SENSIBILITA’ E TECNICA IN TEMA DI VALUTAZIONE DEL DANNO PSICHICO: QUESTIONI PRELIMINARI Fabio Bonadiman, psichiatra, psicoterapeuta, spec. in Criminologia Clinica In questo primo intervento di apertura riprendo le questioni che sono emerse nelle nostre discussioni in previsione di questo convegno e che con una certa presunzione abbiamo qualificato come questioni preliminari in ragione proprio di quei passaggi topici che abitualmente coinvolgono la prospettiva medico-legale e quella psichiatrico forense. Mi riferisco sommariamente alla significatività dell'evento, alla rilevanza degli eventuali esiti fisici, alla intensità della sintomatologia psicopatologica, al diverso peso della documentazione specialistica, all’andamento del quadro clinico, alla efficacia delle terapie, all’incidenza dei precedenti,... tutte le componenti sulle quali è spesso necessaria una riflessione comune, talvolta anche spinosa, per definirne una correlazione ed una stima in termini di danno tra sintomo ed evento. Abbiamo volutamente lasciato cadere l'aggettivo “da stress” che il titolo vorrebbe richiamare per concentrare l'attenzione su una molteplicità di situazioni che, per ragioni diverse, possono acquisire delle valenze psicopatogene e che non ci sentiamo a priori di scartare o di sottolineare, per promuovere un metodo condiviso di approccio, di codifica e di stima di accadimenti e di personalità. Solo rifacendomi ad alcuni recenti incarichi quale CT sono abbastanza comuni delle situazioni che poco hanno a che fare con l’aura mortifera e catastrofica del criterio A del DPTS, criterio che per certi versi faciliterebbe una prima condivisione sulla significatività dell'evento in termini di impatto psichico e di matrice psicopatogena. Mi riferisco - a solo titolo di esempio e trascurando i particolari della esplorazione e della valutazione - agli esiti di prolungate condotte mobizzanti sul lavoro; agli esiti adulti di un pregresso abuso sessuale nella preadolescenza; agli esiti sociali di una mancata richiesta di sospensione della pena; agli esiti di una ingiusta accusa di pedofilia; agli esiti di un errato intervento chirurgico con le associate menomazioni; … tutte situazioni che non possono essere cassate a priori; e che senza autorizzare una incidenza emotiva ad ogni evento, richiedono certamente una esplorazione attenta che richiama a quel metodo di cui parlavo sopra. E anche proprio considerando il criterio A del DPTS non è assolutamente detto che lo stesso evento rappresenti per ciascuno un movente psicopatogeno tale da autorizzare la possibile esistenza di un danno psichico; ma nello stesso tempo non è detto che quell'evento possa essere azzerato perché solo in una percentuale minima di soggetti si determina un possibile riflesso psicopatologico. Mi riferisco qui ad un recente incarico presso il tribunale di Merano, nel quale ho condiviso la valutazione con un collega medico-legale, a proposito delle lesioni e del danno psichico conseguenti ad un deragliamento di un treno a causa di una frana nell'aprile 2010. In maniera anche qui sommaria sono state ammesse cinque posizioni. Una madre che lamentava un danno psichico a causa della forte angoscia scatenata dalla possibile morte della figlia diciassettenne, presente sul treno, che non rispondeva per ore al cellulare. Questa figlia di 17 anni che ha presentato, oltre alle lesioni, uno stato di shock inquadrato poi all'interno di un DPTS che, scemando nel tempo, ha residuato delle caratteristiche critiche, fragili, inibite, insicure nel suo assetto di personalità. Un’altra signora, oggi incinta e da allora in cura psicologica, che è risultata incapace nella CTU di rielaborare il fatto per una profonda cristallizzazione dell'evento stesso che innescava una evidente inquietudine, quasi destabilizzante. Un uomo adulto, segnato soprattutto da lesioni ai polpastrelli delle mani provocate dal suo tentativo di rimuovere, impotente, la melma che lo bloccava nel vagone, che è stato liberato dopo che erano stati rimossi dei morti sotto i suoi piedi; persona oggi del tutto apatica, isolata e disinteressata anche alla stessa CTU. Un’altra giovane di 17 anni che era uscita tempestivamente dal vagone ed aveva assistito, prima di essere ricoverata, alle scene dei soccorsi; persona che solo in ospedale si era accorta di una dolore alla schiena (frattura vertebrale), del terriccio tra i vestiti,.. era stata poi dimessa e portata a casa in bracciolo dal padre a causa di una grave regressione oggi strutturatasi con difese di negazione e di inibizione psichica e sociale tanto da sentirsi “freddamente” salva. Pur avendo ognuna di queste situazioni un suo particolare profilo, è stato soprattutto quest'ultimo caso che ha permesso di evidenziare una delle questioni più ricorrenti nella stima