"L'ISLAM" - A. Bausani
CAPITOLO I: LA TEOLOGIA
1.1. Le fonti della teologia. E' stata spesso notata come caratteristica dell'Islam di un assorbimento
della teologia nella legge, la Shari'a ("retta via"). La ragione di ciò sta nell'impossibilità di
ragionare su un dio come quello islamico, per la sua estrema "personalità" arbitraria, per la sua
estrema mobilità: poiché questa persona ha un certo piano per l'umanità, è, attraverso il Profeta,
fondatrice di stati e dà particolare importanza a questa terra, l'unica cosa concreta di cui l'uomo
debba interessarsi rispetto a Dio è il regolamento dell'armata ai suoi ordini.
Le fonti della teologia islamica sono soprattutto tre:
1) il Corano  libro dettato dall'arcangelo Gabriele al profeta Maometto (570-632 d.C.) in un
periodo che va dal 609-610 al 632 d.C.: è una vera e propria dettatura, ispirata alla parola di
Dio; Maometto è un uomo come gli altri inizialmente, ma viene scelto da Dio come
"messaggero" (rasūl) della sua volontà per l'organizzazione degli uomini.
2) la "imitatio Muhammadis" o sunna  la sua importanza è soprattutto giuridica, ma fra i
numerosi hadīt (tradizioni) ve ne sono alcuni che hanno un interesse e un valore teologicodottrinali. Interessanti sono in particolare gli hadīt quadsī, nei quali anziché il Profeta, è Dio
che parla in prima persona: si tratta di rivelazioni divine non tramandate nel Corano perché
non aventi valore normativo per tutta la comunità, bensì mistiche rivelazioni personali di
Dio al suo Profeta in momenti di grazia. L'insieme del "contegno del Profeta" espresso con
detti e fatti tramandati dalla tradizione si chiama sunna.
3) il "consenso" dei teologi o, per la legge, dei giurisperiti (iǧmā')  essi sono intesi come
rappresentanti della comunità musulmana; i dotti musulmani di scienze religiose si
chiamano ulamā. Da ciò è deducibile un'ulteriore fonte, ovvero:
4) il ragionamento analogico sui dati tradizionali (qiyās): la teologia come scienza nacque in
Islam soprattutto a scopi apologetici1.
1.2. I principi fondamentali dell'ortodossia islamica, gli attributi e le operazioni di Dio.
Esaminiamo ora quello che il musulmano ortodosso del XII secolo era tenuto a credere secondo il
principe dei teologi, Al-Gazzali (è lui che difende l'ortodossia contro le teorie mut'aziliti):
 Dio esiste: la prova dell'esistenza di Dio è la causalità efficiente a partire dal mondo
contingente; Dio è la causa del mondo, una causa che è eterna a parte ante e permanente in
aeternum;
 Dio è insostanziale e incorporeo: non sta in nessun luogo (es. anche quando si dice che
"Dio discende nella notte" significa che la solitudine notturna è la condizione più propizia
per la preghiera; oppure, quando si dice che "Dio è visibile" non è perché Dio è da qualche
parte fisicamente, ma perché con il termine "visione" si intende una specie di percezione più
perfetta e più chiara di quella immaginativa);
 Dio è uno e unico: egli non è né divisibile in parti né compagno di altri dei, infatti, se
esistessero più dei, vi sarebbe inimicizia tra loro e ne seguirebbe gran confusione nella
1
Si può aggiungere una quinta fonte, utilizzata all’inizio e durante il califfato omayyade. Le autorità musulmane, di
fronte alla scarsità del materiale giuridico coranico e alla scarsità di dimostrabili precedenti più antichi e all'assenza del
non ancora codificato hadīt, che si sarebbe formato più tardi, facevano ampio uso del ra'y, ovvero dell'opinione
personale dei giudici.
creazione (principio del Tawhīd). Interessante è inoltre il rapporto speculare esistente tra il
concetto di unicità divina e quello di unitarietà della comunità islamica (Umma), proprio
perché riflesso terreno del divino: una comunità intesa come universale, inscindibile e
perfetta, essendo un diretto ordine di Dio, che dice ai musulmani come organizzarsi2.
Queste considerate finora sono qualità dell'essenza divina. Seguono anche dei veri e propri
attributi di Dio (sifāt):
 POTENZA  l'onnipotenza divina è intesa nell'Islam in senso ancor più totalitario ed
ampio che nelle altre religioni monoteistiche. L'oggetto della potenza divina sono tutti gli
esseri possibili e per Dio è anche possibile fare il contrario di quello che la sua prescienza
conosce: la sua è un'infinita potenza e tutto dipende ed è deciso da lui (es. quando un uomo
muove una mano, Dio, oltre ad aver creato l'uomo e la sua mano, crea anche il movimento
nella mano e crea il potere dell'uomo sul suo stesso movimento: dunque l'uomo è "potente"
solo in un senso riflesso e mai "creatore" dei propri atti, ma è piuttosto proprietario di essi
[si intense un' "acquisizione" di atti, iktisāb]). Il mondo è quindi creato, annientato e ricreato
attimo dopo attimo da Dio: le cose che ci sembrano azioni finite sono in realtà composte da
singoli fotogrammi che vengono creati singolarmente da Dio e si ripetono ordinariamente e
abitualmente, rendendo l'occasione finita e identificabile dall'uomo in un certo modo
(tuttavia, se Dio volesse, le cose potrebbero andare in modo totalmente diverso dal solito).
In questa impostazione occasionalistica del mondo, il miracolo e la natura vengono
praticamente ad identificarsi.
 SCIENZA  essa è tale che Dio conosce tutti gli esseri conoscibili, sia gli esistenti che i
non esistenti.
 VITA  una volta che "vivente" viene definito "essere che ha coscienza di se stesso e
conosce il proprio essere e gli altri da sé distinti", è ovvio attributo divino.
 VOLONTA'  è necessario pensarla come attributo autonomo di Dio. L'ortodossia
dichiara che il mondo cominciò a esistere nel momento deciso dalla volontà eterna di Dio,
2
Esiste quindi una differenza fondamentale tra il carattere universale della Umma islamica e il carattere particolare
dell’Asabiya, ossia della società tribale preislamica, una differenza che si rifletta anche sull’aspetto socio-politico: la
Umma è ovviamente basata sulla fede, ma essendo benedetta e voluta da Dio è comunità perfetta anche nei suoi
aspetti terreni. Per la tradizione islamica Dio ha comandato agli uomini di organizzarsi in una comunità, la più perfetta:
siamo quindi di fronte a un messaggio religioso con un immediato contenuto socio-politico. Molti islamologi si sono
interrogati su quale dei due aspetti (divino o terreno) dell’Islam sia più importante: è però da tenere in conto che per i
musulmani i due ambiti non sono antitetici, ma al contrario profondamente intrecciati. Campanini afferma a questo
proposito che una gerarchia fra i due non ha senso perché è l’aspetto religioso (Dio) a rimandare direttamente a
quello laico (comunità da Dio comandata), che risponderà a questo comando attraverso la fede religiosa (Islam).
Almeno a livello teorico esiste quindi un'inscindibilità di religione e politica e nessun significato ha la differenza tra
potere spirituale e temporale operata nella tradizione cristiano-europea dal laicismo. Nel momento in cui Allah
sacralizza il mondo benedicendo la mondanità stessa, prima empia nella Asabiya, esso diventa caratterizzato da pace,
giustizia, sacro, positività ecc., ed è quindi perfetto. Non c’è quindi nell’Islam la tipica tendenza alla svalutazione
terrena propria delle grandi religioni: la perfezione della Umma è presente già all’origine poiché da subito essa è
Regno di Dio. Manca così qualunque visione utopica o escatologica: il fine ultimo dell’Islam non è il raggiungimento
della salvezza come per i cristiani (che, quindi, hanno una tendenza più progressista e individualista: ognuno deve
raggiungere la redenzione), ma il mantenimento, e nel caso il ritorno, alla purezza e alla perfezione originaria della
comunità sia in termini di fede che di istituzioni politiche.
Esiste anche una differenza fra tra Asabiya e Jahiliya, termine usato nel Corano per definire l’oscurità e l’ignoranza
precedenti l’avvento dell’Islam: si tratta di un concetto dal significato prevalentemente morale in quanto sta ad
indicare l’empietà della società araba prima della rivelazione di Dio. Il primo termine indica invece un fenomeno sociopolitico.
ma senza che il suo atto volitivo cominciasse ad esistere nel tempo e senza che in nulla si
alterasse l'eternità dell'attributo divino. Come la potenza, anche la volontà divina si estende a
tutto: male, empietà e peccato sono anch'essi voluti da Dio perché ciò che Dio vuole, esiste,
mentre ciò che Dio non vuole, non esiste (per l'Islam ortodosso dire che i peccati e i mali
non siano voluti da Dio è una bestemmia, perché ciò implicherebbe l'esistenza di un
qualcosa che Dio non può controllare).
 UDITO  l'udito e la vista di Dio sono da considerare come una perfezione della
"percezione" in generale e non come caratteristiche fisiche in senso antropomorfico.
 VISTA  v. sopra.
 PAROLA  il Corano stesso è la parola di Dio: negare questo attributo significherebbe
negare il concetto fondamentale di Profeta, che trasmette la parola divina. Ovviamente, non
si tratta di suoni sussistenti nell'essenza di Dio, ma di un verbum mentis che non consiste in
suoni e lettere: Gazzali ammette che le lettere sono temporali, ma sono i segni del
linguaggio eterno di Dio.
Proprietà comuni a tutti gli attributi divini sopra elencati sono, in primo luogo, il fatto che essi non
si identificano con l'essenza di Dio: non basta dire che Dio è savio, vivo ecc., ma si deve accettare
che esista una vita, una scienza ecc. di Dio.
In secondo luogo, malgrado gli attributi di Dio siano qualcosa di ulteriore alla sua essenza, non ne
sono astrattamente distaccati, bensì sussistono nella sua essenza.
In terzo luogo, tutti gli attributi sono eterni.
In quarto luogo, i numerosi nomi o aggettivi che nel testo sacro e nella tradizione si attribuiscono a
Dio sono predicabili di Dio ab aeterno e in aeternum (sui 99 nomi di Dio è basato il tasbih, una
sorta di rosario musulmano dal quale deriva quello cristiano, importato durante le Crociate).
Oltre agli attributi di Dio, Gazzali analizza anche le sue operazioni. A differenza di quanto avviene
nel Cristianesimo, dove operazione centrale e principale di Dio è quella di redenzione, nell'Islam la
caratteristica principale delle operazioni di Dio è che esse gli sono contingenti, e di nessuna di
essere si può dire che è necessaria: l'Islam riterrebbe bestemmia qualsiasi espressione che
equivalesse a un "Dio deve fare questo" o "è obbligato a fare questo". Dio decide tutto e non è
obbligato a fare niente (del resto, Islam = sottomissione e muslim = sottomesso): il Dio islamico ha
un carattere personalistico (persegue i suoi fini personali), onnipotente e onnipresente.
Fondamentale è capire che nell'Islam il concetto di "bene" e "male" è diverso da quello cristiano ed
è più freddo e pragmatico: "buono" è l'atto che conviene all'agente (Dio) e la bontà dell'atto non
significa altra cosa che la sua convenienza col fine dell'agente; i concetti di "bene" e "male" sono
quindi relativi, ed ogni autonomia dell'atto morale è abolita.
Dunque, a Dio non è necessario né obbligatorio creare le creature. Egli ha il diritto a non imporre
loro nessun obbligo, e, se lo impone, non è perché gli sia necessario farlo. Dio ha diritto a imporre
agli uomini obblighi a loro possibili o impossibili ed è inoltre libero di far soffrire le creatura esenti
da colpa e non è obbligato a ricompensarli per buone azioni. Egli inoltre non è obbligato a fare ciò
che è più conveniente ai suoi servi. Dio è quindi ingiusto? No, secondo Gazzali: l'ingiustizia si
concepisce solo di chi compie atti che possono portare pregiudizio alla proprietà altrui, ma siccome
è tutto proprietà di Dio e Dio non è sottoposto ad alcuna legge superiore, il problema non si pone
nemmeno.
Dio non è in alcun modo obbligato a premiare per le buone azioni e a castigare per le colpe. Il
premio è atto puramente gratuito di Dio, cui l'uomo non ha alcun essenziale diritto. Nettamente
contrario all'ortodossia è il concetto mu'tazilita che Dio deve castigare al fuoco eterno il peccatore e,
a differenza di quella cattolica, la teologia islamica nega l'eternità delle pene infernali (non avrebbe
senso punire in eterno anche per un piccolo peccato).
L'uomo, se ciò non constasse per rivelazione, non sarebbe obbligato a conoscere Dio né ad essergli
grato per i suoi benefici; contrariamente alla tradizione cattolica, la ragione naturale non esige, da
sé, la conoscenza di Dio: la ragione è sì importante, ma solo come strumento di comprensione del
senso della parola del Profeta.
Infine, l'invio dei Profeti da parte di Dio non è né necessario né impossibile.
1.3. La profetologia dell'Islam. Dio manifesta la sua volontà all'uomo attraverso una serie di
"inviati", "apostoli". Il loro grado è quello di puri uomini, ma particolarmente prescelti da Dio e
che, per mezzo di Dio, operano talvolta dei miracoli.
Il concetto di "profeta" è strettamente legato a quello di "legislatore": il Profeta non è tanto chi fa
conoscere dei misteri divini o istituisce sacramenti redentivi, quanto piuttosto colui che promulga le
leggi che Dio ritiene adatte per l'umanità in un determinato periodo.
I profeti ammessi dall'Islam sono praticamente tutti quelli della tradizione biblico-cristiana: Adamo,
Noè, Abramo, Mosè, Gesù, David e alcuni arabi come Hud e Salih (di Gesù si ammettono la nascita
verginale e l'ascensione al cielo, ma non la morte). Maometto è invece il "sigillo dei Profeti": la
legge di Maometto è quella definitiva e valida per tutta l'umanità. La prova essenziale della sua
missione profetica è un miracolo, quello dell' "inimitabilità del Corano", secondo cui gli Arabi non
riuscirono a imitare le leggi del Profeta; per il resto, il Corano sembra chiaramente indicare la non
necessità dei miracoli per dimostrare la veridicità della legge.
