GIE - Gruppo Italiano di studio di Ematopatologia INDAGINI DI CARATTERIZZAZIONE CITOFLUORIMETRICA E GENETICO- MOLECOLARE PREFAZIONE La diagnosi delle malattie linfoproliferative si basa sull’integrazioni delle informazioni istomorfologiche con i dati clinici e biologici. Per un percorso diagnostico corretto e completo si devono poter affiancare allo studio morfologico altre indagini quali lo studio immunofenotipico in citofluorimetria a flusso, lo studio molecolare della clonalità linfocitaria e di alcune traslocazioni cromosomiche, lo studio citogenetico tradizionale e molecolare. Nell’ambito di queste indagini più avanzate, sono incluse anche quelle che forniscono informazioni con significato prognostico e quindi indispensabili per un iter terapeutico adeguato. Attualmente sono pochi i laboratori di ematopatologia “full service”, capaci cioè di eseguire routinariamente tutte le indagini possibili. Questo perché tali laboratori devono possedere una serie di requisiti: 1) personale con professionalità elevata e background specifico in ogni campo di indagini, in grado di interpretare correttamente i risultati biologici, tradurli in dato clinico ed integrarli con le altre informazioni diagnostiche, 2) reagenti e, soprattutto, strumentazioni con costi elevati, 3) elasticità nell’organizzazione del lavoro e capacità culturale ed economica di adeguarsi allo sviluppo tecnologico. Devono avvicinarsi in altre parole ad un laboratorio di ricerca traslazionale. Quest’ultimo punto è molto critico e deve essere considerato con attenzione se si vuole sviluppare un laboratorio di anatomia patologica full service. Infatti, le innovazioni in questo ambito sono rapidissime e pretendono continui cambiamenti nell’organizzazione dei processi di lavoro, necessitano di casistiche sufficienti che permettano la validazione delle nuove metodiche e lo sviluppo dell’esperienza professionale relativa, di continui aggiornamenti informatici, di adeguamenti nelle procedure di processazione e archiviazione del materiale e rinnovamenti nelle strumentazioni. Per tali motivi, in parecchie realtà nazionali ed internazionali, per esempio in UK, si tende ad organizzare l’attività diagnostica delle malattie emato oncologiche in laboratori specialistici organizzati su base regionale. Un importante punto critico è il trattamento del materiale biologico e la sua archiviazione. Infatti le varie metodologie molecolari, citogenetiche e citofluorimetriche richiedono una adeguata preparazione del campione che spesso deve essere trattato in maniera differente per l’una o l’altra. 1 GIE - Gruppo Italiano di studio di Ematopatologia Di conseguenza, una precisa e condivisa standardizzazione delle procedure di preparazione del campione che renda eseguibile tutte le tecniche anche in un secondo momento diagnostico è fondamentale per una diagnosi corretta a più steps. Inoltre, l’archiviazione corretta del campione residuo (DNA, RNA, sospensioni cellulari in DMSO) permette di sfruttare la casistica diagnosticata per indagini future e la partecipazione a studi multicentrici internazionali. METODICHE BIOLOGIA MOLECOLARE Lo studio molecolare delle malattie linfoproliferative consiste principalmente nello studio della clonalità linfocitaria B e T, mediante l’analisi dei riarrangiamenti delle Ig e del TCR rispettivamente, e nello studio delle principali traslocazioni legate alla diagnostica dei linfomi e delle leucemie linfoidi. Recentemente, si sono aggiunte indagini molecolari rivolte allo studio di altre traslocazione e di particolari geni con significato prognostico o di risposta alle terapie (per es. delezioni/mutazione p53, p16, presenza della traslocazione di MALT1) All’esordio, la tecnica utilizzata era il southern blot, ma l’avvento della polymerase chain reaction (PCR) ha portato in brevissimo tempo alla sua sostituzione perché nonostante il southern blot fosse una tecnica affidabile, mostrava enormi svantaggi rispetto alla PCR. Infatti, con la