Prefazione
Chi si incarica di presentare al pubblico la prima traduzione italiana di uno
scritto filosofico antico può trovarsi in gravi difficoltà, spinto da opposte esigenze:
da una parte l’impegno di fornire al lettore un inquadramento standard dello scritto
e del suo autore, basato sulle interpretazioni più accreditate, e, dall’altra, il desiderio di intervenire in modo personale nel dibattito, fornendo una propria prospettiva,
frutto inevitabile del lavoro svolto intorno al testo dell’autore. Dovendo esporre la
polemica antideterministica di Alessandro di Afrodisia ad un lettore che immaginiamo essere non lo specialista, ma lo studente o lo studioso di filosofia, interessato alla questione del determinismo ed al confronto tra le antiche discussioni e le
teorie filosofiche moderne, noi abbiamo deciso di attestarci su di una posizione di
compromesso.
Non ci impegneremo quindi ad una trattazione completa di tutti i problemi di
questo testo, ma solo ad indicare i temi teoreticamente più interessanti; e siccome
la comprensione della polemica di Alessandro di Afrodisia presuppone la conoscenza della teoria stoica del destino, dato che gli Stoici nel mondo antico furono i
principali sostenitori del determinismo, presenteremo un panorama generale e molto sintetico di questa difficile e complessa dottrina stoica, senza proporci l’ambizioso obiettivo di darne una lettura critica originale. Per quanto riguarda la posizione di Alessandro, invece, ci distaccheremo in parte dalle correnti prevalenti
nella letteratura contemporanea, spesso molto critiche verso il de fato, per sottolineare la coerenza di quest’opera e situarla sullo sfondo della dottrina di Aristotele.
Ci pare infatti che l’autore si mantiene fedele alle istanze più profonde della filosofia di Aristotele, pur innovando in vari punti particolari. Ciò non deriva da un preconcetto desiderio di concordia: è stato infatti giustamente affermato che una interpretazione troppo creativa può sempre riuscire a trovare una qualche forma di coerenza in qualunque testo preso ad oggetto. Ci pare piuttosto che dallo sforzo di ritrovare il filo unitario che lega le varie affermazioni di Alessandro derivino risultati
interessanti e non banali dal punto di vista della filosofia morale e della teoria
dell’azione, e che quindi questa linea di lettura possa essere utilmente tentata.
Da un punto di vista filosofico, e non puramente storico, infatti, questo scritto
presenta elementi interessanti sia di contenuto che di forma. Per quanto riguarda il
contenuto, il de fato mostra quanto la questione del determinismo e la filosofia dell’azione umana siano legate al concetto di causa, e dipendano strettamente da esso.
8
Prefazione
Alessandro, sulla scia del suo maestro Aristotele, che non ebbe una teoria del destino, ma polemizzò in varie sue opere contro le concezioni deterministiche, ci
presenta una interpretazione dell’azione umana di grande interesse, fondata com’è
su di un concetto di causa diverso da quello moderno.
La prospettiva di Alessandro potrebbe forse fornire, oggi, la base concettuale
per una ‘terza via’ teorica nella discussione sulla filosofia dell’azione tra le analisi
basate sul concetto di spiegazione e quelle basate sul concetto ‘humiano’ di causa.
Grosso modo, tale espressione è usata oggi per indicare un rapporto tra due eventi,
tale che uno preceda l’altro, regolarmente, sotto il governo di una legge generale, a
condizione che i due eventi siano definibili l’uno indipendentemente dall’altro.
Tale concetto di causa talvolta viene identificato, da parte di alcuni autori di lingua
inglese come equivalente al concetto moderno di causa, in assoluto1. Questa posizione potrebbe essere soggetta ad obiezioni, e una parte della filosofia contemporanea non accetta l’equivalenza di ‘causa humiana’ e ‘causa’ in generale2. D’altra
parte Alessandro è anche lontano dalle analisi del concetto di causa ispirate al
concetto di spiegazione, in una interpretazione dall’aria wittgensteiniana, per cui
considerare un evento alla luce di certe cause è, alla fine, frutto di un nostro modo
di vedere3.
Dal punto di vista storico, inoltre, la discussione tra Stoici ed Aristotelici nel
de fato è potenzialmente molto interessante: in essa infatti si scontrano le due filosofie dell’azione più importanti del mondo antico4, e ciò, a prima vista, potrebbe
costituire una ottima occasione per una descrizione più esatta e puntuale delle due
posizioni. Ma il trattato di Alessandro è limitato ad un tema particolare, seppure
importante nel contesto della filosofia dell’azione, quello del destino e della responsabilità, e la sua forma letteraria limita l’importanza delle informazioni che
possiamo trarre da esso.
Per quanto riguarda la forma, il de fato contiene una breve esposizione della
teoria ‘aristotelica’ del destino (capitoli II-VI) ed una discussione critica delle tesi
--------------------------------------------
1 È emblematica la posizione di Barnes (1975), p. 96, che aveva scritto: “Philosophical usage ... seems generally to base itself on a Humean analysis of causation; and an aitia is not a Humean cause. For
this reason it is probably advisable to adopt a different translation; ‘explanation’ seems better than
‘reason’”.
2 Sui legami tra l’interpretazione humiana del concetto di causa ed il positivismo ottocentesco di
Comte e Stuart Mill, cfr. von Wright (1971), cap. I: Due tradizioni. Per una concezione realista della
causalità come produttività ed una critica all’empirismo, cfr. Bunge (1959), capitoli I-IV; una critica
alla concezione empiristica della causalità, da punti di vista diversi, anche in Wallace (1972-1974), vol.
II, capitoli 4 e 5; Ricoeur (1977), capitoli II/4 e V; Ricoeur (1986), p. 163. Un tentativo di interpretazione del concetto aristotelico di causa alla luce della teoria di M. Bunge, è in Espinosa (1992); sulla storia
del concetto di causa vedi ora Esposito e Porro (2002), e, per il mondo antico Hankinson (1998).
3 Sull’approccio wittgensteiniano cfr. Petit (1991), pp. 197-226. Un approccio linguistico alla causalità anche in Wieland (1962).
4 Infatti in Platone non vi è ancora una chiara distinzione tra azione e produzione, praxis e poiesis. Su
Platone cfr. Goldschmidt (1945); Cambiano (1971); Irwin (1977); Bubner(1987); Cambiano (1991). Su
Aristotele vedi Charles (1984); sugli Stoici Inwood (1985). Sulla teoria epicurea cfr. Sedley (1988);
Annas (1993); Masi (2005), sulla teoria dell’azione in Galeno, Hankinson (1993).
Il destino
9
deterministiche, centrata sulla posizione degli Stoici, che tuttavia non vengono mai
nominati (capitoli VII-XXXVIII); mediante questa confutazione Alessandro dice di
sperare che anche certi aspetti della dottrina aristotelica del destino verranno chiariti (de fato 165, 1-5; 171, 18-22). La parte polemica del trattato è, in un certo modo, un esempio da manuale della difficoltà di comunicazione tra dottrine filosofiche diverse, e dell’impossibilità, per un filosofo, di spogliarsi completamente dei
propri presupposti teorici e rendere conto in modo obiettivo delle posizioni dei
propri avversari, quando si avventura in una polemica contro teorie opposte. Inoltre
Alessandro scriveva in un’epoca in cui la posizione stoica era ben nota, e le opere
degli Stoici antichi ancora facilmente reperibili, quindi non si attarda a descrivere
nel dettaglio le teorie dei propri avversari, come vorrebbero gli storici del nostro
tempo. Spesso poi Alessandro non esplicita alcuni degli assunti teorici tipici della
scuola peripatetica, che reggono la sua discussione, assunti che per un aristotelico
possono essere evidenti, ma cui a volte oggi non si pone mente a sufficienza. Molte
volte non si fa scrupolo di interpretare in termini propri o anche di deformare polemicamente le posizioni dei suoi avversari; non avendo per intento un lavoro di
tipo storico, egli non espone le posizioni degli Stoici con assoluta fedeltà allo spirito delle loro affermazioni, ma ci dice piuttosto cosa, a suo parere, le tesi degli Stoici vengono a significare una volta che ne siano tratte, dal punto di vista di un aristotelico, tutte le conseguenze logiche; e frequentemente, infatti, accusa i suoi
avversari di voler salvare esigenze contraddittorie o di non voler esplorare fino in
fondo le conseguenze delle loro tesi.
