Persinsala Teatro
Simona Maria Frigerio
aprile 30, 2017
In prima nazionale, arriva al Teatro Metastasio di Prato, Democracy in
America. Una riflessione teatrale su un testo politico-filosofico di de
Tocqueville, che moltiplica i segni fino a svuotarli di significato.
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Negli anni 30 dell’Ottocento Alexis de Tocqueville visitò gli Stati Uniti (non
l’America in generale), e precisamente il Nord del Paese (non certo gli
Stati schiavisti del Sud) dove si confrontò con una nuova democrazia
basata sui principi puritani (o evangelici), una società in nuce che
Castellucci, con i mezzi propri del teatro, traduce come luogo dove non si
ha “più nessun sacrificio, ma ancora nessuna politica. Più nessun Dio, ma
ancora nessuna città dell’uomo. […] Rimane il cerimoniale vuoto che
celebra la grandezza di questa perdita”.
Questo cosa significa? Facciamo un breve inciso per spiegare da quali
considerazioni partiva il giurista francese e i limiti del suo pensiero. Al di là
della mancanza di un’analisi sui diritti delle donne, delle minoranze native
e degli afroamericani, che Castellucci stesso sottolinea (anche se la
previsione che gli afroamericani, senza una reale integrazione, sarebbero
diventati cittadini di serie B, è diventata una tragica realtà statunitense).
Aggiungeremmo che non ci convince nemmeno l’importanza che il giurista
– forse ateo ma sicuramente laico – dà alla religione come fattore
moralizzatore delle masse – con un timore verso le masse stesse da
autentico snob aristocratico; e la sua fede in una religione che non viri
verso il bigottismo e nemmeno interferisca con la laicità dello Stato – due
speranze che sappiamo entrambe vane, dato che ogni religione parte dalla
certezza della verità, una e sola, che, in quanto tale, va imposta a tutto e
tutti, anche limitando fortemente quelle libertà individuali che propugna lo
stesso de Tocqueville e che sarebbero messe in pericolo – secondo lui –
dalla democrazia come volere imposto a tutti dalla maggioranza. E infine,
una naïveté totale sulla differenza tra democrazia formale e sostanziale
(per de Tocqueville il puritanesimo avrebbe livellato la società dando a
tutti i cittadini condizioni di partenza similari). Quando è facile constatare
come la prima, persino oggi, sia in parte disattesa negli Stati Uniti (dove
per votare bisogna iscriversi alle liste elettorali e vige il sistema dei Grandi
Elettori) e, la seconda, nemmeno lontanamente agognata in un Paese
dove l’individualismo è l’unico vero motore di affermazione personale per
un solo fine: l’arricchimento – esclusivamente economico e individuale
(Trump docet).
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Contraddizioni ottocentesche che Castellucci mette in scena con uno
spettacolo diviso in due parti sia a livello etico che estetico.
Il sipario si apre su un gioco di anagrammi (come si possono ricombinare
le lettere che compongono Democracy in America?), effettuato da 18
ragazze con altrettante bandiere e qualche difficoltà nell’esecuzione, a
volte farraginosa. Gli anagrammi stessi, dopo qualche trovata geniale, non
convincono, in quanto non ricostruiscono un messaggio chiaro. Se si vuole
affermare che la democrazia statunitense, basata sulle guerre (interne ed
esterne), è macchiata dal sangue di milioni di individui (data anche la
scena successiva con la donna che si denuda per imbrattarsi di vernice
rossa), non si comprendono alcuni anagrammi. In parole povere,
sicuramente gli Stati Uniti hanno appoggiato il colpo di Stato militare in
Myanmar; ma altri anagrammi non hanno senso: cosa c’entrano gli Stati
Uniti con Macao?