psichiatrico/forense che è quella della mancanza di una sintomatologia ben evidente; un malessere che, ben al di là delle genericità delle sofferenze, richiede una attenta valutazione poiché può rimandare - al di là dei requisiti nosografici: ad un disordine nel funzionamento della personalità, ad una deformazione dell’habitus emotivo, ad una disarticolazione cognitivo/emotiva,…; cambiamenti che spesso condizionano pesantemente l’intimità e l’essenza della personalità e dell’esistere. Pur stando attenti a non voler psichiatrizzare ciò che non è riconducibile almeno ad una nosografia, è certo che il solo criterio clinico in questi casi non aiuta nel senso che è difficile evidenziare, se non in una attenta esplorazione anche – permettetemi - psicodinamica, il danno più specifico che interessa la persona. Mi riferisco in particolare alle ripercussioni profonde e poco riconosciute che coinvolgono una diffusione nell'identità, degli stili apatici, delle tendenze fobiche, una labilità emotiva, una dimensione interna inquieta, un atteggiamento inibito,… e che spesso convergono in una sostanziale negazione di problemi e ad una insufficiente consapevolezza del sé leso, che si ostina invece sano, su una routine dolorosa e insicura. L’esplorazione di questi aspetti – proprio per la particolarità, la resistenza e per la risonanza interna – richiede una sensibilità e un atteggiamento estremamente prudente che non si completa in maniera semplice e automatica, assecondando le nostre prevalenti esigenze di sintesi e di tempo; esigenze che contrastano con l’esplorazione di parti che invece richiedono una qualche confidenza terapeutica. Ho presente la delicatezza di certi approfondimenti in tema di lutto. Nella predisposizione di questo convegno si sono imposte anche altre tre questioni che mi sembrano fondamentali, che vengono spesso richiamate nella pertinenza tra evento e percentuale di danno e che rimangono altrettanto importanti per svolgere una corretta istruttoria sui fatti in procedimento o in valutazione . La prima riguarda le caratteristiche personologiche del soggetto che quasi automaticamente vengono invocate nel momento in cui un evento acquista, più o meno stranamente, una rilevanza psicopatogena e che diventano un tratto di vulnerabilità accessoria che ridimensiona l'evento in sé ed anche il danno alla persona. La seconda questione interessa i precedenti psicopatologici che, analogamente alle caratteristiche di personalità, sono spesso considerati come fattori che di per sé indebolivano il soggetto che a questo punto diventa sensibile anche a delle situazioni mediamente non problematiche. La terza questione riguarda i trattamenti psicofarmacologici che rischiano di non essere adeguatamente considerati né nel caso in cui siano assunti (ad esempio per improprietà del farmaco o della valutazione specialistica); né nel caso in cui non siano prescritti (si veda l’efficacia nel lutto). Senza avere delle pregiudiziali, mi pare fondamentale in questo passaggio richiamare quel metodo di base che, attraverso un rigoroso approccio anamnestico e clinico, consenta di differenziare e di storicizzare queste questioni; un metodo necessario per verificare, nelle ipotesi causali, la effettiva correlazione tra personalità, precedenti o trattamento e situazione per la quale si è in valutazione. Solo in questa maniera si evita di collegare impropriamente precedenti (spesso tutti da dimostrare) ed il cui possibile riverbero psicopatologico non lo si considera come un quid pluris o quid novi, ma lo si riduce a semplice slatentizzazione di precedenti vulnerabilità di personalità. Un discorso a parte riguarda poi l'efficacia o la tenuta delle misure terapeutiche rispetto agli accadimenti traumatici verso i quali non sono codificati dei protocolli di trattamento e che, per il loro impatto psichico, risentono talora positivamente di altre strategie comunemente associate alla resilienza. Anche qui ci aspettiamo un approfondimento soprattutto all'interno della tematica del lutto. Sempre in questo ragionamento mi permetto di riprendere altri due atteggiamenti che spesso si riscontrano nella pratica medico-legale e psichiatrico-forense e che sono la banalizzazione dell’evento causale e la semplificazione della sintomatologia psichica. In realtà più che la banalizzazione segnalerei la personalizzazione della rilevanza dell'evento che secondo un criterio del tutto personale, oppure contando su un sentire comune, viene ritenuto in sé non sufficiente e non incidente; e questo per risolvere sbrigativamente – in funzione di posizioni preconcette – la dovuta ricostruzione e correlazione tra evento, personalità e possibile danno che richiede invece quel paziente lavoro clinico e medico/legale che cosi valore dà alla nostra professionalità. A questo