La traduzione che presentiamo si basa sul testo di Sharples (1983). Come è noto, in quella edizione non viene fornito un testo completo, ma solo una ristampa del
testo di Bruns, con una serie di annotazioni indicanti i punti ove il testo di Bruns
viene modificato.
La nostra interpretazione della posizione di Alessandro è esposta soprattutto
nell'introduzione, mentre il commento è abbastanza ridotto, e in generale è diretto
al chiarimento di punti particolari; si fa cenno a problemi testuali solo nei casi in
cui questi abbiano un peso rilevante per l'interpretazione filosofica. Nonostante le
differenze di interpretazione su alcuni punti della teoria del destino, questo lavoro
non pretende di sostituire il ricchissimo e molto sintetico commentario di Sharples,
di cui è in una certa parte tributario, ma solo di discutere dei punti teoricamente
importanti riguardanti la teoria dell'azione. Una certa insoddisfazione per la raccolta dei frammenti degli Stoici antichi curata da von Arnim, oggi diffusa tra gli esperti, ha portato alcuni autori recenti a omettere dalle loro citazioni dei frammenti
degli Stoici il riferimento alla numerazione di quella raccolta; ciò serve ad indicare
che i criteri e le scelte operate da von Arnim sono ormai da considerarsi superati,
ma crea qualche difficoltà nel lettore che voglia confrontare in modo rapido e agevole i testi originali; abbiamo quindi preferito, per comodità, mantenere l’uso di
10
Prefazione
citare anche la numerazione di von Arnim, aggiungendo, dove possibile, la numerazione della più recente, e più sintetica, raccolta di Long e Sedley.
E. Tetamo aveva tradotto il testo del de fato nel corso del lavoro di una tesi di
dottorato in filosofia antica: la traduzione che qui presentiamo costituisce il frutto,
collaborativo, di una nostra revisione del suo lavoro. Durante l’elaborazione di
questo testo siamo stati, in varie riprese, ospiti della Biblioteca dell'Ecole Normale
Superieure (rue d’Ulm, Paris) e della Fondation Hardt (Ginevra), istituzioni che
vorremmo qui ringraziare. Siamo grati anche ad E. Berti, A.M. Ioppolo, I. Sciuto,
E. Scribano, R. Sharples che hanno voluto cortesemente leggere parti di questo
lavoro ed offrirci preziosi consigli.
Padova, Febbraio 1995
In questa nuova edizione è stato aggiunto il testo greco a fronte della traduzione italiana, sono stati completamente riveduti e aggiornati l’introduzione, la nota
biografica, il commento e la bibliografia.
Il testo greco che qui si stampa, a fronte della nostra traduzione, è un tentativo di ricostruire il testo di Sharples sulla base delle sue indicazioni; di eventuali
errori siamo noi i soli responsabili. Un analogo tentativo si trova in Zierl (1995).
Nella traduzione abbiamo tenuta presente costantemente anche l'edizione di Thillet (1984) ed abbiamo controllato direttamente alcuni passi difficili sul ms. Marciano gr. 258. Viene mantenuta l'indicazione delle pagine e delle righe secondo
l'ed. Bruns.
Come nota Sharples (2008), gli studi su Alessandro degli ultimi decenni si sono sviluppati in un periodo in cui gli autori di lingua inglese erano pronti a sottolineare l’interesse dello studio degli autori antichi per i dibattiti contemporanei.
Questa tendenza è stata criticata recentemente in favore di un approccio più storico, tendente a riportare le tesi di un autore antico al loro contesto immediato ed al
dibattito del tempo. Da un punto di vista della tradizione italiana, in cui l’approccio
puramente storico è sempre stato prevalente, quella stagione ha avuto il rinfrescante effetto di indicare la strada di una lettura filosofica degli autori antichi; è questo
tipo di lettura che intendiamo riproporre con questa nuova edizione.
Stefano Maso ha curato editorialmente, con la consueta generosità e perizia, la
preparazione di questo volume; a lui tutti i ringraziamenti dell’autore.
Venezia-Parigi, Primavera 2009.
Introduzione
A) Il determinismo
1. Fato e destino
La questione del destino in età ellenistico-romana è una questione di fisica e
non fa parte di un discorso mitico o di una invenzione poetica. Il problema della
predeterminazione delle scelte umane era andato nascendo fin dall’età omerica ed
accenni ad una forma di determinismo si trovano già nel pensiero di Democrito.5
Ma nell’età classica l’heimarmene figura quasi esclusivamente nelle narrazioni dei
poeti e dei tragici, ed i filosofi mostravano di non considerare il ‘fato’ come un
argomento degno della loro riflessione. Successivamente, più o meno a partire dal
III sec. a.C. la questione del destino diviene parte di una dottrina fisica complessa,
che simboleggia e riassume in sé tutta una visione organica e razionale dell’universo. Solo in seconda istanza, in dipendenza dalle sue caratteristiche di concetto
fisico, l’idea di destino assume anche una rilevanza etica, e si connette ai problemi
della libertà e responsabilità dell’agire umano.
Gli autori del periodo romano hanno una chiara consapevolezza del salto qualitativo che il discorso fisico sul destino rappresenta rispetto al discorso mitico sul
‘fato’. Cicerone infatti afferma, nel de divinatione:
“Chiamo ‘destino’ quello che i Greci chiamano heimarmene, cioè la serie ordinata di
cause tale che, concatenandosi causa con causa, faccia derivare da sé qualcosa. Questa
serie è la verità sempiterna, svolgentesi da tutta l’eternità. Stando così le cose, nulla è
accaduto che non dovesse accadere ed allo stesso modo nulla dovrà accadere, di cui la
natura non contenga (già) le sue cause efficienti. Da ciò si capisce che è ‘destino’ non
ciò che viene detto tale per superstizione, ma ciò che viene detto tale dalla fisica, cioè la
causa eterna delle cose, per cui sono avvenute le cose passate, avvengono le cose presenti, avverranno le cose future. Cosicché avviene che attraverso l’osservazione si rie-
-------------------------------------------5
Su questa vicenda si veda Dirlmeier (1956), pp. 322-3, e i saggi racolti in Natali - Maso (2005);
contra, Bobzien (1998a).
12
Introduzione
sce, anche se non sempre, ad indicare quale cosa per lo più consegua ad una causa…
Inoltre, ammesso che tutto avviene per destino, il che sarà dimostrato altrove6, se vi
potesse essere un uomo capace di cogliere con la sua mente l’intreccio di tutte le cause,
di certo nulla potrebbe restargli sconosciuto. Infatti chi conoscesse le cause degli eventi
a venire, conoscerebbe necessariamente tutto il futuro. Ma dato che nessuno, tranne il
dio, può riuscire a tanto, rimane solo la possibilità che l’uomo preveda il futuro come
conseguenza di alcuni segni che indicano quello che avverrà. Infatti il futuro non sorge
all’improvviso, ma somiglia allo srotolarsi di una gomena: così è lo svolgersi del tempo, che non produce nulla di nuovo e ritorna al punto di partenza” (I 55, 126-127 = SVF
II 921 e 944)7.
E, qualche secolo dopo, Alessandro d’Afrodisia ribadisce questo stesso giudizio, quando afferma che il problema del destino è un problema fisico con delle
ricadute etiche:
“Fisiche sono le proposizioni sull’aumento, sul movimento, e quelle sulla generazione e
la corruzione, e che ogni cosa generata è corruttibile, e quelle che conseguono da
queste; anche tra i problemi e le proposizioni fisici ve ne sono alcuni che riguardano lo
scegliere e l’evitare: infatti il problema ‘se tutto avviene per destino e in modo necessario’, che è fisico, ha riferimento allo scegliere ed all’evitare, infatti dipende da ciò se
può sembrare opportuno il deliberare sul da farsi” (Comm. in Aristot. top., p. 95, 7-12,
Wallies).