tecnica della PCR si possono ottenere le stesse informazioni, ma con maggiore facilità, rapidità e su materiali con poche cellule quali agoaspirati, piccole biopsie, e materiale congelato o incluso in paraffina. Queste caratteristiche non devono però far sottovalutare la complessità di queste indagini, occorre infatti conoscere a fondo i limiti delle metodiche che si utilizzano e possedere profonda esperienza per evitare errori . A titolo esemplificativo, si descriveranno alcune problematiche, sia di tipo interpretativo sia di tipo più marcatamente tecnico, che riguardano le indagini molecolari: 1) la presenza del background di linfociti normali policlonali che spesso accompagna la popolazione linfocitaria neoplastica può oscurare la presenza del riarrangiamento clonale. A tale proposito, è bene sottolineare come l’impiego di determinate tecniche di analisi degli amplificati genici rispetto ad altri fa aumentare la sensibilità e rende l’interpretazione dei risultati più sicura. Un tipico esempio è il confronto tra l’analisi dei prodotti delle PCR su gel di agaroso e/o poliacrilamide rispetto all’elettroforesi capillare seguita dall’analisi con il software 2 GIE - Gruppo Italiano di studio di Ematopatologia Genescan. Quest’ultima ha un potere risolutivo superiore con una sensibilità che può arrivare a definire il clone neoplastico in un pattern policlonale, quando esso è rappresentato allo 1% o, in alcuni casi allo 0.5% (contro una sensibilità del 5% delle altre metodiche). 2) La monoclonalità molecolare non è sinonimo di malignità. Questo è particolarmente vero nei casi di proliferazioni a cellule T, nei casi di gammapatie monoclonali benigne e nelle prime fasi delle proliferazione supportata da infezione da EBV, per es. nei pazienti immunodeficienti. 3) I riarrangiamenti delle Ig e del TCR non sono da considerarsi lineage specifici. Ormai è accettato che possono coesistere riarrangiamenti delle Ig e del TCR soprattutto nelle forme acute linfoidi, a volte si trovano monoclonalità linfoidi nelle forme mieloidi acute o ancora si è osservata la presenza del riarrangiamento clonale del TCR in forme linfoidi B. 4) falsi positivi: è un problema reale ed è limitabile solo se si è in grado di analizzare i segmenti genici amplificati mediante metodiche differenti: elettroforesi su gel, analisi di heteroduplex, o mediante genescan. Confrontare i risultati ottenuti con differenti approcci perme di discriminare con maggiore sicurezza le condizioni policlonali, oligoclonali, monoclonali. 5) falsi negativi: possono essere dovuti a due motivi: uno legato alla fisiologia dei linfociti B e uno legato ai reagenti che si utilizzano. Il primo riguarda il processo di mutazioni puntiformi che avviene fisiologicamente durante il passaggio nel centro germinativo dei linfociti B. Queste mutazioni somatiche e casuali non permettono a volte il legame dei primers al riarrangiamento clonale perché non viene riconosciuto come complementare a causa delle mutazioni. E’ possibile cercare di ovviare in parte a questo problema, che è evidente soprattutto nei casi di linfoma centrofollicolare, utilizzando molteplici approcci di PCR. Si deve essere in grado di amplificare segmenti genici differenti delle Ig (FR3-Jh, F2-JH, Fr1-JH, etc). In questa maniera se un set di primers non si lega al riarrangiamento perché mutato, è probabile che in altro punto non siano presenti mutazioni e quindi possa avvenire il legame. Il secondo motivo è più tecnico ed è legato al disegno dei primers che si utilizzano. La costruzione dei primers, che è il primo step da affrontare nella messa a punto delle tecniche di PCR, è molto delicato e deve tenere presente di alcune regole fondamentali. Per questo motivo, già nel 2003 è stato pubblicato uno studio multicentrico europeo nel quale sono descritti protocolli standards ai quali ci si raccomanda per l’esecuzione dei tests (van Dongen JJ et al, Leukemia. 