Il messaggio del Profeta, oltre alle leggi, contiene anche verità accettabili solo per fede su questioni
escatologiche (sul destino dell'uomo), che l'uomo non avrebbe potuto conoscere senza la sua
rivelazione:
a) Resurrezione della carne: la dottrina ortodossa, a differenza di quella peripatetica
musulmana, non ammette l'immortalità dell'anima astratta, staccata dal corpo.
b) Tormento della tomba: i corpi morti, nella tomba, subiranno un interrogatorio religioso
dagli angeli Munkar e Nakir e gli uomini che nona avranno saputo rispondere giustamente
saranno tormentati.
c) Interrogatorio degli angeli Munkar e Nakir: il cadavere è reso a tale scopo parzialmente
vivo in qualche particella sensibile da Dio.
d) Bilancia: si tratta della bilancia escatologica dove saranno pesate le azioni degli uomini al dì
del giudizio (visto che gli atti umani sono incorporei, un hadīt narra che saranno pesati i
fogli scritti dagli angeli riguardo le azioni umane).
e) Ponte: è un ponte teso e sottile sopra l'inferno, che dovrà essere attraversato dai risuscitati,
fra i quali i malvagi cadranno giù nella gehenna.
Per quanto riguarda la figura dell'Imām, esso è il capo della comunità musulmana, più usualmente
chiamato dai sunniti "Califfo" (halīfa, ovvero "vicereggente", "vicario del Profeta"). L'Imām o
Califfo sarà il successore del Profeta solo in quanto esecutore pratico della sua legge, già data,
quindi in nessun modo suo successore nella qualità di profeta. L'Imām non è nemmeno dotato, a
differenza del pontefice cattolico, di autorità docente o legislativa (per gli sciiti invece lo è).
Perché dunque esiste? Uno dei fini del Profeta è la buona organizzazione della vita sociale e
religiosa della comunità-stato, cosa che, per essere attuata, necessita della presenza di un capo
supremo obbedito da tutti, che è appunto l'Imām. Egli deve avere delle qualità precise:
 essere della tribù dei Quraiš (quella di Maometto);
 possedere competenza e capacità;
 possedere scienza e virtù;
 essere degno di governare gli uomini e condurli verso il retto sentiero;
 essere privo di difetti fisici (ecco perché alcuni principi facevano accecare fratelli e cugini).
La nomina dell'Imām può avvenire o per diretta designazione del Profeta, o per designazione del
precedente Imām, o per elezione da parte dei maggiorenti della comunità. Nel caso di sospetto di
illegittimità, è meglio un Imām illegittimo ma autorevole e abile governante, che l'anarchia: magari
nel privato il soggetto che viene nominato va a donne e uccide, ma l'importante è che sia
formalmente credente e rispettoso almeno di facciata delle regole di Dio (v. Mubarak e Ben Ali,
dittatori ma accettati perché andavano in moschea).
Le idee sciite sull'imamato sono confutate, secondo al-Gazzali, dal fatto storico che Maometto non
designò alcuno con chiarezza a succedergli. In merito alla dignità dei primi quattro califfi,
l'ortodossia sunnita afferma che essa sia quella indicata anche dall'ordine storico in cui si sono
susseguiti, ovvero: Abū Bakr, 'Omar, 'Utmān e 'Alī, chiamati "i califfi ben diretti" (632-661 d.C.).
Quando, durante il dominio Abbaside, l'istituzione del califfato entrerà in crisi a causa della perdita
di controllo territoriale in favore delle tribù turche dell'Asia centrale (X-XI sec.), si creerà il
problema di far convivere la figura del Califfo, fino ad allora unico capo politico-spirituale
riconosciuto, con quella nuova di sultano (sultān, "forza") o emiro, capo politico-militare effettivo
e padrone del territorio: con la creazione degli stati turchi in Medio Oriente, l'invasione dei mongoli
e la caduta del califfato Abbaside nel XIII secolo (l'ultimo Califfo di Baghdad fu assassinato nel
1258 dai mongoli), anche la figura del Califfo scomparirà e religione e politica saranno
definitivamente separate. Il sultano rappresenterà il potere politico, gli ulema quello religioso, pur
essendo sempre sottomessi al sultano.
1.4. La scomunica dell'eretico nell'ortodossia. Il concetto di ortodossia in Islam è piuttosto
confuso, soprattutto per quanto riguarda il concetto di "infedele" e "miscredente" (kāfir).
Solitamente, kāfir è colui che smentisce, dichiara mentitore, il profeta Maometto, ma in questo
smentire vi sono varie gradazioni di gravità: la più grave è essere fedele di un'altra religione, mentre
la meno grave è affermare che Dio, dopo Maometto, possa inviare altri profeti (interpretazione
metaforica del Corano). In definitiva, la questione della scomunica dell'eretico rimane nell'Islam
non chiaramente definita e, almeno in teoria, la teologia musulmana è in certo senso più larga di
quella cattolica.
La dottrina teologica qui descritta secondo il catechismo di al-Gazzali è quella detta aš'arita, da alAš'arī di Basra, fondatore della scuola nel X secolo d.C. Questa scuola teologica è quella che
attualmente seguono tutti i musulmani di Siria, Egitto, Iraq e Maghrib, mentre molti sunniti di
Turchia, India e Asia centrale seguono invece l'altra grande scuola teologica, quella detta
māturīdita da al-Māturīdī di Samarcanda (X secolo d.C.). La differenza principale è che nella
seconda esistono sfumature accentuanti un po' più l'ambito dell'autonomia dell'uomo e delle cose di
fronte alla onnipresente volontà personale e arbitraria di Dio.
CAPITOLO II: LA LEGGE
2.1. La Sharia. La legge positiva (šarī'a, "la via diritta", "battuta"), disciplina l'attività umana in
quanto esplicata nel mondo esterno, prescindendo da quella fede e da quelle credenze di cui è
giudice solo Dio: essa disciplina tutta l'attività umana.
I trattati di diritto musulmano si aprono con una prima parte detta ibādāt (atti del culto) includente
cioè gli atti fisici che mettono l'uomo in rapporto con Dio, per poi continuare con le mu'āmalāt,
ovvero i rapporti dell'uomo con gli altri uomini. Parallelamente alla teologia, dove l'Islam
appiattisce sullo stesso piano il soprarazionale e il razionale, così la legge islamica considera solo
capitoli differenti, ma non situati su piani differenti, il come bisogna pregare e quanto bisogna
lasciare in eredità ai figli.
A diversità dei cristiani e degli antichi, per i quali la legge è la norma di diritto sancita dal popolo
direttamente o mediante i suoi organi, venendo quindi impostata antropocentricamente, per l'Islam
la legge non è altro che la diretta e personale volontà di Dio, espressa in chiare lettere dal Profeta:
compenetrazione totale fra legge e religione e si chiama "diritto di Dio" tutto quanto trascende il
privato interesse.
Le fonti della legge sono praticamente le stesse della teologia:
1) il Corano, che contiene istruzioni sui cibi, sul matrimonio, sull'eredità e sulle buone
maniere.
2) la sunna, i cui hadīt sono composti da due parti: il testo della tradizione e la serie di
testimoni mediante i quali si è trasmesso il racconto (esistono varie raccolte, tutte scritte fra
l' VIII e il X secolo d.C.: al-Muwatta' di Malik, i due Sahīh di Buhari e di Muslim, le
raccolte di Ibn Maga, di Abu Da'ud, at-Tirmidi e di an-Nasa'i);
3) il "consenso" (igmā') dei dotti e dei giurisperiti: quello che ha maggior valore come fonte di
legge è quello dei compagni del Profeta, quelli che vissero con lui; estinta questa
generazione, il consenso valido è quello dei mugtahid, ovvero dei giurisperiti più autorevoli;
4) il ragionamento analogico (qiyās) è infine una vera e propria analogia, basata sui casi,
risolvibili con l'aiuto delle tre fonti precedenti: si tratta in pratica di giudicare tramite
un'analogia razionale più elastica a seconda dei casi3.
2.2. Le scuole giuridiche. Nell'ambito dell'ortodossia esistono quattro scuole giuridiche
ufficialmente riconosciute come ortodosse:
1. Hanafita  fondata dall'oriundo persiano Abu Hanifa nell' VIII secolo; è la scuola
relativamente più liberale delle altre e più disposta all'uso del ragionamento analogico; è
diffusa soprattutto nei territori dell'ex Impero ottomano, nell'Asia centrale, nell'Afghanistan,
in India e nel Pakistan.
2. Mālikita  fondata da Malik ben Amas nell' VIII secolo; i suoi seguaci sono attualmente
nell'Africa settentrionale (tranne l'Egitto), e in parte dell'Africa orientale.
3. Šāfi'ita  fondata da as-Safi'i nel IX secolo; i seguaci sono soprattutto in Bahrein,
nell'Arabia meridionale, in Indonesia, in Egitto e nell'Africa orientale.
3
Si aggiunge anche in questo caso il ra’y, ovvero l’opinione personale dei giudici.
4. Hanbalita  fondata dall'ultra-tradizionalista Ahmad Ibn Hanbal nel IX secolo, che
restringe notevolmente l'uso dell'analogia razionale; i suoi seguaci sono in Arabia Saudita,
nell'Oman e nel Golfo Persico.
L'ortodossia ammette il passaggio di un musulmano da una scuola giuridica all'altra. I principi di
queste scuole sono fondamentalmente gli stessi e le divergenze si manifestano soprattutto
nell'applicazione di regole a casi particolari.
Con la crisi del califfato Abbaside nei secoli X e XI, il sunnismo imporrà il divieto di rinnovare il
diritto (infatti tutte le scuole nascono prima di quel periodo): il momento passa alla storia come la
chiusura della porta della iǧtihād, cioè dell’interpretazione del dritto, sulla quale s’impone invece il
concetto del taqlid, cioè dell’imitazione acritica delle interpretazioni del passato. Attualmente
dunque, il diritto islamico è codificato nei trattati di fiqh (giurisprudenza coranica),
pedissequamente seguiti. Alcuni studiosi comunque credono sia possibile ancora un po’ di
flessibilità attraverso le opinioni giurisprudenziali, dette fatwà (come quella di Khomeini con la
quale condannava come satanico un libro e il suo autore): si tratta di un’opinione emessa da
un’autorità qualificata come un giureconsulto (faqīh), che abbia studiato in una scuola e abbia un
diploma di scienze giuridiche musulmane, generalmente conosciuto come "muftī". Le fatwà
vengono emesse nel caso in cui non si riesco a risalire ad una soluzione per casi moderni e nuovi,
anche su richiesta di un credente e per un caso specifico.
Nell'Islam, così come il sacramento è sostituito dal precetto di legge (non esistono sacramenti come
nel cristianesimo), così il prete è il dottore della legge, sempre secondo il principio di
compenetrazione fra giurisprudenza e religione.
2.3. I precetti di legge e i cinque fondamentali. Vediamo ora quali sono i precetti di legge,
analizzando solamente gli ibādāt, ovvero gli atti di culto prima citati. Va evidenziato che, come
nella teologia mancano veri e propri dogmi, così nella legge mancano atti sacramentali: per i
musulmani, il dogma sarebbe un peccato di blasfema tracotanza, in quanto definizione e
ragionamento umano su Dio, mentre blasfema magia è il sacramento, in quanto atto che costringe
Dio a determinate operazioni. Dogma e sacramento come elementi umanistico-magici, esplicazioni
o addirittura produzioni di leggi necessarie nel campo del Divino sono impensabili per l'arbitrario
Dio islamico.
Per il fiqh esistono cinque categorie legali, ovvero ogni atto è:
1. doveroso; fra questi atti si distinguono quelli doverosi personalmente (come la preghiera) e
quelli che possono essere eseguiti solamente da una parte della comunità (come la guerra
santa);
2. raccomandabile;
3. permesso;
4. riprovevole;
5. proibito.
Ad ogni livello corrisponde una reazione diversa da parte della comunità e gli atti punibili sono
solamente quelli proibiti e doverosi. Molte delle differenze fra le scuole giuridiche stanno proprio
nel fatto di considerare certi atti come raccomandabili oppure permessi e così via.
Si dice che Maometto avrebbe detto: "L'Islam è basato su cinque fondamentali: la professione di
fede, la preghiera, l'elemosina rituale, il pellegrinaggio alla Mecca e il digiuno". Questi cinque atti
cultuali sono chiamati i cinque pilastri dell'Islam (arkān al-islām), ai quali i manuali di diritto
islamico aggiungono un elemento canonico importantissimo, la purificazione (tahāra), che deve
precedere tutti gli atti del culto:
1) PROFESSIONE DI FEDE (šahāda)  si tratta della formula che, se pronunciata, permette
al fedele di entrare a far parte della comunità musulmana, senza particolari riti di
iniziazione, che infatti l'Islam non ha (es. battesimo cristiano): "Professo che non v'è altro
dio che Dio (Allāh) e che Maometto è l'Inviato di Dio".
2) PREGHIERA (salāt)  si intende non la preghiera intima e libera del cuore da farsi
quando si vuole, ma la preghiera rituale, canonica: si tratta di un "operare sacralmente". Nel
Corano risulterebbero quattro preghiere canoniche giornaliere e una preghiera notturna (in
totale 5) e attualmente i tempi stabiliti sono: l'alba, il mezzogiorno, il pomeriggio, il
tramonto e la sera (N.B.: il giorno musulmano, di 24 ore, viene calcolato da un tramonto
all'altro). l'obbligo di eseguire le cinque preghiere giornaliere incombe a ogni musulmano in
pieno possesso delle sue facoltà mentali e pubere (mukallaf), che quindi è in grado di
obbedire a tutti i precetti religiosi. Condizione preliminare per la preghiera rituale è la
purificazione (tahāra): non solo la persona del credente ma anche i suoi abiti e il suolo su
cui si trova devono essere ritualmente puri (impuri sono considerati: porci, cani, bevande
inebrianti, sangue e animali morti non macellati ritualmente; un contatto con questi rende un
musulmano contaminato). Diversamente dal diritto sciita, per i sunniti le persone dei non
musulmani sono pure: solo è interdetto loro di entrare nel territorio sacro della Mecca
(possono visitare le moschee al di fuori dell'orario di preghiera). Oltre al contatto con questi
oggetti e animali, l'uomo può ritrovarsi in stato impurità minore (es. toccare pelle di donna
estranea) oppure di impurità maggiore (es. dopo rapporti sessuali): la prima interdice la
preghiera, la circumambulazione intorno alla Ka'ba e il toccare il Corano, mentre il secondo
interdice anche l'entrata in moschea e l'abluzione.