Si prosegue, quindi, dopo il succitato denudamento (un cliché ormai
insopportabile a teatro), e la fustigazione di un’altalena da parte
dell’attrice con i capelli infradiciati di vernice rossa, con una scena da
dramma à la Ibsen e scelte, a livello estetico, per luci e costumi, che
rimandano a I mangiatori di patate di Van Gogh. La scena si conclude
con la madre che, dopo essere stata presa da una frenesia da menade o
da posseduta (tipo L’esorcista), ammette di avere venduto una figlia per
un sacco di semi e un aratro. Decisione, in fondo, comprensibile se
storicizzata e contestualizzata: in un mondo di fame, malattie e miseria, si
può sacrificare un figlio (Abramo non avrebbe fatto lo stesso?, ricorda la
madre) per salvare gli altri. Eppure, la scena non convince del tutto, sia
per le forzature interpretative sia perché la bambina è venduta
(scopriremo poi) a una donna nativa americana. Bella, al contrario, la
conclusione di questa vicenda, anche da un punto di vista estetico, con la
madre che se ne va con il suo aratro d’oro (ma la morale, troppo
semplicistica, sembrerebbe essere che negli States ci si vende persino un
figlio pur di fare i soldi).
La seconda parte dello spettacolo – del resto anche de Tocqueville
suddivise il suo lavoro in due libri – si discosta totalmente dalla prima,
puntando su mezzi teatrali altri, quali la pantomima e la danza, le
scenografie mobili à la Gordon Craig, un’idea di teatro di figura. Un’orgia di
mezzi per un’orgia di significati, spesso sfuggenti. Se Castellucci voleva
affermare che la nuova democrazia dovrà sviluppare la propria forma
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teatrale nella quale riconoscersi (come la tragedia greca era specchio della
democrazia ateniese), mette purtroppo troppa carne al fuoco. E nella
proliferazione dei mezzi perde il filo del discorso (o lo perde lo spettatore).
Facciamo giusto qualche esempio. A cosa mira quella struttura aerea, quei
bracci meccanici che si muovono come gambe da cancan, su una musica e
in un’atmosfera che rimandano stranamente a 2001: Odissea nello
spazio? E l’ombra di uno stivale che, calato dall’alto, schiaccia la donna
nuda a terra? O la danza delle quattro donne imparruccate, ovviamente
nude, che mimano un minuetto alla Corte di Versailles? E ancora, quella
sfilza di leggi, battaglie, accordi, che sfila in sovrascritte pedanti su uno
dei tanti, troppi teloni più o meno trasparenti (l’unico uso davvero
interessante dei teloni, quello che regala un’aureola flou alla scena del
contadino del campo, ottimamente illuminata) calati sul palcoscenico, a
cosa mira? Per la maggioranza degli individui presenti a teatro, cosa
comunica l’accenno al secondo emendamento? E perché elencare il diritto
a possedere armi (personalmente, uno tra gli aspetti atroci della
cosiddetta democrazia statunitense) affiancato da rimandi ad altre leggi,
sicuramente più condivisibili? O ancora, tutti quei girotondi di esseri
incappucciati, vestiti di rosso, intorno al corpo nudo della donna che, nel
frattempo, si è anche imbrattata un seno con del fango, e che,
sicuramente in maniera involontaria, riportano alla mente le orge di Eyes
Wide Shut, hanno un qualche significato o sono virtuosismi che
dovrebbero rimandare a una mancanza di senso di quel teatro, ancora agli
albori, nella nuova democrazia?
Il finale, poi, lascia basiti. Dopo che quattro tecnici, a vista, girano il fregio
(fin troppo chiara metafora che lo spettacolo volterà le spalle alla
democrazia e, quindi, alla tragedia ateniesi per volgersi verso culture
altre), ecco comparire due nativi americani che disquisiscono
sull’importanza di imparare l’inglese. Al di là dell’ovvio rimando al buon
selvaggio di rousseauiana memoria, il dialogo è farraginoso, e i due nativi
sembrano due snob in stile Phileas Fogg che, in un circolo inglese,
disquisiscano su qualche pelo di lana caprina.
Quando le interpreti, alla fine, si denudano per l’ennesima volta,
togliendosi un pesante costume di lattice che doveva conferire loro
fattezze più maschili, vi è l’ultimo colpo di capelli contro l’altalena, e le due
escono avvolte da coperte (forse quelle infettate che decimarono i nativi),
il vuoto diventa voragine.
