IL CONFLITTO NELLE ORGANIZZAZIONI A cura di Paolo Danza Nel precedente paragrafo ho accennato ad alcune problematiche in cui si imbattono i soggetti inseriti nelle organizzazioni lavorative. Si tratta di situazioni che producono effetti visibilmente manifesti. In questo paragrafo, vorrei accentrare l’attenzione sul conflitto un tipo di interazione che, specie se mal gestita, può essere fonte di malessere. Vorrei evidenziare gli aspetti strutturali, nonché quelli positivi, per poi proporre, nel paragrafo successivo, l’esercizio del negoziato quale modalità risolutrice dei conflitti. Il tutto nella consapevolezza (tutta personalmente vissuta) che le organizzazioni vivono nei conflitti. La parola conflitto il cui significato deriva dal verbo latino confligere che significa “urtare, contrastare”, richiama oscuri presagi. Gallino definisce il conflitto come un tipo di interazione più o meno cosciente tra due o più soggetti individuali o collettivi caratterizzata da una divergenza di scopi tale, in presenza di risorse troppo scarse perché i soggetti possano conseguire detti scopi simultaneamente, da rendere oggettivamente necessario, o far apparire soggettivamente indispensabile, a ciascuna delle parti, il neutralizzare o deviare verso altri scopi o impedirne l’azione altrui, anche se ciò comporta sia infliggere consapevolmente un danno, sia sopportare costi relativamente elevati a fronte dello scopo che si persegue1 Il conflitto è stato analizzato secondo diversi aspetti2. L’analisi del conflitto tra gruppi o strati o classi sociali, risolvibile con la cessione di gran parte delle proprie libertà allo Stato, è formulata esplicitamente da Hobbes (Il Leviatano, 1651) con la teoria individualistica dello Stato. Per la teoria individualistica, il conflitto è una condizione intrinseca dell’esistenza sociale caratterizzata da interessi particolari e generali che necessitano di un controllo da parte dello Stato in quanto potere superiore. Secondo Hegel il conflitto tra corporazioni, o ceti, o classi, è una condizione patologica derivante dal mancato riconoscimento della superiorità morale dello stato. Con la teoria organica dello Stato, Hegel propone che ogni interesse del singolo sia subordinato allo Stato in quanto essere superiore morale. Tale principio sarà sviluppato dagli hegelismi di destra e di sinistrata sino alle estreme conseguenze. L’hegelismo di sinistra sviluppa il conflitto come contrasto tra classi sociali. Secondo Marx, esso è un carattere specifico delle società fondate su rapporti di produzione antagonistici, come la società feudale e 1 2 Gallino, Luciano, Dizionario di sociologia, Torino, UTET, 1983, p.156. ibidem, pp.156-161. borghese. Per tale motivo, secondo Marx, esso non esisteva nella comunità primitiva e non esisterà più nella società capitalistica. L’hegelismo di destra culmina nella dottrina nazista dello Stato, per cui il conflitto sociale è un morbo che inquina la solidarietà naturale della nazione quale totalità vivente. La difesa di tale comunità non ammette interessi di maggioranze o minoranze, pluralità di opinione o opposizione all’illimitato potere dello Stato. La sociologia positivista dell’Ottocento, segnala Gallino, ha mostrato scarso interesse per il conflitto; mentre nel Novecento ”sono compresenti due suole sociologiche, l’una conflittualista, comprendente in primo luogo tutti gli indirizzi della sociologia marxista e radicale, l’altra integrazionista, formata da una gran parte di tutti gli altri indirizzi”.3 Simmel sottolinea le funzioni positive del conflitto. Egli considera la società a partire dall’azione e inter-azione degli individui tra di loro “la relazione sociale è la categoria teorica fondamentale in Simmel, per il quale essa è e deve essere pensata come interazione (…) o interdipendenza, o effetto reciproco, o effetto di reciprocità”.4 Il conflitto è una forma di interazione che va collocato tra le forme di processo sociale unificante: “Se ogni interazione tra uomini è un’associazione, il conflitto, che è dopotutto una delle più vivaci 3 4 Ibidem, p.157. Donati, Pierpaolo, Teoria relazionale della società, Milano, FrancoAngeli, 1991, p.46. interazioni e che, inoltre, non può essere portato avanti da un individuo soltanto, deve certamente essere considerato come