2003 Dec;17(12):2257317, vedi allegato). Nell’ambito di questo studio sono state pubblicate le sequenze dei primers da utilizzare. Da allora, ulteriori migliorie e standardizzazioni sono state effettuate nei vari 3 GIE - Gruppo Italiano di studio di Ematopatologia laboratori. Questo continuo evolversi dei protocolli rende necessario che periodicamente si pongano a confronto le differenti esperienze per portare le indagini ad un livello sempre più alto di affidabilità. 6) Contaminazioni. Effettuare amplificazioni geniche comporta il rischio reale e anche abbastanza frequente di contaminazioni di DNA provenienti da individui diversi. Naturalmente la presenza di DNA anche in minime tracce di un altro paziente porta a risultati errati. Questo serio problema può essere almeno limitato da: 1) esperienza dell’operatore, 2) riduzione del numero di nested PCR, 3) controlli eseguiti ad hoc per ciascuna pcr eseguita, 4) esecuzione della sequenza nucleotidica delle regioni amplificate per identificare tratti genici paziente-specifici. Quest’ultimo controllo è il più sicuro, ma necessita di un sequenziatore in laboratorio, della capacità di lettura ed interpretazione delle sequenze ottenute, di un data-base delle sequenze dei pazienti pervenuti in laboratorio per confrontarle ogni volta con il nuovo campione. Conseguentemente a queste considerazioni, per una corretta interpretazione i dati molecolari devono sempre essere integrati con le informazioni morfologiche, immunofenotipiche, etc e discussi con i patologi, ematologi e citogenetisti. Recentemente si è sviluppata una altra metodica che permette di quantificare accuratamente il gene in esame, la real time. Questa tecnica è utilizzata in primo luogo per lo studio della malattia minima residua (MRD) nel follow up dei pazienti, ma può essere utilizzata per quantificare specifici geni che in base alla loro espressione hanno significato prognostico. Anche in questo caso il laboratorio deve fare un nuovo sforzo sia metodologico che economico (costruzione di primers e sonde specifiche, messa a punto di protocolli affidabili e l’acquisto di strumenti dedicati di costo elevato). Infine, un accenno deve essere fatto alla grande quantità risultati che negli ultimi anni sono stati prodotti mediante gli studi di gene expression profiling. Queste informazioni sicuramente stanno aiutando a chiarire la patogenesi e la biologia delle sindromi linfoproliferative ma per un’utilità pratica nella diagnostica e terapia è necessario che queste informazioni vengano tradotte in dati di utilizzo clinico. Un esempio recente di questo processo che ha visto l’integrazione di molte competenze (ematologi, patologi, biologi molecolari) riguarda la leucemia linfatica cronica. Mediante studi di gene expression profile eseguiti su ampie casistiche di LLC ben caratterizzate dal 4 GIE - Gruppo Italiano di studio di Ematopatologia punto di vista fenotipico e clinico è stata individuata una singola molecola (ZAP70) che ha un significato prognostico importante. I laboratori onco-ematologici hanno avuto il compito di raccogliere la casistica, caratterizzarla dal punto di vista diagnostico e successivamente di eseguire la validazione e standardizzazione delle procedure per la sua determinazione. CITOFLUORIMETRIA L’importanza dell’indagine citofluorimetrica in campo onco-emaologico è cresciuta nel corso dell’ultimo decennio. Questo è dovuto a più aspetti: 1) allo sviluppo tecnologico che ha portato a citofluorimetri molto evoluti che permettono strategie di analisi e gating sofisticate, 2) all’elevato numero di nuovi marcatori che rendono sempre più precisa la caratterizzazione fenotipica di ciascuna forma di malattia linfoproliferativa, 3) alla possibilità di correlare i dati citofluorimetrici con quelli provenienti da indagini citogenetiche e molecolari, oltre a quelle tradizionali morfologiche e citologiche. Il contributo attuale della citofluorimetrica a flusso riguarda non più solo la diagnosi differenziale e la classificazione delle forme secondo