Si approssima il 20 aprile (fra l’altro la ‘nostra’ ausiliaria Gina compie in questo stesso giorno la cifra
tonda di 90 anni. Auguri!). Genetliaco del Fuehrer. E’ l’anno 1889, alle ore sei e trenta della sera, in
una modesta locanda, il Gasthof zum Pommer, al confine tra l’Austria degli Asburgo e la Baviera
ormai parte dell’Impero degli Hohenzollern. Ogni luogo di confine viene percepito come linea di
demarcazione a cui affidarsi o, al contrario, spinta al suo superamento. Luogo avvertito quale
destino, simile ad una porta che, al contempo, si apre e si chiude (il ‘porto’ là dove partono le navi,
verso l’ignoto, solcando le acque alla conquista degli oceani o vi attraccano, timorose, contro le
avversità del vento e delle onde, secondo l’analogia proposta da Carl Schmitt ne Il nodo di Gordio). E
non appaia, dunque, casuale come il Mein Kampf si apra proprio con questo riferimento:
‘Provvidenziale e fortunata mi appare oggi la circostanza, che il destino mi abbia assegnato come
luogo di nascita precisamente Braunau sull’Inn. Giace difatti questa cittadina sulla frontiera dei due
Stati tedeschi, la cui riunione sembra, se non altro a noi giovani, un compito fondamentale che va
realizzato a tutti i costi. (…) Così quella piccola cittadella di frontiera mi sembra il simbolo di una
grande missione’ (ed. Bompiani, 1934, assai sbrindellata ma leggibile).
Da Strade d’Europa (Settimo Sigillo, anno 2006, pg. 161, a quattro mani con Rodolfo): ‘Trovo un
corriera che percorre strade provinciali immergendosi in paesaggi di straordinario fascino per
natura e tracce di storia secolare. Direzione Salisburgo. Il Berchtesgaden Land è una enclave in
territorio austriaco, divenuto Parco Naturale in quasi tutta la sua estensione territoriale, dominato
dal monte Watzmann, la seconda cima della Germania, 2713 metri. Ci vogliono circa tre ore di
viaggio; gli occhi però non si stancano di vedere e la mente e il cuore si riempiono d’una aspettativa
troppo a lungo coltivata. Scendo con il mio zaino in spalla. Da qui con la funivia si può salire
sull’altopiano dell’Obersalzberg, ove Hitler volle il proprio rifugio e, ancora più in alto, Il Nido
d’Aquila distrutto dopo la fine della guerra. Avanti a me una fila lunga ed eterogenea di turisti in
attesa del proprio turno. Ci sono volti segnati, distanti e scolpiti dall’eredità della lotta e della fede,
una generazione che ha attraversato l’Europa da Narvik all’Ucraina, dal Baltico al Mediterraneo.
Poco conta che, oggi, indossa abiti colorati, ha il ventre gonfio di birra e vota per Strauss o i
socialisti’. (Non li seguirò, contrariato da altra tipologia di turisti, made in USA, a masticare
chewing-gum). L’inizio, il durante quei dodici anni e tre mesi, la fine a Berlino, in quel bunker sotto
la Vossstrasse, ove solo un tombino sul marciapiede indica, per chi lo sappia, quanto avvenne
nell’aprile del ’45…
C’è una Germania che, utilizzando il titolo di un articolo di Benedetto Croce alla viglia della Grande
Guerra, ‘non si può non amare’. Ognuno, poi, si sceglie quale delle molteplici sfaccettature ritagliare
conforme alla propria sensibilità come di un diamante ogni angolo di visuale fornisce lampi di luce,
vibrazioni. Per me fu la costa della Romagna, nei pressi di Rimini (non è casuale che il ‘mio’
protagonista de La guerra è finita venga da lì), la spiaggia ampia e sabbiosa, il mare basso e scuro.
La prima tedesca, quindici anni avevo forse meno, già attratto dal mistero dell’universo femminile, il
primo bacio a labbra strette, le mani insicure che frugano sotto lo slip… Poi le bandiere dalla croce
uncinata le sfilate di massa a Norimberga migliaia di volti e di corpi di virile barbarie la camicia
bruna i ragazzi dai pantaloncini di stoffa scura le ragazze sorridenti e mazzetti di fiori in mano, un
oceano in marcia – e cantano, i più giovani, quello che da noi diverrà ‘il domani appartiene a noi’
mentre i più grandi Die Fahne hoch, ‘le file si stringono compatte’ – ovunque vi sia un fratello di
razza e di lingua, disperso in tante parti d’Europa da ricongiungere alla terra dei padri… L’Impero
dei mille anni, in un rovinio di bombe macerie urla di carni devastate e il grande silenzio dopo la
tempesta…
C’è la Germania della musica – al termine del conflitto per cinque anni i vincitori proibirono l’ascolto
della musica di Richard Wagner –; c’è la Germania della filosofia – al termine del conflitto e per anni
i vincitori impedirono a Martin Heidegger di consultare la sua personale biblioteca, vietarono di
riprendere le lezioni all’università –. I vincitori, troppo tronfi di sé, s’illudono d’essere immortali, nel
Mario Michele Merlino
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vero nel giusto nel bello, al contrario sono solo stupidi e servitorelli sciocchi dell’oro e dell’usura
(Odino, si narra nell’Edda, pisciò in testa ai guerrieri che, gonfi di birra, andavano proclamando
essere la vittoria da ascrivere al valore delle armi). In classe mi alzo in piedi e chiedo al professore di