associazione”.5 Le stesse cause del conflitto assumono, nella visione dello studioso, una connotazione positiva in quanto odio, invidia, bisogno, desiderio, fanno esplodere il conflitto “che è un modo di raggiungere un qualche genere di unità”. Secondo Simmel, la società per evolversi ha bisogno di dualismi quali l’armonia e la disarmonia, associazione e concorrenza, tendenze favorevoli e sfavorevoli che rappresentano categorie di interazioni che si presentano sempre come del tutto positive. Vi è una concezione abituale, secondo lo studioso, per cui la società reale e definita scaturisce solo da quelle forze sociali che sono solo positive e, nella misura in cui, le forze negative non lo impediscono. Tale concezione, secondo Simmel, è superficiale, un malinteso che deriva dal duplice significato del concetto di unità. L’unità è ”il consenso e l’accordo di elementi sociali, in contrapposizione alle loro discordie” ma essa è anche ”la sintesi totale in un gruppo di persone, energie e forme, la totalità conclusiva di quel gruppo, nella quale sono compresi tanto i rapporti unitari in senso stretto quanto i rapporti dualistici”6. Ciò che è negativo e dannoso, all’interno di singoli rapporti, non necessariamente, dunque, ha effetti dannosi sulla totalità dei rapporti. 5 Simmel, G., Il conflitto della cultura moderna ed altri saggi, a cura di C. Mongardini, Roma, Bulzoni, p.87. 6 ibidem, p.91. Per spiegare tale concetto egli ricorre alla metafora della vita, secondo cui essa mostra sempre due parti in opposizione tra loro: da una parte successo, felicità, forza, ecc.; dall’altra insuccesso, sofferenza, incapacità, fallimento. Secondo Simmel, dobbiamo considerare queste due differenziazioni polari come “una vita”; infatti “nel più comprensivo rapporto della vita, persino ciò che come elemento singolo è disturbatore e distruttivo, è del tutto positivo; non rappresenta il vuoto ma il compimento di un ruolo solo a lui riservato”7. Un’équipe di educatori, che operano all’interno di una comunità terapeutica per tossicodipendenti, e che entrano in conflitto tra loro per diversi motivi (linea terapeutica degli utenti, responsabilità tecniche, turni e orari di lavoro, ecc.) è un gruppo che nella sua “sintesi totale” esprime vivacità, ricchezza di opinione e azione. L’opposizione espressa in un conflitto, permette all’individuo di non sentirsi completamente succube in un rapporto. In tal modo, essa esercita un’influenza distensiva, porta ad un equilibrio interno, rende vitali i rapporti sociali e, soprattutto, è un mezzo per conservare il rapporto e non sfuggirlo. Molti studi contemporanei che sottolineano le funzioni positive del conflitto, contro la tradizione sociologica che lo stigmatizza come patologia sociale, si richiamano alla visione simmeliana. Il pensiero di Simmel in merito alla interazione degli individui quale relazione sociale è, inoltre, il punto di partenza della teoria relazionale della società che 7 ibidem, p.90. considera i vari modelli e i metodi di indagine sociologica come casi particolari di un’analisi relazionale; afferma in tal senso Donati, riferendosi a Simmel “con lui la sociologia comprende per la prima volta che la realtà di ciò che chiamiamo sociale è intimamente relazionale”.8 Vi sono altre dimensioni, secondo Gallino9, di cui bisogna tener conto nella definizione del conflitto come il livello analitico del soggetto, la simmetricità o asimmetricità, lo scopo perseguito dalle parti e le risorse che essi si contendono. I soggetti del conflitto possono essere individui, gruppi, associazioni, classi o strati o raggruppamenti etnici o religiosi. La simmetricità/asimmetricità rimanda al fatto che ciascun soggetto può entrare in conflitto sia con uno o più soggetti del suo stesso livello, sia con soggetti di livello inferiore o superiore. Gli scopi differiscono a seconda del tipo e livello dei soggetto, della simmetricità o asimmetricità del conflitto, della situazione, della cultura che orienta i soggetti. Le risorse, per cui i soggetti agiscono, possono essere ricondotte a quattro grandi classi: ricchezza, potere, prestigio, strumenti. Un’altra distinzione è tra conflitto manifesto e latente. Tale distinzione si basa sull’ipotesi che il conflitto, osservabile tra due o più soggetti, sia la manifestazione di uno più diverso e profondo, di cui non si ha ancora una esatta percezione. L’osservazione del conflitto deve, quindi, indagare eventuali conflitti latenti per renderli manifesti. 