Questo mutamento del livello del discorso si verifica soprattutto per opera degli Stoici, in specie di Crisippo, che dettero forma razionale e dignità teorica ai
miti, reinterpretando vari elementi del “conglomerato originario” mitico (Dodds) in
forma teoretica. Per tali motivi la discussione che Alessandro di Afrodisia sviluppa
nell’opuscolo sul destino è condotta sul piano puramente razionale, con argomentazioni logiche, fisiche e metafisiche, nonché in base a richiami etici, allo scopo
evidente di combattere teorizzazioni fisiche che Alessandro giudicava sbagliate in
sé e capaci di portare a conseguenze pericolose sul piano della prassi.
Ciò potrà deludere coloro che nello studio del mondo greco cercano l’emozione dell’assolutamente altro da noi e dalla nostra cultura, la suggestione del mito,
l’allusività della parola poetica, o un’alternativa ai presunti mali filosofici della
nostra epoca. Il mondo concettuale che troviamo in questo saggio, per quanto si
basi su coordinate diverse dalle nostre, non è un mondo antitetico ai modi della
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6 Il rinvio potrebbe essere al de fato di Cicerone, in cui, tuttavia, invece della dimostrazione che tutto
avviene per destino, si ha una critica di questa teoria; cfr. Timpanaro (1988), p. 324.
7 La stessa idea in II 7, 19: “…sebbene tu [Quinto] dicevi che tutte le cose che avvengono o avverranno sono contenute nel destino. Certo la stessa parola ‘destino’ è una parola da vecchierelle, piena di
spirito superstizioso, tuttavia tra gli Stoici si discute molto di codesto destino”. Cfr. II 15, 35-36, e, per
contrasto, Plat. Gorg. 527a, in cui Socrate afferma che è necessario accontentarsi di racconti da vecchiette, quando non si hanno a disposizione ragionamenti più veri. Gli Stoici sembrano appunto essere
in possesso di questi ragionamenti più veri.
Il destino
13
nostra riflessione teorica e parla una lingua a noi comprensibile, anche se si occupa
in modo inusuale di argomenti dall’apparenza piuttosto strana. Va da sé che quanto
si afferma non comporta assolutamente l’identificare anacronisticamente la fisica
degli Stoici e dei Peripatetici con la scienza moderna, o la dottrina di Crisippo, che
vedremo più avanti, con il determinismo della fisica ottocentesca.
2. Il destino nelle opinioni comuni
Al livello più elementare, la differenza tra la concezione mitica del destino e
quella filosofica consiste nel fatto che nella concezione mitica non tutto quello che
gli uomini fanno, o che avviene loro, è attribuito al destino, mentre nella concezione stoica il destino non è altro che un nome per indicare la stretta connessione di
tutti gli eventi in una unica rete causale necessaria.
Non possiamo presentare qui, nemmeno a grandi linee, i vari aspetti della concezione mitica del destino8; ci limitiamo ad indicare qualcuno dei principali elementi presenti nei poemi omerici, dato che questi poemi furono sempre alla base
della formazione culturale dei Greci antichi.
Nel mondo omerico si attribuiscono al destino due tipi di eventi. In primo luogo vi è il destino di morte, che è ineluttabile, ed è l’elemento che distingue la razza
umana da quella degli dei, i quali controllano gelosamente che nessun uomo possa
sfuggire a questo destino, annullando così la distanza tra uomo e dio (Il. VI 440443, XXII 178-181). In vari passi dell’epica si suggerisce, in maniera alquanto
oscura, che l’immortalità degli dei è legata al fatto che essi non mangiano il cibo
degli uomini, e che potrebbero perdere le prerogative della loro stirpe se lo facessero (Il. V 341-342 e Inno ad Hermes, vv. 130-137). A parte questo, al destino si
attribuiscono soprattutto gli accadimenti imprevisti, imponderabili, che rompono la
catena logica di un progetto d’azione o sconvolgono lo scorrere ordinario e abituale
della vita. In Omero rientrano nel destino anche gli esiti prestabiliti dei grandi
eventi: è destino che Troia cada, e gli dei possono, al massimo, ritardare questo
evento, ma non certo impedirlo. Così Omero, e con lui gli altri poeti e
tragediografi, mescolano insieme due nozioni che noi oggi sentiamo come
distinte: da una parte il destino biologico, il fatto che chi nasce debba morire (Il.
VI 488-489; XXIII 78-79), dall’altra gli eventi decisivi della vita, specialmente
della vita di eroi e di re.
All’interno di questa rete a maglie molto larghe l’iniziativa umana e divina ha
un suo spazio; molti degli eventi narrati da Omero dipendono dall’ispirazione che
un dio insinua in questo o quell’eroe, ma molti altri sono attribuiti alla pura iniziativa umana, indipendentemente dal destino e dall’intervento di un dio.9 In molti
-------------------------------------------8
Una ampia panoramica si trova in Gundel (1912); vedi anche i capitoli I-III di Magris (2008).
La critica dell’inizio del secolo, specie di lingua tedesca, ha forse ecceduto nel ritenere che vi sia in
Omero una concezione del destino come Weltgetriebe, meccanismo universale che regola tutti gli
9
14
Introduzione
casi gli eroi omerici agiscono da soli, anche in momenti decisivi, e le loro azioni,
quando hanno successo, possono addirittura essere credute dagli altri frutto
dell’intervento di un dio, come quando Enea ed Ettore fermano l’esercito troiano in
fuga rovesciando l’andamento di una battaglia (Il. VI 75 e 707), o quando Nestore
consiglia di fortificare il campo dei Greci con un muro, attorno al quale si combatterà a lungo nel poema (VII 356-357).10 Il dio è libero di intervenire quando vuole:
ad esempio la freccia che fu scagliata da Teucro contro Ettore andò a colpire un
altro troiano, Archeoptolemo, perché Apollo, per salvare Ettore, la deviò; ma non
tutte le frecce che non colgono il bersaglio sono deviate da Apollo. Apollo, inoltre,
non si cura affatto di aver danneggiato Archeoptolemo, dato che gli dei omerici
possono anche avere particolarmente cari certi uomini, ma in generale mostrano un
sovrano disprezzo per la stirpe umana come tale (Il. VIII 309-315). E a volte un
personaggio di Omero si dice pronto ad affrontare il destino che può conseguire
dalle sue scelte, di restare a combattere, andare a compiere un’ambasceria in campo avverso, sposare la moglie di un altro (Il. XVII 415-417, XXIV 218-227, Od. I
32-43), con una concezione condizionale del fato simile a quella che, molti secoli
più tardi, sarà elaborata dai filosofi.11
Un’eco dei versi di Omero sul destino di morte proprio della nostra stirpe si
trova spesso nella letteratura successiva, vedi ad esempio Lisia II 77-79:
“il demone che ha avuto in sorte il nostro destino è inesorabile (ho te daimon ho tên
hêmeteran moiran eilêchôs aparabatos) [ma i caduti della guerra contro Corinto] non
affidarono e loro cose alla fortuna (tuchêi) né attesero la morte spontanea (automaton
thanaton), scelsero invece (exlexamenoi) la morte più bella”.
Quindi il destino comune di morte però non esclude che l’uomo possa scegliere come morire. Quando Aristotele volle sottoporre a critica il determinismo, lo
fece con espressioni che ricordano quanto detto qui sopra:
-------------------------------------------eventi; cfr. tra i molti esempi Gruppe, (1897-1906), II p. 989, e Fränkel (1951), pp. 62-64; per contro
vedi Bianchi (1953) cap. I.
10 B. Snell, H. Fränkel e altri studiosi di lingua tedesca hanno negato che gli eroi di Omero compiano
delle vere e proprie scelte ed agiscano in senso proprio; tale interpretazione ha avuto un certo successo,
ma è stata rimessa in discussione dalla critica più recente, cfr. Lesky (1961); Dihle (1982), cap. 2;
Sharples (1983); una discussione di tutto il problema alla luce della filosofia dell’azione contemporanea
si trova in Gaskin (1990), con bibliografia.
