-defensine esercitano la loro azione antimicrobica principalmente all’interno del fagolisosoma, dove esse raggiungono le più alte concentrazioni rispetto allo spazio extracellulare. Il meccanismo attraverso il quale le a-defensine uccidono i batteri è stato studiato sui gram-negativi, e si suppone che sia un processo a due tappe che richiede una cellula bersaglio metabolicamente attiva1: nella prima fase le defensine cationiche si legano alla membrana batterica portando alla alterazione della funzione di barriera della membrana stessa. Nella seconda fase determinano la formazione di canali di membrana alterando la normale permeabilità della stessa14; le defensine quindi si portano all’interno della cellula e in ultimo determinano la morte cellulare. Si ritiene che l’azione citotossica delle defensine all’interno della cellula si svolga attraverso danneggiamento del DNA ed alterazione della sintesi proteica. Le defensine sono prive di attività antivirale nei confronti dei virus privi di involucro esterno e ciò suggerisce che l’interazione con la membrana da parte delle defensine è fondamentale per lo svolgimento della loro attività antimicrobica. L’attività antivirale delle defensine si svolge contro virus capsulati (es. Herpes simplex virus, Cytomegalovirus) compreso il virus dell’HIV15-17. In uno studio è stato dimostrato che la somministrazione endovenosa di LTB4 in soggetti infettati dal virus dell’HIV causa un incremento dose-dipendente dei livelli plasmatici delle a-defensine e della proteina macrofagica infiammatoria (MIP 1ß), che hanno attività antiHIV18. Inoltre Zhang et al. hanno ritenuto di identificare nelle a-defensine, e precisamente nelle HNP-1, HNP-2 ed HNP-3, il fattore cellulare antivirale (CAF) che sopprime la replicazione del virus e che sarebbe responsabile della lunga sopravvivenza che si riscontra in alcuni individui infettati dall’HIV: infatti un gruppo di proteine, riconducibili alle a-defensine, sono secrete quando i linfociti CD8 di tali pazienti sono stimolati19. Si ritiene perciò G. Paone et al.: Defensine alfa: semplici polipeptidi antimicrobici o qualcosa di più? che l’azione delle defensine nei confronti del virus dell’HIV possa svolgersi in duplice modo come è stato rilevato in uno studio di Chang: da una parte un’azione diretta tossica sul virus, inibita in presenza di siero, e dall’altra una inibizione da parte dell’HNP-1 a livello dei passi successivi alla trascrizione inversa ed all’integrazione20. Recentemente è stato inoltre dimostrato che le HNP sono in grado di inibire, in modo non competitivo, il fattore letale della tossina del Bacillo dell’antrace proteggendo in vivo i topi dalle conseguenze letali di tale tossina21. Anche le ß-defensine dispongono di potere antimicrobico contro numerosi batteri gram-positivi e negativi e determinati miceti7; l’hBD-2 è in questo senso dieci volte più potente dell’hBD-1. È importante notare che l’attività antimicrobica delle ß-defensine si riduce in presenza di alte concentrazioni di cloruro di sodio22. Il meccanismo attraverso il quale le ß-defensine uccidono i loro target è probabilmente legato, in analogia con le a-defensine, alla formazione di canali nelle membrane cellulari. DEFENSINE E POLMONE Gli studi iniziali sulle a-defensine avevano focalizzato l’attenzione sulla loro attività antimicrobica, ma studi successivi evidenziarono che tali molecole potevano avere un ruolo importante nell’infiammazione, nella riparazione delle ferite e nella regolazione della risposta immunitaria. Ci sono crescenti evidenze che i livelli di a-defensine sono aumentati nei pazienti con patologie caratterizzate da processi infiammatori che coinvolgono i neutrofili. Le defensine sono aumentate nel plasma dei pazienti con Fibrosi Polmonare Idiopatica (IPF), e vi è una tendenza, però non significativa, all’aumento dei livelli di HNP nel BAL degli stessi pazienti. Si è inoltre visto che in questi stessi pazienti i livelli di defensine nel plasma presentano una correlazione inversamente proporzionale con alcuni parametri della malattia, quali la PaO2, il VC, FEV1, e diffusione al 43 CO. Nel BAL dei pazienti con IPF vi è correlazione tra i livelli di defensine e quelli di IL-8 e questo concorda con ciò che è stato riportato per quel che riguarda la stessa correlazione presente anche nelle malattie infettive polmonari23. L’IL-8 possiede una potente azione chemoattraente nei confronti dei neutrofili e può indurre il rilascio di a-defensine da parte degli stessi. A loro volta le defensine stimolano la sintesi di IL-8 da parte delle cellule epiteliali delle vie aeree e di conseguenza medierebbero indirettamente il reclutamento di altri neutrofili nella sede dell’infiammazione24. Il ruolo dell’IL-8 nella patogenesi della IPF è oggi considerato importante: è stato evidenziato infatti che i livelli di IL8 incrementati nel BAL dei pazienti con IPF sono in correlazione diretta con l’incremento dei neutrofili nello stesso BAL; vi è inoltre correlazione positiva tra i livelli di IL-8 del BAL e quelli sierici negli stessi pazienti IPF. Pertanto i livelli sierici di IL-8 correlando positivamente con la percentuale dei neutrofili nel BAL, indicano in questo modo il grado di alveolite neutrofilica nell’IPF. Inoltre è stato evidenziato che i livelli sierici di IL-8 si correlano in modo inversamente proporzionale con importanti indicatori della funzionalità polmonare come la PaO2, il VC, la TLC e la diffusione al CO, dato quest’ultimo che concorda con ciò che è stato trovato per le defensine. Le a-defensine si accumulano nelle secrezioni delle vie aeree dei pazienti con altre malattie infiammatorie polmonari, come la fibrosi cistica25, la bronchite cronica ostruttiva26, il deficit di a1-antitripsina27 e l’Adult Respiratory Distress Syndrome. Inoltre in alcune patologie i livelli di defensine correlano con l’incremento di IL-826. Le a-defensine sono in grado di stimolare la produzione di leukotriene B4 (LTB4) e di IL-8 da parte dei macrofagi alveolari28. Studi in vitro hanno mostrato che le defensine possiedono attività chemiotattica per i monociti ed i linfociti T29, ma non per i neutrofili. Quest’ultima funzione, come detto in precedenza, si potrebbe svolgere in vivo in modo indiretto, come è stato dimostrato anche da uno studio in 44 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 2, 2006 cui l’inoculazione sottocutanea di defensine nel topo aveva determinato infiltrazione di tipo neutrofilo e mononucleato. Le a-defensine potrebbero essere coinvolte nella risposta immunitaria specifica inducendo il rilascio da parte dei linfociti T, di citochine quali IFN-y, IL-6, ed IL-10; in accordo con questa ipotesi le a-defensine hanno mostrato di essere capaci di incrementare le IgG sistemiche, ma non le IgA, in risposta alla liberazione intranasale di antigene nel topo30. Le a-defensine, inoltre, potrebbero promuovere il danneggiamento cellulare legandosi ai membri della famiglia degli inibitori delle serino proteasi, come a1-antitripsina impedendo a quest’ultima di legarsi ed inattivare l’elastasi neutrofila. Nel BAL dei pazienti con deficit di a1-antitripsina le defensine sono aumentate e, a concentrazioni presenti nei pazienti con maggiore grado di infiammazione, risultano citotossiche in vitro nei confronti dei macrofagi alveolari sia di soggetti normali che di individui con deficit di a1-antitripsina. Inoltre incubando con dosi crescenti di a-defensine i macrofagi alveolari si ha un significativo incremento nella liberazione di LTB4 ed IL-8; le defensine e l’elastasi neutrofilica agiscono sinergicamente determinando un ulteriore incremento della liberazione extramacrofagica di LTB4 ma non di IL-8; l’aggiunta di a1antitripsina è in grado di prevenire completamente l’aumento dell’LTB4 27. Altra proprietà delle a-defensine è quella di ridurre i livelli di glutatione nelle cellule delle vie aeree31. Il glutatione è un potente antiossidante presente nel polmone e contrasta gli agenti ossidanti endogeni ed esogeni. La riduzione, indotta dalle HNP, del glutatione potrebbe determinare un aumento della suscettibilità delle cellule epiteliali ai danni indotti dagli agenti ossidanti, come è evidenziato dal fatto che le a-defensine e l’H2O2 interagiscono in modo sinergico portando alla lisi cellulare32,33. Diversi studi hanno mostrato che nei polmoni di pazienti con malattie mediate dall’azione dei neutrofili come la Bronchite Cronica Ostruttiva (COPD) ci sono segnali di un incremento dello stress ossidativi e di una riduzione delle capacità antiossidanti34; le defensine potrebbero contribuire a determinare questo squilibrio riducendo i livelli di glutatione nelle cellule epiteliali delle vie aeree. In una grande varietà di malattie infiammatorie polmonari in cui sono coinvolti i neutrofili, compresa l’asma, è stato evidenziato un aumento della permeabilità e del danno dell’epitelio e questo è stato attribuito alla azione delle proteinasi; in realtà anche le defensine potrebbero contribuire al danneggiamento delle cellule epiteliali delle vie aeree e questo è supportato da studi in vitro che hanno messo in evidenza come le HNP in concentrazioni che sarebbero rilevanti in vivo causano la lisi delle cellule epiteliali delle vie aeree. Secondo alcuni autori le a-defensine avrebbero un ruolo nella patogenesi dell’asma ed in particolar modo dell’iperreattività bronchiale. Durante l’esacerbazioni dell’asma vi sarebbe un numero aumentato di neutrofili nelle secrezioni delle vie aeree. Inoltre è stato evidenziato che le proteine cationiche sarebbero associate all’iperreattività bronchiale e poiché le defensine sono la più abbondante proteina cationica presente nei neutrofili, è stato suggerito che le defensine potrebbero contribuire