Esecuzione della preghiera: a) rivolgersi in direzione della Mecca; b) pronunciare in piedi la
formula di intenzione (niyya); c) pronunciare, con mani fino alle spalle e palme in avanti, la
frase "Allāhu akbar"; d) recitare il primo capitolo (sūra) del Corano (Fātiha); e) inchino; f)
in piedi; g) prosternazione; h) posizione seduta; i) prosternazione; l) professione di fede ed
eulogia sul Profeta; m) formula di saluto "la pace sia su di voi" (taslima). L'insieme di questi
movimenti forma una rak'a: almeno 2 all'alba, almeno 3 al tramonto e almeno 4 nelle altre.
La preghiera può compiersi, al momento stabilito, dovunque, anche se è desiderabile che si
compia insieme ad altri fedeli in una moschea (mašgid), nelle quali la partecipazione delle
donne è raccomandata dalla legge (l'antifemminismo di alcuni paesi non ha nulla a che fare
con l'Islam); nelle moschee, la preghiera è sempre guidata da un direttore (sempre chiamato
imām), mentre la direzione della Mecca viene indicato dal mihrāb (nicchia nella parete). Il
tempo della preghiera viene annunciato dal mu'addin (muezzin), che dall'alto dei minareti
grida l'invito alla preghiera (adān). La preghiera di mezzogiorno del venerdì deve essere
fatta in una moschea apposita più ampia ed essa include anche una predica (hutba) fatta dal
predicatore (hatīb), che di solito consiste in lodi a Dio.
Esistono poi altre preghiere raccomandate: quella a metà della notte, quella per la festa dei
sacrifici, quella alla fine del Ramadān, quella per i periodi di siccità, per le eclissi etc.
3) ELEMOSINA RITUALE (zakāt)  nel Corano l'elemosina è uno fra i più raccomandabili
doveri religiosi: si tratta di una "purificazione" della propria ricchezza dandone una parte ai
bisognosi o per cause buone. L'uso giuridico distingue fra sadaqa, che è la donazione
volontaria, e zakāt, che è invece una vera e propria tassa regolata dalla legge. Man mano la
zakāt divenne infatti una vera e propria decima regolata dalla legge con formule precise:
bisogna dare (ai poveri, ai bisognosi, agli esattori, alla guerra santa etc.) una parte dei propri
beni, ma solo se di queste sostanze (es. prodotti dei campi, oro, argento, bestiame etc.) si
possiede un minimo fissato dalla legge. Oggi, la zakāt è praticamente caduta in disuso, salvo
dove la legge islamica è seguita esattamente (Pakistan, Afghanistan, Arabia Saudita, Iran).
E' prevista inoltre un'elemosina speciale da fare alla fine del digiuno.
4) DIGIUNO (saum)  con Maometto e l'Islam si ritornò al calendario lunare puro, quindi i
mesi musulmani sono alternativamente di 29 e 30 giorni cosicchè l'anno è composto da 354
giorni. Ogni mese comincia e finisce, come il giorno, con il tramonto del sole e, secondo la
legge, per dichiarare iniziato il mese non basta il calcolo, ma ci vogliono dei testimoni
oculari che vedano il primo spicchio di luna del nuovo mese (se è nuvoloso l'inizio slitta di
un giorno).
Il digiuno viene effettuato nel mese di Ramadān e implica non solo l'astenersi da ogni cibo e
bevanda, ma anche da qualsiasi contatto sessuale, dall'alba al tramonto di ciascun giorno.
Esso è valido solamente se preceduto dalla niyya. In generale, si compie un pasto poco
prima dell'alba (sāhūr) e uno dopo il tramonto (fatūr). Sono esclusi dal digiuno i minorenni,
i malati di mente, le donne durante la mestruazione, i malati, i viaggiatori, le donne gravide
o che allattano e i vecchi: questi, tranne i vecchi e i minorenni (che devono fare donazioni),
devono recuperare poi il digiuno. Alla fine del mese di digiuno viene celebrata la "piccola
festa" che, insieme alla "grande festa" che si ha in concomitanza con i sacrifici fatti in
occasione del pellegrinaggio alla Mecca, costituisce una delle due feste riconosciute
ufficialmente dalla legge. Ce ne sono altre non ufficiali ma praticate: primo dell'anno
(muharram), nascita del Profeta, ascensione al cielo di Maometto, notte in cui Dio determina
il destino degli uomini e notte di rivelazione del Corano (qadar).
5) PELLEGRINAGGIO (haǧǧ)  i riti del pellegrinaggio, di derivazione chiaramente
pagana e preislamica, sono la parte meno pura dell'Islam (che ripudia i sacramenti). Luoghi
di pellegrinaggio sono innanzitutto la moschea della Mecca con dentro la Ka'ba (con
murata la Pietra Nera, detta la "mano di Dio"; l'interno è vuoto mentre l'esterno è rivestito da
un velario nero con scritte sacre cambiato ogni anno), la fonte di Zamzam (miracolose virtù
terapeutiche) e il maqām Ibrāhim (impronte dei piedi di Abramo).
Il pellegrinaggio è obbligatorio almeno una volta nella vita per chi abbia i mezzi di farlo e
per compierlo è necessaria la niyya. Non appena giunto nel territorio sacro della Mecca
(haram), interdetto ai non musulmani e nel quale è vietato uccidere animali e abbattere
piante, il pellegrino deve porsi in stato di sacralizzazione (ihrām), durante il quale è proibito
avere rapporti sessuali, radersi, tagliarsi i capelli e le unghie e bisogna vestire due panni
puliti non cuciti. Per accorciare questo processo, la legge concede ai pellegrini di compiere
una "visita minore" ('umra) prima del vero pellegrinaggio: si fa il tawāf, ovvero la
circumambulazione della Ka'ba per 7 volte in senso antiorario, e poi la corsa fra Safā e
Marwa per 7 volte. Il pellegrinaggio completo consiste invece nel seguente programma:
partenza dalla Mecca (il 7 del mese), sosta a Minà, arrivo nella pianura di 'Arafa (l'8) e sosta
davanti al "Monte della Misericordia" (8-9), sosta a Muzdàlifa (il 9) e indietro fino a Minà
(il 10); qui il pellegrinaggio finisce, ma chi non ha fatto il giro della Ka'ba deve farlo dopo il
pellegrinaggio. L'11 il 12 e il 13 del mese sono giorni di festa, durante i quali è addirittura
vietato il digiuno.
2.4. Il ǧihād. Nel caso della legge sciita, esiste anche un sesto pilastro, quello della guerra santa
(ǧihād), che dai sunniti non è considerato un pilastro ma è comunque obbligatoria collettivamente.
Con ǧihād, che significa letteralmente "sforzarsi", il Corano identifica prescrizioni molto generali,
da un'ampia tolleranza non-violenta a una guerra puramente difensiva. Fu in effetti il Corano a
fondare la dottrina del ǧihād, incitando soprattutto al combattimento violento (v. sura 9, "Versetto
della Spada"), ma fu la letteratura della tradizione degli hadīt a descrivere nel dettaglio come i
musulmani dovessero combattere e per cosa (tra i secoli VIII e IX, quindi diversi decenni dopo la
morte del Profeta: tra i principali, il Kitab al-jihad di al-Mubarak e le sei raccolte canoniche
dell'Islam sunnita). Oltre agli aspetti pratici della guerra (peccati proibizioni durante il
combattimento, spartizione del bottino, trattamento dei prigionieri, strategie militari, possibile
partecipazione delle donne, gestione dei cavalli, preparazione psicologica dei combattenti alla
vittoria), emerge chiaramente l'aspetto redentore del ǧihād, in maniera analoga a quanto avviene
nella tradizione cristiana: secondo la tradizione, la spada, unitamente alla sincera intenzione del
combattente, spazza via i peccati del credente e permette di accedere al Paradiso; inoltre, il continuo
combattimento allontana il musulmano da questo mondo e alimenta il suo desiderio di abitare
nell'aldilà.
Un'ulteriore precisazione sulla qualità della guerra la fornì poi il diritto islamico, codificatosi a
partire dal IX secolo e basato su Corano e hadīt. Secondo il diritto islamico, il ǧihād diventa
obbligo personale di tutti i credenti capaci di portare armi solo in caso di aggressione; in teoria,
sarebbe raccomandabile almeno una campagna l'anno contro gli infedeli, contro cioè quel Dār alHarb (casa della guerra: territori non islamici) che i giuristi contrappongono al Dār al-Islām (casa
dell'Islam: territori islamici); a queste due si aggiunge il Dār al-Sulh, ovvero i territori in cui i
musulmani stipulano trattati o tregue. Questa tripartizione elaborata dal diritto presuppone quindi
che i musulmani non siano in stato permanente di guerra universale, ma che vi siano tappe sulla via
dell'inevitabile e finale vittoria dell'Islam: ci possono quindi essere anche momenti di pace con le
popolazioni non musulmane, perché la guerra è possibile, ma non necessaria. L'attacco agli infedeli
deve comunque essere preceduto da un chiaro invito a convertirsi e solo dopo un esplicito rifiuto si
deve procedere alla guerra: se questa viene dichiarata senza pretesto, allora è considerata un vero e
proprio omicidio. La legge proibisce l'uccisione di donne, bambini, vecchi, monaci e in genere
inermi, oltre di distruggere i possessi del nemico e di rovinarne le case. Il Corano fa inoltre una
distinzione fra veri e propri infedeli (kāfir) e persone appartenenti a religioni riconosciute dall'Islam
come rivelate, ma abrogate da esso (Cristianesimo, Ebraismo, Sabeismo): questi vanno combattuti
non fino a che si convertano, ma fino a che si sottomettano all'Islam, mantenendo liberamente la
propria religione in cambio del pagamento di un tributo, la jizya, il cui scopo primario era, dal punto
di vista religioso, l'umiliazione (con statuto personale proprio, libertà di culto e segni di
riconoscimento; vengono definiti "protetti" o "gente del Libro"). A partire dal XII-XIII secolo, con
la perdita di territori a causa della reconquista spagnola e delle invasioni mongole, la
giurisprudenza islamica dovette considerare la possibilità che i musulmani potessero vivere in
territori dominati da cristiani: in molti autori medievali si nota un evidente irrigidimento nei
confronti dei nemici dell'Islam.
La letteratura degli hadīt e, in particolare, la definizione del martire nell'Islam degli inizi, lasciano
intendere che il ǧihād non implica necessariamente la guerra guerreggiata: quando infatti le
conquiste musulmane cominciarono a interessare zone più remote, sempre meno fedeli erano
disposti ad abbandonare casa e famiglia per andare a combattere, quindi la definizione originaria di
guerra santa fu ampliata in modo da comprendere la "lotta" e lo "sforzo" puramente spirituale; si
tratta di un atteggiamento non violento di guerra interiore, spirituale, ma il Corano comunque,
nonostante alcuni versi autorizzino una lotta non violenta, non mette sullo stesso piano combattenti
armati e combattenti disarmati. Questa concezione non militare del ǧihād, assente nelle raccolte di
hadīt canoniche, nacque nei secoli VIII e IX su iniziativa principalmente degli asceti come
elemento tipico del sufismo e molti tesi della tradizione elaborano una distinzione fra "grande
jihad" e "piccolo jihad", ossia fra lotta non violenta e lotta violenta: in pratica, per il combattente si
tratta di sconfiggere gli elementi della vita che lo inchiodano alla normalità e gli impediscono di
perseguire il perfezionamento spirituale e la mortificazione di sé (al-Gazzali, che pone particolare
attenzione alla distinzione, definisce le passioni e i piaceri dell'anima come un esercito invasore").
Attenzione però, il ǧihād spirituale, interiore, è la forma derivata da quello militare, e non
viceversa: con l'eccezione di Wilayat-i Faqih dell'ayatollah Khomeini, non esistono opere dedicate
solo al ǧihād spirituale e in ogni caso si tratta di una dottrina priva di profondità storica nell'Islam,
poco presente nella letteratura della tradizione, assente nel Corano e povera di esempi storici. Essa
perciò non può essere presa come prova della non violenza storica e universalmente accettata del
ǧihād, che nella maggior parte dei casi è proprio inteso come lotta militare: non c'è nulla nella
tradizione che escluda la mescolanza fra la lotta militare e quella spirituale.
Quali furono, in origine, le finalità del ǧihād? Principalmente si possono individuare tre
motivazioni:
a) apocalisse  le conquiste, avvenute molto rapidamente e con un'estensione incredibile, si
basavano sulla ferma convinzione dell'imminente fine del mondo; nel Corano sono presenti
profezie apocalittiche esplicite, ma sono poche rispetto a quelle della tradizione di hadīt: qui
il Profeta Maometto è presentato come un profeta del giorno del Giudizio, inviato alla
vigilia della fine del mondo per avvertire coloro che tengono in conto gli avvenimenti e per
punire coloro che non ne tengono conto;
b) diffusione dell'Islam  sebbene l'Islam non sia stato diffuso con la spada, conquista e
guerra santa crearono le precondizioni della conversione, e la conversione era un suo
obiettivo;
c) motivazioni economiche  sono di certo meno rilevanti, ma presenti nella letteratura.
Possiamo affermare che le conquiste furono, per l'Islam, una specie di miracolo confermativo. Data
la profonda identificazione tra questo avvenimento miracoloso e l'ideologia del ǧihād che lo rese
possibile, la guerra santa ha conservato un'importanza cruciale nella cultura islamica: il che non
significa, necessariamente, che il ǧihād resti sempre legato al suo aspetto aggressivo, perché in
numerosi casi si percepisce più che altro un senso di nostalgia che rimanda a questo periodo della
storia musulmana come a un tempo ideale, un'età dell'oro islamica.
Le conquiste arabe ottenute nel periodo dei califfi ben diretti e durante il califfato omayyade,
miracolose dal punto di vista militare data la loro estensione e conseguite a danno quasi sempre di
popolazioni tribali e disunite (tranne per l'Impero sasanide in Persia), permisero al ǧihād di
diventare un elemento culturale dell'Islam: senza conquiste, la religione non avrebbe avuto la stessa
diffusione, né la stessa attrattiva, così come la lingua araba, dunque la guerra santa fu fondamentale
per lo sviluppo islamico.
2.5. Costumi privati e proibizioni. Vediamo ora alcune prescrizioni della legge dedicate a
momenti cruciali della vita dell'uomo.
