4 novembre 2013 Giorno dell`Unità Nazionale e Giornata delle

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STATO MAGGIORE DELLA DIFESA
Ufficio Generale del Capo di Stato Maggiore
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4 novembre 2013
Giorno dell’Unità Nazionale
e Giornata delle Forze Armate
ASPETTI STORICI DELL’UNITÀ D’ITALIA
Il 18 febbraio del 1861, in seguito alla seconda guerra d’indipendenza e ai plebisciti
nei territori conquistati dal Regno di Sardegna, Vittorio Emanuele II inaugurò a
Torino il parlamento italiano formato dai rappresentanti di tutti i territori annessi. Il
successivo 17 marzo il re firmò con Cavour la legge che proclamava il Regno
d’Italia. Scomparivano i ducati e i granducati in Emilia e Toscana, il dominio
pontificio veniva ridotto alla sola zona del Lazio e tramontava il regno borbonico. A
completare l’unità mancavano solo il Veneto e Roma. Il Regno d’Italia venne
strutturato come un allargamento del Regno di Sardegna, mantenendo la forma
istituzionale monarchico-costituzionale e un modello centralista. Il diritto di voto era
attribuito – secondo la legge elettorale contenuta nello statuto albertino del 1848 – in
base al censo e in tal modo gli aventi diritto costituivano appena il 2% della
popolazione. Le basi del nuovo sistema erano quindi estremamente ristrette.
Nei primi anni di vita dello Stato unitario gli uomini della Destra storica, gruppo
politico erede di Cavour ed espressione della borghesia liberal-moderata (composto
principalmente da alta borghesia, proprietari terrieri, industriali e militari) si
concentrarono sul completamento dell’Unità. Nel 1866, a seguito della terza guerra di
indipendenza, al Regno veniva annesso il Veneto, sottratto all’Impero austroungarico. L’unificazione italiana veniva perfezionata nel 1870 con la presa di Roma e
l’annessione del Lazio, che esasperavano ulteriormente l’ostilità della Chiesa
cattolica e del clero nei confronti del nuovo Stato e contribuiva a rendere tesi i
rapporti con il tradizionale alleato francese. Roma divenne ufficialmente capitale
d’Italia (prima lo erano state Torino e Firenze).
Le differenze economiche, sociali e culturali ereditate dal passato resero difficili la
costruzione di uno Stato unitario. Aree industrializzate ampiamente coinvolte nei
processi di modernizzazione furono unite a realtà statiche ed arcaiche del mondo
rurale. La neonata Italia si trovò a fronteggiare questi ed altri problemi, dalla
creazione di uno Stato unitario con leggi uniformate e una moneta unica, alla lotta
contro l’analfabetismo e la povertà diffusa. Un forte elemento di instabilità fu
rappresentato dal fenomeno del brigantaggio antisabaudo – represso con la forza –
diffuso nelle regioni meridionali, che contribuì a complicare la già complessa
questione meridionale.
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Tutte eredità delle vicende storiche che l’accelerato processo di unificazione
nazionale, con l’adozione di leggi, quali la coscrizione obbligatoria, lontana dalla
mentalità delle masse della popolazione rurale, non aiutò a risolvere.
Il tentativo di risanare le finanze tramite la promulgazione di nuove tasse, produsse
un diffuso scontento popolare, che servì solamente ad accentuare i fenomeni di
illegalità.
Nel 1876 il governo venne esautorato ed iniziò il periodo della Sinistra storica,
guidata da Agostino Depretis. Lo storico cambio alla guida del Paese contribuiva
insieme alla morte due anni dopo di Vittorio Emanuele II, a porre fine ad un’epoca ed
aprirne un’altra, con Umberto I quale Re.
La Sinistra avviò politiche di democratizzazione e modernizzazione, investendo
nell’istruzione pubblica (di cui fu ribadita l’obbligatorietà), allargando il suffragio
elettorale e inaugurando una politica protezionistica e di diretto intervento dello Stato
nell’economia (investimenti in infrastrutture e nello sviluppo dell’industria). Depretis
avviò una serie di inchieste sulle condizioni di vita dei contadini nella penisola, la più
famosa delle quali fu l’inchiesta Jacini, che rivelarono grande miseria e pessime
condizioni. In politica estera il capo del governo abbandonò la tradizionale alleanza
con la Francia e nel 1882 L’Italia si alleò con la Germania e l’Impero austroungarico, aderendo alla Triplice Alleanza.