all’iperreattività delle vie aeree; questo sarebbe avvalorato dal fatto che le defensine incrementerebbero il rilascio di istamina da parte delle mastcellule26. Un recente studio ha evidenziato che le HNP svolgono un ruolo di regolazione della risposta infiammatoria svolgendo una azione antichemotattica nei confronti dei leucociti polimorfonucleati, impedendone una ulteriore migrazione nella stessa sede di infiammazione35. L’HNP-1 sembra essere coinvolta nell’uccisione di micobatteri tubercolari da parte dei neutrofili; uno studio ha dimostrato che i neutrofili di soggetti sani era capace di uccidere entro un’ora i micobatteri in coltura con una media del 40%, che aumentava, se i neutrofili venivano trattati con TNF-a, all’85% circa: tale azione citotossica era mediata dal HNP-1 come dimostrava il significativo incremento dei livelli di questa defensina all’interno dei fagosomi contenenti i bacilli36. G. Paone et al.: Defensine alfa: semplici polipeptidi antimicrobici o qualcosa di più? Le a-defensine alla concentrazione di 10-9 -10-8 M incrementano la produzione di TNF-a e di IL-1ß da parte dei monociti umani attivati, mentre a più alte concentrazioni si ha un declino dell’effetto stimolatorio instaurandosi l’attività citotossica. Quest’ultima viene soppressa in presenza di siero. Oltre a queste le a-defensine possono svolgere anche attività antinfiammatoria, in quanto inibiscono l’attivazione della via classica del complemento e la fibrinolisi; queste osservazioni potrebbero evidenziare un possibile ruolo delle defensine nei pazienti con sepsi in cui si rilevano alti livelli di HNP nel plasma. Infine a concentrazioni più basse di quelle con le quali si svolgono la maggior parte delle loro azioni proinfiammatorie, le a-defensine, in vitro, inducono la proliferazione delle cellule epiteliali e quindi potrebbero essere coinvolte in vivo nella riparazione epiteliale delle ferite26. Un recente studio ha dimostrato che alcune transferasi presenti nell’epitelio delle vie aeree sono in grado di modulare l’azione delle defensine inibendone l’atticità citotossica ma non alterando la produzione di IL-8 e la chemiotassi defensino-mediata37. Per quel che riguarda le ß-defensine è stato osservato che sia l’HBD-1 e sia l’HBD-2 sono presenti nel BAL di pazienti con fibrosi cistica e fibrosi polmonare idiopatica, ma solo l’HBD-1 si ritrova nei soggetti sani22. Questo suggerisce che l’HBD-1 è importante nella difesa dell’ospite in assenza di infiammazione, mentre HBD-2 è importante durante lo stato di infiammazione. Nei pazienti con Fibrosi Cistica l’attività dei peptidi antimicrobici, compresi HBD-1 e HBD-2, risulta attenuata nelle secrezioni delle vie aeree, a causa dell’aumento della loro concentrazione salina38. Uno studio recente ha valutato il possibile coinvolgimento delle ß-defensine nella patogenesi della infezione tubercolare: è stato evidenziato che vi è, in vitro, un incremento nell’espressione dell’HBD-2 mRNA nelle cellule epiteliali delle vie aeree infettate, a diverse concentrazioni, dal Micobatterio tubercolare, mentre i macro- 45 fagi alveolari esprimono il gene del HBD2 solo ad alte concentrazioni di micobatterio; studi di microscopia elettronica hanno confermato questo e rilevato l’aderenza dell’HBD-2 alla membrana del M. Tubercolare39. Le ß-defensine sono prodotte anche dalle cellule tumorali polmonari e in una ricerca recente è stato evidenziato che i livelli sierici di HBD-1 e HBD-2 erano significativamente più alti nei pazienti con cancro polmonare rispetto ai livelli osservati nei soggetti sani ed in quelli con polmonite40. Scoperte nei primi anni ottanta e ritenute molecole in grado di esplicare la loro azione solamente attraverso la formazione di “a bunch of holes” sulle molecole bersaglio, le defensine si sono, con il passare del tempo, arricchite di nuovi ruoli assumendo sempre più intriganti e complessi compiti nell’ambito della risposta infiammatoria sistemica e del polmone in particolare. BIBLIOGRAFIA 1. Martin E, Ganz T, Lehrer RI. Defensins and other endogenous peptide antibiotics of vertebrates. J Leukoc Biol 1995; 58: 128-36. 2. Quayle AJ, Porter EM, Nussbaum AA et al. Gene expression, immunolocalization, and secretion of human defensin-5 in human female reproductive tract. Am J Pathol 1998; 152: 124758. 3. Diamond G, Bevins CL. ß-defensin: endogenous antibiotics of the innate host defense response. Clin Immunol Immunopathol 1998; 88: 221-5. 4. Russel JP, Diamond G, Tarver AP, Scanlin TF, Bevins CL. 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INTRODUZIONE Il dolore acuto o cronico affligge decine di milioni di esseri umani e altera la qualità della loro vita fino a renderli invalidi. Esistono dolori che durano soltanto giorni: come quelli causati da traumi, postumi di operazioni, malattie che si riacutizzano; e quelli cronici, che durano mesi o anni, creando dei veri invalidi. Negli ultimi 20 anni le ricerche sui meccanismi della nocicezione e le prove cliniche nella terapia del dolore hanno stabilito che la psicologia del dolore è una componente essenziale sia nella ricerca che nella terapia. Il passaggio fondamentale nella terapia del dolore e nel ruolo dello psicologo è costituito dalla pubblicazione della Gate Control Theory di Melzack e Wall1 che ha ammesso la psicologia nel novero delle discipline basilari per comprendere il complesso fenomeno del dolore. Questa sottolineava l’importanza dell’azione inibitoria delle sensazioni non dolorose nella percezione algica. Essi suggerirono come attività cognitive quali l’attenzione, la suggestione o l’ansia possano influenzare il dolore agendo come attivanti o inibitori. Il dolore è dunque visto come un’interfaccia fra aspetti fisici, psicologici e sociali. L’applicazione pratica della teoria ha decretato la diffusione delle cliniche multidisciplinari del dolore che negli USA avevano raggiunto il numero di 825 già nel 1980. La considerazione che il dolore sia un’emozione piuttosto che una sensazione risale agli antichi greci che lo consideravano una componente emozionale dello spirito umano in contrapposizione negativa con il piacere. La storia fino alle epoche più recenti ha riportato la diatriba tra modello sensoriale del dolore e modello emozionale. La prevalenza del primo è coincisa con la mole di conoscenze scientifiche che si sono accumulate negli ultimi 100 anni che hanno contribuito a mettere in ombra gli aspetti emozionali del dolore. Il concetto unidimensionale legato alla componente sensoriale ha goduto del netto predominio fino a quando la Gate Control Theory non ha riportato le dimensioni cognitive ed emozionali sullo stesso piano di quelle sensoriali. Nell’ambito del trattamento del dolore il modello medico è stato progressivamente messo in crisi dalla ricerca psicologica sulla base dei successi diagnostici e terapeutici. Esso infatti descrive la malattia come l’espressione di un’anormalità funzionale o strutturale del corpo del paziente. La conseguenza di questo modello è di restringere il fenomeno doloroso a pura espressione sintomatica di un processo biologico. Gli psicologi 48 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 2, 2006 che si sono orientati nella ricerca secondo i parametri del modello medico hanno tentato di dimostrare che i pazienti con dolore cronico possiedono un particolare profilo di personalità. Ma ben presto si ci è resi conto che il dolore cronico sfugge ai tentativi di etichettamento ed i test di personalità non evidenziano un profilo tipico relativo ad una patologia dolorosa. La diffusione nel tempo delle metodologie dei due approcci, comportamentale e cognitivo-comportamentale, nell’ambito della terapia del dolore, è stata talmente ampia che sono le sole ad avere una gamma di ricerche sulla loro efficacia2. Per quanto riguarda il primo approccio, è interessante il contributo di Fordyce3 sull’uso delle tecniche derivanti dal condizionamento operante per la terapia del dolore cronico. Il focus passa dal sintomo del paziente al suo comportamento e a quello dei suoi familiari. Lo scopo della terapia comportamentale è di aiutare il paziente a identificare i comportamenti scorretti e modificarli anche attraverso l’aumento dell’attività generale e di quella motoria specifica. In seguito a quest’ argomentazione è stato valorizzato il lavoro di Basmajian4 che nel 1963 aveva dimostrato che si può imparare a controllare volontariamente sia l’attività muscolare che le funzioni del sistema nervoso autonomo. Le tecniche di biofeedback vengono migliorate progressivamente e ai pazienti con dolore viene insegnato ad apprendere nuove modalità di risposta psicofisiologica a stress di varia natura. Con l’evoluzione del comportamentismo si afferma sempre più prepotentemente l’importanza dei fattori cognitivi necessari per comprendere il comportamento umano. Il paziente diventa un’agente attivo della propria terapia e si tengono in considerazione, oltre che l’atteggiamento comportamentale, anche quello dei processi mentali interposti fra Stimolo e Risposta. I progressi teorici ed applicativi del nuovo approccio terapeutico favoriscono l’utilizzazione anche con problemi di dolore cronico, dove si risentiva della refrattarietà di alcune patologie alla sola terapia comportamentale. Attraverso la terapia cognitivo-comportamentale si supe- ra il limitato ambiente terapeutico e si favorisce la generalizzazione all’esterno. Il paziente apprende una serie di metodologie che hanno lo scopo di migliorare la gestione autonoma del dolore nel corso dei diversi momenti della vita quotidiana. Questo capitolo, oltre ad evidenziare le attuali ricerche e gli aspetti psicologici del dolore in fase preoperatoria e postoperatoria, vuole offrire un modello di intervento psicologico nella prassi ospedaliera. Essendo il dolore un problema multidisciplinare, si è determinata l’esigenza di creare un modello operativo di intervento anch’esso multidisciplinare,che presuppone una nuova cultura assistenziale basata sul coinvolgimento e consenso di tutti coloro che fanno parte del processo di cura (medici, infermieri, volontari, paziente e famiglia). 