11 La testimonianza più antica di questa dottrina è in Tacito, ann. VI 22: “io mi domando con incertezza se gli avvenimenti umani siano determinati dal destino e da una necessità immutabile, oppure si
susseguano senza legge né causa. Veramente, anche presso i più grandi filosofi dell’antichità, e presso
coloro che ora ne continuano il pensiero, si trovano a questo riguardo posizioni discordi (…) altri invece
credono che sugli avvenimenti pesi certamente un destino, non però determinato dal corso delle stelle,
ma racchiuso nelle cause prime e nelle conseguenze che ne derivano naturalmente: costoro ammettono
che sia concessa una iniziale scelta di vita, ma una volta compiuta tale scelta ne derivi una serie di
conseguenze inevitabili”. Cfr. Theiler (1945).
Il destino
15
“[secondo tale discorso] tutte le cose future avverranno necessariamente, per esempio
il fatto che il vivente muoia, infatti già è accaduto qualcosa [che è causa del morire], per
esempio il fatto che in lui ci siano i contrari. Ma se morirà ammazzato o di malattia,
non è ancora necessario, lo sarà se si verifica questa certa cosa. È dunque chiaro che si
arriva fino ad un certo principio, ma da questo non si risale oltre: questo sarà il principio di ciò che avviene per caso, e null’altro sarà causa di esso” (metaph. 1027b 11-14).
Questo brano aristotelico è denso ed oscuro, e negli ultimi tempi è stata intensa
la discussione tra i filosofi,12 noi faremo riferimento ad esso anche più avanti; intanto notiamo come Aristotele da una parte faccia riferimento alla omerica Moira
di morte, reinterpretandola in senso biologico (“si muore per la presenza dei contrari” cfr. Alcmeone di Crotone, fr. 4 D.-K.), e dall’altra parte faccia dipendere il
destino di ognuno dalle sue scelte. Ci troviamo qui di fronte ad una razionalizzazione del detto omerico, che è un modo di argomentazione abbastanza frequente tra
i filosofi greci.
Quanto al problema del libero arbitrio, fin dal tempo di Omero ci si è chiesti se
gli uomini portino la responsabilità delle loro azioni malvagie. La frase di Agamennone ha suscitato infinite discussioni sulla concezione arcaica della responsabilità e della colpa:
"io non sono colpevole ma la Moira e l'Erinni che nella nebbia cammina
esse gettarono contro di me nell'assemblea stolto errore
...
ma dal momento che ho errato, Zeus m'ha tolto la mente
voglio farne l'ammenda, dare doni infiniti" (Il. XIX, 86-90, 137-138).13
Già nell'Odissea si ha una prima affermazione della resposabiltà dei malvagi
per le loro azioni:
"Quante colpe danno i mortali agli dei
dicono che da noi vengono i mali, ma al contrario essi stessi
con i loro folli delitti si procuran dolori" (Od. I, 32-33).
Non vogliamo proseguire questa indagine. Ma è importante citare le parole di
Omero perché la sua testimonianza sarà usata dai filosofi posteriori nel dibattito sul
destino e la responsabilità umana.
Sia Socrate sia Platone, soprattutto nel Timeo (86b-87b), appaiono ancora legati al problema arcaico della responsabilità dei soli malvagi. Ad un certo punto però
la questione della responsabilità dei malvagi si trasforma nella questione più gene--------------------------------------------
12 All’origine della rinnovata discussione sul brano è l’importante lavoro di Sorabji (1980). Più recentemente vedi lo studio italiano di Donini (1989).
13 I testi classici sul tema sono Dodds (1951), Adkins (1960).
16
Introduzione
rale della libertà e della responsabilità umana per tutti gli atti volontari, sia buoni
sia cattivi. Il passaggio dalla formulazione arcaica del problema della responsabilità, che suona: "Gli uomini sono responsabili degli atti malvagi che commettono?",
alla formulazione più matura, che suona: "A quale condizione si può affermare che
gli uomini siano responsabili di tutti i loro atti, buoni o cattivi?", avviene con Aristotele. Infatti è in Aristotele che si trova l'affermazione per cui, se non siamo responsabili degli atti malvagi che compiamo, non possiamo nemmeno attribuirci il
merito delle nostre buone azioni (E.N., 1114b 12-16). Inoltre in Aristotele appare
per la prima volta nel suo uso tecnico l'espressione to eph'hemin, "ciò che dipende
da noi", con cui viene indicata la sfera della responsabilità dell'azione (E.N., 1112a
30-34); in Platone, a quanto ci risulta, l'espressione appare solo in Resp. 398b 5, e
non viene messa a tema in modo approfondito. In ogni caso è difficile porre una
cesura netta nella storia del dibattito greco antico sulla responsabilità e la libertà, o
stabilire quando, in che momento, sia nato il problema del libero arbitrio. La questione è venuta crescendo nel tempo, ed ogni scuola ha dato il suo contributo.14
3. La svolta stoica
A sentire le critiche degli avversari dello Stoicismo, anche Crisippo, il più importante esponente della dottrina stoica del destino, cercò sostegno alla sua posizione nei versi di Omero, oltre che nelle tragedie.15 Eusebio di Cesarea (III-IV sec.
d.C.) nella sua praeparatio evangelica, dedica il libro VI dell’opera ad una confutazione del fatalismo e della divinazione, e cita un certo Diogeniano,16 che polemizza contro il peri heimarmenes di Crisippo con queste parole:
“è il caso anche di presentare anche le dottrine dello stoico Crisippo intorno a questa
discussione. Costui infatti, nel libro I del trattato Sul destino, volendo dimostrare che
tutto è dominato dalla necessità e dal destino, si serve di varie testimonianze ed anche
di quanto dice il poeta Omero: ‘la Chera odiosa m’ha divorato/che nascendo ebbi in
sorte (Il. XXIII 78-79)’, e: ‘poi soffrirà quello che la Moira/filò col lino al suo nascere,
--------------------------------------------
14 Per questa ragione ci paiono poco convincenti i tentativi di Huby (1964) e di Bobzien (1998a) di
stabilire quale sia il momento della nascita del problema del 'Freewill Problem'. Queste studiose tendono a trovare un punto di svolta decisivo in quello che a noi pare uno sviluppo continuo. In particolare il
contributo di Bobzien ha la pecca di partire da una serie di definizioni astratte di 'determinismo' / 'indeterminismo' e di loro varie sottospecie, nonché di sottovalutare eccessivamente l'importanza della
riflessione di Aristotele. Una messa a punto della posizione di Aristotele, un po’ limitativa, si trova nel
recente articolo di M. Frede (2007). Abbiamo esposto la nostra posizione in Natali (2002) e (2005).
15 Sull’utilizzazione di Omero da parte degli Stoici si veda in generale Buffière (1956), cap. 5.
Un’ottima ricostruzione della posizione di Crisippo è in Bobzien (1998).
16 Su questo Diogeniano non si sa molto di preciso. Gercke (1885), pp. 693 e 701-703, ha sostenuto
che si tratta di un Epicureo del II sec. d.C.; ma Eusebio lo chiama “Diogeniano il Peripatetico” e in
effetti alcuni degli argomenti riportati da Eusebio hanno un tono più vicino all’aristotelismo che
all’epicureismo, cfr. des Places (1980), p. 19; vedi inoltre Gottschalk (1994), p. 1142 (lo ritene un
Peripatetico); Isnardi Parente (1990) (lo ritiene un Epicureo).
Il destino
17
quando la madre lo fece (Il. XX 127-128)‘, e: ‘ma la Moira, ti dico, non c’è uomo che
possa evitarla (Il. VI 488)’, non osservando che le cose dette in altri passi dal poeta si
oppongono diametralmente a queste; cose alle quali egli stesso fa ricorso nel II libro,
quando vuole sostenere la tesi che molte cose derivano anche da noi…” (VI 8, 1-2 = fr.
1 Gercke = SVF II 925).
Anche Plutarco, nel de stoicorum repugnantiis attesta la stessa cosa, dicendo:
“[Crisippo] dà stravaganti lodi a Omero per aver detto di Zeus: ‘perciò tenetevi il male
che manda a ciascuno (Il. XV 109)’, o il bene, e di Euripide che dice: ‘O Zeus, come
potei dire che i mortali infelici/hanno riflessione? Dipendiamo da te/e facciamo ciò che
capita che tu pensi (Suppl. 734-6)’, e lui stesso scrive molte cose in accordo con queste
parole, e dice alla fine che nulla, nemmeno la più piccola cosa, sta o si muove se non
secondo la ragione di Zeus, che è identica al destino” (1056 b-c = SVF II 997 = L&S
55R).