filosofia perché non spiega la filosofia di Nietzsche; risposta: mi devo sedere e piantarla di fare
politica… E la Germania dell’arte, di Dresda, i bombardamenti del 13 e del 15 febbraio ’45, i morti
accatastati in pire di carne e bruciati per evitare epidemie, la terra, come racconta lo scrittore
americano Kurt Vonnegut in Mattatoio n.5, ivi presente in qualità di prigioniero di guerra, simile a
paesaggio lunare…
La storia, le storie. ‘Vare, legiones redde!’, come narra Svetonio, abbia pronunciato l’imperatore
Augusto dopo la sconfitta inflitta da Arminio nella foresta di Teutoburgo nell’anno 9 d.C.; le virtù dei
Germani (De origine et situ Germanorum) raccontate da Tacito e contrapposte alla decadenza e
corruzione di Roma, in nome e a difesa del mos maiorum, quell’insieme di valori e tradizioni a
fondamento dell’identità e della continuità del popolo romano. E Carlo Magno in estenuanti guerre e
costanti rivolte si mosse alla conquista della Sassonia, abbattendo il simbolo sacro, il frassino
Irminsul presso Eresburg (772 d.C.), per convertire quelle popolazioni, riottose e fedeli alla propria
cultura, al cristianesimo. Dieci anni dopo, durante ulteriore insorgenza, impose ‘il bagno di sangue
di Verden’, la decapitazione cioè di 4500 Sassoni che avevano difeso il diritto di praticare i riti della
religione avita. E ancora i cavalieri che attraversarono tutta l’Italia con le armi e proteggendo il
corpo di Ottone III, imperatore, morto alle pendici del monte Soratte, a soli ventidue anni per
deporne le spoglie nel duomo di Aquisgrana, come si legge nel bel libro La Santa Romana
Repubblica di Giorgio Falco. E sempre, pur nel lento addivenire della modernità, nella tragedia della
Guerra dei Trenta Anni e nella frantumazione politica del suo territorio, la Germania a donare la
spada e la penna, l’Onore e la fedeltà al proprio signore…
‘Wenn alle untreu werden – so bleiben wir doch treu…’. Per me solo vado ripetendo i primi versi del
poeta romantico Max von Schenckendorff che li compose subito dopo la battaglia di Jena (14 ottobre
1806) e la decisione di Napoleone, questo sovrano borghese, di abolire le cosiddette ‘libertà
tedesche’. Tornavo da Berlino, la Berlino della metà degli anni ’60, divisa dal muro e con in tasca I
leoni morti di Saint-Paulien che dovevano servirmi da guida per rintracciare i luoghi della battaglia,
di quella Finis Europae come la definiva Adriano Romualdi. E, qui, il Fuehrer trascorse il suo ultimo
compleanno, illuso forse e ancora che il destino non gli avesse volto definitivamente le spalle. Conta
poi, di fronte alla domanda sul senso dell’Essere e sulla presenza del Nulla, stabilire la vittoria e la
sconfitta? Dicono che i ‘nostri’ sono miti incapacitanti, tardivi e nefasti. Chi, però, si eleva saccente e
arrogante cosa ci dona in cambio?
‘Finora due soli tentativi di mettere in atto un al di là del nichilismo: gli anni di Hitler, riunione di
sangue e terra, sconfitta degli acidi ebraici dell’intelletto; gli anni di Stalin, avvio del regno della
libertà (virgolettato), ingegneria dell’anima’ (Roberto Calasso, La rovina di Kasch). Nietzsche aveva
ammonito. E, aggiungo, quel tardivo tentativo di proporre un Nuovo Ordine Europeo, troppo stretto
il germanesimo e la pretesa della sua superiorità, con le divisioni delle WaffenSS provenienti da
tante parti d’Europa per dargli fondamento con l’acciaio delle armi e il cuore generoso. Dunque, un
genetliaco che va oltre il tempo le circostanze la persona stessa. Di tutti coloro che avvertono come
una scintilla permanga sotto la coltre mefitica di questa Europa che, di fatto, è soltanto un lembo di
terra, insignificante e litigioso, da essere stazzonato da Oriente e Occidente. Tra capitalismo
territoriale (una Russia di oligarchi) e capitalismo finanziario (gli Stati Uniti che traducono in
corporations l’estensione del proprio dominio).
Tornerò a Norimberga, spero, il 7 novembre per il matrimonio di un amico. Nello stadio, nella
spianata (ora quartiere fieristico), vedrò, con quello sguardo che nasce in noi e solo dopo si nutre
d’immagini, accendersi migliaia di fiaccole nella notte, quasi rito magico ed evocativo per disegnare
una nuova e antica sovranità che trascenda quella di una democrazia parlamentare, potere delle
Mario Michele Merlino
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banche, tassi d’interesse, Strasburgo e Bruxelles maschere idiote della Banca Centrale di
Francoforte. E vedrò, con i medesimi occhi, quel Il Trionfo della Volontà che ne racconta il
coinvolgimento la passione l’unisono sentire… E l’uomo che, sia il caso o sia la necessità poco o nulla
conta, lo elevarono a destino di un popolo, di un continente.
Auguri, dunque, a Te, a noi tutti e che si abbia in dono altre battaglie altri uomini altre idee – che,
poi, altro non sono che l’eterna guerra del sangue contro l’oro l’eredità di sangue e di spirito.
Mario Michele Merlino
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