2. IL DOLORE ACUTO Come disse Bonica5, il dolore acuto è “una complessa costellazione di penose esperienze sensoriali, percettive ed emotive che si accompagna a risposte vegetative, psicologiche, emotive, comportamentali”. Esso è generalmente associato ad una lesione identificabile chiaramente, è generalmente di breve durata e produce reazioni di difesa e di protezione che comprendono: • alterazioni dell'umore (depressione, ansietà, paura); • atteggiamenti clinici, postura, espressioni verbali; • modificazioni del Sistema Nervoso Autonomo (alterazione della frequenza cardiaca, pressione arteriosa, resistenza elettrica cutanea, nausea, vomito, sudorazione). Dopo questa fase esso diviene causa di manifestazioni abnormi e deleterie per l'individuo (dolore infartuale, post-operatorio, post-partum). Normalmente tende a regredire con la guarigione e/o l’allontanamento dello stimolo nocivo. Le componenti psicologiche nel dolore acuto sono state ben evidenziate da Chapman6, il quale propose una concezio- P. Ciurluini et al.: Aspetti psicologici del dolore in fase pre-operatoria e post-operatoria ne multidisciplinare del dolore in cui ogni componente influenza e viene influenzata dalle altre. Le componenti in esame sono: - afferenza sensoriale nociva (l’aspetto sensoriale-discriminativo del dolore), - componente motivazionale-emozionale (che rappresenta sia l’aspetto emotivo che la capacità del soggetto di favorire azioni che portino sollievo), - dimensione concettuale-valutativa e componente socio-culturale (influenze culturali e sociali). Gli stati emozionali possono amplificare l’intensità del dolore che a sua volta può produrre intensi disagi emotivi. Tuttavia per quanto i fattori psicologici possano influenzare l’esperienza del dolore acuto, esso non è mai determinato, salvo rare eccezioni, da componenti primariamente psichiche od ambientali. Dobbiamo distinguere tra il dolore "sintomo" e il dolore "malattia". Quando il dolore diventa esso stesso l’aspetto predominante di un quadro clinico si parlerà di dolore malattia. Dopo un intervento chirurgico il dolore è da considerarsi malattia perché ci avverte di un danno tissutale che ben conosciamo apportando solo ulteriore sofferenza. Nelle malattie neoplastiche il sollievo dal dolore è uno degli aspetti principe del trattamento terapeutico. 3. REAZIONI AL DOLORE Il dolore è la manifestazione di un conflitto che esprime una rottura, che l’organismo non riesce a superare. Quindi espressione di un bisogno di ricerca di un nuovo equilibrio. 3.1 ANSIA La caratteristica più importante del dolore acuto, ed in particolare del dolore postoperatorio, deve addebitarsi all’ansia. L’intervento chirurgico è considerato tra- 49 dizionalmente una proceduta cruenta fortemente stressogena. Diversi studi, condotti su persone adulte, confermano che l’evento chirurgico rappresenta una minaccia fisica e psichica, con conseguente aumento dei valori dell’ansia fino al giorno dell’intervento stesso, che poi scendono gradualmente sino a stabilizzarsi su valori ritenuti normali. Un elevato grado d’ansietà agisce influenzando spesso lo stato psicologico dei pazienti ed incidendo sfavorevolmente sul buon decorso postoperatorio. 3.1.1 FASE PRE-OPERATORIA L’ansia preoperatoria è relativa all’ansia di attesa di un qualcosa che non si conosce e, proprio per questo, si teme ancora di più. Tutto il periodo antecedente all’operazione è vissuto nell’ambito del ricovero ospedaliero, con una serie di esami di routine che introducono al giorno prestabilito per l’intervento. All’ansia si accompagnano tutta una serie di paure che spesso sono strettamente collegate a pregiudizi culturali, all'apprendimento diretto o per modellamento che contribuiscono ad alzare il livello di incertezza. I rapporti interpersonali precedenti all’operazione sono fatti di comunicazioni monotematiche sia con i familiari che con altri pazienti. In più possono aggiungersi preoccupazioni a) di tipo affettivo nei riguardi dei familiari, b) logistiche per la distanza dall’ospedale e le difficoltà di spostamento, c) lavorative per l’assenza dal posto di lavoro e per il dubbio di poter riprendere l’attività in tempi brevi o addirittura di perdere l’impiego, d) economiche perché il fermo momentaneo ha comportato una serie di spese non indifferenti a fronte di una carenza di ricavi, progettuali in relazione al dubbio di poter effettivamente raggiungere gli obiettivi proposti. Le paure principali sono superficialmente legate all’esito dell’operazione e all’anestesia, ma in profondità aleggia la paura della 50 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 2, 2006 morte. Nonostante ci sia fiducia nello staff medico, la probabilità che l’operazione non funzioni perfettamente o che possano esserci delle complicazioni turba in modo quasi ossessivo il paziente che pesca nella sua memoria tutti i racconti e le informazioni a sostegno di questa ipotesi negativa. L’anestesia è vissuta da molti pazienti come una tecnica capace di far perdere il controllo della coscienza, di far dire cose inopportune, di perdere la consapevolezza di quanto stia avvenendo, di perdere il controllo delle proprie facoltà mentali. Inoltre la capacità di anticipare il dolore è stata rilevata sia nella ricerca che nella clinica. I soggetti sperimentali che si attendono di ricevere delle stimolazioni dolorose hanno un atteggiamento ansioso o di stress che tende ad anticipare l’evento effettivo, in tal caso si parla di ansia anticipatoria. Un effetto ansiogeno legato ai timori rispetto all’anestesia è la paura di perdere il controllo. Si tratta di una paura che il paziente tenta di ridurre aumentando il controllo stesso e ponendo una resistenza psicologica all’abbandono ai farmaci anestetici. Questo tipo di strategia produce un’ansia che si esaspera al risveglio, quando si ha paura di dire sciocchezze o di averne dette durante l’anestesia. 3.1.2 FASE POST-OPERATORIA L’ansia che interviene dopo l’operazione può essere causata da tre fattori principali: - il primo è lo spavento come reazione al dolore che insorge non appena scompare l’effetto dell’anestesia; - il secondo è l’insicurezza. Il paziente non sa che cosa aspettarsi dopo l’intervento anche se aveva fatto delle previsioni. La realtà è composta di sensazioni strane e dolorose; - il terzo è l’incapacità a fronteggiare la nuova situazione per la quale deve dipendere da qualche personaggio esterno come il medico o l’infermiere. Questi tre fattori interagenti aumenta- no il livello d’ansia e, di conseguenza, innescano un circolo vizioso che abbassa la soglia del dolore aumentandone la percezione. Nel 1958 Janis aveva elaborato un modello curvilineo dei rapporti tra livelli di ansia pre-operatori e post-operatori. Secondo questo modello un livello moderato di ansia prima dell’operazione chirurgica predice un recupero post-operatorio soddisfacente mentre livelli troppo bassi o troppo elevati peggiorano l’impatto con l’intervento. Prima dell’intervento il paziente aumenta il proprio livello di attivazione emozionale ed inizia a svolgere quello che Janis ha definito “compito di preoccuparsi” cioè una vera e propria preparazione psicologica rispetto agli agenti stressanti. Invece pazienti con un accentuato atteggiamento difensivo non hanno ansia preoperatoria e risultano impreparati rispetto agli stress favorendo un recupero postoperatorio difficoltoso. Queste caratteristiche non sono state confermate da ricerche successive. Molti studi hanno evidenziato una correlazione lineare positiva tra l’ansia preoperatoria e l’ansia postoperatoria, pertanto a bassi livelli di ansia preoperatoria corrispondono bassi livelli di ansia postoperatoria, mentre ad alti livelli iniziali corrispondono anche livelli finali elevati. 3.2 VARIABILITÀ INDIVIDUALE E FATTORI DI RISCHIO NELL’INSORGENZA DEL DOLORE I meccanismi di percezione del dolore sono tutt’altro che semplici in quanto bisogna considerare il contributo di caratteristiche quali: paura, ansia, depressione, personalità del paziente, background culturale, apprendimento, locus of control, aspettative sull’esperienza dolorosa, suggestionalità. Anche le manifestazioni del dolore sono diverse da individuo a individuo a causa di fattori culturali, educativi, cognitivi ed emozionali come hanno evidenziato Mamie et al.7 (tabella n. 1). C’è una variabilità interindividuale nella soglia di tolleranza della sofferenza P. Ciurluini et al.: Aspetti psicologici del dolore in fase pre-operatoria e post-operatoria 51 Tabella 1. - Fattori di rischio potenziali rilevati mediante un questionario somministrato in fase preoperatoria FATTORI SOCIALI FATTORI MEDICI FATTORI PSICOLOGICI genere età educazione origini occupazione condizione sociale nazionalità n.ro di fratelli e sorelle n.ro dei componenti della famiglia famiglia con problemi di dolore tossicomania trattamento medico corrente consapevolezza della diagnosi chirurgica trauma chirurgico durata delle procedure tipo di medicazione tecniche anestetiche n.ro dei giorni di ospedalizzazione precedenti all’intervento storia di eventuali problemi avuti in passato con l’anestesia storia di eventuali interventi chirurgici avuti in passato problemi con l’alcool nella storia familiare procedure chirurgiche mentalizzate relazione con il chirurgo relazione con l’anestesista livello di soddisfazione per l’informazione ricevuta dal chirurgo livello di