8 9 Donati, Pierpaolo, Teoria relazionale della società, Milano, FrancoAngeli, 1991, p.45. Cfr. Gallino, Luciano, Dizionario di sociologia, Torino, UTET, 1983, pp. 158-159. L’espressione risoluzione del conflitto designa “un processo mediante il quale la dipendenza reciproca delle parti in conflitto viene gradualmente accresciuta, in forme di cui i soggetti sono coscienti, sino a sfociare in qualche tipo di collaborazione"10. E’ importante notare che risoluzione del conflitto non significa scomparsa ma riduzione dello stesso. Gli uomini vivono il conflitto interpersonale (coppia), sociale (gruppo) e collettivo (organizzazione), in quanto forma di interazione. Spaltro e de Vito Piscicelli11 sottolineano gli aspetti positivi del conflitto: • aumenta la consapevolezza del proprio ruolo e del proprio potere nella situazione relazionale con le reazioni della controparte; • intensifica la mobilitazione dell’energia psichica e a essere più efficace nel raggiungimento degli obiettivi; • stimola al mutamento e all’attività; • aumenta l’identità da parte delle due o più componenti implicate: ogni conflitto definisce meglio amici e nemici e la loro reciproca interazione. Le considerazioni suddette evidenziano l’importanza del conflitto quale forza unificatrice nelle relazioni. Le organizzazioni sono luoghi privilegiati di conflitti di diverso tipo, vista la spiccata qualità relazionale tra individui. Il conflitto organizzativo è un elemento importante nel raggiungimento dei fini. In tal senso, l’organizzazione amministra l’utilità che deriva dai 10 Ibidem, p.159. Cfr. Spaltro, Enzo e de Vito Piscicelli, Paola, Psicologia per le organizzazioni, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1990, pp.111-134. 11 conflitti e dalle relazioni interpersonali, sociali e collettive. Afferma Spaltro: “ogni mutamento e ogni innovazione passano attraverso il conflitto, tra status quo e speranza futura. Solo se si pensa che il futuro sia migliore dello status quo è possibile un cambiamento, che perciò passa attraverso il conflitto tra oggi e domani”12. Il conflitto, sostiene Coombs13, ha una natura duale. Tale sentimento di dualità si distingue tra un essere e un dover essere, porta con sé un sentimento di colpa, cioè la paura di una punizione e la tendenza ad eliminarlo mediante comportamenti la cui finalità è la rimozione del conflitto. In tal modo, il singolo evita il conflitto e il possibile cambiamento che esso comporta. Tali comportamenti14 sono di due tipi: • Espiazione: ricorrendo a una mediazione, a una pratica espiatoria. Nelle organizzazioni esistono espiazioni di vario tipo come l’autocritica, il lavoro straordinario, il disimpegno o rifiuto del successo con motivazioni pseudoideologiche. Tali strategie inconsce mirano a produrre auto-soddisfazione togliendo all’altro il ruolo del danneggiatore. • Rimozione: riducendo la dualità (essere/dover essere) in unità con una rimozione, una razionalizzazione, una denegazione; questi elementi possono agire separatamente o tutti insieme. In questo caso, il conflitto crea attorno all’individuo la percezione di essere “solo 12 Ibidem, p.111. Coombs C.H., Avrunin G.S., The Structure of Conflict, London, Lea Hillsdale, 1988. 14 Cfr. Cargnello, D., Alterità e alienità, Milano, Feltrinelli. 13 contro tutti” e la paura di sbagliare ed essere puniti. La via di uscita consiste nel trovare un nemico, di solito falso, per poterlo accusare e proiettare su di esso il proprio senso di colpa. La difesa dal conflitto è alla base delle difese nei confronti del cambiamento. Ci interessiamo al problema della colpevolezza proprio perché da esso derivano molte resistenze all’idea del nuovo. La padronanza nella gestione del senso di colpa aiuta l’individuo a non temere il conflitto. In tal modo, le relazioni con gli altri fluiscono liberamente e le situazioni di conflitto non possono che risolversi costruttivamente. Rispetto al conflitto organizzativo vi sono, quindi, degli atteggiamenti tipici, di natura conscia o inconscia, nel reagire a determinate situazioni sociali. Tali modalità dipendono dal livello di socializzazione