Quella di Crisippo è certo un’interpretazione allegorica di Omero, che sfrutta i
suoi versi per difendere una concezione del destino lontana dal pensiero del poeta;
essa dimostra che il riferimento ai dati della poesia e della cultura tradizionale
rimane ancora a lungo un modo di argomentare diffuso ed accettato. Anche Alessandro di Afrodisia nel de fato, come vedremo, segue questo modo di procedere
nella sua polemica contro Crisippo.
Un altro argomento usato da Crisippo a conferma della sua dottrina è costituito
dalle etimologie dei nomi divini: in molti di essi Crisippo trova accenni alle caratteristiche del destino. Questo argomento ci è riportato da varie fonti ostili allo Stoicismo, le quali danno un grande rilievo a queste elucubrazioni. Eusebio di Cesarea
ci racconta che, qualche pagina dopo il passo sopra citato, nel suo trattato Diogeniano soggiunge:
“Crisippo ritiene di portare un argomento formidabile del fatto che in tutto vi sia il
destino, attraverso la composizione dei nomi di questo genere. E infatti dice che la sorte
(pepromene) è amministrazione compiuta (dioikesis peperasmene) e perfetta (syntetelesmene), il destino (heimarmene) è un certo intreccio (eiromene) fatto o dalla volontà
divina o comunque da una qualche causa. Ed anche le Moire hanno il loro nome dallo
spartire (memeristhai) e dal distribuire qualcosa a ciascuno di noi. E così anche l’inevitabile (chreon) viene detto essere ciò che ci capita e ci costringe secondo il destino.
Ed anche il numero delle tre Moire indica i tre tempi in cui tutte le cose compiono il loro ciclo. Lachesi viene così chiamata per l’assegnare (lankanein) a ciascuno la sua sorte, Atropo secondo la fissità (atrepton) e l’immutabilità dell’assegnazione in sorte, Cloto dal fatto che tutte le cose sono intrecciate (synkeklotai) e incatenate e che c’è un solo
risultato già stabilito. Con questi vaneggiamenti ed altri simili ritiene di dimostrare la
necessità universale” (VI 8, 8-9 = fr. 2 Gercke = SVF II 914).
18
Introduzione
Diogeniano poi prosegue dicendo che è assurdo basarsi sull’etimologia, che è
un argomento che fa riferimento alle opinioni comuni, per uno Stoico che ritiene
che tutti siano folli; inoltre, anche se si accetta l’argomento etimologico, i nomi
delle Moire fanno riferimento alla necessità degli enti necessari, e non alla necessità universale.
Plutarco, di nuovo, conferma il racconto di Diogeniano:
“lo stesso Crisippo chiama il destino causa invincibile, ineludibile e inflessibile, lo chiama Atropo (immutabile) Adrasteia (cui non si può sfuggire), Necessità, Sorte (pepromene) dato che mette un limite (peras) ad ogni cosa” (1056c).
Ed Alessandro riprende negli stessi termini questa polemica (cfr. capitoli
XXXV-XXXVI). Una fonte non ostile agli stoici, Stobeo (sec. V d.C.), non solo
conferma il racconto di Diogeniano, ma ci dà ulteriori informazioni:
“Crisippo afferma che la natura del destino è potenza del pneuma, che governa il tutto
con ordine. Questo è nel secondo libro dell’opera Sul Cosmo. Nel secondo libro
dell’opera Sulle definizioni, nei libri Sul destino e qua e là in altre opere egli si esprime
in vario modo: destino è il logos del cosmo, o logos17 delle cose che stanno nel cosmo
governate dalla provvidenza, o logos secondo il quale è avvenuto il passato, avviene il
presente e avverrà il futuro, ed al posto del ‘logos’, mette ‘la verità’, ‘la causa’, ‘la natura’, ‘la necessità’,18 ed aggiunge anche altre denominazioni, ritenendo che si applichino
alla stessa natura secondo punti di vista sempre diversi. Afferma che le Moire prendono
il nome secondo la distribuzione (diamerismos) che dipende da loro: Cloto, Lachesi,
Atropo; Lachesi perché distribuisce con giustizia a ciascuno la porzione che ha avuto in
sorte, Atropo perché la divisione fatta a ciascuno è immutabile e inalterabile da tutta
l’eternità, Cloto, perché la distribuzione che avviene secondo il fato e gli eventi sono
ordinati in modo analogo all’intreccio dei filati (klothomenois), e ciò secondo l’interpretazione etimologica dei nomi e insieme il corretto confronto con le cose” (eclog. I
5, 15, p. 79, 1-20 W = SVF II 913 = L&S 55M).
Il brano ci dà alcune indicazioni importanti: prima di tutto, che Crisippo tornò
più volte sul tema del destino, in varie opere; ed infatti anche negli altri autori noi
troviamo citati vari scritti di Crisippo come fonti delle sue opinioni sul destino. In
secondo luogo, che Crisippo giudicò opportuno affrontare il tema del destino da
una pluralità di punti di vista, con trattazioni diverse ma compatibili, che esprimo--------------------------------------------
17 In un passo parallelo dello Ps. Plutarco qui si ha nomos, legge, e non logos: “Per Crisippo il destino è potenza del pneuma che governa l’ordine del tutto, e dice ancora nelle Definizioni : ‘destino è il
logos del cosmo, o legge (nomos) delle cose che stanno nel cosmo governate dalla provvidenza, o logos
secondo il quale è avvenuto il passato, avviene il presente e avverrà il futuro’. Per gli Stoici è una serie
di cause, cioè ordine e concatenazione inalterabile” (Ps. Plut. de plac. 885b).
18 metalambanei d’antì tou logou… ten ananken, ktl. Stobeo, o la sua fonte, paiono citare direttamente dal testo di Crisippo.
Il destino
19
no i diversi aspetti della complessa questione: “ritenendo che si applichino alla
stessa natura secondo punti di vista sempre diversi”.19 Quindi se si trovano nei suoi
scritti descrizioni differenti del destino, che viene identificato con il potere del
pneuma, con il governo del mondo da parte del logos, o con un intreccio, simile a
quello che si realizza nella filatura della lana per mezzo del fuso, ciò non deve
stupire, né si deve accettare come esatta storicamente una sola descrizione, rifiutando tutte le altre. Detto in breve, dalle fonti pare chiaro che, di volta in volta, il
destino è qualificato come l’operare dell’unica causa (Zeus, o il logos), come
l’intreccio delle molte cause e dei molti eventi del mondo, o come la serie degli
eventi esterni a chi agisce.20
La prima definizione riferita da Stobeo (“la natura del destino è potenza del
pneuma, che governa il tutto con ordine”) ha comunque un ruolo eminente, e ci
viene proposta come la definizione più generale e principale. In primo luogo quindi
il destino è l’operare dell’unica vera causa (cfr. anche Seneca ep. 65 e Plut. de
stoic. rep. 1056c = SVF II 346a e 931). Anche se l’esposizione di Stobeo è molto
abbreviata pare di capire che il destino è insieme la potenza di un corpo, una potenza razionale, una causa, ed una necessità che governa il tutto; e governa il tutto,
sia garantendone la connessione e la compattezza, da un punto di vista intemporale,
sia determinando in modo necessario la successione degli eventi nel tempo: “secondo il quale [destino] è avvenuto il passato, avviene il presente e avverrà il futuro”. La distinzione dei nomi delle Moire ci pare collegata con queste definizioni,
ed anch’essa esprime vari aspetti del destino: dal punto di vista dell’individuo
umano che agisce nel mondo, come “la porzione avuta in sorte”; da un punto di
vista esterno, come l’intreccio necessario degli eventi: “la distribuzione che avviene secondo il fato… gli eventi sono ordinati in modo analogo all’intreccio dei
filati”. Questo in gran parte conferma quanto ci ha detto all’inizio Cicerone:
anch’egli cita il destino come causa dello svolgersi temporale degli eventi, ed
anch’egli parla di una serie ordinata. La differenza pare solo nel fatto che Cicerone
parla di una serie di cause (ordinem seriemque causarum) e Stobeo di una serie di
eventi (ta gennomena).