soddisfazione per l’informazione ricevuta dall’anestesista relazione con gli infermieri livello di soddisfazione per le pratiche ospedaliere ansia relativa all’intervento preoccupazione per i possibili effetti collaterali dell’operazione qualità del sonno abituale qualità del sonno nelle 2-3 notti precedenti l’intervento stili di coping livello di dolore pre-operatorio livello di depressione Conoscenze generali sul dolore: aspettativa del livello di dolore dopo le procedure chirurgiche paura in fase preoperatoria del dolore postoperatorio conoscenza e fiducia nel trattamento del dolore precedenti trattamenti del dolore postoperatorio e loro efficaci. Informazione postoperatoria: (nei tre giorni successivi all’operazione): valutazione di dolore a riposo dolore durante le crisi di tosse efficacia dell’analgesia tempo trascorso dopo l’intervento tempo trascorso dall’ultima somministrazione di analgesia nel momento della valutazione quantità e tipo di analgesia stabilita complicazioni dell’anestesia Mamie et al. Acta Anaestesiol Scand 2004; 48: 234-242 52 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 2, 2006 fisica e nella quantità di oppio di cui si ha bisogno per placarla, che nel caso del dolore postoperatorio, è dovuta da tali fattori sono: - il profilo psicologico del paziente, gli eventuali disturbi psichici e le sue caratteristiche fisiche; - le esperienze precedenti di dolore, il ricordo del dolore ed il contesto in cui si è verificato. - la tecnica e la sede di intervento; - la preparazione preoperatoria comprendente aspetti fisici, farmacologici e psicologici; - l’eventuale insorgenza di complicazioni relative all’intervento; - la tecnica anestesiologica; - la qualità dell’assistenza postoperatoria8. Molte ricerche suggeriscono che ci sono molti fattori che influenzano l’intensità e la gravità anche del dolore cronico, come le differenze interetniche e culturali,le esperienze di dolore vissute durante l’infanzia, il profilo psicologico dei pazienti, il livello socio-economico, l’ambiente familiare, e le strategie di coping9. L’influenza dei fattori di rischio sul dolore postoperatorio è stata studiata in gruppi di pazienti, mediante metodologie psicologiche sofisticate10. 3.2.1 ANSIA, DEPRESSIONE, AGGRESSIVITÀ Per quanto riguarda la prima classe di fattori uno studio ha valutato i fattori comportamentali e psicologici che possono essere considerati predittivi di un maggior livello di dolore sofferto in fase postoperatoria; il disturbo cronico del sonno risulta essere un fattore significativo poichè associato ad una maggiore intensità del dolore postoperatorio. Tale sintomo, semplice da valutare ma non ancora del tutto esaminato, dovrebbe essere preso in considerazione per avviare un tipo di trattamento analgesico postoperatorio efficace11. I disturbi del sonno possono riflettere un certo tipo di profilo psicologico, ansioso o depresso; inoltre i risultati mostrano anche una relazione tra dolore cronico preo- peratorio e intensità del dolore postoperatorio; difficoltà croniche del sonno potrebbero essere la conseguenza di dolore cronico e la relazione tra dolore cronico e depressione è ben documentata. Esiste anche una relazione diretta tra dolore e depressione, ansia, aggressività. Mentre appare chiaro che c’è una relazione tra depressione e dolore, resta da esaminarne la natura ed il grado. Romano e Turner12 rivisitarono la letteratura su questo argomento e trovarono conferme alle seguenti ipotesi: - la depressione scatena o peggiora il livello di dolore aumentando la sensibilità causando l’abbassamento della soglia di tolleranza del paziente al dolore stesso; - il dolore diviene una conseguenza della depressione in pazienti con certe disposizioni; - il dolore può agire anche da stressor causando un disturbo depressivo; - dolore e depressione possono occorrere simultaneamente, ma sono correlate solo perchè vi sono coinvolti simili meccanismi psicologici e/o biologici. Inoltre recentemente è stato portato a termine un altro studio13, in cui è stato dimostrato che i sintomi depressivi hanno un certo peso nei pazienti con ernia al disco: è stata rilevata una chiara divisione della popolazione in due sottogruppi: soggetti con alti livelli di dolore e sintomi depressivi rilevanti, e pazienti con bassi livelli di dolore e per nulla o poco depressi. La depressione in fase preoperatoria è risultata essere un fattore importante e che in qualche modo condiziona lo stato di salute dopo l’intervento. È ben chiaro che sono necessarie ulteriori ricerche. L’aggressività è un altro stato affettivo che può essere correlato al dolore, ed è stato scoperto che in base agli stili di inibizione dell’aggressività di un paziente, si può predire l’intensità del dolore manifestato. La repressione dell’aggressività è stata anche connessa al verificarsi della depressione in generale, in particolar modo in pazienti con dolore14; comunque sarebbero utili ulteriori ricerche e delucidazioni sulla natura di tale legame. Pilowsky15 ha proposto un modello per P. Ciurluini et al.: Aspetti psicologici del dolore in fase pre-operatoria e post-operatoria spiegare l’interrelazione tra ansia e depressione e dolore sia cronico che acuto. Egli ha suggerito che l’ansia potrebbe essere una caratteristica tipica del dolore acuto, mentre la depressione tipica del dolore cronico, notando che i sintomi connessi al dolore acuto sono simili all’ansia mentre i sintomi del dolore cronico ricordano maggiormente la depressione. C’è un numero crescente di evidenze empiriche che dimostrano che la misura della sensazione di dolore nei pazienti è correlata con l’ansia. In uno studio16, ad esempio, il 36% di dolore in pazienti chirurgici potrebbe essere predetto dall’esame dei loro tratti psicologici, come l’autoregolazione, la paura e l’ansietà. La percezione della gravità dell’evento negativo è alterata in quegli individui con predisposizione ad essere ansiosi, ovvero lo stato d’ansia è accresciuto negli individui caratterizzati da un elevato tratto d’ansia. 3.2.2 “LOCUS OF CONTROL” Importanti per valutare la reazione al dolore acuto, sono anche i fattori di controllo. Questi non sono solo relativi alla paura di perdere il controllo della coscienza, di dire cose inopportune, di perdere la consapevolezza di quanto stia avvenendo, di smarrire il controllo delle proprie facoltà mentali. Esiste anche un controllo di tipo attivo sulla capacità personale di venire fuori bene dall’operazione, o sulla fiducia allo staff medico o sul caso e la fortuna che può assistere il paziente. La nozione di Locus of Control è stata introdotta da Rotter17 per descrivere uno stile attribuzionale che si sviluppa tra due polarità: interno ed esterno. Per locus of control interno si intende la credenza che gli eventi rinforzanti siano dipendenti dal proprio comportamento, mentre il locus of control esterno si riferisce alla convinzione che le conseguenze del comportamento dipendano da fattori come il destino, la fortuna, Dio o il potere di altri. L’attribuzione interna o esterna della causa e del controllo del dolore, condizionano grandemente l’esperienza del dolore, l’evoluzione 53 prognostica e la risposta terapeutica; è stato dimostrato che pazienti con locus of control interno più elevato tollerano più facilmente il loro dolore18. Sul piano specifico del dolore postoperatorio gli studi relativi alla chirurgia orale hanno evidenziato che i pazienti che si esprimono con un controllo interno recepiscono meglio le informazioni specifiche sull’operazione, mentre i pazienti a controllo esterno beneficiano maggiormente di informazioni generiche. Nonostante queste evidenze le ricerche sul locus of control non sono riuscite a stabilire una correlazione chiara e statisticamente significativa fra questo costrutto e l’ansia e il dolore postoperatorio. 3.2.3 STRESS E COPING Centrale nell’esperienza di stress psicologico è il processo di valutazione cognitiva, che riguarda l’esame delle varie situazioni e la valutazione delle loro possibili implicazioni sul proprio benessere, determinando il modo in cui lo stress è vissuto. Più precisamente si parla di modalità di coping in riferimento ai pensieri e comportamenti a cui le persone ricorrono per gestire le situazioni stressanti e, in questo caso, il dolore o le reazioni emotive ad esso correlate. Esistono delle differenze individuali nell’affrontare le situazioni stressanti, per cui anche nel caso del dolore postoperatorio bisogna considerare la preferenza individuale e l’efficacia delle personali strategie di coping, ai fini della selezione di un trattamento efficace e adatto alla persona. Il coping assume dunque un fattore di mediazione importante nella relazione tra eventi di stress e l’adattamento fisico e psicologico. Secondo Lazarus e Folkman19 è definito come “un costante cambiamento cognitivo e sforzo comportamentale nella gestione delle richieste esterne ed interne sulla base delle risorse della persona”. Letteralmente coping significa “cavarsela”, “affrontare con successo”. Lo stile di coping risulta in altre parole fondamentale nel determinare le differenze individuali di reazione psicologica al dolore. Tali processi possono essere: 54 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 2, 2006 - focalizzati sul problema: il soggetto compie azioni per fronteggiare l’evento stressante, - o focalizzati sull’emozione: il soggetto fa dei tentativi per regolare una risposta emotiva allo stress. I pazienti possono ad esempio ricorrere alla negazione, ovvero interpretare diversamente la situazione senza cambiarla realmente, possono cercare informazioni sull’evento stesso, o evitare, modificare o minimizzare l’impatto di una situazione, riducendo perciò il grado per il quale è valutato come stressante. Nella pratica clinica l’intervento di tipo cognitivo è orientato a modificare l’approccio soggettivo e l’interpretazione degli eventi che influenzano negativamente la percezione e la risposta del dolore. Quindi un obiettivo delle tecniche cognitive è quello di modificare gli stili di coping del paziente per promuovere una reazione migliore alla fase di dolore, aumentare la soglia e la tolleranza al dolore stesso e diminuire i pain behaviors. Turk20 ha classificato le strategie cognitive che le persone impiegano per controllare il dolore in sei categorie, che sono: - la disattenzione immaginativa, che consiste nell’immaginare una scena incompatibile con l’esperienza di dolore; - la trasformazione immaginativa del dolore in cui le sensazioni dolorifiche vengono interpretate come qualcosa di diverso dal dolore; - la trasformazione immaginativa del contesto dove viene modificata la collocazione in cui sono percepite le sensazioni nocive; - la deviazione dell’attenzione verso l’esterno, chiede al soggetto di focalizzarsi sulle caratteristiche fisiche dell’ambiente; - la deviazione dell’attenzione verso l’interno, cioè verso i pensieri autogenerati; - la somatizzazione, che consiste nel concentrarsi sulla parte del corpo interessata al dolore, ma con un atteggiamento distaccato. Altri fattori che possono influenzare la riuscita includono l’efficacia percepita e il coinvolgimento del soggetto. 