NASCITA: è raccomandabile sacrificare due capi di bestiame per la nascita di un maschio e uno
solo per la nascita di una femmina e distribuire elemosine. L'imposizione del nome avviene al
settimo giorno mentre la circoncisione, non menzionata nel Corano, è un uso antichissimo degli
Arabi preislamici ripreso dai musulmani.
MATRIMONIO, DONNE E SCHIAVITU': il Corano ammette la poligamia, fissando a 4 il numero
massimo di mogli, mentre è illimitato il numero di schiave concubine. Il matrimonio, non
considerato sacramento dall'Islam, è semplicissimo e di solito viene celebrato davanti a un giudice.
Con il contratto, lo sposo si impegna a versare alla sposa una dote. La legge ammette il matrimonio
di un musulmano con donne della "gente del Libro", ma non viceversa e il divorzio è molto facile.
La donna è considerata inferiore all'uomo dal Corano, tuttavia la situazione reale della donna nei
paesi islamici, a causa di tradizioni e pregiudizi estranei alla legge religiosa, è molto peggiore di
quanto il Corano e la Legge prescrivono: l'antifemminismo era troppo forte per essere superato.
Quanto alla schiavitù, così come nel Cristianesimo, questa è riconosciuta dal Corano come un dato
di fatto sociale: nel Corano è però più mitigata e lo schiavo ha sempre goduto di una buona
condizione nei paesi islamici (infatti, secondo la Legge il riscattar schiavi è considerata opera fra le
più meritorie possibili e lo schiavo gode di parziali diritti). E' vietato dalla legge rendere schiavo un
musulmano.
MORTE: in caso di morte ci sono quattro operazioni da fare: abluzione completa del cadavere,
avvolgimento in sudarii, preghiera dei morti e seppellimento (sul lato destro con viso verso la
Mecca). Banchetto funebre il settimo e il quarantesimo giorno dopo la morte.
Esistono poi altre proibizioni secondo la legge coranica:
 è proibito l'uso di vasi d'oro e d'argento per i banchetti, così come l'uso di monili d'oro e
d'argento per gli uomini (divieto rimasto sempre teorico); anche la seta è proibita;
 è proibito riprodurre immagini di esseri viventi e anche il possesso di esse;
 è proibito il gioco d'azzardo e il prestito a interesse;
 esistono limitazioni per la musica e il canto;
 è proibito mangiare carne di maiale, sangue e animali non macellati ritualmente;
 è proibito l'uso di bevande alcoliche (anche se la scuola hanafita proibisce solo il vino). Il
Corano proibì il vino solo gradualmente, mentre prima lo indicava come "buon alimento".
CAPITOLO III: LA MISTICA
3.1. Il misticismo nell'Islam. Inizialmente guardata con un certo sospetto dagli ambienti
tradizionali, col passare del tempo e con il contributo di autori come al-Qusayri e Gazzali la mistica,
chiamata più precisamente sufismo, divenne parte integrante della spiritualità musulmana, tanto da
divenire il motore principale della ricostruzione islamica dopo le invasioni mongole del XIII secolo:
sia nell'Impero ottomano che in quello persiano, dove la dinastia Safavide era di fatto una setta sufi,
e anche in quello Moghul in India, il sufismo avrà un'influenza molto importante nella diffusione
del credo islamico nei territori conquistati. Le invasioni mongole colpirono soprattutto le istituzioni
urbane e la cultura alta tipica cittadina, perciò quando l’Islam rinascerà dopo quest’ondata di
devastazione, lo farà dal mondo rurale della campagna e dalle istituzioni religiose del mondo rurale:
sarà il mondo sufi il motore della rinascita, creando nuove dinastie musulmane proprio dalle
confraternite (v. Persia).
In una religione che possiede un Dio così trascendente e personalistico, la mistica sembrerebbe
fuori luogo. Eppure, essa allignò vigorosamente nell'ortodossia sunnita, e, anzi, è soprattutto nel
sunnismo che essa trovò i punti più alti, più profondi e talvolta i più estremi rappresentanti, mentre
lo sciismo la considerò e la considera con molto maggior sospetto.
Il misticismo è un contatto personale e diretto fra uomo e Dio: l'Islam sunnita, proprio perché così
minuziosamente regola il foro esterno dell'uomo, lascia la massima libertà, sia dogmatica che
sperimentale, al suo foro interno, anzi, addirittura non se ne interessa; in pratica, non esistendo
sacerdoti e sacramenti *, una volta che il musulmano pio ha eseguito regolarmente i suoi obblighi
legali è perfettamente a posto con la legge e può anche parlare direttamente con Dio come vuole.
* N.B.: notiamo che quindi nel mondo cristiano occidentale esiste la separazione fra Chiesa e
Stato, con la Chiesa che ha dei propri funzionari; nel mondo islamico questa separazione non
esiste e legge e religione vanno a coincidere: lo scopo dell'Islam è trasmettere un ordine del mondo
e affermarlo, infatti esso detta le regole del vivere umano.
Il misticismo ortodosso è quindi nell'Islam l'assoluta personalità di Dio che è spinta a un punto tale
che non c'è più posto per altre persone reali che non siano la Sua persona; è una voluttà estrema di
autonegazione e di affermazione di Dio; è l'accentuazione dell'unicità di Dio che porta il mistico ad
affermare addirittura politeismo la sua stessa esistenza autonoma.
3.2. Le tendenze eterodosse del sufismo. Quella che abbiamo appena visto è la tendenza più
ortodossa del sufismo, accettata dall'ortodossia. Vi sono anche delle tendenze mistiche eterodosse:
a) Dio solo è degno di essere e di esistere: affermare l'esistenza sia pur minimamente autonoma
di altri essere è bestemmia. Tale via emozionale verso il panteismo (v. pag. 71) converge
con quella di tipo più pericoloso e metafisico, che proviene dall'attribuzione a Dio del
termine al-Haqq, "la Realtà". La prima via emozionale resta puramente islamica ed è
tollerata dall'ortodossia, che scusa gli eccessi verbali ("stare insieme con Dio" = blasfemia)
tramite l'espressione "annientarsi in Dio".
b) Accentuando la trascendenza di Dio si giunge anche a una sua trascendenza morale: Dio,
cioè, è al di là del bene e del male. I pericoli di eterodossia arrivano quando alcuni mistici
cominciano a sprofondarsi troppo nell'atto destinante divino, a mettersi troppo nella parte di
Dio, sentirsi essi stessi al di là del bene e del male.
c) Un grave pericolo per l'ortodossia è la diminuzione dell'importanza metafisica della persona
del Profeta in certe forme di misticismo. Il mistico sostiene di avere rivelazioni da Dio, tanto
da dichiararsi superiori addirittura al Profeta: per l'ortodossia invece le rivelazioni, come
sappiamo, sono limitate ai soli Profeti.
d) Altro pericolo è l'idea di "Santo" (awliyā', "amico" di Dio), che, specialmente nel misticismo
popolare, è degenerata in venerazione per l'uomo portata a limiti estremi.
e) Per poter rendere accettabili all'ortodossia le loro teorie, i mistici usano spesso
l'interpretazione allegorica (ta'wīl) dei termini più antropomorfistici della teologia: si corre
qui il pericolo di una vera e propria vanificazione dei dati più concreti della rivelazione, dato
che i mistici, interpretando spiritualisticamente i termini, tolgono loro ogni realtà corporea
(es. al paradiso, all'inferno), facendone stadi di esperienza interiore.
Per evitare queste tendenze eterodosse, il sufismo ortodosso si configura come un approfondimento
emozionale e personale delle verità religiose dell'Islam, principalmente in tre direzioni: 1)
teologico-dogmatica, 2) morale e 3) liturgico-pratica.
Dal punto di vista 1) teologico-dogmatico, il sufismo opera un approfondimento dell'Islam,
soprattutto nel senso di una interpretazione interiore, più spiritualizzata, dei dati della rivelazione.
Gli ortodossi generalmente evitano di prendere posizioni in questioni teologiche e il loro sufismo è
soprattutto emozionale. Per questo approfondimento essi si avvalgono dei dati coranici:
 concetti di Dio-Luce e Dio-Realtà;
 aspetti antropomorfistici del paradiso coranico visti come stati spirituali altissimi nella
letteratura mistica (frutti, Giardini, delizie etc.);
 senso vivo della "leggenda": il Corano abbonda di elementi suggestivi (viaggio di Mosé,
viaggio di "Quello delle Due Corna"), tanto che in alcuni passi lo stesso Maometto parla di
esperienze personali mistiche, ed esiste un gusto per l'approfondimento leggendario molto
vivo (soprattutto in autori come al-Israq), con i mistici che sostituiscono alla semplice e
rozza psicologia ortodossa una più sfumata (v. tripartizione dell'anima: cuore, spirito e cuore
dei cuori). La storia dell'anima umana è insomma vista (v. brano di Rumi pag. 79) come una
lunga evoluzione ed affinamento dal bruto all'angelo. Mentre i mistici ortodossi restano
attaccati al concetto di creazione, gli eterodossi sono spesso scivolati da quello di creazione
al concetto di emanazione; in Rumi, per esempio, colui che ama il fare di Dio è glorioso,
colui che ama ciò che Dio ha fatto è un miscredente: bisogna mettersi dal punto di vista di
Dio, amare il suo liberissimo agire puntuale, non il dato di fatto ormai superato e
concretizzato (concetto di Dio-Artista).
Punto di vista 2) morale. L'etica è forse la zona spirituale in cui il sufismo è particolarmente
benemerito per un raffinamento dei costumi e un ingentilimento della vita individuale e sociale
degli ambienti islamici.
Il punto di partenza è sempre il senso di totale schiavitù e sudditanza dell'uomo verso Dio
('ubūdīya), dal quale, paradossalmente, se realizzata con profondità, nasce la rivelazione di una
suprema libertà del mistico. Non a caso, il sufismo mostra una spiccata tendenza a un pessimismo
nel giudicare il mondo e la carne e in alcuni passi gli stessi monaci cristiani e la loro castità
assoluta, vista dall'ortodossia islamica come cosa proibita, sono lodati.
Il zuhud (ascetismo) può essere visto da tre punti di vista: a) rinuncia a ciò che è proibito (ascetismo
di massa), b) rinuncia al permesso superfluo (ascetismo degli eletti) e c) rinuncia a tutto ciò che può
allontanare l'uomo da Dio (ascetismo degli gnostici). In tutti questi livelli si nota il concetto
prediletto dell'Islam: l'abissale distanza fra il Signore e il Servo.
Tipico dell'etica sufista è anche l'approfondimento in senso etico dei precetti di legge. L'opera di alGazzali è infatti tutta piena di una rivalutazione etica anche degli atti di legge apparentemente più
insignificanti.
Dal punto di vista 3) liturgico-pratico, la liturgia mistica mira sostanzialmente a produrre lo stadio
supremo della via mistica, l'estasi cioè l'annientamento in Dio (fanā'), l'unione. Gli stadi vari della
via mistica sono distinti in "stazioni" di cui l'uomo si appropria e di "stadi" che, senza concorso
dell'uomo, calano nel suo cuore dall'alto. Dopo il fanā' c'è, per il mistico musulmano, il baqā'
bi'llāh, ovvero il permanere eternamente in e con Dio.
Un atto liturgico fra i più importanti per produrre questi stati (o meglio, in concomitanza col quale
Dio crea nel mistico degli stati, perché è sempre Dio che crea) è il cosiddetto dikr, cioè la menzione
del nome di Dio o di qualche suo attributo. Il dikr si distingue sia dalla preghiera personale che
dalla preghiera canonica perché esso deve restare nei cuori degli uomini in ogni momento e non
solo in certi momenti adatti. Le varie scuole mistiche hanno i loro speciali tipi di dikr.
La scuola (tarīqa, "via mistica") col relativo maestro è il pratico mezzo indispensabile per il mistico
che voglia raggiungere lo scopo del suo vagare verso Dio. Solo dopo averla percorsa appieno e
sotto la guida di un maestro (muršid, "guida", o šaih, "vecchio") il discepolo (murīd) giunge allo
stadio della realtà o realizzazione o gnosi (haqīqa). E' usuale nei trattati di sufismo veder distinti
appunti i tre stadi:
1. šarī'a (legge canonica: è, di fatto, la teologia islamica ortodossa);
2. tarīqa (rito e regola di confraternita);
3. haqīqa (realizzazione dell'assoluto).
La necessità del Maestro è dunque fondamentale: nessuno può raggiungere il terzo stadio senza
questo intermediario. Dall'idea di Maestro deriva una gerarchia di santi che i sufisti sono andati
costruendo e al cui vertice sta il polo (qutb), santi che in modo misterioso governano il mondo e le
cui tombe sono ora venerate. La totalitaria e monolitica concentrazione del divino nell'unica
persona di Allāh (gli angeli, nell'Islam, sono i suoi servi) si viene presso i mistici un po' diluendo.
Fondamentale è poi, anche se di fatto non tutte le scuole la esigano in pratica, è la povertà (faqr)
che anzi ha dato il nome, in certe contrade, ai mistici praticanti, ovvero i faqīr, i "poveri". La
povertà è concetto già molto antico nell'Islam e risale alle usanze estremamente parsimoniose e
parche di Maometto e degli stessi Arabi del deserto.
A livello pratico, compiuto il giuramento e il patto di iniziazione, il Maestro comincia a rivelare al
novizio il dikr, che di solito è uno speciale nome di Dio (la tradizione vuole che siano 99, mentre il
centesimo sarebbe ignoto e avrebbe proprietà miracolose). Il documento fondamentale di una scuola
mistica è la wasīya, "legato testamentario" del fondatore, contenente esortazioni mistiche e morali.
Oltre ai dikr, ogni scuola possiede speciali preghiere supererogatorie e varie pratiche come digiuni
extra, clausura, silenzio e vagabondare. Il mistico membro di una confraternita di solito è vestito di
una saio di rozza lana ed esistono testimonianze di primi monasteri nel IX secolo d.C. Musica e
canto, mal visti dall'ortodossia, sono spesso promossi dalle scuole mistiche, insieme e pratiche
estreme come autolesionismo, ingoiare serpi e spade etc. Queste pratiche spesso portano ad un
fanatismo esagerato che scoppia in episodi di incontrollata xenofobia e violenza.
Per le principali scuole mistiche vedi pag. 90-92.