Il governo della Sinistra inaugurò anche l’avventura coloniale italiana. Nel 1882
l’Italia acquistò la baia di Assab e due anni dopo i diplomatici italiani si accordarono
con la Gran Bretagna per l’occupazione del porto di Massaua; che presto assunsero la
denominazione di Colonia Eritrea italiana. L’interesse coloniale continuò durante i
governi di Francesco Crispi e la città di Massaua divenne il punto di partenza per un
progetto che sarebbe dovuto sfociare nel controllo del Corno d’Africa. L’Italia cercò
di penetrare all’interno dell’Etiopia, ma la politica di progressiva conquista del Paese
trovò una battuta d’arresto con la sconfitta di Adua nel 1896.
Negli ultimi anni dell’Ottocento l’Italia fu protagonista di un vasto movimento di
emigrazione di massa, con milioni di contadini che si trasferirono prevalentemente
nelle Americhe. Ebbe anche inizio un ciclo di rapida industrializzazione che contribuì
all’affermazione del movimento operaio nel Paese (nel 1892 fu fondato a Genova da
Filippo Turati il Partito socialista italiano). L’industrializzazione ebbe i suoi punti di
forza nella siderurgia e nella nuova industria idroelettrica, che sembrò risolvere il
problema della carenza di materie prime. Anche l’industria continuò a ricoprire una
posizione di rilievo, mentre iniziò ad affermarsi quella meccanica. L’economia
tuttavia continuava a conservare forti squilibri tra il Nord del Paese, industrializzato e
moderno, e il Sud, arretrato e agricolo.
Dopo l’uccisione di Umberto I in un attentato, rivendicato per fare giustizia sulla
strage del 1898 dei manifestanti a Milano presi a cannonate sotto ordine reale,
divenne re Vittorio Emanuele III.
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Dal 1901 al 1914 protagonista della politica italiana fu il capo del governo Giovanni
Giolitti, che affrontò il diffuso malcontento provocato dall’autoritarismo di Crispi. Al
contrario del suo predecessore, Giolitti preferì il confronto con le parti sociali e
l’accettazione delle proteste e degli scioperi, purché non violenti, né politici. La linea
politica tenuta da Giolitti influenzò anche una svolta all’interno del partito socialista,
dove prevalse l’ala riformista che pose in minoranza la massimalista. Tra gli
interventi più importanti del capo del governo vi furono la legislazione sociale e del
lavoro, le prime leggi speciali per lo sviluppo del Mezzogiorno, il suffragio
universale maschile, la nazionalizzazione delle ferrovie e delle assicurazioni, la
riduzione del debito statale, lo sviluppo delle infrastrutture e dell’industria.
Fu ripresa la politica coloniale e dopo la breve guerra contro l’Impero ottomano nel
1911 l’Italia occupò la Libia e l’anno dopo e il Dodecaneso.
Nella prima guerra mondiale l’Italia prima neutrale, entrò in guerra dopo la firma del
Patto di Londra. L’accordo prevedeva lo schieramento dell’Italia al fianco dell’Intesa
in cambio – in caso di vittoria – dell’annessione del Trentino, dell’Alto Adige, della
Venezia Giulia e dell’Istria – con l’esclusione di Fiume – e una parte della Dalmazia.
Il comando dell’esercito venne affidato al generale Luigi Cadorna. Il fronte aperto
dall’Italia contro l’Austria-Ungheria ebbe come teatro le Alpi e lo sforzo principale
per sfondare il fronte fu concentrato nella regione delle valli dell’Isonzo.
Nel 1917 gli austro-ungarici e i tedeschi ruppero il fronte convergendo su Caporetto e
accerchiando le truppe italiane. La rottura del fronte provocò il crollo delle postazioni
italiane lungo l’Isonzo e la loro ritirata. Conseguenze della disfatta furono la
sostituzione di Cadorna con il maresciallo Armando Diaz in qualità di capo di stato
maggiore.