3.2.4 ATTENZIONE L’attenzione aumenta la sensibilità al dolore attraverso un orientamento selettivo dei recettori sensoriali verso un unico stimolo. Questo concetto ha avuto una serie di conferme soprattutto dalle ricerche di neurofisiologia che hanno paragonato i processi sensoriali con il funzionamento del computer. Per entrambi ci sono processi in serie e processi in parallelo. L’attenzione possiede un meccanismo di selezione e uno di riflessione che consentono la scansione delle mappe sensoriali e operano estrazioni da ogni sede. La selezione avrebbe lo scopo di filtrare alcune caratteristiche dello stimolo in arrivo per poterne fare un’ulteriore elaborazione. Nel campo del dolore la selezione può riguardare l’intensità o la durata dello stimolo nocicettivo mentre la riflessione ha un ruolo interpretativo e valutativo degli schemi sensoriali. 3.2.5 FATTORI DI APPRENDIMENTO Il mancato apprendimento di strategie specifiche rispetto alle stimolazioni nocicettive e alla difficoltà nel discriminare fra i pericoli importanti e quelli meno importanti incide pesantemente sulla percezione del dolore acuto. I tre modelli essenziali dell’apprendimento spiegano queste assunzioni in modo sperimentale. Il condizionamento classico (CC) o rispondente ha un grandissimo valore di adattamento per qualsiasi tipo di organismo, perché permette di imparare ed eliminare una grande quantità di risposte in rapporto alle richieste di un’ambiente in continua modificazione. Nel dolore acuto sono molto frequenti gli apprendimenti determinati da un condizionamento classico. Il condizionamento operante (CO) si basa sul concetto del rinforzo; un comportamento aumenta notevolmente la probabilità di essere ripetuto se ha subito dei rinforzi sia negativi che positivi. Il rinforzo del comportamento disadattivo provoca una sua frequenza e durata maggiore. Il paradigma del CO ha trovato una P. Ciurluini et al.: Aspetti psicologici del dolore in fase pre-operatoria e post-operatoria vasta applicazione nella diagnosi e nella terapia del dolore cronico benigno ed è alla base del trattamento multidisciplinare nelle pain clinics. Il modeling consiste nell’osservazione dell’esperienza fatta da altri per il processo di ordinamento degli stimoli ambientali. L’osservazione del comportamento da dolore espresso da altre persone ha importanti implicazioni nel trattamento del dolore acuto. Se ad esempio la sala da attesa dell’ambulatorio è molto vicina al luogo preciso in cui vengono poste in atto medicazioni o trattamenti dolorosi, il paziente può apprendere la risposta al dolore semplicemente per modellamento delle risposte verbali o uditive di altri che stanno sperimentando il dolore. Oppure la vista dell’espressione del volto del paziente che esce dall’ambulatorio fa capire e imparare rapidamente quale sia la consistenza dolorosa e quali siano le risposte comportamentali in relazione al trattamento. 3.2.6 ASPETTI CULTURALI Grandi differenze culturali determinano atteggiamenti e reazioni diverse nei confronti del dolore. Tale osservazione è stata supportata da diversi studi, quali una famosa ricerca di Zborowski nel 1969. Egli studiò quattro gruppi di pazienti ricoverati presso un ospedale di New York rilevando considerevoli differenze tra italiani, ebrei, irlandesi e americani di antica immigrazione. Risultò che gli americani e gli irlandesi avevano un atteggiamento riservato nei confronti del dolore, tendendo ad isolarsi socialmente. Gli italiani e gli ebrei, invece, si lamentavano ad alta voce manifestando la loro sofferenza con gemiti e pianto. Gli atteggiamenti dei due gruppi sembravano comunque diversi: mentre gli ebrei si preoccupavano di comprendere il significato del proprio dolore e le sue implicazioni, gli italiani esprimevano chiaramente il loro desiderio di un’immediata liberazione dalla sensazione sgradevole. Pertanto, è da ritenersi altamente probabile che le differenze significative nell’espressione e nella comunica- 55 zione del dolore, siano da ricondursi alle conseguenze del modellamento e del condizionamento effettuato in età infantile dalla famiglia, che a sua volta è espressione di un concetto di dolore comune al gruppo etnico o razziale di appartenenza21. Per diversità culturale però si intendono anche quelle relative alla nostra nazione. Le evidenze cliniche insegnano che le letture di ‘eventi critici’ sono estremamente differenziati da regione a regione e non solo da nazione a nazione. 3.2.7 ALTRI FATTORI RILEVANTI La letteratura sull’incidenza dei fattori genere ed età presenta dati controversi. Ad esempio Thomas et al.22 condussero uno studio e conclusero che soggetti di giovane età, di genere femminile e con alto livello di dolore sofferto in fase preoperatoria percepiscono un dolore più acuto in fase postoperatoria, però questo modello non è stato ancora validato. Studiando pazienti con crisi di tosse in fase postoperatoria, è stato anche rilevato che il tipo di intervento a cui i pazienti vengono sottoposti, è un fattore fortemente influente che deve quindi essere considerato nel momento in cui si scelgono le dosi di trattamento analgesico23. Determinanti sono anche la durata dell’intervento chirurgico e del trattamento del dolore postoperatorio., oltre che da una differente compliance del paziente agli interventi di terapia medica. Essa diminuisce anche in presenza di una forte credenza della natura misteriosa del dolore. La storia familiare di dolore risulta essere un altro fattore di rischio riconosciuto del dolore acuto, e ciò suggerisce l’esistenza di basi genetiche nell’intensità di dolore provato in fase postoperatoria24. Un ulteriore elemento è costituito dal contesto in cui viene vissuta l’esperienza dolorosa. La situazione dell’ammalato con dolore postoperatorio è pervarsa da risvolti emotivi di stanchezza, ansia, sensazioni di impotenza, convivenza con tutti i problemi legati al dolore. Questi elementi hanno una rilevanza fondamentale non solo nella percezione del dolore, ma nel 56 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 2, 2006 renderla tollerabile, vivibile, influenzando anche le capacità del paziente di reagire al dolore. L’ambiente ideale è costituito da una situazione il più possibile isolata da interferenze esterne, dove il soggetto è posto in condizioni di tranquillità. Inoltre emerge un nesso tra dolore riferito ed esperienze affettive emozionali durante il ricovero in ICU. Coloro che hanno vissuto l’esperienza postoperatoria intensivistica come fonte di ansia e di coinvolgimento emotivo tendono a ricordare più spesso il dolore, in contrapposizione a coloro nei quali l’esperienza in ICU è stata fonte di disagio e di limitazioni fisiche. I soggetti ansiosi riportano al follow-up un dolore maggiore di quello riferito dopo la procedura25. 4. CONSEGUENZE DEL DOLORE POSTOPERATORIO Il dolore, se non adeguatamente trattato, può avere indesiderabili conseguenze psicologiche e fisiologiche, come un ritardato ricovero, un ritorno tardivo alla vita di tutti i giorni,e la diminuzione del senso di soddisfazione del paziente. La mancanza di un adeguato trattamento del dolore postoperatorio può causare dolore cronico dopo l’intervento, che è spesso poco considerato, ed accresce l’ansia e le preoccupazioni per la propria salute. In uno studio26 è stata valutata l’influenza dell’acutezza del dolore post-operatorio sul livello della Qualità di Vita Relativa alla Salute (HRQL) nella fase immediatamente postoperatoria. Anche se gli effetti del dolore postoperatorio e delle cure analgesiche sull’HRQL sono poco chiari, ottimizzare la cura analgesica postoperatoria, in parte attraverso il controllo del dolore postoperatorio, minimizzando gli effetti collaterali relativi all’intervento (funzione cognitiva) o facilitando la convalescenza dei pazienti, può teoricamente migliorare l’HRQL. Dallo studio è emerso che l’intensità del dolore postoperatorio è correlata con un peggioramento nelle componenti sia fisiche che mentali nel periodo immediatamente successivo all’intervento chirurgi- co. Invece la gravità degli effetti collaterali analgesici non sembra che influenzino gravemente né le componenti fisiche né quelle mentali. Ci sono molti disturbi o complicazioni fisiologiche che possono verificarsi nel periodo immediatamente postoperatorio che potrebbero interferire con la durata e la qualità del ricovero del paziente.; sintomi significativi di stress (dolore, fatica,nausea e vomito), sono frequenti nel periodo postoperatorio e possono quindi riflettersi in un peggioramento dell’HRQL, mediante effetti negativi nelle componenti fisiche, cognitive e sociali. 