Il Partito Democratico, le prossime regionali, la politica delle “alleanze” di Elio Matassi Dopo l’elezione alla segreteria del Partito Democratico di Pier Luigi Bersani, evento indubbiamente positivo per la costruzione stessa del Partito Democratico e, in modo particolare, per la formazione di una identità politico-culturale ben definita, l’agenda politica prevede l’importante appuntamento elettorale delle Regionali. Basti riflettere che sono passati solo cinque anni dall’ultima tornata elettorale delle Regionali (Aprile 2005), … del trionfo politico del centro-sinistra, per misurare tutta la distanza da quell’evento. La vittoria di misura alle politiche del 2006 del governo Prodi e la successiva implosione dello stesso, insieme alla costituzione del Partito Democratico, sono state il naturale antefatto dell’attuale situazione, ricca di rischi, contraddizioni, di confusione. A fondamento di tali limiti vi è, in modo particolare, la ancora non ben delineata ricerca dell’identità politica e culturale del Pd, la sua ancora incerta collocazione internazionale, nodi che la Segreteria Bersani sta cercando di sciogliere gradualmente. Il problema prima ancora di essere politico è di natura culturale e filosofica. Quali sono le ‘fonti’ del Pd che non s’iscrivano esclusivamente nella grande tradizione del socialismo europeo? A quali altre tradizioni il Pd può ispirarsi per rinnovare completamente il modello di democrazia? Il Partito, nell’attuale situazione, si muove in maniera ancora confusa come confusa appare la costruzione delle alleanze che non potranno riproporre il paradigma-Prodi. L’UDC e Pierferdinando Casini rappresentano politicamente un’area completamente diversa da quella prodiana; un’alleanza, in un momento successivo, poterà anche essere possibile, ma prima il Pd dovrà approfondire ‘dall’interno’ la propria funzione-prospettiva’. Il Pd, dopo il crollo del socialismo reale e l’apparente trionfo della democrazia (post 1989), di fronte alla irreversibilità della stessa e alle altre banalità dello stesso stampo, deve cominciare a porsi il problema del significato dell’aggettivo scelto per qualificarsi, ‘democratico’, un aggettivo che deve essere approfondito in tutte le sue implicazioni . Quell’aggettivo a quale modello di democrazia dovrà ispirarsi? Esiste forse solo un unico paradigma di democrazia possibile dopo l’apologetica della globalizzazione? L’etimologia non risolve tutti i problemi – si tratterebbe in tal caso di una semplificazione, di una scorciatoia, dietro cui si riesce a intravedere solo un impasse – ma talvolta può aiutare a pensare in maniera più fondata. ‘Democrazia’: demos e kratos, kratos del demos, il potere del popolo, come l’aristocrazia è il potere degli aristoi, i migliori, i nobili, i grandi; come l’autocrazia è il potere di autos, di se stesso, di colui che non deve rendere conto all’altro o degli altri. Dove vediamo oggi il potere del popolo? Prima di procedere con ulteriori considerazioni, è necessario dissipare alcuni equivoci dovuti in larga misura a due grandi autori moderni. Nel primo caso a essere in questione è il retaggio di Rousseau. A tal proposito coglie nel segno l’obiezioneargomentazione di uno dei politologi contemporanei più spregiudicati e avvertiti, Cornelius Castoriadis: “Ne Il contrato sociale, la definizione della democrazia è limpida ma insostenibile, perché deriva da un semplice gioco di nozioni astratte. La democrazia così com’è concepita ne Il contratto sociale è l’identità del Sovrano e del Principe, ossia l’identità del corpo legislativo o, in senso più radicale, istituente, e di ciò che oggi chiamiamo l’‘esecutivo’, in altri termini sia il potere governativo che l’amministrazione. Di tale regime Rousseau dice che sarebbe ottimo per un popolo di dei, ma irrealizzabile dagli esseri umani. Un regime simile non è mai esistito