raggiunto (coppia, gruppo o collettivo). La socializzazione è luogo privilegiato nella spiegazione delle resistenze al cambiamento: gli individui vivono numerose interazioni nei livelli della coppia, del piccolo gruppo e del collettivo. In esse sono chiamati a gestire il proprio senso di colpa. La situazione lavorativa, ad esempio, è conflittuale per antonomasia e vi è un costante esercizio nel controllo dei sensi di colpa. Nella dimensione organizzativa vi sono tre gestione del senso di colpa e del conflitto:15 15 Cfr. Spaltro, Enzo e de Vito Piscicelli, op. cit., p.120. modalità differenti di 1. Il Controllo Unificante Rimotivo (CUR); agisce come negatore e di rifiuto del conflitto e tende a decolpevolizzare i singoli. In ambito organizzativo si esprime in una struttura rigida, normativa e a una logica direttiva stabile e carismatica. Ciò corrisponde alla concezione tayloriana delle organizzazioni. 2. Il Controllo Moltiplicante espiatorio (CME); è un atteggiamento tendente a non soffocare il conflitto ma a mediarlo e a risolverlo attraverso l’intervento di un terzo elemento come consulenti esterni, lavori di gruppo, differenziazioni della leadership. La struttura che esprime tale modalità è flessibile ma tende a punire, quindi a far espiare, chi sbaglia. 3. Il Controllo Conflittuale Conservativo (CCC); è l’atteggiamento ottimale nella gestione del conflitto, quasi un’utopia. Il senso di colpa viene gestito atteggiamento e sopportato e produttivo, cosciente corrisponde ad un e realistico. Questo atteggiamento può essere concepito come una componente fondamentale, in una società conflittuale pluralistica, come quella moderna. Esso può essere solo il frutto di un lavoro individuale di elaborazione del proprio senso di colpa e del proprio vissuto emotivo. Tuttavia, lo sviluppo di un simile atteggiamento può essere facilitato allenandosi a tener conto, in una situazione conflittuale, soprattutto degli elementi positivi. In tal modo, il senso di colpa non viene vissuto come destrutturante, la valutazione della situazione appare meno inficiata da sentimenti svalorizzanti e, pertanto, più realistica e obiettiva. Il conflitto ha una sua logica ”in quanto strettamente legato alle relazioni interumane e al loro utilizzo per impiegare l’energia psichica”.16 Essa consiste nel dilemma tra povertà e ricchezza energetica. Il timore della povertà energetica o la speranza della ricchezza rappresentano un punto fondamentale per la comprensione e trattamento del conflitto. Il problema del singolo è se investire o no la propria energia psichica: cosa succede se non accontento un desiderio? Quale che sia la scelta, le conseguenze (allegria/tristezza) incidono sul singolo ma anche sul collettivo. tratto da Spaltro L’utilizzo delle energie disponibili in un individuo pone il problema dei rapporti tra desiderio e repressione. Lo schema 10 evidenzia il nesso 16 ibidem, p.125. desiderio-repressione: non vi è desiderio senza repressione. Inoltre, un eccesso di desiderio porta al bivio tra un comportamento liberante (antirepressivo) o di rimozione (eccesso di repressione). Quindi, se prevale il desiderio si va in rivolta; se prevale la repressione si va in frustrazione. Schema 10 tratto da Spaltro Il conflitto rivolta-frustrazione è ricorrente nella vita delle organizzazioni, specie nelle relazioni interpersonali in cui ognuno deve prendere, con la controparte, una posizione. In tali situazioni, ciascuno è chiamato a trattare il problema della paura che ogni conflitto porta con sé con il conseguente bilancio costi-benefici.. Uno degli scopi dell’organizzazione deve essere, quindi, di trattare il conflitto per il miglioramento del benessere per gli individui, i gruppi e i collettivi che la compongono. Questo significa mobilitare a un investimento energetico del singolo (allegria ed euforia), gruppale (potere) e collettivo (efficienza organizzativa). Il diagramma di schema 12 esprime bene questa idea: ogni cambiamento è un conflitto, cioè un movimento possibile da un punto a un altro punto del diagramma. schema 12 tratto da Spaltro La logica del conflitto, in tal senso, innesca una logica di circolo virtuoso di euforia, sentimento del potere e ricchezza psichica e perde la connotazione negativa di malessere, impotenza e povertà psichica.