5. VALUTAZIONI PSICOMETRICHE Il dolore è un fenomeno complesso, soggettivo e percettivo, per cui non può essere quantificato obbiettivamente. Di conseguenza, la sua valutazione dipende dall’espressa comunicazione sia verbale che comportamentale del paziente. Data la complessità del dolore, bisogna valutare non solo la componente somatica (sensitiva) ma anche l’umore del paziente, i suoi atteggiamenti, il modo in cui fa fronte al suo dolore, le sue risorse, le risposte da parte dei familiari e l’impatto del dolore sulla loro vita. L'entità della valutazione varia con le diverse circostanze. Nelle situazioni cliniche acute, e in particolare nella fase postoperatoria, si dovrà avere più attenzione verso l'intensità, la sede e le caratteristiche temporali della componente sensoriale del dolore. Per i pazienti con dolore cronico-ricorrente, invece, maggior attenzione potrà essere riservata alla gamma dei fattori psicosociali e comportamentalì. Il processo di valutazione può aiutare a determinare come i fattori biomedici, psicologici e sociali interagiscono per influenzare natura, gravità e persistenza del dolore e della invalidità. A tale scopo, inconcomitanza con i colloqui clinici, sono molto utilizzati strumenti psicometrici mediante: a) somministrazione di questionari o scale specifici per la valutazione del dolore acuto o cronico; P. Ciurluini et al.: Aspetti psicologici del dolore in fase pre-operatoria e post-operatoria b) somministrazione di test o scale per valutare gli altri fattori connessi al dolore, sia in fase pre-operatoria che postoperatoria (ansia, depressione, aggressività,..); c) valutazione delle espressioni di dolore; d) somministrazione di questionari sulla qualità della vita. È importante sottolineare che tali valutazioni non sostituiscono la dimensione di rapporto con il paziente, ma la integrano. Verrà fatta una breve descrizione degli strumenti maggiormente utilizzati: a) Tra i numerosi e semplici metodi che permettono di determinare l'intensità del dolore ricordiamo: scale analogiche visuali (VAS), scale numeriche (NRS), scale descrittive di valutazione (VRS) e altri tipi di scale come cromatiche o a quadretti. La Visual Analogue Scale (VAS), di Scott-Huskisson27 è il test più conosciuto e maggiormente usato e misura il livello di dolore percepito. Esso è costituito da un segmento lungo 10 cm, dove un’estremità corrisponde ad “assenza di dolore”, e l’altra al “più forte dolore immaginabile”. Ai pazienti viene spesso chiesto di quantificare il dolore tramite un’unica stima generale: "Qual è il suo livello di dolore: lieve, moderato o severo?" e loro devono segnare sulla linea il loro livello di dolore attuale. La VAS può essere usata in posizione orizzontale o verticale. In alcune circostanze viene chiesto al paziente di quantificare e di dare una media del suo dolore retrospettivamente. Il dolore, però, tende a variare col tempo e con le diverse attività. In più, le stime del dolore usuali tendono a prendere, come punto di riferimento, il dolore in atto. Perciò, chiedendo del dolore tipico o usuale questo può non riflettere la severità del dolore nel tempo. Informazioni più valide si possono ottenere con domande sul dolore corrente. Tra le scale numeriche, quella a maggior impiego clinico è stata proposta da Sternback28; essa richiede al paziente di graduare il proprio dolore in una scala da 0 a 100, dove per 0 si intende “nessun do- 57 lore” e per 100 “il più forte dolore immaginabile”. Tali strumenti risultano di semplice applicazione e di facile impiego. Le Verbal Rating Scales di Houde e al.29 sono molto utili per interpretare alcuni aspetti del dolore; esse devono essere adattate all’età, il linguaggio, l’educazione e lo stato cognitivo dei pazienti. Per il dolore acuto le VRS, offrendo ai pazienti una lista di parole da scegliere che meglio descrivono l’intensità del loro dolore, provvedono un semplice e rapido metodo di valutazione del dolore chirurgico. Per la loro semplicità, questi strumenti potrebbero essere più adatti per pazienti anziani o con lievi deficit cognitivi. I limiti di queste scale consistono nel fatto che esse hanno un approccio unilaterale alla valutazione del dolore omettendo importanti fattori che invece vi sono inclusi e che possono aumentare o diminuire l’intensità o durata del dolore (cambiamenti cognitivi o comportamentali, disturbi del sonno o alimentari,frustrazione, comportamenti agitati e aggressivi, ritiro dalla famiglia e dagli amici, inattività…). Lo strumento di valutazione del dolore usato più frequentemente è il Mc Gill Pain Questionnaire (MPQ) di Melzac e al30. Si propone di valutare la qualità e la quantità di dolore relativamente a tre dimensioni: sensoriale-discriminativa, motivazionale-affettiva e cognitiva-valutativa. Questo test supera i limiti delle Scale di Valutazione in quanto offre una misura più precisa del dolore, fornendo una grande quantità di informazioni, ma richiede molto più tempo per essere completato (15-30 minuti). Per tal motivo potrebbe essere considerato intempestivo e inopportuno per valutare il dolore acuto, mentre più adatto per valutare il dolore cronico. La sua attendibilità e validità è stata ampiamente dimostrata. È una lista di 102 aggettivi che descrivono vari aspetti del dolore e può essere usata dal soggetto stesso come autovalutazione o da un intervistatore esterno; l’ MPQ è composto da tre parti che includono una scala descrittiva (Intensità del Dolore Attuale) con numeri che corrispondono ognuno ad uno di cinque aggettivi: 1 (lieve), 2 (spiacevole), 3 58 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 2, 2006 (stressante), 4 (tremendo), 5 (insopportabile). Una seconda parte include un disegno frontale e dorsale di un corpo umano sul quale il paziente indica la sede del suo dolore. La terza parte è un indice di stima del dolore che si basa su una selezione di aggettivi provenienti da venti categorie che riflettono le componenti sensoriali, affettive e cognitive del dolore. Esiste una versione ridotta della scala che consiste in 15 aggettivi rappresentanti le dimensioni sensitive e affettive del dolore, ognuno dei quali va da 0 (niente) a 3 (severo)5. b) Valutazioni psicometriche degli affetti connessi al dolore: Spielberger e coll.31 nel 1970 hanno proposto il modello dell’ansia di stato e ansia di tratto che ha trovato una quantificazione nello specifico test State-Trait Anxiety inventory S.T.A.I.. È il test più usato per misurare l’ansia, associata frequentemente al rischio di dolore più intenso. Si compone di due brevi subtest (20 items ognuno), a ciascuno dei quali si risponde su una scala a quattro livelli d’intensità. Il subtest X-1 si riferisce allo stato d’ansia nel momento in cui il test viene somministrato ed è stato costruito scegliendo items che ottenevano punteggi medi in una situazione stressante e punteggi medi più bassi in una situazione di rilassamento. Il subtest X-2 misura l’ansia come tratto, cioè la tendenza del soggetto a produrre reazioni ansiose in condizioni specifiche. Punteggi = o >40 sono considerati clinicamente significativi. Molte ricerche hanno confermato una adeguata attendibilità e validità di questo strumento grazie alle sue eccellenti qualità psicometriche. Esso è semplice da usare e generalmente richiede meno di 5 minuti per completarlo, inoltre è facile da siglare. L’Amsterdam Pre-operative Anxiety and Information Scale (APAIS) di Moerman e al.32 comprende sei domande (a ciascuna delle quali si risponde su una scala Likert a 5 livelli d’intensità), ed è stato costruito specificatamente per stimare il punteggio dell’ansia preoperatoria (che va da 4 a 20) e un valore del bisogno dei pazienti di informazioni riguardanti l’intervento chirurgico programmato e l’anestesia (il cui range va da 2 a 10). Lo State-Trait Anger Expression Inventory (STAXI) di Spielberger33 comprende 44 items, divisi in 6 scale e due sottoscale che misurano l’aggressività di tratto e di stato. Sono stati riportati dati a conferma della validità ed attendibilità di questo test. La Self-Rating Depression Scale (SDS), di Zung34 è costituita da 20 items che valutano i differenti sintomi della depressione, come ad esempio: umore depresso, sensi di colpa, perdita di appetito, disturbi del sonno. Il punteggio totale è compreso tra 20 (assenza di depressione) e 80 (Depressione Maggiore). Il valore cut-off è 35, in quanto indica la presenta di rilevanti sintomi depressivi. Il Beck Depression Inventory di Beck e altri35 è tra i questionari brevi il più largamente diffuso. Si compone di 21 items descrittivi di sintomi e atteggiamenti presenti in pazienti depressi. L’assunto di base è che il numero, la frequenza e l’intensità dei sintomi siano direttamente correlati con la profondità della depressione. c) Valutazioni delle espressioni di dolore I pazienti mostrano un ampio spettro di reazioni - alcune controllabili, altre no, che indicano dolore, angoscia e sofferenza. Tra le manifestazioni chiare di dolore vi sono i cosiddetti “comportamenti da dolore”. I comportamenti da dolore e l'autovalutazione del dolore sono correlabili in maniera significativa. Oltre ad essere associati con il dolore, i comportamenti da dolore sono significativi di per sé stessi sia perchè osservabili sia perché elicitano risposte dagli altri. Vari supporti possono mantenere questi comportamenti (ad esempio, attenzione, evitare attività non piacevoli, indennizzo). Si è dimostrato che i