CAPITOLO IV: LA ŠĪ'A E LE COMUNITA' NON SUNNITE
4.1. Origini storiche dello sciismo. L'Islam fin qui descritto è l'Islam sunnita, ovvero l'Islam di
colore che chiamano se stessi "la gente della tradizione e della comunità (ǧamā'a)": il loro
atteggiamento presuppone un'autorità religiosa non concentrata in persone (ad esclusione del
Profeta), ma in un libro, il Corano, e nella interpretazione comunitaria del medesimo attraverso tutto
un lavorio di generazioni di dotti e giuristi.
Anche gli sciiti potrebbero chiamarsi "gente della tradizione", in quanto hanno la loro venerazione
per le tradizioni del Profeta, mentre non potrebbero dirsi fautori della interpretazione comunitaria
proprio in quanto è punto centrale della loro dottrina la concentrazione della autorità religiosa in
centri-persone. Secondo gli sciiti, Maometto avrebbe infatti nominato un successore (imām),
autorevole interprete anche dottrinario (non solo difensore della legge e capo della comunità come il
Califfo sunnita) della sua parola, e questi un altro. Il punto singolare è che la maggior parte degli
sciiti fa cessare questa successione in un momento preciso del tempo, perciò la "zona storica sacra"
autorevole, docente, è per essi più lunga di quella sunnita, che si ferma alla morte di Maometto.
La parola šī'a significa letteralmente "fazione", "partito". Fin dalla morte del Profeta ci furono
persone nella comunità musulmana che sostennero essere 'Alī, come il più vicino parente maschio
del Profeta (suo genero) e uno dei più pii e antichi credenti, il legittimo suo successore: fu quindi
dall'inizio una questione puramente politica.
Studi recenti hanno fatto una distinzione fra una šī'a politica, di partigiani puramente politici di 'Alī
e degli alidi i quali potevano avere anche teorie strettamente sunnite, e una šī'a religiosa, di
entusiasti, dalle idee fortemente colorate di elementi gnostici, il cui centro fu soprattutto Kufa in
Mesopotamia e il cui primo rappresentante fu al-Muhtar. E' da quest'ultima che derivano tendenze
estreme come l'ismailismo ed è anche la più antica: essa poi non sempre è connessa a personaggi
della famiglia alide e non sempre a discendenti del ramo husainita della medesima (da Husain,
figlio di 'Alī, morto in combattimento nel 680 d.C.).
Gli sciiti sono dunque degli eretici? Un metro preciso per definire "eretica" una dottrina non esiste
nell'Islam. Comunque, gli sciiti non negano la profezia di Maometto, né la sua definitività nel
tempo: sono quindi, secondo il metro di al-Gazzali, sostanzialmente degli ortodossi. Ma la loro
eterodossia principale sta nel non adattarsi all'iǧmā' (consenso della comunità, dei teologi),
preferendogli l'autorità personale di un imām docente. L'eterodossia delle varie comunità sciite è
misurabile secondo il grado di "divinità" che essi attribuiscono alla persona dell'imām e seguendo
questo criterio si possono distinguere tre categorie di šī'a:
 estrema (ismailita e altre comunità): sono qualche centinaio di migliaia diffusi un po'
ovunque;
 media (duodecimana): è la più importante con 50 milioni di fedeli ed è diffusa in Pakistan,
India, Iraq, Asia sovietica e Persia;
 moderata (zaidita): sono circa 5-6 milioni concentrati soprattutto nello Yemen.
4.2. La šī'a duodecimana: l'imamismo. La šī'a fu imposta ai Persiani nel XVI secolo dalla dinastia
turca dei Safavidi, i quali, in origine sunniti, riesumarono antichi trattati di teologica sciita e fecero
venire predicatori e propagandisti dalla Siria meridionale e dall'Arabia per la sciitizzazione del
paese. È un cambiamento importantissimo, ma sono necessarie alcune premesse: la šī'a, benché non
ci fossero ulema sciiti in Persia, non era estranea al mondo persiano; essa nasce come un fenomeno
religioso arabo e già col tempo aveva trovato nella Persia un terreno particolarmente fertile. Inoltre,
nell’evoluzione delle proprie dottrine, nell’epoca abbaside si era già mescolata a credenze gnostiche
o legate al mondo religioso persiano, che avevano contribuito a dare un carattere distintivo a quella
che poi sarà la šī'a persiana. Inizialmente introdotta in Persia in una forma entusiastica ed estremista
da Sah Isma'il, il conquistatore della Persia (che negli scritti si definiva "Dio") che, così facendo,
voleva staccarsi dal sunnismo per essere identificato come fondatore di una nuova religione (da qui
la perenne rivalità con l'Impero ottomano sunnita), la šī'a venne gradualmente diffusa in una forma
più pacata e cauta dai suoi successori e i canti del conquistatore furono ben presto sostituiti da
grandi compendi arabi di tradizioni legali operai di più antichi giuristi e teologi sciiti imamiti, per i
quali il misticismo è pessima eresia.
La teologia sciita attuale si differenzia da quella ortodossa sunnita da tre punti di vista:
a) l'impostazione del concetto di imām;
b) un valore peculiare dato alla sofferenza, al martirio, che vi assumono un carattere quasi
redentivo;
c) l'adozione della teologia mu'tazilita e, quindi, l'ampio uso del ta'wīl nell'interpretazione
del Corano da parte dello sciismo (interpretazione allegorica del Corano).
4.3. L'imām. Ai requisiti che l'ortodossia sunnita ritiene necessari per l'elezione a imām o a Califfo
gli sciiti aggiungono la discendenza da 'Alī e negano del tutto il principio di elezione.
Storicamente, per gli sciiti Maometto avrebbe annunciato al genero la successione nel 632 d.C.: 'Alī
è chiamato walī (amico speciale di Dio) e wasī (esecutore testamentario, erede del Profeta), ma
soprattutto amīr al-mu'minīn, ovvero "principe dei credenti". La dignità dell'imām si trasmette per
nass, cioè con l'atto col quale il padre designa il figlio che deve succedergli all'imamato.
L'imām è il solo conoscitore del senso intimo dell'Islam comunicato direttamente ad 'Alī e da questi
ai suoi discendenti, ed ha l'autorità docente obbligatoria e definitiva nella interpretazione del
Corano e della sunna. Mentre nel califfo sunnita l’aspetto umano, terreno e politico è preponderante
e non è presente nessuna qualità di carattere divinatorio, carismatico o sacrale, l’imām è ritenuto
portatore di qualità sovraumane carismatiche.
Ad esso spetta anche la 'isma, infallibilità e impeccabilità e in esso si incarna una particella della
"Luce muhammadica" che viene trasmessa al suo successore.
Insieme ad 'Alī carattere particolarmente sacro assumono i "cinque Puri", cioè la Sacra Famiglia:
Maometto, sua figlia Fatima, suo cugino e genero 'Alī e i suoi due figli, Hasan e Husain. E'
interessante vedere che esiste nello sciismo un particolare culto di Fatima, che ingentilisce il
maschilismo dell'Islam.
Sia l'imām e in generale i "cinque Puri" hanno nella fede sciita anche un'importante funzione: la
"mediazione" presso Dio. Quello che nella religiosità sunnita è l'intercessione attribuita solo al
Profeta, nello sciismo è una vera e propria mediazione che confina quasi col concetto di redenzione.
Particolarmente carico di questa missione è considerato Husain, figlio di Fatima e 'Alī ucciso nella
battaglia di Kerbela contro gli Omayyadi nel 680 d.C., episodio considerato come libero sacrificio
per la salvezza dei musulmani.
In questo caso si vede una rivalutazione del dolore e della sofferenza, della sconfitta come fatto
religiosamente positivo di cui il sunnismo è privo: del resto, lo sciismo è una religione di sconfitti
che sognano la rivincita. In pratica, coloro che non riuscirono sulla terra a realizzare la loro
missione divina sono semi-divinizzati e dovranno tornare alla fine per far trionfare la giustizia: è il
concetto di Imām nascosto, presente fisicamente sulla terra ma momentaneamente occultato. I vari
rami dello sciismo si distinsero storicamente per questioni di successione legittima degli imām: chi
negava l'imamato di un successore sospetto fermava la linea degli imām al precedente, la cui morte
era allora una gaiba (scomparsa, occultamento); gli altri continuavano la linea di successione
visibile fino ad una fine. La šī'a qui analizzata, ovvero quella media, è chiamata "duodecimana"
proprio perché ferma la linea di successione al dodicesimo imām Muhammad al-Mahdi (scomparso
nell'874 d.C.), che è quindi quello "nascosto". L'imām nascosto, come detto, è presente sulla terra
ma è appunto occultato e tornerà alla fine dei tempi apparendo di nuovo: egli è chiamato l'"Imām
del Tempo", senza il quale la comunità musulmana, secondo gli sciiti, non potrebbe esistere,
dunque egli deve essere per forza vivo da qualche parte; intanto, egli fa conoscere la sua volontà e
la direzione spirituale tramite le autorità politiche e spirituali. Data l'occultazione dell'imām, lo
sciismo ha spostato alla fine del tempo l'idea religiosa della teocrazia pratica, che invece l'Islam
sunnita sogna come realizzabile col Califfo a qualsiasi epoca: nello sciismo si è quindi venuta a
creare una separazione più netta fra chiesta e stato.
Più precisamente, per lo sciismo duodecimano, dopo la gaiba dell'874, il capo della comunità è il
wakīl (luogotenente) dell'imām, che si crede in continua comunicazione con l'imām occulto: questo
era il periodo della gaiba minore, finito nel 940 d.C. e sostituito da quello della gaiba maggiore.
Una conseguenza singolare è che, siccome spetta solo all'imām dichiarare la guerra santa, lo sciismo
ritiene impossibile farla ora, in attesa del suo ritorno, e la guerra santa è ammessa solo in caso di
estrema difesa.
4.4. La teologia mu'tazilita. Il mu'tazilismo, mutazila o muʿtazila è una scuola di
pensiero teologico islamico comparsa nel IX secolo in Iraq. I suoi seguaci erano noti per negare la
non-creazione del Corano e la sua co-eternità con Dio. Da questa premessa, la dottrina deduceva
che i precetti di Dio fossero accessibili al pensiero umano e suscettibili di indagine razionale:
quindi, la conoscenza derivava dalla ragione, e quindi la ragione era arbitro finale nella decisione su
cosa è bene e cosa è male. Ne seguiva che il "sacro precedente" non era un mezzo affidabile per
stabilire cosa fosse giusto, poiché ciò che era obbligatorio in religione lo era solo in virtù della
ragione. Nato dal sunnismo, l'approccio mutazilita conobbe momenti di grande diffusione, e vi
furono dei periodi in cui il mutazilismo fu la "dottrina di Stato" nel califfato Abbaside. Dopo il X
secolo perse seguito, e fu definitivamente abbandonato nel XIII secolo con la persecuzione dei
filosofi. Oggigiorno alcuni suoi aspetti si ritrovano solo nello sciismo di orientamento zaidita: la
teologia islamica moderna lo considera un'eresia, perché nega sostanzialmente l'eternità del Corano
e perché tende ad affermare il libero arbitrio.
La dottrina mu'tazilita classica riassume le sue dottrine in cinque dogmi (usūl):
 Unità di Dio: gli attributi di Dio sono identici con la sua essenza; l'onnipotenza di Dio non
si estende agli accidenti né ai fenomeni liberi (ci sono delle altre cause); il Corano è creato,
altrimenti ci sarebbero due dei.
 Giustizia divina: Dio è giusto e non può volere il male né comandarlo (= bestemmia per
l'ortodossia).
 Promessa e minaccia: connessione della fede con le buone opere e distinzione fra peccati
mortali e peccati veniali.
 Stadio intermedio: stadio del peccatore.
 Ordinare il bene e vietare il male: la fede deve essere difesa e ogni azione cattiva deve
essere rimproverata e punita violentemente se necessario.
Il mutazilismo professa quindi la natura creata del Corano e pertanto postula l’evoluzione nella
creazione. Questa assumeva che non si poteva negare la possibilità da parte di Dio di modificare il
suo dettato, e quindi la necessità di una guida terrena, un imām, in grado di percepirne i sensi.
Nel mutazilismo è vivissima la tendenza a interpretare allegoricamente il Corano, tendenza ancora
aumentata nello sciismo, che ha accettato come propria dottrina teologica il mutazilismo. Perché? Il
sunnismo, con la sua totale negazione di ogni sacralità alla persona umana, di ogni forma di
incarnazione e di contatto uomo-Dio, è costretto a una accentuazione della personalità e corposità
trascendente di Dio: il Corano sostituisce nell'Islam il Cristo del Cristianesimo, quindi è il Corano
l'essere in cui Dio si incarna come verbo. Nello sciismo, che tendenzialmente è più incarnazionista e
da valori di particolare sacralità a certe persone, e per il quale la parola di Dio si manifesta in
Maometto, 'Alī e negli imām, mantenere contemporaneamente anche persone trascendenti
antropomorfizzate sarebbe stato una sorta di doppione: di qui la necessità per lo sciismo,
antropomorfista in terra, di non esserlo troppo nel cielo.
4.5. La legge religiosa. Se si toglie il capitolo riguardante l'imamato, la šarī'a sciita duodecimana è
praticamente simile a quella sunnita. Ci sono però alcune divergenze:
 esistono certe preghiere speciali (per Fatima, 'Alī, festa dello Stagno);
 esiste, fra le 'ibādāt, il "quinto" (hums), da prelevare sul bottino, le miniere e i tesori
nascosti, oltre che un capitolo apposito sul "ritiro spirituale" di almeno tre giorni e tre notti
(durante il quale bisogna astenersi da pratiche sessuali e profumi);
 riservati agli imām, come lo erano al Profeta, sono gli anfāl, cioè speciali terreni ottenuti con
operazioni belliche;
 riguardo la guerra santa, viene anche considerata quella contro i musulmani restii a
sottomettersi al legittimo imām;
 nel contratto matrimoniale, esiste anche un matrimonio temporaneo (= prostituzione
legalizzata), aborrito dai sunniti;
 esiste la taqiyya come prescrizione, secondo cui lo sciita è obbligato a nascondere le proprie
credenze in caso di pericolo;
 esistono particolari feste sciite (la più importante è quella dei dieci giorni del mese di
muharram, destinati a celebrare il martirio di Husain a Kerbela);
 lo sciismo è madre di sette e scuole teologiche diverse: le più famose sono gli usūlī, gli
ahbārī e i šaihī.