Gli austro-ungarici lanciarono una nuova offensiva il 15 giugno del 1918, che vide
tuttavia gli italiani resistere all’assalto. Con l’Impero vicino al tracollo e
l’impossibilità di continuare a sostenere lo sforzo bellico nel lungo termine,
l’offensiva italiana partì il 23 ottobre dal Piave e portò rapidamente alla vittoria di
Vittorio Veneto. L’Austria-Ungheria a quel punto si arrese.
Il 3 novembre a Villa Giusti (Padova) l’esercito imperiale firmò l’armistizio. Alla
Conferenza di pace di Parigi l’Italia completò l’unificazione nazionale acquisendo il
Trentino-Alto Adige, la Venezia Giulia, l’Istria ed alcuni territori del Friuli, le città di
Trieste e Gorizia e le isole del Carnaro e Zara.
Le conseguenze sociali ed economiche della guerra furono pesanti. Nell’opinione
pubblica si insinuò il mito della “vittoria mutilata” allorché alla conferenza di pace fu
negata all’Italia la cessione della Dalmazia e di Fiume, in base al principio
dell’autodeterminazione dei popoli. In un clima di delusione ebbero buon gioco i
nazionalisti a fare sentire la loro protesta e ad applaudire l’occupazione di Fiume
effettuata nel settembre del 1919 dai volontari guidati dal poeta Gabriele d’Annunzio
e fiancheggiati da truppe sediziose dell’esercito.
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Gli operai e i braccianti, sull’onda del successo bolscevico in Russia, scesero in
sciopero per rivendicare aumenti salariali e migliori condizioni di vita (Biennio
rosso), ma il movimento popolare declinò rapidamente. Il sostegno dei ceti medi,
degli agrari e degli industriali si indirizzò dunque verso l’emergente fascismo, che il
28 ottobre del 1922 prendeva il potere con la marcia su Roma e inaugurava un
ventennio di dittatura, che si sarebbe concluso con gli orrori della seconda guerra
mondiale.
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LA PRIMA GUERRA MONDIALE
Nel linguaggio comune la prima guerra mondiale è conosciuta semplicemente come
la “Grande Guerra”, nome rimastole nonostante poco più di vent’anni dopo ne venne
combattuta un’altra più lunga e feroce.
Il conflitto del 1914-1918 iniziò come uno scontro “locale” ma assunse, in breve
tempo, la connotazione di un conflitto prima europeo e poi mondiale poiché vi
parteciparono, più o meno direttamente, governi e popoli di tutti i cinque continenti
anche se i campi di battaglia veri e propri rimasero quasi interamente circoscritti
all’Europa continentale e all’Asia minore.
Dopo un lungo travaglio interno tra neutralisti e interventisti, la neutralità e un
complesso negoziato con il Patto di Londra (1915), l’Italia entrò in guerra al fianco
delle potenze dell’Intesa, dopo aver fatto parte della Triplice Alleanza con Germania
e Austria per più di trent’anni.
Nel 1917 si giunse a una sorta di crisi generalizzata che trovò la sua massima
espressione in Russia con la rivoluzione bolscevica, mentre l’ingresso in guerra degli
Stati Uniti contribuì a volgere l’esito della guerra a favore dell’Intesa.
Nelle fasi finali della guerra emersero rivalità e fragilità interne alle compagini statali
multinazionali, sulle quali molto ha indagato la storiografia nel corso del’900.
Con le nostre truppe a Trento e a Trieste le generazioni di allora ritennero completato
il processo di unità nazionale, grazie al raggiungimento dei confini naturali e alla
definitiva scomparsa dell’Impero asburgico, che nel corso dell’Ottocento era stato il
tradizionale nemico dei nostri ideali nazionali. La guerra produsse tra gli italiani
un’unificazione non più semplicemente amministrativa e politica, ma reale, effettiva,
di popolo; un sentimento di unità nazionale e patriottismo dato dal comune sacrificio,
dalla convivenza nelle trincee di italiani di tutte le regioni, dalla vita in comune nel
fango, nella neve o negli angusti spazi delle navi. Per la prima volta milioni di italiani
si trovarono a condividere un’esperienza comune ed uno stesso obiettivo, forse non
scelto, imposto, ma comunque comune.