comportamenti da dolore sono importanti nei pazienti affetti da dolore cronico, essi risultano da un input nocicettivo o da un rafforzamento ambientale. Il paziente che mostra un comportamento da dolore non è conscio né è motivato ad ottenere un supporto positivo P. Ciurluini et al.: Aspetti psicologici del dolore in fase pre-operatoria e post-operatoria dal suo comportamento. Un modo per valutare i comportamenti da dolore è di chiedere ai pazienti di tenere un diario delle loro attività. Di solito i pazienti registrano il numero di volte che compiono delle attività specifiche (ad esempio, sedere, camminare, stare distesi o in piedi) e quanto tempo dedicano ad esse. Tali diari delle attività spesso coincidono con le attività funzionali descritte sopra. Alcuni studiosi, recentemente, hanno impiegato la Pain Behaviour Checklist36 tramutata in uno strumento di autovalutazione e hanno verificato una associazione significativa tra l'autovalutazione e i comportamenti osservati. Le stesse scale per l'osservazione dei comportamenti possono essere utilizzate anche dai familíari del paziente. Con l'osservazione il personale sanitario può quantificare sia i vari comportamenti da dolore, che i fattori che determinano un loro aumento o riduzione. Il paziente può essere osservato nella sala d'attesa, durante l'anamnesi o mentre compie una serie di attività predeterminate. d) Questionari sulla qualità della vita tali questionari consentono in tempi relativamente brevi una valutazione standardizzata dell’impatto che il dolore ha sulla vita del paziente. In genere viene indagata un’area fisica, psicologica, professionale e sociale. La valutazione sulla qualità della vita produce benefici della sopravvivenza, migliora il controllo degli effetti collaterali della cura, favorisce l’adattamento alla fase di dolore, sensibilizza gli operatori all’intervento personalizzato del malato, mette in atto un supporto psicologico adeguato. L’HRQL37 è uno strumento che valuta le cure mediche ricevute ed è stato usato in varie ricerche svolte in anestesiologia. La stima non include solo le dimensioni tipicamente valutate dagli operatori sanitari (il funzionamento fisico, alla salute mentale alle funzioni cognitive e sintomi come dolore, nausea ed emicrania), ma anche i fattori di solito poco considerati ma importanti per i pazienti (il ruolo ed il funzionamento sociale, la percezione della 59 salute generale, il sonno ed il proprio livello di energia). L’HRQL è misurata con validi questionari, che sono tipicamente sia generici che specifici, ed è maggiormente utilizzata per stimare gli effetti a lungo termine degli interventi chirurgici. Il Sikness Impact Profile (SIP) di Bergner M ed altri38 consiste di 136 items raggruppati in 12 categorie di cui 3 concorrono a formare la dimensione del fattore fisico del questionario, 4 la dimensione psicosociale. Può essere utilizzato sia come questionario di autocompilazione che come intervista strutturata. Il punteggio viene espresso in termini di percentuale e calcolato per ogni categoria. Il Quality of Life-Index (QL_Index) di Spitzer39 è formato da 5 aree distinte ognuna delle quali è costituita da tre items: attività, vita quotidiana, salute, supporto, stato d’animo. Ad ogni area il paziente trova 3 differenti affermazioni alle quali viene attribuito un valore da 2 a 0 punti. Sommando il punteggio ottenuto in ogni singola area, si avrà il punteggio globale di qualità della vita del paziente in esame. Più elevato è il punteggio più elevata risulterà la qualità della vita del paziente. 6. INTERVENTI PSICOLOGICI Proprio perché il dolore è un’esperienza multidimensionale, esso richiede un approccio multidimensionale nel suo trattamento. Esistono diversi approcci psicologici nel trattamento del dolore, più o meno efficaci. Di seguito verrà fatta una breve illustrazione dei modelli più ricorrenti. L’effetto placebo. La maggior parte dei medici e del personale paramedico usa il placebo per: accertarsi che il dolore sia reale, quando siano usati più farmaci di quelli ritenuti necessari, pazienti problematici. Anche coloro che ritennero che il placebo potesse alleviare il dolore 'organico' tendevano a riservare l'uso del placebo per i pazienti con cui avessero avuto delle difficoltà terapeutiche. È importante notare che la risposta al placebo non ci dice nulla sulle origini del dolore. In una percentuale di pazienti il placebo è efficace 60 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 2, 2006 per un certo periodo di tempo, indipendentemente dall'eziologia del dolore. L’ipnosi terapeutica è un processo di apprendimento a sviluppare molteplici fenomeni, neuropsicologici e neurofisiologici, tra loro intimamente correlati, ed è a un tempo uno stato fisiologico e una relazione interpersonale40. L’ipnosi è termine che suscita ancora resistenze e reazioni di incredulità e di sospetto, forse a causa della convinzione che chi la pratica debba essere dotato di poteri fuori dall'ordinario e che comunque tale fenomeno abbia a che fare con la ciarlataneria se non con l'imbroglio. I suoi effetti sul dolore derivano dalla responsività ipnotica del paziente, nonchè dalla natura delle suggestioni evocate; tali effetti possono essere influenzati dalla motivazione del paziente e dall'intensità del dolore avvertito. Sono interessate sia le componenti sensitive sia quelle reattive del dolore in individui ipnotizzabili, mentre nei soggetti poco ipnotizzabili hanno importanza fattori aspecifici o placebo. L'applicazione dell'ipnosi per il controllo del dolore richiede lo stabilirsi di un rapporto, una procedura di induzione, e l'utilizzazione di suggestioni che permettano al paziente di ottenere la massima riduzione del dolore possibile. Essa è appropriata per il dolore acuto. La musicoterapia. La musica si è dimostrata una tecnica utile per favorire il rilassamento muscolare e mentale. Essa può agire come catalizzatore nel mobilizzare sentimenti profondi e può aiutare nelle comunicazioni sia verbali che non verbali. Efficace è anche l’ intervento di tipo educativo-relazionale, come lo può essere l’informazione preventiva, il colloquio con le famiglie, la conoscenza preventiva dei sistemi sanitari utilizzati. Essi hanno l’obiettivo di favorire la conoscenza del paziente (e dei suoi familiari) sugli interventi chirurgici, le malattie e le terapie, fornendo al contempo spazio per un’elaborazione delle difficoltà di natura psicosociale. Attraverso l’ausilio di materiale didattico come depliant, brevi manuali illustrativi, supporti audiovisivi che mirano a dare informazioni generali su argomenti diversi, i programmi psico-educazionali hanno avuto applicazioni e diffusioni si- gnificative41. Il modello cognitivo- comportamentale fa riferimento all’esperienza soggettiva del dolore e all’assunto che le reazioni emotive e il comportamento di un individuo sono determinati da un processo cognitivo di valutazione degli eventi. Il fine di tale intervento è quello di modificare direttamente i processi di pensiero per renderli più adattivi ed attenuare di conseguenza il dolore; si prefigge cioè di insegnare al paziente nuove risposte cognitive e comportamentali al dolore acuto dando all’individuo maggior controllo sul dolore e la capacità di ridurre le emozioni, i pensieri ei giudizi negativi su di esso. Gli approcci cognitivo-comportamentali permettono inoltre di rendere il paziente maggiormente consapevole dei fattori che aumentano il dolore e delle azioni che sono in grado di alleviarlo. Nel complesso le prove disponibili indicano che tale approccio è potenzialmente una buona modalità di trattamento sia da solo che in associazione con altri approcci terapeutici (IDEM). Proprio per l’ampio utilizzo di questi due ultimi modelli e per la loro efficacia in ambito ospedaliero, come rilevato dalla letteratura internazionale, verrà delineato un modello d’intervento di tipo cognitivo-comportamentale ed educativo-relazionale. 6.1 FASE PRE-OPERATORIA Un trattamento psicologico prima dell’intervento potrebbe migliorare i risultati in termini sia dell’entità di dolore sperimentato che dell’abilità a gestire e controllare il dolore efficacemente. Sviluppare l’autogestione per la riduzione della percezione del dolore prima di un’esperienza dolorosa, appare essere associato con un più basso livello di dolore42. È possibile che questo sia dovuto in parte ad una simultanea riduzione dell’ansia. Intuitivamente, sembra corretto dire che pazienti con una migliore gestione in una data situazione sperimentano, in quella stessa situazione, un minor livello d’ansia. Ed è altrettanto vero che tecniche per controllare il dolore (pensate apposita- P. Ciurluini et al.: Aspetti psicologici del dolore in fase pre-operatoria e post-operatoria mente per ridurre l’entità di dolore) sono in effetti anche meccanismi efficaci per controllare l’ansia. Per esempio: - le Tecniche di rilassamento; - le Tecniche della respirazione; - il Riorientamento cognitivo; - le Tecniche di distrazione; - le Tecniche di gestione dello stress (Stress Inoculation, Locus of Control etc.); usate prevalentemente per il trattamento del dolore, sono comunemente adoperate anche come tecniche efficaci nella gestione dell’ansia. L’implicazione positiva è che insegnando ai pazienti queste abilità, essi sono facilitati a ridurre entrambi. Le “Tecniche di rilassamento” sono basate su tecniche che insegnano a riconoscere gli stati di tensione muscolare e addestrano a raggiungere gradi via via più profondi di rilasciamento dei diversi distretti corporei. L’equilibrio generale dell’organismo si sposta dall’attivazione verso il riposo. È provato che un soddisfacente grado di rilassamento induce modificazioni di altri sistemi dell’organismo, quali il