4.6. La šī'a estrema. Ismailismo e sette estreme. L'imamismo più estremo si presenta come una
più consequenziaria deduzione dei principi imamiti generali: la presenza sacra di una Persona,
simbolo sulla terra e vicario del Profeta e di Dio, che spieghi autorevolmente la Verità, non può mai
mancare. La maggior parte delle sette sciite estreme continuano infatti l'imamato e la più importante
di queste comunità è nota come "Ismailiti", la cui storia religiosa può essere suddivisa in quattro
periodi: formazione pre-fatimida (VIII-X sec.), sviluppo e affermazione fatimida (X-XII sec.),
nuova propaganda nizari (XII-XIII sec.) e decadenza e riassestamento con influssi indù.
Il loro nome si riferisce al pretesto storico del distacco di tale comunità da altre sciite, pretesto
dovuto a questioni di discendenza: il sesto imām dei duodecimani, Ga'far as-Sadiq, avrebbe
designato suo figlio primogenito Isma'il come suo successore, ma poi avrebbe cambiato idea a
causa della cattiva condotta del figlio, sostituito con il secondogenito Musà al-Kazim: mentre i
duodecimani continuano la successione con quest'ultimo, gli ismailiti la fanno continuare con
Isma'il e con suo figlio Muhammad che è, per alcuni, l'ultimo e settimo imām (questi sono definiti
"settimani"); gli ismailiti non sono tutti settimani perché non chiudono la serie dell'imamato, che
permane fino ai giorni nostri, in una continua vivente presenza del simbolo e vicario di Dio sulla
Terra, chiamato Āġā Hān.
Gli ismailiti, fin dal principio perseguitato come un pericolo pubblico, si dispersero nelle varie
regioni dell'impero califfale e guadagnarono proseliti anche nelle regioni più lontane per mezzo dei
loro dā'ī (propagandisti). Si vennero a creare così diverse correnti dell'ismailismo:
 Càrmati: gruppo fondato dal Hamdan Qarmat nel IX secolo, diffuso in Arabia orientale e
Bahrain e basato su idee comuniste; era l'ala estrema dell'ismailismo, che coinvolgeva
principalmente mercanti e artigiani;

Fatimidi: dinastia ismailita installatasi in Egitto nel X secolo (il nome deriva dal fatto che
gli imām fatimidi erano discendenti di 'Alī e Fatima). A sua volta, la dinastia fatimide si
divise in due correnti diverse in seguito alla morte del Califfo al-Mustansir nel 1094 d.C.:
a) Nizari: seguaci di Nizar, figlio maggiore ed erede di al-Mustansir ucciso dal fratello
minore Musta'li; localizzati fuori dall'Egitto;
b) Musta'li: seguaci di Musta'li, successore di al-Mustansir e mandante dell'omicidio del
fratello Nizar; principalmente residenti in Egitto.
Con la caduta dei Fatimidi come dinastia nel XII secolo, i musta'li si spostarono nello Yemen,
mentre il nizarismo prosperò al di fuori dell'Egitto approfondendo i suoi lati esoterici di ordine
sacro. Particolarmente importante fu l'opera di Hasan ben Sabbah, propagandista fatimida che si
dichiarò per Nizar e organizzò una fiorente propaganda nelle regioni orientali dell'impero islamico
abbaside: nel 1090 d.C. conquistò la fortezza di Alamut (oggi in Iran), che divenne il suo quartier
generale, e riorganizzò tutto il movimento ismailita su basi nuove; i suoi seguaci erano conosciuti
con il termine di "assassini" (che deriva da hašīšī, che usa l'hashish); egli proclamò di essere il
"resurrector" atteso, un vero e proprio nuovo Profeta. La conquista della Persia da parte dei
Mongoli nel XIII secolo spinsero gli ismailiti ad un'attività ancor più segreta e intanto il loro credo
si era diffuso ampiamente in India, dove vennero fondate numerose sette con notevoli apporti indù e
confluirono anche, dallo Yemen, elementi musta'li. Gli imām nizari continuarono a vivere in Persia
ed ebbero nel 1834 dallo scià di allora il titolo onorifico di Āġā Hān. Attualmente gli ismailiti
persiani non superano in tutto il mondo il numero di qualche centinaio di migliaia e i nizari sono
sparsi soprattutto in Iran, India, Pakistan, Siria, Afghanistan, Asia centrale e Arabia. In India
esistono anche alcuni ismailiti musta'li, noti come bohoras (a loro volta divisi in dawudi e
suleimani).
Quali sono in realtà le origini dell'ismailismo? Come già accennato in precedenza, le origini prime
derivano probabilmente dai movimenti entusiastici del primo sciismo religioso mesopotamico,
come dimostra del resto l'Ummu' l-Kitab ("Il Libro Primogenito"), prezioso manuale in cui si
sostiene che Dio, oltre a essere nel cielo, è anche una persona che vive normalmente sulla terra,
teoria che va contro la credenza ismailita dell'inconoscibilità e trascendenza di Dio; nel libro
domina poi il concetto tipicamente manicheo dell'evocazione ed esistono altri elementi manichei e
gnostici.
Questo nucleo di dottrine fu poi solo in parte accettato dall'ismailismo posteriore che con la
diffusione dei concetti neoplatonico-ellenistici si forgiò una metafisica più ordinata. Punto
fondamentale è la distinzione fra zāhir e bātin, due piani interpretativi del Corano: il primo è tutto
ciò che è esteriore, mentre il secondo è l'interiore, l'esoterico. Si riduce il primo al secondo mediante
un'operazione che si chiama ta'wīl, ovvero "interpretazione allegorica", che si oppone a tanzīl
(religione esoterica rivelata) e implica un ricondurre in alto allo Spirito ogni punto della religione
esteriore. Instaurare il zāhir è la missione del profeta, detto dagli ismailiti Nātiq ("Parlante"), mentre
ricondurlo al bātin è la missione dell'imām o del sāmit ("tacito") che affianca il parlante: è solo
attraverso di lui che il credente può realmente giungere alla conoscenza della luce di Allah che è
l'unico vero desiderio dell'uomo. Il risultato è una specie di fermentazione del Dio unico
semplicistico dell'Islam ortodosso in una quantità di ipostasi discendenti, in un arricchimento del
mondo trascendente di entità che si diversificano dalle idee platoniche soprattutto perché sono entità
angeliche, personali (chiari influssi iranici).
Importante è anche l'interpretazione ciclica del Tempo: la storia del mondo è divisa in sette grandi
cicli iniziati ciascuno da uno dei grandi profeti (Adamo, Noè, Abramo, Mosé, Gesù, Maometto); il
settimo, il Qā'im, verrà alla fine del mondo. Ciascuno di essi ha un wasī cui seguono una serie
interrotta di imām.
Ai margini del grande filone filosofico-religioso ismailita spuntarono anche delle sette secondarie,
delle quali restano tuttora piccoli nuclei. Ecco le principali:
 Drusi: il sesto Califfo fatimida, al-Hakim, giunse ad un certo punto a proclamarsi egli stesso
Dio, creando gruppi di adepti non arabi detti "drusi". Secondo questi, il Califfo scomparve
misteriosamente e tornerà alla fine dei tempi. Credono alla trasmigrazione delle anime e
hanno un sistema simile a quello ismailita. Oggi sono circa 200.000 in Siria del sud, Libano
e Israele e si dividono in "sapienti" e "ignoranti": solo i primi conoscono le dottrine della
setta.
 Nusairī: localizzati principalmente in Siria, furono fondati da Ibn Nusair nel IX secolo,
quando questi si dichiarò "porta" del decimo imām duodecimano Ali an-Naqi. Sono meglio
conosciuti come 'alawiti, infatti 'Alī è per essi una manifestazione della divinità o forse
addirittura una sua incarnazione. Esiste per loro una trinità formata dall'essenza divina, che è
appunti 'Alī, Maometto e la "porta", che è invece Salman (liberto persiano del Profeta): il
nome 'AMS viene rivelato solo agli iniziati. Essi ammettono la metempsicosi, negano
l'anima delle donne, hanno tre gradi di iniziazione, un proprio libro sacro liturgico e feste
musulmane, cristiane ed ebraiche (Natale, Pasqua, Pentecoste etc.). Le loro liturgie sono
celebrate in case privati e oggi sono circa 300.000.
 Ahl-i haqq: considerano un Sultan Suhaq come fondatore della loro comunità nel XV secolo
e sono sparsi in Persia, Anatolia, Siria del nord, Russia meridionale, Turkestan e India. Il
loro nome significa "gente della Verità" e in essi confluirono senza dubbio i residui dei
primi estatici entusiasti safavidi. Hanno sette successive manifestazioni della divinità (tra cui
il re safavide Sah Isma'il), singolari miti di creazione, credono nella metempsicosi, hanno
riti originali, riunioni mistiche con produzione di estasi, cerimonie di iniziazione speciali e
unioni caste speciali.
 Ahmadīya: setta fondata da Mirza Gulam Ahmad di Qadyan (India) nel XIX secolo. Egli
prima disse di avere visioni e rivelazioni da Dio per combattere la propaganda dei missionari
cristiani, poi si presentò come "rinnovatore" del secolo XIV dell'Islam nel 1882 (idea non
eterodossa, perché l'Islam sunnita sostituisce i vari santi ed imām ciclici con l'idea che ogni
secolo dell'Islam abbia un rinnovatore che corregge i costumi e migliora il decadente Islam),
si proclamò profeta nel 1890 e nel 1904 addirittura Messia degli ebrei e Cristo risorto dei
cristiani. Sebbene questa comunità sia totalmente distinta, pochissime sono le divergenze dal
sunnismo ortodosso: la guerra santa è abolita, Gesù muore veramente (ma non sulla croce,
bensì nel Kashmir a 120 anni) e il concetto di rivelazione non è ristretto al solo Profeta. Il
figlio del successore di Mirza, Mirza Basir ad-Din, provocò uno scisma nella setta: i suoi
seguaci sono noti come qādyānī (da Qadyan), mentre i dissidenti come lāhōrī (da Lahore,
dove si stanziarono). E' merito di Mirza la creazione di un'abile apologetica dell'Islam e di
un missionarismo islamico attivo in Africa, Asia ed Europa. I fedeli sono qualche centinaio
di migliaia.
 Yazīdī: chiamati a torto "adoratori del Diavolo", la loro setta non ha praticamente nulla di
islamico e l'origine del nome ha due possibilità: o dal persiano izad ("venerabile") o dal
residuo di una setta estremista omayyade di Yazid, colui che uccise Husain nel 680 d.C e
secondo Califfo omayyade. Tipici di questa setta sono entusiasmi religiosi di tipo
tendenzialmente incarnazionistico e gnostico applicati a dei non-'alidi. Sono circa 100.000
oggi e diffusi in Kurdistan, alta Mesopotamia, Siria, Persia e Caucaso. Secondo loro, Dio è
il creatore del mondo, ma non il suo conservatore, ruolo che spetta a sette angeli divini,
principale dei quali è Malak Ta'us (egli cadde dal cielo e pianse, le sue lacrime spensero
l'inferno). Ammettono la metempsicosi, affermano l'esistenza di sette esseri divini chiamati
sanǧaq, sono monogami e il loro culto è sincretistico (mix di diverse religioni). Capi della
comunità sono un šaih supremo che si interessa di materie religiose e giuridiche, e un amīr
"principe" (discendente di Yazid), che si interessa di questioni civili e politiche.
SCHEMA RIASSUNTIVO DELL'ISLAM
Càrmati
Nizari
SUNNITI
DUODECIMANI
(medi)
Fatimidi (dinastia
Egitto)
MUSULMANI
Musta'li
SCIITI
ZAIDITI (moderati)
Drusi (fondati da
califfo fatimide)
ISMAILITI
(estremi)
Nusairī o 'Alawiti
Ahl-i haqq
Ahmadīya
Yazīdī
CAPITOLO V: L'ISLAM NEL SUO SVILUPPO STORICO
5.1. L'Arabia pre-islamica. L'ambiente geografico nel quale nacque l'Islam è la regione
dell'Hegiaz, altopiano desertico lungo la costa occidentale d'Arabia prospiciente il Mar Rosso. Nel
VII secolo d.C., epoca in cui nacque l'Islam, in questa regione si trovavano già due centri abitati da
popolazione sedentaria, Mecca e Yatrib, entrambe formate per lo più da mercanti; popolazione
sedentaria esisteva anche nello Yemen (Arabia felix).
Influssi cristiani giungevano a quell'epoca in Arabia da due parti: da sud tramite l'Etiopia cristiana e
da nord tramite i regni cristiani arabi presso i confine bizantino e persiano, quello nestoriano di Hira
e quello monofisita di Gassan, vassallo di Bisanzio. C'erano anche degli influssi ebraici, portati in
Arabia da colonie ebraiche esistenti nello Yemen e nelle città dell'Arabia occidentale.
Quanto al politeismo arabo, esso non differiva gran che dal comune politeismo semitico. Ecco gli
elementi principali: tra gli oggetti che si ritenevano abitati da potenze divine c'erano le pietre, delle
quali la più importante era la "Pietra Nera" della Mecca; tra gli dei, il dio Hubal era talmente
importante da essere chiamato "il dio" (Allāh); gli Arabi pagani avevano anche un vago concetto di
Essere Supremo, al quale attribuivano gli dei e le dee del loro pantheon come figli e figlie; la
situazione commerciale privilegiata della Mecca, le grandi fiere annuali che lì si svolgevano e il
culto della Pietra Nera contribuirono a dare alla città una grande importanza religiosa, che
culminava nella cerimonia del pellegrinaggio al santuario del dio Hubal, con relative cerimonie
(circumambulazione, corsa, elemosine); erano presenti diverse pratiche e credenze magiche (es.
folletti).
L'importanza maggiore del paganesimo preislamico non sta tanto nella sua religiosità, semplice e
scarsamente significativa, quanto nel maturarsi di una coscienza nazionale e razziale panaraba che
si veniva formando in taluni centri religiosi: il paganesimo fu presto insufficiente a soddisfare i
nuovi bisogni della popolazione e riti rozzi del politeismo dovevano essere sostituiti in qualcosa di
più organizzato e sofisticato (già prima di Maometto, certi "hanīf " erano diventati monoteisti).
5.2. La vita di Maometto. Nell'ambiente sopra descritto nacque, tra il 567 e il 572 d.C.,
Muhammad, il profeta dell'Islam, la cui vita può essere conosciuta grazie a due fonti, il Corano e la
raccolta di tradizioni (hadīt) sviluppatesi dopo la sua morte (la più antica è quella di Ibn Ishaq,
composta tra il VII e l'VIII secolo). Oltre alla nascita, le altre date importanti della vita di Maometto
sono: il 612-613 d.C., data della rivelazione del Corano, il 622 d.C., anno dell'emigrazione a
Medina (Egira) e il 632 d.C., anno della sua morte.