e non potrebbe esistere, neppure in una tribù di una cinquantina di persone. L’identità del Sovrano e del Principe implica che il corpo politico deliberi collettivamente di tutto e metta collettivamente in atto le proprie decisioni, quale che ne sia l’oggetto: per esempio, sostituisce collettivamente una lampadina bruciata nella sala dove si tengono le assemblee. In un simile regime, non può e non deve esserci alcuna delega. E’ chiaro che non è questo di cui parliamo quando parliamo di democrazia e che il regime ateniese, per esempio, non era tale”. Precisazioni devono essere svolte anche riguardo a un secondo pensatore, Tocqueville che viene prospettato come il teorico della democrazia contemporanea, non tenendo nel debito conto che gli Stati Uniti descritti dal politologo francese non esistono più. Lo ‘spaccato’ democratico entro cui si muove Tocqueville è quello di Jefferson o, meglio ancora, la situazione sociale teoricamente corrispondente a quanto Jefferson avrebbe auspicato come fondamento della democrazia (schiavitù a parte): in altri termini, una società in cui l’“uguaglianza delle condizioni” viene realizzata. Lo schema politico immaginato da Jefferson era assolutamente ‘classico’ (greco-romano) e identico a quello formulato da Marx un secolo dopo. Anche in questo secondo caso l’obiezione-argomentazione di Cornelius Castoriadis appare esemplare. L’analisi di Tocqueville è prettamente sociologica e non politica, se per dominio-spazio politico deve intendersi il potere, la sua acquisizione, il suo esercizio. Ha mille ragioni Casto- riadis per sostenere che su questo, in Tocqueville, non troveremo nulla e che la sua interpretazione della democrazia è inutilizzabile proprio dal punto di vista politico. Pertanto, prima ancora di qualsiasi discussione pregiudiziale sul problema ‘democrazia diretta/ democrazia rappresentativa’, bisogna rendersi conto che la democrazia nelle sua attuali dimensioni potrà essere tutto quello che vogliamo, ma non una vera e propria democrazia, in quanto la sfera pubblica è di fatto ‘privata’, ossia è gestita dall’oligarchia politica e non dal corpo politico. L’essenza dei partiti contemporanei sta nel fatto che essi sono sottoposti allo stesso processo di burocratizzazione che caratterizza le società contemporanee nel loro complesso. Sono questi i grandi problemi connessi all’ideale democratico in gioco nella contemporaneità. Il Pd ha la responsabilità, storica e teorica al contempo, di portarli a soluzione, di razionalizzarli non in un vago e incerto eclettismo ma con una perentorietà , pratica e teorica, radicale. Senza la soluzione di tali problemi, la democrazia cederà, come di fatto sta avvenendo, quote sempre più elevate di se medesima al populismo, versione perversa e degenerata della democrazia. Purtroppo, anche in questo caso, tertium non datur, non vi sono scelte di mediazione possibili, percorribili, o si ritorna a un’idea di democrazia veramente compiuta che superi lo scarto tra rappresentanza e partecipazione, o prevarrà la soluzione populista, interpretazioni parodistica del dominio del popolo. Un compito alto e complesso che presume, in primo luogo, una vera e propria ‘rivoluzione culturale prima ancora di qualche calcolato aggiustamento politico. Senza questa ‘svolta’ radicale, il Pd si invischierà sempre più nel tatticismo contingente di operazioni di breve respiro, privandosi di un orizzonte culturale di riferimento. Dobbiamo essere in grado di cogliere il monito che viene dalle primarie e non ingabbiarci nelle meschine schermaglie delle scelte politiche contingenti per riconquistare quell’egemonia culturale perduta senza la quale non riusciremo a conquistare la maggioranza politica. Un’operazione lunga, difficile, di largo respiro, che la segreteria Bersani sta cominciando a fare e che merita tutto il nostro incoraggiamento.