Il concetto di una serie di cause ci viene però confermato anche da altre fonti.
Diogene Laerzio afferma:
“Crisippo nei libri Sul destino, Posidonio nel secondo libro dell’opera Sul destino, Zenone, Boeto nel primo libro dell’opera Sul destino, dicono che tutto avviene secondo il
destino; il destino è causalità concatenata delle cose o logos secondo il quale è governato il cosmo” (VII 149 = SVF II 915).
-------------------------------------------19 Ha
ragione su questo punto Theiler (1946) pp. 64-68, 73-78.
Che il destino possa essere inteso anche in questo senso è oggetto di una ampia discussione. Contraria Bobzien (1998), pp. 249-50, 301-10; Donini (1974a) pp. 193 e 209-16 osserva solo che tale
concezione è presente nel riassunto di Gellio ma non in Cicerone. Favorevoli Gould (1971), pp. 143145; Förschner (1981), p. 108; D. Frede (1987), p. 279; Ioppolo (1994), pp. 4527-9, (2007), p. 110.
20
20
Introduzione
E lo Ps. Plutarco (885b = SVF II 917 = L&S 28J = Aët. I 28, 4) conferma che,
per gli Stoici in generale, “(il fato è) una serie di cause, cioè ordinamento e connessione invalicabile”. La differenza non va sopravvalutata: ciò che è definito come
una connessione di eventi da un altro punto di vista può essere descritto come una
connessione di cause, se, come vedremo, l’idea di una serie di cause non viene
intesa come una forma di meccanicismo in senso moderno.
Su questo punto vi è stato un ampio dibattito. Infatti alcuni studiosi, prevalentemente di lingua inglese, concentrando l’attenzione sul destino come intreccio di
cause, o di eventi, hanno rintracciato nella fisica stoica la prima espressione della
legge della causalità universale e del determinismo fisico, alla maniera di Laplace,
cioè hanno rintracciato nel determinismo stoico una visione dell’universo simile a
quella della fisica classica, per cui ad ogni causa seguirebbe un effetto, causa a sua
volta di altro.21 Ma alcune reazioni critiche a questa interpretazione sono state
avanzate ben presto.22
Molti interpreti hanno concentrato l’attenzione sui molti passi in cui Zeus, o il
pneuma, o il logos, e comunque la realtà prima, viene considerato come la causa
unica di tutti i mutamenti che avvengono nei corpi, ed hanno rifiutato di ricollegare
la dottrina stoica del destino al determinismo della fisica ottocentesca, motivando
questo rifiuto in base alla dottrina stoica, su cui torneremo più avanti, per cui l’effetto è qualificato come un lekton (= esprimibile) ed un incorporeo. Essi sostengono che, siccome per gli Stoici (a) l’effetto è incorporeo, e (b) ciò che è incorporeo
non può essere causa di nulla, allora non è possibile che un effetto, o un evento, sia
a sua volta causa proprio perché incorporeo, e che, per questo motivo, non si può
attribuire allo Stoicismo una catena causale di tipo fisico, in cui ogni effetto ha una
causa ed è causa a sua volta di un altro effetto. Secondo Bréhier i singoli mutamenti, cioè gli eventi che si verificano nel mondo, rimangono alla superficie del cosmo
--------------------------------------------
21 Cfr. Samburski (1959), pp. 57-65; Long (1974) p. 217: Sharples (1983), pp. 8 e 146; Sharples
(1981) e (1986). Si confronti il passo di Cicerone, De divinatione (I 55, 126-7), citato prima, con la
seguente frase di Laplace (citata da Samburski [1959], p. 58): “Lo stato presente dell’universo è effetto
dello stato che lo precede, e causa dello stato che segue. Un intelletto che ad un momento dato conoscesse tutte le forze che governano la natura e la collocazione rispettiva di tutte le cose di cui esso è
composto… potrebbe comprendere nella stessa formula sia il movimento dei corpi più grandi dell’universo, sia quello dei più piccoli atomi: nulla di incerto vi sarebbe per lui, ed ai suoi occhi passato e
presente sarebbero identici”. Pur tenendo conto di tutte le differenze storiche e concettuali alcune somiglianze sono innegabili, e ci si potrebbe domandare quanto la cultura classica e la conoscenza di Cicerone abbia influenzato il modo di esprimersi dei fisici moderni. Su questo punto cfr. anche Brehiér
(1970), p. 13: la teoria stoica ha posto le condizioni di possibilità dello sviluppo teorico che si avrà in
Hume e nella fisica moderna.
22 In particolare la scuola francese: Bréhier (1951), pp. 130-131, 183, 192-194, ma cfr. p. 175; Bréhier (1970), pp. 10-13 e 34-6; Pasquino (1978); Duhot (1989), pp. 77 e 266-7 (invoca contro le interpretazioni modernizzanti i successi de ‘l’epistémologie française’ di Bachelard, Koyré e Canguilhelm);
Thillet (1984), pp. CXI-XV; inoltre Rist (1969), pp. 121-32; Botros (1985); una critica serrata ad ogni
riavvicinamento alle posizioni della fisica classica è da ultimo in Bobzien (1998), pp. 41-3, 163-4, 175 e
passim.
Il destino
21
come fatti staccati e, dal punto di vista causale, reciprocamente indipendenti in
quanto opera del solo pneuma.
Ancora altri, infine, tenendo conto dell’obiezione qui sopra citata e volendo
tuttavia mantenere una visione deterministica della teoria stoica, affermano che la
catena causale deterministica può sussistere, nonostante che l’effetto sia un incorporeo e un lekton, perché gli elementi della catena non sono le cause e gli effetti,
ma i corpi stessi. Ci spieghiamo meglio: in questa interpretazione, data una causa,
il successivo elemento nella catena causale sarà il corpo su cui la causa ha agito,
con l’aspetto nuovo che a causa di quella si è generato in lui.23 Quindi, se la causa è
un corpo, e, come dicono gli Stoici, è causa ad un altro corpo di un effetto incorporeo, non per questo le catene causali saranno annullate, esse risulteranno solo più
complesse: se a è causa a b dell’effetto che è un predicato ed un incorporeo, allora
il corpo b dotato della caratteristica c sarà a sua volta causa di altro, come nell’esempio seguente:
- il coltello affilato - è causa alla carne - del predicato ‘venire tagliata’
- la carne tagliata - è causa ai vestiti - del predicato ‘venire insozzato di sangue’
- i vestiti insozzati di sangue - sono causa alla sorellina piccola - del predicato
‘svenire’
e così via.
Una conferma di tale interpretazione secondo alcuni interpreti si trova nella teoria stoica dell’azione: l’agente umano, che è un corpo, agisce in quanto ha subito
l’influsso causale di un insieme di corpi esterni, influsso che consiste in una impressione sensibile. Ciò vuol dire che l’uomo agisce come un corpo in cui si è verificato un effetto, e che per questo si trova in un certo stato, cioè che agisce proprio in quanto ‘soggetto che ha avuto una certa impressione’ (“l’oggetto percepito
impressiona e quasi imprime nell’animo la sua forma”, diceva prima Cicerone).24
In ogni caso Alessandro d’Afrodisia, come vedremo, interpreta la posizione
stoica come un determinismo fisico rigoroso; egli sa che per gli Stoici Zeus è la
sola causa, ma afferma più volte che l’unica causalità divina agisce usando come
strumento della sua azione la natura degli enti di questo mondo, e che questi enti si
collegano reciprocamente mediante delle catene di tipo causale (cap. XIII). E anche
Cicerone, nel brano prima citato, indica chiaramente di non vedere alcun contrasto
tra l’affermazione della causalità suprema del destino, del logos e di Zeus, e l’affermazione di una catena deterministica di cause, ognuna delle quali dipende da
altro ed è causa di altro. Vi è forse alla base di ciò una qualche forzatura o semplificazione, ma per comprendere il senso del discorso di Alessandro si deve accettare
provvisoriamente come buona l’interpretazione, per così dire, ‘fisico-deterministica’ della posizione di Crisippo.