Maometto sarebbe appartenuto alla grande tribù dei Qurais, i signori della Mecca, figlio di
'Abdullāh, morto prima della sua nascita, e di Āmina, morta quando era bambino: fu affidato prima
al nonno e poi allo zio Abū Tālib, padre di 'Alī. Date le difficili condizioni, egli dovette lavorare
come pastore per guadagnarsi da vivere, fino a quando non sposò la ricca vedova Hadīǧa, più
vecchia di 15 anni. E' probabile che Maometto, prima della rivelazione, fosse stato pagano come il
resto degli Arabi, e che sia giunto, grazie ai suoi viaggi, ad una grande conoscenza del mondo
religioso ebraico e cristiano.
Prima delle rivelazioni del 612-13, pare che Maometto abbia trascorso lunghi e periodici ritiri
spirituali, noti anche al paganesimo preislamico come tahannut: si trattava di pratiche espiatorie
compiute in luoghi solitari e caverne. Il Corano parla esplicitamente di due visioni, visioni di un
angelo, Gabriele, messaggero di Dio. Queste visioni anticiparono forse le manifestazioni auditive,
che videro sempre protagonista Gabriele e nelle quali Maometto non era che l'umile ricettacolo
fisico di Dio, il suo microfono: Maometto sentiva una vera e propria dettatura di Dio tramite
Gabriele, spesso colpito da fenomeni di febbre e tremito. Pare anche che queste rivelazioni si
fossero ad un certo punto interrotte, per poi riprendere dopo un periodo di disperazione del Profeta.
Il Corano fu quindi ripreso due volte e rivelato a brani al Profeta, non in un giorno solo: per circa tre
anni le rivelazioni dell'angelo furono comunicate da Maometto solo a pochi intimi, i primi
convertiti, ovvero Hadīǧa, 'Alī, suo figlio adottivo Zaid e i due futuri califfi "ben diretti" 'Utmān e
Abū Bakr.
Fu alla fine del 612 che Maometto ricevette, in una rivelazione, l'ordine di iniziare il suo apostolato
pubblico. In queste prime rivelazioni esiste un elemento costante: l'annuncio del giorno del giudizio
("ora che sopravviene") e della resurrezione dei corpi e della conseguente necessità di una
purificazione; si accentuarono anche sempre più le critiche al politeismo e per questo motivo
Maometto, accusato di essere un mago e un poeta, fu perseguitato insieme ai suoi dai clan pagani
della Mecca (esclusione dei musulmani dai diritti tribali = morte civile). Nel 619 il Profeta perde la
moglie Hadīǧa e lo zio Abū Tālib, avviando per lui un periodo difficile: sposerà più tardi la giovane
'Ā'iša, che fu anche sospettata di adulterio, ma Maometto non l'avrebbe rinnegata. Nel 620 alcuni
abitanti di Yatrib si convertirono e Maometto pensò di trasferirsi in quella città, cosa che fece nel
622 dopo il "patto di Aqaba", grazie al quale egli è riconosciuto capo di Yatrib: è l' ègira (hiǧra) a
Medina (nuovo nome di Yatrib; Al Madinā, "città illuminatissima"). In questo periodo si nota come
l'Islam fosse una religione prettamente cittadina, contrapposta a una religione pagana delle
campagne: solo più tardi l'Islam si espanderà anche nei dintorni di Medina e poi in tutta Arabia. Nel
meccanismo delle rivelazioni medinesi si può scorgere un certo cambiamento: Dio spesso
interviene, per bocca del Profeta, per risolvere questioni pratiche e rispondere alle domande dei
credenti.
Ovviamente, una volta capo di Medina Maometto doveva utilizzare tutti i mezzi possibili per
difendere, consolidare e organizzare la comunità, tra cui la guerra e la razzia. Iniziò così un periodo
di spedizioni militari: razzia di Badr contro i Quarais (624), confisca dei beni degli ebrei Qainuqa di
Medina (624), rivincita dei Quarais a Badra Uhud (625), espulsione degli ebrei Nadir da Medina
(625), varie razzie punitive contro le tribù beduine, assedio di Medina da parte dei Quarais (627),
massacro degli ebrei Quaraiza di Medina come ritorsione (627), tregua con i Quarais (vittoria
diplomatica perché permetteva ai musulmani di fare il pellegrinaggio alla Mecca), conquista della
Mecca pacificamente (630), ritorno a Medina e altre campagne contro i beduini. Nel 632, Maometto
era padrone di tutta l'Arabia.
L'Islam intanto si va perfezionando e Maometto, rinunciando a convincere gli ebrei, cambia la
direzione della preghiera da Gerusalemme verso la Ka'ba, che dichiara essere stato il primo tempio
monoteista: non è che rinascita e riproposizione, per mezzo di un profeta questa volta arabo, di quel
primitivo culto monoteistico i cui dettami erano stati man mano corrotti da ebrei e da cristiani; così
come il Cristianesimo aveva sostituito l'Ebraismo in passato, ora l'Islam doveva sostituire il
Cristianesimo.
Nel 632, poco prima della sua morte, avvenuta l'8 giugno, Maometto si recò alla Mecca insieme ai
fedeli: è il "pellegrinaggio d'addio", durante il quale il Profeta lasciò il suo ultimo messaggio
d'eredità, incitando i fedeli a seguire il Corano e il suo esempio.
5.3. Le fonti del Corano. Il Corano fu scritto a pezzi secondo le esigenze del momento e riassestato
al tempo del califfato di 'Utmān (644-656). Esso è, di fatto, frutto di influenze di diverso tipo:
 Paganesimo pre-islamico: da esso il Corano ha ereditato gesti rituali (es. pellegrinaggio),
leggi (es. il taglione), parte della teologia (es. i folletti, gli spiriti) e soprattutto della sua
morale;
 Gnosticismo cristiano ed ebraico: il Corano è frutto di un'iniezione di materiale gnostico in
un ambiente socialmente primitivo, rielaborato dalla mente di un monoteista assoluto come
Maometto; ne nascono curiose miscele, come la giustapposizione di racconti allusivi e
simbolistici accanto a riti pagani e brani del puro biblicismo monoteistico. La
degnosticizzazione avviene soprattutto in due direzioni: quella escatologica (che la gnosi
tratta scarsamente) e quella monoteistica. Misteriose restano ancora le vie di passaggio di
questi influssi: probabilmente si tratta delle comunità cristiane ed ebraiche d'Arabia con
patrimonio dogmatico non troppo ortodosso e di qualche comunità manichea.
 Religiosità iranica: per esempio, la scelta iniziale, prima del Tempo, della anime umane.
E' certo che i viaggi di Maometto in Siria e Palestina con la prima moglie favorirono il suo contatto
con questo tipo di fonti, che poi egli stesso rielaborò. Certo è anche che il Corano è il libro più
monoteista che esista e, mentre il monoteismo di Abramo si prefiggeva di sconfiggere gli dei
pagani, il monoteismo di Maometto è di per se stesso il monoteismo in assoluto perché non si
prefigge alcuna sconfitta di precedenti dei: Dio è uno e assoluto.
5.4. L'organizzazione giuridica, liturgica e teologica. I primi problemi che sorsero nella comunità
musulmana al suo espandersi dopo la morte del Profeta, un espandersi che in pochi anni (632-650)
causò il crollo dell'Impero Sasanide in Persia e la perdita di molti territori all'Impero Bizantino,
furono soprattutto di organizzazione giuridica.
Il Corano, pur infatti contenendo in nuce le cose fondamentali del fiqh (giurisprudenza islamica),
era lungi dal precisarle organicamente e non ne dava più che un abbozzo. Le autorità musulmane, di
fronte alla scarsità del materiale giuridico coranico e alla scarsità di dimostrabili precedenti più
antichi e all'assenza del non ancora codificato hadīt, che si sarebbe formato più tardi, facevano
ampio uso del ra'y, ovvero dell'opinione personale dei giudici. Il periodo piuttosto lungo in cui
questo fu l'uso (tutto il periodo omayyade, 661-750 d.C.) e i contatti che in quel periodo esistettero
con la legislazione dei paesi conquistato fanno pensare alla possibilità di influssi del diritto romano
o del diritto persiano, che comunque furono scarsi (l'esempio più lampante è l'introduzione dei
contratti enfiteutici). Per esempio, tutta la teoria della proprietà fondiaria dei paesi conquistati venne
costruita basandosi esclusivamente su atti occasionali di Maometto in Arabia verso gruppi ebraici, e
lo stesso fu fatto per determinare la posizione giuridica dei sudditi non musulmani dello stato
islamico.
Il fiqh comunque finì per sistemarsi molto presto e prestissimo debbono poi essere state introdotte
quelle aggiunte e variazioni probabili riguardo materie di culto e liturgia (es. numero delle
preghiere). Su questa parte più propriamente ritualistica devono aver influito soprattutto pratiche
giudaico-cristiane, mentre l'elemento persiano è molto probabilmente mediato.
Lo Schacht ha dimostrato l'inesistenza di hadīt riguardanti questioni dogmatico-teologiche per il
periodo antecedente l'anno 720 d.C. Le prime discussioni implicanti un elemento teologico nascono
in Islam con il grande scisma, originato dalle guerre fra 'Alī e Mu'āwiya, governatore della Siria e
parente del defunto Califfo 'Utmān (assassinato nel 656 da una congiura probabilmente guidata da
'Alī) e poi in seguito fra i pretendenti alidi e Omayyadi, i quali erano gli immediati discendenti dei
convertiti dell'ultima ora ex nemici del Profeta (chiamati ansar, "ausiliari") ed erano sempre stati
visti con diffidenza dai musulmani di allora, che li ritenevano opportunisti e mondani. La battaglia
di Siffin del 657 d.C. sancì la sconfitta diplomatica di 'Alī, il quale, pur vincendo la battaglia, fu
costretto a firmare una tregua su richiesta dell'avversario, che si appellò al Corano: un gruppo di
seguaci estremisti di 'Alī si ribellò a questo gesto benevolo e si staccò, formando gli hāriǧiti (o
kharigiti) autori nel 661 dell'assassinio dello stesso 'Alī. Dopo la sua morte Mu'āwiya si proclamò
Califfo fondando la dinastia omayyade, un califfato monarchico fortemente accentratore.
DIBATTITI TEOLOGICI:
 Problema della fede e delle opere. Ecco che quindi nacque un forte dibattito teologico fra
le tre fazioni: gli 'alidi restarono fortemente gnosticheggianti (per la salvezza, oltre alla fede,
era necessaria la "conoscenza" superiore e illuminata), gli hāriǧiti sostennero il principio
secondo il quale chi opera contro la legge di Dio in qualsiasi senso è da considerare
miscredente, mentre i filo-Omayyadi, chiamatisi murǧi'iti, sostennero che quello che

praticamente bastava per essere considerato musulmano era la professione di fede e
l'adesione alle fondamentali pratiche rituali. Vinsero i filo-Omayyadi, e l'ortodossia restò
fondamentalmente murgi'ita. Gli hāriǧiti, dopo essere stati una minaccia, si ritirarono in
luoghi remoti del mondo e ne esistono ancora in Tripolitania, Algeria, Oman e Zanzibar
(oggi sono chiamati Ibaditi). Risultato e frutto di queste polemiche fu la posizione
ortodossa, che cioè la fede è sufficiente per la salvezza, che però deve essere accompagnata
dalle buone opere, che ci sono peccati gravi e leggeri, ma che anche i gravi non escludono
per sempre dal paradiso.
Problema del libero arbitrio e della predestinazione. Il secondo grande dibattito fu quello
fra i sostenitori del libero arbitrio, detti qadariti, e i sostenitori della predestinazione, detti
ǧabariti, dibattito sorto soprattutto in città come Medina, Damasco, Kufa e Bassora (sede
della scuola dell'eminente Hasan al-Basri, gabarita). Benché nel Corano si trovino passi che
favorirebbero la dottrina del libero arbitrio, sono forse ancor più numerosi quelli in cui Dio è
concepito come Signore assoluto che "perde chi vuole e salva chi vuole": a tale idea
autocratica di Dio si ribellarono i qadariti, che cercarono di rivalutare la libertà dell'uomo.
Tuttavia, visto anche il concetto islamico di appiattimento sullo stesso piano di sostanza e
accidente, secondo il quale Dio tutto crea e tutto distrugge senza motivo, la battaglia era
persa in partenza e i qadariti persero. Il loro sviluppo più ampio fu poi il mu'tazilismo,
teologia dello sciismo, che ebbe infatti origine negli ambienti di Bassora e nacque da una
controversia fra al-Basri e il suo discepolo Wasil ibn 'Ata', il quale sosteneva che il
musulmano reo di peccati capitali fosse un "empio" (fāsiq), partecipe sia della fede che
dell'incredulità. Morto Wasil, i mu'taziliti conservarono la teoria con altre che man mano si
erano aggiunte, prima fra le quali una maggiore larghezza verso il libero arbitrio.
5.5. L'influenza ellenistica sulla filosofia-teologia dell'Islam e il suo sviluppo. Gli oppositori
della mu'tazilia, manichei, letteralisti, antropomorfisti, predestinazionisti e materialisti, e gli stessi
mu'taziliti, poterono sostenere le loro posizioni grazie all'introduzione nel mondo islamico della
filosofia e della terminologia greche, attraverso il grande flusso di traduzioni che va dall'VIII al X
secolo: questo aristotelismo, insieme alle più antiche metafisiche sincretistiche, emanazioniste e
redentrici (Platone, Pitagora), influenzò molto l'Islam e facilitò i dibattiti.
Città centrale di questo flusso di traduzioni fu Harran, sede dei Sabei, una comunità ellenistica
combinante elementi dell'antica religione astrale babilonese con la gnosi. Da loro Dio è concepito
come luce e la sua azione sull'inferiore come mediata dalla Luce: questa metafisica della luce ebbe
un'enorme influenza sulla filosofia-teologia successiva dell'Islam e idea direttrice del loro pensiero
è la salvezza dell'anima, raggiungibile tramite l'ascetismo e la meditazione.