la WHO, ma anche il monitoraggio della malattia minima residua e l’individuazione di sottogruppi nell’ambito di ciascuna entità linfoproliferativa caratterizzati da prognosi e risposta alla terapia differenti, nonché l’identificazione di possibili bersagli terapeutici. Bisogna, inoltre, ricordare che la citofluorimetria insieme alla proteomica è un valido strumento per la validazione e lo studio di molecole individuate dagli studi di gene expression profiling. Come per gli studi molecolari e citogenetici, anche le indagini citofluorimetriche sono metodologie complesse, che richiedono esperienza, professionalità e la possibilità di studiare ampie casistiche. Gli approcci possibili alla analisi immunofenotipica possono essere svariati, con metodiche di preparazione e marcature dei campioni differenti ma soprattutto con la formulazioni di pannelli anticorpali caratteristici di ciascun laboratorio. La diffusione e l’importanza di questa metodica ha portato all’esigenza di uniformare e standardizzare almeno parte delle modalità operative e i principali centri di diagnostica stanno facendo un grosso sforzo per arrivare ad una almeno parziale uniformità di lavoro. Infine, vale il prinicipio generale e fondamentale che i risultati delle indagini immunofenotipiche vanno inseriti in un contesto di valutazioni cliniche e di laboratorio i più ampi possibili, vedi morfologia, citochimica, citogenetica e biologia molecolare. 5 GIE - Gruppo Italiano di studio di Ematopatologia FISH Negli ultimi anni la metodica FISH (fluorescence in situ hybridization) è divenuta un supporto essenziale per la evidenziazione di anomalie cromosomiche associate ai processi linfoproliferativi. Recentemente, un gruppo di studio europeo ha tentato di standardizzare l’applicazione della FISH su tessuti in paraffina con risultati decisamente brillanti (Ventura et al, J Mol Diagnostic, 2006; 8: 141-151, vedi allegato). Conseguentemente, la possibilità di poter utilizzare materiale incluso in paraffina ha senza dubbio favorito la sua diffusione e molti laboratori di anatomia patologica attualmente la utilizzano. Numerose sono tuttavia le problematiche sia tecniche che interpretative connesse con l’utilizzo di tale metodica di indagine. Le prime vanno dal taglio, allo smascheramento ed al trattamento proteolitico delle sezioni per renderle idonee ai successivi passaggi e dalla scelta dei probes presenti in commercio (break-apart probe versus dualfusion probe) all’ eventuale utilizzo di “homemade probes”. Tenendo sempre presente che anche altri fattori precedenti alla inclusione (tempo intercorso tra l’asportazione del linfonodo e la sua fissazione, tempo di fissazione e tipologia del fissativo ed altri ancora) possono inficiare il risultato della indagine e renderne necessaria la ripetizione. Le seconde sono inerenti alla valutazione ed interpretazione dei risultati per le quale, oltre ad essere necessario un controllo sia positivo che negativo, è necessario un attento studio della area da scegliere per la valutazione (presenza in numero elevato di nuclei chiaramente identificabili e con segnale nitido), una approfondita conoscenza di eventuali artefatti (legati per esempio a perdita di un segnale dovuta al sezionamento), un utilizzo di un appropriato cut-off e la conoscenza di anormalità cromosomiche complesse eventualmente associate alla anomalia cromosomica specifica ricercata. Per quanto sopra detto tale metodica di indagine presuppone, oltre alla acquisizione delle necessarie strumentazioni di costo elevato comprendenti anche successivi upgrade del sistema software di gestione delle immagini, la presenza di personale dedicato in grado sia di gestire un numero sufficiente di indagini atte a giustificare un tale impegno di capitale sia per garantire una precisa valutazione dei risultati che potranno così essere integrati ai dati morfologici, fenotipici e molecolari per la esatta definizione diagnostica del processo linfoproliferativo. 6