Il sacrificio collettivo portò alla vittoria, pagata con l’altissimo prezzo di quasi
700.000 vite umane, e non c’è paese italiano che non commemori tal sacrificio con
un monumento ai caduti, rappresentazione dell’intera società rurale dell’Italia di
allora, ancora profondamente legata all’universo contadino.
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Tra i caduti troviamo tenenti e figli della borghesia locale, figli di contadini e
sottufficiali, artigiani e soldati semplici. Vennero mobilitati più di sei milioni di
italiani e attraverso le loro lettere e le notizie – accuratamente filtrate – sui giornali,
tutta la nazione partecipò al conflitto, e non solo emotivamente. La sofferenza e il
dolore non furono solo delle famiglie dei caduti, dei mutilati e dei dispersi, ma di
tutto il Paese, che li fece suoi. Quando il Milite Ignoto venne portato a Roma, in una
nazione travagliata da profondi conflitti sociali, il treno con la salma attraversò mezza
penisola tra due ali di folla silenziosa e prostrata, persino nelle provincie
politicamente più difficili.
Questo ha rappresentato la Grande Guerra sotto l’aspetto politico e sociale, con un
prezzo altissimo in vite umane e con le conseguenze che ben conosciamo. L’Europa e
il mondo ne uscirono stravolti.
Per l’estensione territoriale dei campi di battaglia, per l’imponenza delle forze armate
in conflitto, delle ricchezze sacrificate e per i risultati finali ottenuti, il primo conflitto
mondiale rappresentò una svolta storica epocale, in quanto scardinò completamente il
“sistema” internazionale; modificò comportamenti e assetti sociali, lanciò parole
d’ordine di rilevante impatto psicologico: autodeterminazione dei popoli, Stato
nazionale, redistribuzione della ricchezza. La delusione per gli obiettivi non
realizzati, l’emergere di un nazionalismo esclusivo sempre più duro e irrazionale, il
successo e l’affermazione della rivoluzione bolscevica in quella immensa e in parte
sconosciuta aggregazione di popoli ed etnie quale era l’Impero zarista, i molteplici e
non involontari equivoci dei trattati di pace, la riproposizione dell’isolazionismo degli
Stati Uniti d’America e dunque la sostanziale esclusione dalla gestione del processo
di pace aprirono in Europa un periodo lungo un ventennio di instabilità e di
conflittualità, conclusosi con la deflagrazione di un nuovo conflitto mondiale.
Il nuovo assetto europeo stabilito a Versailles non poté che prendere atto dei nuovi
equilibri e proprio in sede di conferenza di pace si decise di sostenere le nuove
compagini statali sorte sulle rovine dei grandi Imperi multinazionali, benché spesso
queste apparissero altrettanto deboli e frammentate dei loro predecessori.
Per l’Italia, da poco annoverata tra le grandi potenze, quella guerra ebbe una
grandissima importanza anche dal punto di vista militare. In tre anni e mezzo di
durissima lotta era stato creato il migliore Esercito della nostra storia che di fatto
riuscì a sconfiggere l’impero Austro Ungarico, con una Marina perfettamente
all’altezza dei suoi compiti ed una nascente arma aerea dai promettenti sviluppi. Tutta
l’Italia aveva concorso a questo risultato, da Guglielmo Marconi al bracciante
analfabeta. La selezione imposta dal fronte fu pesante, buona parte di una
generazione andò perduta e chi superò la prova si sentì poi cittadino di una Patria
comune, erede di un’esperienza che lo accompagnò per il resto della sua vita; ancora
a mezzo secolo di distanza il Presidente Pertini ricordava i suoi mitraglieri e Papa
Giovanni chiedeva, per il suo funerale, la bandiera del suo vecchio reggimento.
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Nonostante le difficoltà durante la guerra, l’Esercito cercò, riuscendovi, di trovare le
migliori intelligenze per far fronte ai compiti sempre crescenti. Scorrendo i nomi
degli ufficiali ammessi in quegli anni ai corsi pratici di Stato Maggiore possiamo
trovare, accanto ai futuri generali della seconda guerra mondiale, i futuri capitani di
industria, i futuri politici, un Presidente del Consiglio (Parri) e un futuro Presidente
della Repubblica (Gronchi). Anche questo fu un merito, pur quasi sconosciuto,
dell’Esercito di Vittorio Veneto.