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E qui sorge l’ultimo, fatale dubbio. Ma davvero la società puritana, che
rinnegava e inorridiva di fronte al teatro (vedasi quello che fece Cromwell
in Inghilterra), avrebbe mai avuto bisogno di elaborare un proprio mezzo di
espressione teatrale nel quale rispecchiare i limiti della propria
democrazia? Non avrebbe avuto più senso mettere letteralmente in scena
il processo alla coppia protagonista (processo del quale si fa cenno alla
fine della prima parte), quale rappresentazione teatrale e metateatrale
della nuova forma di democrazia e di rispecchiamento della società
puritana? E un regista, oggi, deve riempire il palcoscenico di mezzi e
segni, i più disparati (e spesso costosi), per rievocare quell’amalgama? Un
mondo, quello statunitense, che ha del resto prodotto forme teatrali
similari a quelle europee e, in subordine, di ascendenza greca. E infine,
non avrebbe avuto più senso, se si voleva tornare al coro dionisiaco, inteso
come pre-tragico, ripensare lo spiritual, autentica innovazione teatrale ma
di matrice afroamericana? Il vuoto non avrebbe, forse, bisogno di assenza,
mancanza, minimalismo – un lavoro in sottrazione per cercare le radici
antropologiche del fare teatro, dell’esprimere l’immensa sofferenza di un
mondo incapace di comprendersi?
Lo spettacolo continua:
Teatro Metastasio
via Benedetto Cairoli, 59 – Prato
fino a domenica 30 aprile, feriali ore 20.45, sabato ore 19.30, domenica ore 16.30
Romeo Castellucci presenta:
Democracy in America
liberamente ispirato all’opera di Alexis de Tocqueville
regia, scene, luci, costumi Romeo Castellucci
testi Claudia Castellucci e Romeo Castellucci
musica Scott Gibbons
con Olivia Corsini, Giulia Perelli, Gloria Dorliguzzo, Evelin Facchini, Stefania Tansini e Sophia Danae Vorvila
e con Irene Bini, Sara Bolici, Mariagiulia Da Riva, Laura Ghelli, Virginia Gradi, Giuditta Macaluso, Sara
Manzan, Sara Nesti, Cristina Poli, Elisa Romagnani, Irene Saccenti e Fabiola Zecovin
coreografie liberamente ispirate alle tradizioni folkloriche di Albania, Grecia, Botswana, Inghilterra,
Ungheria e Sardegna
con interventi coreografici di Evelin Facchini, Gloria Dorliguzzo, Stefania Tansini e Sophia Danae Vorvila
assistente alla regia Maria Vittoria Bellingeri
maître répétiteur Evelin Facchini
sculture di scena, prosthesis e automazioni Istvan Zimmermann e Giovanna Amoroso
realizzazione costumi Grazia Bagnaresi
calzature Collectif d’Anvers
direzione di scena Pierantonio Bragagnolo
tecnici di palco Andrei Benchea, Giuliana Rienzi
datore luci Giacomo Gorini
tecnico del suono Paolo Cillerai
costumista Elisabetta Rizzo
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fotografo di scena Guido Mencari
produzione esecutiva Socìetas
in coproduzione con deSingel International Artcampus; Wiener Festwochen; Festival Printemps des
Comédiens à Montpellier; National Taichung Theatre in Taichung, Taiwan; Holland Festival Amsterdam;
Schaubühne-Berlin; MC93 Maison de la Culture de Seine-Saint-Denis à Bobigny con Festival d’Automne à
Paris; Le Manège – Scène nationale de Maubeuge; Teatro Arriaga Antzokia de Bilbao; São Luiz Teatro
Municipal, Lisbon; Peak Performances Montclair State University (NJ-USA)
con la partecipazione di Théâtre de Vidy-Lausanne e Athens and Epidaurus Festival
l’attività di Societas è sostenuta da Ministero dei beni e attività culturali, Regione Emilia-Romagna e
Comune di Cesena
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