sistema neuro-vegetativo e neuroendocrino. Per la loro riuscita è importante che il soggetto abbia una buona motivazione, sia cioè orientato verso un modo di pensare secondo cui bisogna essere attivi e non passivi fruitori del ‘prodotto’43. Gli aspetti cognitivi della risposta di rilassamento consistono nella produzione di un punto di vista distaccato e la ricerca di fonti di energia interna. Tra le più note tecniche di rilassamento ricordiamo il Training Autogeno, il Rilassamento Progressivo, la Risposta Rilassante, il Biofeedback, la Risposta di Quiete ed altre ancora. È importante a questo punto descrivere brevemente il Biofeedbeck essendo di ampio utilizzo. Il termine “ biofeedback” significa “retroazione biologica”, e con esso si intende una particolare tecnica di autocontrollo che consiste nell’utilizzo di una strumentazione che monitorizza eventi fisiologici di due tipi: quelli connessi all’attività del sistema nervoso autonomo e dei quali l’individuo non è normalmente consapevole; e quelli relativi al sistema muscolo schele- 61 trico non più sottoposti a controllo volontario. Secondo vari studi i possibili fattori che potrebbero contribuire all’effetto benefico del biofeedback comprendono la distrazione, il rilassamento muscolare, la riduzione dell’ansia e una maggior sensazione di controllo personale sui sintomi. Nonostante la sua efficacia, ovviamente l’uso di questa tecnica non può costituire di per sé una forma autonoma di terapia. 6.1.2 IL RUOLO DELL’INFORMAZIONE Le informazioni preparatorie per aiutare i pazienti ad acquisire il controllo sulle procedure mediche avversive o dolorose, rientrano, oltre che nelle modalità d’intervento psico-educazionale, anche tra quelle cognitivo-comportamentali. Esse possono riguardare sia gli aspetti obiettivi dell’evento spiacevole, sia le informazioni sulle sensazioni specifiche che il soggetto potrebbe sperimentare. Si è dimostrata efficace l’esposizione del paziente a modelli realistici che mostrino il comportamento desiderato in tali situazioni (modeling). Un’ulteriore modalità è fornire al paziente una descrizione delle sensazioni fisiche che proverà in fase postoperatoria. In uno studio di Manyande et al.44 è stato dimostrato che un livello moderato di preoccupazione in fase preoperatoria può aiutare i pazienti a prepararsi per l’intervento ed a ridurre il loro stress. L’informazione preoperatoria è risultata anche rilevante nell’aiutare i pazienti a ridurre l’ansia dovuta all’intervento. È stato mostrato che l’informazione data in modo adeguato, tale da incoraggiare i pazienti a verbalizzare il loro dolore allo staff, può aiutarli a prendere un ruolo attivo nel trattamento postoperatorio, supportando le loro strategie di coping sull'affrontare il dolore post-operatorio; l’informazione infatti agisce direttamente sulle componenti psichiche contribuendo a far diminuire molto il dolore e lo stato d’ansia preoperatoria ed aumentare il livello di soddisfazione dei pazienti per il management del dolore postoperatorio. Sebbene il valore dato all’informazione dai singoli pazienti dipende dagli stili di coping individuali, 62 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 2, 2006 per cui non sempre l’informazione preventiva ha esiti positivi, vari studi hanno comunque dimostrato che una buona informazione data ai pazienti che devono subire una procedura invasiva può promuovere uno stile di coping positivo nel contesto di cura per la propria salute. Redman45 nel suo modello di educazione per i pazienti propone che il processo di insegnamentoascolto venga iniziato quando un individuo sente il bisogno di conoscere qualcosa. La motivazione ad ascoltare può essere incrementata presentando materiale significativo e realistico per la persona. 6.2 FASE POSTOPERATORIA Gli interventi psicologici postchirurgici sono molto efficienti e utili. Le tecniche utilizzate per placare l’ansia e ridurre l’intensità del dolore sono le stesse applicate in fase prechirurgica. Nei casi in cui il dolore persiste anche dopo l’intervento, casi in cui si può parlare di dolore cronico, un “trattamento psicoterapeutico” può essere molto utile, soprattutto quando il paziente soffre di disturbi psichici di grave entità. Con la psicoterapia si dà al paziente una visione realistica della propria malattia, permettendogli di esporre tutte le proprie paure ed analizzandole una ad una. Ciò è particolarmente importante quando il dolore ha una genesi prevalentemente somatica, quale è ad esempio il dolore neoplastico. Se non è possibile convincere il paziente che le sue idee sulla malattia sono decisamente sbagliate, occorre quantomeno rassicurarlo sul fatto che sarà costantemente seguito con farmaci appropriati. La psicoterapia risulta più facile e più efficace se ha il sostegno di una clinica multidisciplinare del dolore, che abbia già attentamente valutato i bisogni del paziente ed abbia raccomandato le priorità della cura. Nel caso specifico dell’approccio cognitivo-comportamentale, il trattamento psicoterapeutico implica un’interazione clinica complessa e l’uso di un’ampia gamma di strategie e di tecniche di trattamento. Gli interventi cognitivo-comportamentali sono forme di trattamento strutturate, li- mitate nel tempo che possono essere effettuate sia su base individuale che di gruppo. Tale programma di trattamento per i pazienti con dolore è multidimensionale, per singoli o per gruppi, e consiste in circa 14 sedute di un’ora ciascuna. Turk46 ne ha fatto un descrizione dettagliata, suddividendo il trattamento in sei fasi che però si sovrappongono: a) valutazione iniziale; b) riconcettualizzazione delle opinioni del paziente sul dolore; c) acquisizione e consolidamento di capacità, mediante tecniche di respirazione controllata e di rilassamento; d) prova cognitiva e comportamentale; e) prevenzione dei fenomeni di generalizzazione-mantenimento delle ricadute; f) follow-up di almeno due sedute dopo il termine del trattamento. Il trattamento incoraggia i pazienti a mantenere un orientamento verso la soluzione dei problemi e a sviluppare un senso di pienezza di risorse piuttosto che un senso di sconforto e abbandono. Per l’operatore sanitario la difficoltà sta nel valutare questi pazienti in modo comprensivo. Egli deve in particolar modo rivolgere la sua attenzione ai casi in cui: - l’invalidità ecceda ampiamente ciò che ci si potrebbe aspettare dalla sola obbiettività fisica ; - il paziente avanzi richieste eccessive; - il paziente mostri uno stress psicologico significativo; - vi sia un comportamento anormale da parte del paziente che, ad esempio, rifiuta di assumere i farmaci prescritti o rispetta scarsamente le indicazioni terapeutiche. Il punto fondamentale da tenere a mente comunque è che vada valutato il paziente che riferisce di avere il dolore, più che il dolore per sè47. BIBLIOGRAFIA 1. Melzack R, Wall PD. Pain mechanisms: A new theory. Science 1965; 150:971-9. 2. Turner JA, Chapman CR. Psychological interventions for chronic pain: A critical review. Pain 1982; 12:23-46. P. Ciurluini et al.: Aspetti psicologici del dolore in fase pre-operatoria e post-operatoria 3. Fordyce NE, Fowler RS, De Lateur BJ. An application of behavior modification technique to a problem of chronic pain. 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Thomas:Springfield. ____ Per richiesta estratti: Dott.ssa Paola Ciurluini Via Livio Tempesta, 11 - 00151 Roma ANNALI DEGLI OSPEDALI San Camillo e Forlanini Volume 8, Numero 2, Aprile-Giugno 2006 Recensione VOLUME EDUCAZIONALE GOIM 2006 Nel Volume curato dal prof. Massimo Lopez per i caratteri della Editrice SEU, Roma 2006, pagg. 204, sono stati trattati sia argomenti di oncologia tradizionale sia argomenti di oncologia molecolare con l’obiettivo di procedere ad una aggiornata revisione di un selezionato numero di problematiche oncologiche. Tra i più rilevanti risultati recenti è stata trattata la dimostrazione dell’efficacia del sunitinib nei GIST in particolare per quanto riguarda i pazienti resistenti all’imatinib ma anche per quanto concerne l’attività dii questa terapia molecolare nel carcinoma renale metastatico. La terapia del carcinoma colorettale è stata riconsiderata alla luce dei buoni risultati ottenuti con il cetuximab e con il bevacizumab in particolare per quanto riguarda la malattia in fase avanzata e per quanto riguarda una revisione clinica della farmacogenetica e della farmacogenomica. Importanti acquisizioni sulla più recente ricerca relativa al carcinoma mammario sono state esposte relativamente all’efficacia del trastuzumab nel trattamento adiuvante delle pazienti con neoplasie HER2-positive; compiutamente sviscerati i problemi di ordine psicologico relativi alle neoplasie ereditarie della mammella soprattutto per quanto concerne la effettuazione di test genetici. Particolarmente approfondita l’interpretazione dei meccanismi che sono alla base dell’espressione del recettore degli estrogeni in rapporto alla possibilità di fornire basi molecolari per un trattamento ormonale più efficace. Tra le altre neoplasie sono state esposte le più recenti acquisizioni relative alla chemioterapia della prostata e le nuove prospettive nell’ambito del carcinoma dell’ovaio. Ai tumori degli annessi cutanei è stata dedicata una particolare attenzione soprattutto in relazione all’evidenza della necessità di una loro più ampia conoscenza rispetto a quanto si è verificato nel passato, data la loro rarità e le notevoli difficoltà nel procedere ad una puntuale classificazione di essi. Il Volume si propone con grande interesse per il suo carattere di aggiornamento immediato in rapporto alla necessità di tenere il passo con la realtà della rapida acquisizione di nuove informazioni in campo oncologico. Franco Salvati