I principali concetti aristotelici (accidente, forma, sostanza, materia ecc..) e i sistemi dialettici del
pensiero greco dettero una notevole arma ai polemisti religiosi e le discussioni ebbero forte impulso
nei primi periodi del califfato abbaside (750-1258 d.C.): famosa per queste discussioni fu la corte
del Califfo al-Ma'mun, grande protettore dei mu'taziliti, fra cui i più illustri rappresentanti furono
Abu Hudail, Nazam e al-Gubba'i, impadronitisi della dialettica greca (il metodo dialettico
mu'tazilita di origine ellenistica si chiamò kalām, "discorso"). I mu'taziliti furono poi perseguitati
dal suo successore, al-Mutawakkil, ma la scuola sarebbe sopravvissuta e si sarebbe espansa a
oriente, fino a diventare la teologia dello sciismo.
La reazione contro la mu'tazilia e la nascita di un kalām ortodosso si ebbero soltanto nel X secolo,
soprattutto in Mesopotamia, Estremo Oriente ed Egitto. Tra gli oppositori, uno dei più importanti fu
l'ex-mu'tazilita Al-As'ari, fondatore dell'aš'arismo già visto: di veramente mu'tazilita nell'aš'arismo
non v'è che il metodo ed al-As'ari assume posizioni molto tradizionaliste nel suo pensiero. As'arita
fu anche al-Gazzali, la cui personalità fonde nella sua ampia opera non solo la dialettica greca, ma
anche la mistica, intesa come sufismo etico, derivato dalle scuole di Bassora di Hasan al-Basri.
La mistica si sarebbe poi sviluppata nel IX secolo con personalità relativamente moderate
teoricamente come al-Muhasibi, al-Gunnaid e al-Hallag: quest'ultimo è uno dei pochi mistici che
parla chiaramente di una vera e propria "discesa" della divinità nell'uomo designato. Dopo di lui la
mistica di divise in tre rami: uno moderato, uno gnostico e uno teopanistico. Da ricordare sono: Ibn
Arabi, la cui mistica è orientata verso l' "unità dell'essere" e l'unità mistica di tutte le religioni:
secondo lui solo Dio merita l'appellativo di "reale", mentre il reale che non è Dio è solo un insieme
di apparenze di sogno; Sihabu 'd-Din Suhrawardi, massimo rappresentante del sufismo
"illuminativo", pieno di influssi ismailiti, persiani e gnostici: la scuola illuminativa si continua in
Persia ancora oggi ed egli fu uno dei pochi pensatori a rifarsi esplicitamente al pensiero persiano
pre-islamico e ai maestri del sabeismo.
La storia del pensiero islamico dopo al-Gazzali (m. 1111 d.C.) non vede alcuno speciale progresso
nel primo campo di interesse dei musulmani, ovvero la Sharia, ormai definitivamente codificata e
senza speranza di grandi evoluzioni: dopo il periodo di decadenza del califfato abbaside, le novità
teologiche sono sempre all'insegna del tradizionalismo. Rappresentanti di questo tradizionalismo
furono principalmente: Ibn Tumart, teologo-militare che ebbe gran seguito nell'Africa settentrionale
islamica e in Spagna e che creò il fondamento religioso radicale per la dinastia degli Almohadi
(1147-1269 d.C.), che governò appunto in quelle zone; Ibn Taimiya, i cui sforzi contro il sufismo
contribuirono a fare nascere nel XVIII secolo il movimento sunnita degli wahhābiti (dal fondatore
Muḥammad ibn ʿAbd al-Wahhāb; molto simile al salafismo, fondato dall'egiziano Rashid Rida,
discepolo di Abduh) diffuso inizialmente solo in Arabia e poi espansosi nell'India musulmana:
questo si macchia di evidenti eterodossie, come la netta proibizione di caffè e tabacco (che l'Islam
permette), la violenza contro tutti coloro che non la pensano come loro, il dispregio per le
immagini, il lusso e l'odio per gli sciiti e i mistici.
Purtroppo, la mistica e le tendenze estremistiche del tradizionalismo hanno contribuito ad
addormentare le masse musulmane in un sonno dogmatico, giuridico - legalista e mistico.
CAPITOLO VI: L'ISLAM MODERNO: SVILUPPI E POSSIBILITA'
Riguardo lo sviluppo dell'Islam che abbiamo visto, c'è da fare un'importante osservazione: a
differenza dell'Europa cristiana, l'Islam non ha mai avuto né una Riforma, né un Rinascimento né
un Romanticismo. Di riforme, in campo dogmatico, ce ne furono molte, ma sono tutte riforme che
si limitano appunto al campo della teoria e del dogma, non avendo quell'importanza radicale che
possono aver avuto nel mondo europeo: in sostanza, anche le più estreme delle sette eretiche,
restarono sempre fedeli a quel modo di ragionare giuridico che ha le sue più lontane origini in
costumanze tribali di una primitiva comunità araba.
Nella unità sostanziale della Sharia sta proprio il segreto dell'"uniformità musulmana" che
vediamo oggi e che ci sembra impossibile dato che manca nell'Islam un'autorità centrale docete del
tipo del papato cattolico. La Sharia si stabilizzò già in epoca troppo antica e troppo sacra per poter
essere toccata.
Di qui nasce anche l'apparente grande tolleranza dell'Islam: è vero che magari il Cristianesimo non
avrebbe mai accettato con così tanta indifferenza una setta estrema come quella dei Bektāšī, ma è
pur vero che queste setta, pur avendo riti aberranti ed eretici, confessa sempre la validità della
Legge del Profeta.
6.1. Il modernismo musulmano. Dopo la lenta decadenza seguita alla conquista mongola delle
regioni orientali del califfato nel XIII secolo, l'Islam si trovava nel XIX nella situazione di avere la
maggior parte di quella che era stata la "casa dell'Islam" (dāru 'l-islām) sotto possesso coloniale di
potenze non musulmane e cristiane.
Paradossalmente quindi, il modernismo musulmano nasce essenzialmente da una polemica con la
civiltà cristiana occidentale; di qui due suoi caratteri tipici: a) un certo complesso di inferiorità
verso l'Occidente e b) la tendenza ad idoleggiare il passato, l'epoca di Maometto e dei primi califfi,
contrapponendola al corrotto presente. In generale si può dire che la lotta dei modernisti contro la
pedissequa imitazione dei manualisti assuma queste forme, in ordine di radicalità:
 liberare le antiche tradizioni e il consensus delle prime generazioni da tutte le addizioni
successive per ritornare all'Islam puro;
 cercare una riforma dell'Islam, saltando anche le tradizioni;
 distinguere perfino nel Corano ciò che Dio ha rivelato per guidare il suo popolo da ciò che è
inteso come legge eterna;
 ammettere addirittura che Dio stesso può distinguere ciò che è vivo e ciò che è morto del
Libro Sacro.
Di conseguenza, possiamo individuare altri due punti comuni in generale al modernismo
musulmano. In primo luogo, anche i più radicali dei modernisti sono rimasti attaccati all'idea
dell'ispirazione letterale del Corano da parte di Dio: nell'Islam non si è mai sviluppato un
liberalismo teologico di esegesi del testo sacro quale si è sviluppato nel mondo cristiano che
ammette ciò una certa libertà personale dell'autore delle sacre linee, che è ispirato da Dio ma non è
direttamente Dio (i tentativi del modernismo si configurano così come tentativi di dare significati
moderni a parole dette direttamente da Dio per risolvere problemi di una società di tredici secoli fa).
Il secondo punto è il sistema razionalistico che regna in tutto il modernismo musulmano e che
ricorda più il nostro XVIII secolo: la concezione islamica, appiattendo sullo stesso piano natura e
sopra-natura come tutto frutto diretto di Dio, annienta sia il razionale che il soprarazionale.
Ciò detto, esistono due scuole moderniste principali, più una terza Scuola turca che è però
estranea all'Islam. Si tratta dei paesi più influenzati dagli ideali europei per motivi coloniali:
 Scuola egiziana. Il modernismo egiziano nasce con la predicazione dell'afghano Sayyid
Gamal ad-Din al-Afgani, persiano stanziatosi prima a Istanbul e poi in Egitto, dove ebbe
come discepolo Muhammad Abduh: entrambi fondarono una rivista modernista a Parigi
nel 1882, ispirando le generazioni anti-colonialiste e neo-musulmane dell'epoca. Dal punto
di vista strettamente religioso, sono poche le innovazioni portate da loro nelle credenze
dell'Islam tradizionale: quanto al fatalismo musulmano, Abduh difende la posizione
ortodossa dell'impossibilità di raggiungere la verità con la ragione, mentre nella controversia
sui santi e sulla mistica egli ammette l'esistenza di personaggi vicini ai profeti e capaci di
compiere miracoli, ma nessun musulmano è obbligato a considerarli come "santi". Anche lui
dichiara che non c'è contrasto fra scienza, filosofia e religione, ma le prime due non devono
invadere il campo della religione. Interessante è la posizione sulla Sharia: Abduh afferma
che le varie scuole giuridiche sono inutili e inutilizzabili, che bisogna riaprire le porte
dell'iǧtihād, libero studio giuridico delle fonti (soprattutto laddove le fonti erano poco chiare

o mute allora il giudizio individuale diveniva fondamentale), e che alcune disposizioni del
Corano e dei hadīt sono antiquate (es. poligamia, divorzio, schiavitù). Secondo lui, il segreto
per progredire è utilizzare la scienza moderna, come ha fatto l'Europa (lo studio è l'unica
buona qualità degli europei).
Le affermazioni rivoluzionarie di Abduh ebbero un valore basso dal punto di vista teologico,
ma altissimo da quello sociale e pratico-legale, soprattutto nella lotta all'emancipazione della
donna. Egli, pur essendo riformatore, apparve come conservatore alle nuove generazioni di
Ali Abd ar-Raziq e Taha Husain, così modernisti da apparire blasfemi: secondo il primo,
il Corano è solo un codice morale e religioso e pertanto non ha nulla a che fare con
l'amministrazione della vita pubblica (perciò il califfato va rifiutato: concezione laica dello
stato), mentre il secondo cercava di instaurare una critica coranica liberale e osava affermare
che dalla mera presenza di nomi di personaggi come Abramo etc. nel Corano non si può
dedurre che essi siano esistiti veramente, ritenendo apocrife tutte le leggende sulla
fondazione della Ka'ba etc.
Scuola indiana. Deve la sua origine a Sir Sayyid Ahmad Han di Delhi, che nel XIX secolo
tentò di diffondere con i suoi scritti un Islam modernizzato e contribuì notevolmente anche
in politica al rialzamento delle sorti dei musulmani indiani. Contro le correnti rigoristicopuritane indiane dell'epoca che attribuivano la decadenza dell'Islam all'abbandono delle
tradizioni antiche, egli sosteneva che l'Islam non era in opposizione all'Occidente, si oppose
al costume della reclusione e del velo delle donne, dichiarò che la guerra santa era nata per
difesa e tale doveva restare e infine tentò di colmare l'abisso di incomprensione e odio fra
Cristianesimo e Islam; uno dei principi del Sayyid era che l'Islam non ammette divergenze
fra religione e scienza.
La sua opera fu continuata da personalità come il poeta Altaf Husain Hali, il critico e storico
Sibli Nu'mani e soprattutto Muhammad Iqbal, grande conoscitore dell'Occidente: egli
riconobbe che non bastava criticare astrattamente le condizioni dell'Islam attuale ma che
bisognava anche cercarne le radici storico-metafisiche, individuate nella penetrazione
profonda del pensiero greco nell'Islam, il pensiero sincretistico neoplatonico-illuministico di
origini pagane ed extra-monoteistiche. Insomma, secondo lui, per ritornare alla purezza delle
origini attivistiche dell'Islam bisognava eliminare Platone e Aristotele: la filosofia misticoneoplatonico che l'Islam assorbì ne causarono anche il fatalismo, la pigrizia e
l'atteggiamento antiscientifico. Iqbal sostiene che bisogna ricostruire il pensiero religioso
dell'Islam, tenendo presente il pensiero moderno d'Europa, secondo varie linee direttrici: a)
il Corano è un libro di azione non di dogmi: rivalutazione della legge sulla dogmatica e sulla
mistica; b) Dio-Persona, creatore attivo, è contrapposto al dio-tutto, il "Divino" impersonale
dei paganesimi; c) rivalutazione dell'Uomo, anch'egli persona, ma collaboratore di Dio: Dio
è il "migliore dei creatori", ma anche gli uomini sono creatori, seppur inferiori; d) l'uomo,
una volta sottomessosi a Dio, assume infinita potenza ed è artefice del suo destino, la cui
sorte gli viene data da Dio secondo la sua volontà. Iqbal inoltre riteneva la Sharia islamica
adatta a un grande stato teocratico-democratico di tutti i paesi musulmani, una milla
("comunità religiosa universale"), e riconosce all'Europa grandi progressi nel campo
esteriore, pur negandoglieli invece nel campo morale (essa ha fatto quello che avrebbe
dovuto fare l'Islam, ma perdendone la spiritualità).
Si può dire che il moderno Pakistan sia il banco di prova per una modernizzazione della
Sharia.
Concludiamo dicendo che, se nel campo pratico l'Islam moderno vuole scegliere la via del laicismo,
deve orami guardare soprattutto all'esperimento turco di Mustafa Kemal, che pur negli ultimi
decenni si è notevolmente attenuato. Attualmente, un forte processo di "antimodernismo" è in atto
in Libia, Iran, Pakistan e molti altri paesi islamici.
All'Islam moderno, di fronte alla sfida spirituale dell'Europa, rimangono aperte tre vie:
1. l'inserzione di un Islam sopranazionale, con robuste istituzioni teocratico-democratiche
riformate;
2. un laicismo completo, del tipo turco, e l'approfondimento di un Islam come pure religione;
3. una vera e propria riforma religiosa, tramite la nascita di una nuova fede sorta in seno
all'Islam: una nuova religione come la Bābī-Bhā'ī.
BREVE CRONOLOGIA DEL CALIFFATO ISLAMICO
630 d.C.  conquista della Mecca da parte di Maometto.
632  morte di Maometto e inizio dell'era dei "califfi ben diretti".
632-661  era dei "califfi ben diretti": Abū Bakr, 'Omar, 'Utmān e 'Alī.
661-750  califfato Omayyade (primo Califfo: Mu'awiya ibn Abi Sufyan, colui che, insieme al
padre, si era convertito prima della conquista della Mecca nel 630 d.C.).
750-1258  califfato Abbaside (inizialmente supportati dagli Alidi sciiti, ruppero presto con loro e
si posero alla guida dell'ortodossia).