atteggiamento ne segue spesso il secondo per il quale ciò che viene descritto o lamentato come sintomo psichico rischia di essere ridimensionato o negato in forza spesso della formazione medica che, nella metodologia strettamente sanitaria, considera solo evento, documentazione, obiettività e stima concreti. In questo modo è difficile che si condivida non solo un atteggiamento clinico corretto e attento (che qualifichi meglio e in maniera differenziale la sintomatologia e il suo andamento) ma soprattutto che si condividano dei criteri per definire la vis psicopatogena e le sue diverse coniugazioni ed espressioni. Proponendo allora questo convegno, accanto alle questioni accennate più sopra, siamo anche partiti da una consapevolezza riguardo ad una certa arbitrarietà di fondo che muove le nostre valutazioni in ragione di esperienze, di formazione, di capacità diverse e tante volte anche di committenza; ma abbiamo anche ricercato una disposizione che – ispirata alla deontologia – si accrediti nella ricerca di un punto d'incontro o di mediazione che vorrebbe essere tecnico: di argomentazioni e di confronto e non di prese di posizione arbitrarie o, peggio ancora, ricattatorie. Nel rispetto delle singole competenze, ma anche nella logica della collegialità su tematiche specifiche, ci sembrato infine utile richiamare come la valutazione della pertinenza psicopatologica dovrebbe appartenere a professionisti che abbiano specialità e esperienza in questo campo; e questo non tanto per una difesa di categoria ma per la difficoltà di ricostruire e di nominare il sintomo psichico nei suoi aspetti di sofferenza psichica e di malattia. In fondo è poi questa qualificazione che, se fatta al di fuori di una minima criteriologia clinica, porta a valutazioni molto contraddittorie del sintomo e del danno psichico, tra forme di esclusione assoluta e percentuali in eccesso, del tutto inaccettabili all'interno di una certa media o di certi baremme. Nella stima del danno psichico non possiamo partire allora che da questa ricostruzione specialistica, dedicata, personale ed intima degli accadimenti successivi ad un evento che assume, in forza della ricaduta correttamente esplorata e inquadrata, il suo possibile significato e ruolo psicotraumatico; significato e ruolo che nella metodologia medico-legale o psichiatrico-forense devono essere ricondotti ad una loro specificazione nosografica - si pensi al criterio A del DPTS – e alla modalità particolare con la quale coinvolgono e disturbano quella persona. Questo mi sembra un passaggio da sottolineare nel senso che, se è pur vero che uno psichiatra deve poi tradurre la propria esplorazione all'interno di una nosografia, è altrettanto vero che questo richiede un atteggiamento del tutto sgombro da pregiudizi nell'ascolto, anche se all'interno di un contesto medicolegale. Quando parlo all'interno di questa presentazione di sensibilità mi riferisco soprattutto a questo atteggiamento che richiede non solo uno schema metodologico ben definito, ma anche strumenti relazionali che, nelle prescrizioni di luogo, tempo, tono, clima,.., non possono ridursi ad una intervista tipo o ad una check list. Per certi versi la scommessa del nostro lavoro è una ricerca comune e costante di una lettura della realtà per la quale non è stato ancora possibile codificare – in modo impersonale affidabile - una criteriologia che da intensità di evento correli una intensità di sintomi (e quindi una intensità di danno). Rimane imprescindibile un processo estremamente impegnativo e complesso che parta soprattutto da un fatto: la percezione della realtà (e del suo effetto patogeno) ha una sua specifica, personale e distinta elaborazione: sia nel periziato che nel perito. Ci pare che vi possa essere un impegno di tutti per tradurre - attraverso un costante aggiornamento e confronto - la correttezza sintomatologica e il grado della sua intensità; le modalità attraverso le quali un evento si costituisce come fattore di malattia; le forme attraverso le quali si estrinseca il trauma e l'alterazione della personalità; e la stima ragionevole fra processo disturbante e assestamento successivo. Nel cercare allora di concludere questa presentazione abbastanza sommaria delle questioni che noi abbiamo vissuto come aperte nella preparazione questo convegno, vorrei sottolineare la ricerca sempre di un confronto e di una discussione per delineare nel tempo un metodo comune di lavoro; un obiettivo che richiede certamente un rigore tecnico che analizzi i dati di realtà con i riferimenti giuridici; ma che allo stesso tempo - permettetemi per le questioni psicologiche, umane, personali in gioco - richiede anche una sensibilità specialistica sufficientemente neutrale e che sappia cogliere parti non sempre così evidenti alla sola anamnesi.