--------------------------------------------
23 Cfr. Barnes (1983), p. 177; Ioppolo (1994), pp. 4496 e 4500; Bobzien (1998), pp. 22-6, 50, 95,
134, 231-2, 260.
24 Long e Sedley (1987), I p. 343; Bobzien (1998), p. 260.
22
Introduzione
In caso contrario si dovrebbe ammettere che i critici dello Stoicismo siano stati
filosofi ben più acuti degli Stoici stessi, ed abbiano sviluppato - sia pure in prospettiva critica - in modo filosoficamente molto raffinato, e giungendo a conseguenze
ben più feconde di quelle tratte dagli stessi Stoici, certe potenzialità interne della
dottrina, rimaste ignote ai fondatori della scuola. La dottrina deterministica che, a
partire dal principio per cui ‘non esiste movimento senza causa’, vede nel mondo
una sola rete causale unitaria e ben connessa, tale da legare insieme tutti gli eventi
in una sola espressione razionale, è una concezione filosofica importante e feconda, che in qualche modo fa epoca nella storia del pensiero europeo. Una prospettiva deterministica di questo tipo, pur con tutte le differenze possibili rispetto al
determinismo moderno, emerge in modo abbastanza chiaro da certi testi polemici
contro la filosofia stoica: noi possiamo solo ritenere di poterla attribuire a Crisippo,
o di doverla mettere in conto a Cicerone, Alessandro e Diogeniano.
4. Argomenti crisippei
a) Un argomento usato da Crisippo per difendere la sua dottrina del destino è
quello tratto dalla divinazione: non possiamo discuterlo a lungo qui, anche se,
come vedremo, verrà ripreso da Alessandro di Afrodisia; ci limitiamo quindi a
citare di nuovo le parole di Diogeniano citato da Eusebio di Cesarea:
“Nel libro predetto (= Sul destino) porta anche un’altra dimostrazione, del tipo seguente. Dice che le previsioni degli indovini non potrebbero essere vere, se tutte le cose non
fossero contenute nel destino. (…) Questa dimostrazione Crisippo ci ha portato, cercando di provare ognuna delle due affermazioni attraverso l’altra: vuole dimostrare che
tutto avviene per destino sulla base del fatto che vi è la divinazione, ma che vi è la divinazione non lo potrebbe dimostrare altrimenti, se non sulla base del fatto che tutto avviene per destino” (IV 3, 1-2 = fr. 4 Gercke = SVF II 939 = L&S 55P).
Non tutti gli interpreti moderni accettano questa accusa di circolarità:
l’esistenza della divinazione può essere considerata anche come un dato empirico,
dal punto di vista degli Stoici.25
b) La concezione di Crisippo per certi versi, e in una certa accezione del termine ‘destino’, potrebbe essere detta organicistica; per lui il cosmo è un essere vivente, in cui il pneuma è la parte animata e direttiva. Diogene Laerzio ci racconta che:
“Il cosmo è governato secondo intelletto e provvidenza, come dice Crisippo nel terzo
libro dell’opera Sulla provvidenza (…) dato che l’intelletto è diffuso in ogni sua parte,
-------------------------------------------25 Cfr.
Gould (1971), p. 145.
Il destino
23
come lo è in noi l’anima, ma in alcune parti è più diffuso, in altre meno. (…) Quindi
l’intero cosmo che è un essere vivente, animato e razionale, ha l’etere come facoltà direttiva, secondo quanto dice Antipatro di Tiro nell’ottavo libro dell’opera Sul cosmo.
Ma Crisippo, nel primo libro dell’opera Sulla provvidenza, e Posidonio, nel primo libro
dell’opera Sugli dei, dicono che la facoltà direttiva è il cielo, e Cleante che è il sole.
Crisippo, nella stessa opera, dice di nuovo, in modo alquanto differente, che la facoltà
direttiva è la parte più pura dell’etere; il quale, dicono gli Stoici in generale, essendo il
primo dio,26 passa in modo percettibile come attraverso ciò che sta nell’aria, anche
attraverso tutti gli animali e le piante, attraverso la terra stessa, secondo la sua disposizione…” (D.L. VII 138 = SVF 634 e 644 = L&S 47O).
E più avanti aggiunge:
“Che il cosmo sia un essere vivente e razionale e animato e intelligente lo dicono sia
Crisippo nel primo libro dell’opera Sulla provvidenza, sia Apollodoro nella fisica, sia
Posidonio: essendo così un essere vivente, è una natura animata e capace di percezione.
Infatti ciò che è vivente è superiore all’inanimato, ma nulla è superiore al cosmo, quindi
il cosmo è un essere vivente, ed animato, come è chiaro dalla nostra anima, che è un
frammento di esso” (D.L. VII 142-143 = SVF II 633 = L&S 53X).
Nel cosmo vi è una parte animata, ed a causa di essa il cosmo tutto insieme è
qualificato ‘vivente’; tale parte animata viene chiamata anche destino, provvidenza, Dio, logos, mente, e pervade ogni realtà governandola. Molti critici contemporanei hanno definito questa visione dell’unità organica del cosmo una visione ‘teleologica’, anche se gli Stoici evitarono costantemente l’uso delle cause finali nella
loro fisica.27 Ancora una volta ci viene detto che gli Stoici ritenevano che, di tale
parte, fosse possibile dare insieme molte differenti descrizioni che ne rivelavano i
differenti aspetti: “viene denominata con differenti appellativi secondo i suoi poteri” (D.L. VII 147 = SVF II 1021 = L&S 54A).
Questa visione organicistica del cosmo è però accompagnata, nella stessa opera di Crisippo, da quella che fa riferimento al concetto di causa, e che ci interessa
più di tutte. Infatti le concezioni filosofiche organicistiche troppo frequentemente
si esprimono solo attraverso metafore tratte dall’osservazione del corpo umano, ed
usano un vocabolario fatto di immagini: ‘membra’, ‘parti’, ‘vita’ e via dicendo.
Crisippo invece, proprio attraverso i concetti di una catena di eventi, o di una serie di
cause, pare avere articolato in modo più razionale e meno metaforico la sua concezione.28 Aulo Gellio (II sec. d.C.) nelle Notti attiche ci racconta quanto segue:
-------------------------------------------26 Seguo
l’integrazione di Long e Sedley (1987), II p. 284: ho kai proton theon <on> legousin… ktl.
(1974), pp. 254-262; Förschner (1981), pp. 106-107.
28 Cfr. Brehiér (1951), p. 180.
27 Long
24
Introduzione
“Il fato, che i Greci chiamano heimarmene, è stato definito pressappoco così da Crisippo, capo della scuola stoica: ‘Il fato è una certa serie eterna ed inalterabile di realtà, una
catena che si scioglie e si intreccia da sé stessa, attraverso delle serie eterne di conseguenze, dalle quali è costituita e connessa’. Ho annotato le parole stesse di Crisippo, per
quanto me le ricordo, in modo che, se qualcuno troverà troppo oscura questa mia traduzione, possa rifarsi alle sue stesse parole. Nel quarto libro dell’opera Sulla provvidenza
dice [la citazione è in greco]: ‘il fato è un certo ordinamento naturale di tutte le realtà
che dall’eternità conseguono e si succedono l’una all’altra, essendo inalterabile tale
connessione’” (VII 2, 1-3 = SVF 1000 = L&S 55K).
L’immagine dell’essere vivente in cui la ragione divina penetra ogni realtà e
costituisce la causa di ogni evento si accompagna all’immagine - che ormai abbiamo trovato più volte - della catena intrecciata degli eventi singoli, o delle cause
particolari, che si succedono in ordine deterministico, e generano una o più serie
eterne di conseguenze.
c) Alcuni ritengono che un argomento riportato da Cicerone nel de fato sia stato formulato da Crisippo per dimostrare l’esistenza del destino. Esso connette
l’esistenza del destino con il principio del terzo escluso e con la discussione sulla
modalità, nella quale discussione non vorremmo entrare a questo punto; basterà
dire che, secondo molti interpreti, la condizione perché una proposizione al futuro
sia vera oggi è che deve già essere presente oggi la causa che la farà vera.29 Si può
notare solo che in questo brano, come in molti altri passi, la distinzione moderna di
determinismo logico e determinismo fisico non viene rispettata, ma le due concezioni si intrecciano inestricabilmente. Anche nei passi di Cicerone e Stobeo prima
citati la catena delle cause era qualificata, logicamente, come la verità (“questa
serie è la verità sempiterna, svolgentesi da tutta l’eternità”, “al posto del ‘logos’,
mette ‘la verità’, ‘la causa’, ‘la natura’, ‘la necessità’”). Opponendo la concezione
epicurea, secondo la quale è possibile un movimento senza causa, alla concezione
stoica, Cicerone dice:
“vediamo un altro punto: Crisippo argomenta la sua conclusione nel modo seguente: ‘se
vi è un moto senza causa, non ogni affermazione, che i dialettici chiamano axioma sarà
vera o falsa, infatti ciò che non avrà cause efficienti non sarà né vero né falso; ma ogni
affermazione è vera o falsa, quindi non vi è nessun movimento senza causa. Se è così
tutto avverrà per cause antecedenti (antegressis), e se è così, tutto avverrà per destino:
ne deriva dunque che avviene per destino tutto ciò che avviene’” (de fato 20-21 = SVF
II 952 = L&S 38G).30
--------------------------------------------
29 Cfr. Sharples (1991), p. 174; Bobzien (1998), pp. 62-65. Una soluzione diversa in Talanga (1986),
pp. 112-116; vedi anche Sedley (2005).
30 Che questo passo contenga un resoconto fedele di Crisippo è stato messo in dubbio da Duhot
(1989), pp. 194-197: l’espressione ‘causa efficiente’ potrebbe essere stata aggiunta da Cicerone, e così
l’inciso ‘che i dialettici chiamano axioma’; contra, cfr. Pesce (1970), p. 64. Bobzien (1989), p. 61,
Il destino
25
Il destino qui viene identificato con la serie delle cause antecedenti. Questa informazione è confermata da altri passi, in cui, peraltro, Crisippo appare introdurre
delle distinzioni nella nozione della serie di cause, ed articolare in modo più dettagliato la sua concezione. Si tratta di una dottrina celebre e molto discussa, che
spesso viene trattata come parte della teoria stoica delle cause in generale. Questa
distinzione di vari tipi di cause, tuttavia, non appare direttamente connessa con
l’indagine generale sulla natura del destino, ma con una questione particolare,
quello di ‘ciò che dipende da noi’, affrontato da Crisippo nel secondo libro del suo
trattato Sul destino. Ancora più in particolare questa distinzione viene esposta in
relazione all’assenso pratico, ma dalle fonti non è chiaro se questo sia l’unico impiego della distinzione, o sia solo di uno dei casi cui una simile dottrina si applica:
“vediamo come questo avviene riguardo all’assenso”, dice Cicerone, e “volendo
dimostrare che l’immagine mentale non è causa sufficiente (autoteles) 31 dell’assenso… se uno trasferisse questo ragionamento… al destino” spiega un po’ confusamente Plutarco. Dobbiamo quindi descrivere in breve il complesso nodo del
rapporto tra destino e responsabilità umana nel pensiero stoico.
5. Destino e responsabilità umana
Alcuni frammenti degli Stoici più antichi sul destino possono far pensare al
destino come ad un potere esterno che travolge a forza l’individuo. Si tratta, come
abbiamo già detto della una terza accezione tra quelle distinte prima: il destino
diventa, dal punto di vista dell’individuo agente, l’intreccio degli eventi esterni a
lui. È un significato che abbiamo già trovato prima, in un passo di Diogeniano (“e
così anche l’inevitabile, chreon, viene detto essere ciò che ci capita e ci costringe
secondo il destino”), e che viene attestato da molte altre fonti. Heimarmene quindi
può indicare sia l’unica causa divina, sia l’intreccio ineluttabile di tutte le cause, sia
la serie di eventi esterni all’individuo agente, con cui si deve venire a patti.
Questi passi infatti suggeriscono che, rispetto a questo potere, la sola strada
percorribile per l’uomo pare essere l’accettazione e la sottomissione spontanea; da
un certo punto di vista si potrebbe dire che costoro riprendono il motto eschileo
pathei matos (= apprendi attraverso il dolore). Questa terza accezione del termine
‘destino’ è quindi abbastanza conforme a quella tradizionale. Ippolito (II-III sec.
d.C.), nella sua Confutazione di tutte le eresie, ci narra:
-------------------------------------------giustamente ritiene che sebbene la terminologia possa essere stata mutuata da Cicerone, il contenuto è
certamente di Crisippo.
31 Autoteles letteralmente significa ‘che basta a sé stesso’, ‘che ha il suo fine in sé’, e quindi ‘completo’, ‘indipendente’; in senso causale, significa un comando non subordinato ad altri: uno strategos autoteles è un ‘comandante assoluto’ (cfr. Liddell-Scott-Jones, s.v.); qui usiamo ‘sufficiente’, seguendo un
suggerimento di Donini e Cherniss, nel senso che questo termine ha nell’espressione ‘condizione necessaria e sufficiente’ (cioè una condizione che, quando si dà, produce necessariamente il condizionato);
avvertendo che tale traduzione modernizza un poco l’espressione stoica.
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Introduzione
“Anche costoro (Zenone e Crisippo) affermarono che tutto avviene per destino, servendosi dell’esempio seguente. È come quando un cane viene legato ad un carro: se lo segue volentieri, viene trascinato e insieme segue, compiendo insieme alla necessità anche un atto volontario, se non lo segue volentieri, viene trascinato e basta; lo stesso avviene accade per gli esseri umani: anche se non obbediscono volentieri, (lo stesso) saranno costretti a pervenire al termine fissato dal destino” (I 21 = SVF II 975 = L&S
62A).32
L’insegnamento qui presentato è soprattutto morale: è bene sottomettersi alla
inevitabile necessità del destino. Il contributo volontario (autexousion) pare consistere, in questo passo, nell’accettare o rifiutare uno svolgimento predeterminato degli eventi, non nel collaborare ad esso. Vedremo che Alessandro ha un concetto del
tutto differente di autexousion (cfr. de fato cap. XIV). L’opposizione rilevante nel
testo di Ippolito non è quella tra volontario e involontario, ma quella tra esser trascinati e insieme seguire, oppure esser trascinati a forza. Anche Cleante sostiene la
stessa posizione:
“Conducimi, o Zeus, e tu, Sorte
dovunque voi mi abbiate assegnato
io seguirò senza esitare; e se anche non volessi,
divenuto malvagio, dovrei nondimeno seguire”
(in Epict. Ench. 53 = SVF I 527 = L&S 62B).
Questi versi furono riassunti da Seneca nel famoso detto “ducunt volentem
fata nolentem trahunt” (ep. 107, 10 = SVF I 527). E nell’Inno a Zeus dello stesso Cleante si dice:
“nessun’azione si compie sulla terra senza di te, o divino
né nell’aerea volta celeste, né nel mare
tranne le cose che i malvagi compiono nella loro follia”
(vv. 15-17 da Stob. I 25, 3-27, 4 = SVF I 537).
Il paragone del cane legato al carro viene attribuito da Ippolito sia a Zenone
che a Crisippo; ma Crisippo, da un altro punto di vista, appare avere rielaborato
la dottrina stoica in modo originale. La sua innovazione consiste nel sottolineare
il ruolo dell’agire del soggetto, all’interno della catena o intreccio di eventi che
costituisce il destino. In questa nuova accezione, il soggetto agente non si limita
a subire la catena del destino; il cane dell’esempio precedente, invece, poteva, sì,
fare proprio il movimento del carro, e quindi agire “compiendo insieme alla
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32 L’utilizzabilità di questo passo, e di altri del genere, per la ricostruzione del pensiero dl primo
Stoicismo è stata criticata da Bobzien (1998), pp. 351-357, ed difesa da Sharples (2005); egli rinvia
giustamente al passo molto simile di Crisippo in Epitteto Diss II 6, 9 (= SVF III 191, L&S 58J).