La disfatta dell’esercito austro-ungarico portò alla firma dell’armistizio di Villa
Giusti che poneva fine alla guerra sul fronte italiano. L’anniversario della
conclusione vittoriosa della Grande Guerra – il 4 novembre, appunto – può costituire
oggi un’occasione, una preziosa opportunità, per richiamare alla mente e ricordare
cosa ha rappresentato nella storia d’Italia, nella nostra storia, quel 4 novembre 1918.
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IL “QUATTRO NOVEMBRE”
Il 4 novembre 1918 terminava la prima guerra mondiale. Con l’entrata delle truppe
italiane vittoriose a Trento e Trieste, dopo quasi tre anni e mezzo di combattimenti
accaniti, terminava quella che venne allora definita “ la Grande Guerra “.
Questo nome che, nonostante tutte le vicende e le guerre successive, è sopravvissuto
fino ad oggi, a distanza di quasi un secolo, non può avere per tutti lo stesso richiamo
immediato, non può provocare in tutti le stesse reazioni, le stesse sensazioni. Oggi
non c’è più alcun superstite di quel conflitto né, probabilmente, c’è qualcuno che
abbia un ricordo diretto di quegli avvenimenti. Tutti noi lo conosciamo, oggi,
attraverso i libri, i musei, le foto, i filmati ed i più vecchi tra noi anche attraverso i
ricordi, i racconti di padri e di nonni, che però non avevano sempre piacere nel
ricordare quei giorni.
Di quella guerra, quindi, ne abbiamo un’idea non originale, ma mediata, diversa a
seconda del mezzo attraverso il quale ce la siamo formata, diversa a seconda del
nostro interesse per la storia, delle nostre convinzioni, del nostro luogo di residenza e
a seconda anche della nostra età; per i giovani sono quasi esclusivamente i media –
specie la televisione – a fornire un supporto alle schematiche nozioni che i
programmi scolastici consentono.
Eppure ci dovrebbe essere – e c’è – un ricordo comune, condiviso, di quella guerra e
di quella data e di ciò che hanno significato,non solo nella storia delle nostre Forze
Armate, ma anche in quella della nostra Patria, in definitiva in quella di tutti noi.
Quel giorno del 1918 si completò il processo dell’unificazione italiana, un processo
lungo, difficile, che aveva avuto i suoi albori con l’età napoleonica e si era sviluppato
nei decenni successivi attraverso cospirazioni, movimenti politici, moti rivoluzionari
e guerre. Un processo che avrebbe fatto nascere, dagli otto stati pre-unitari, una
nazione indipendente. Dai moti del 1820-21 a quelli del 1831, dalle insurrezioni del
1848 alla campagna dello stesso anno ed a quella dell’anno successivo, poi la
seconda guerra d’indipendenza, i plebisciti, la spedizione dei Mille, l’Esercito
Meridionale, l’intervento nelle Marche e nell’Umbria fino alla proclamazione del
Regno d’Italia nel 1861. E poi i successivi tasselli per completare l’unità, con la
guerra del 1866 e la presa di Roma del 1870.
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Pur tenendo ben presente che dietro a tutti questi avvenimenti ci sono la volontà
politica e le idee di politici come Cavour e Mazzini, solo per fare due nomi, ci si deve
ricordare anche che tutti questi avvenimenti – ed il loro risultato finale – si sono
realizzati, sul campo, grazie all’operato delle Forze Armate, volontarie e regolari
nella prima fase e quasi esclusivamente regolari nella seconda.
Un ruolo, dunque, quello delle Forze Armate, fondamentale per l’unità e
l’indipendenza della Nazione, che si vedrà in seguito ulteriormente confermato con la
prima guerra mondiale, che all’epoca venne vista da molti come la “quarta guerra di
indipendenza”.
La “Grande Guerra”, al di là degli effettivi risultati conseguiti, segnò il
raggiungimento della completa unità nazionale e rappresentò il massimo sforzo
collettivo mai compiuto nel nostro Paese.
Se il “ fronte interno “ resse anche nei momenti difficili, con l’opinione pubblica a
sostenere l’operato del governo, le fabbriche a mantenere alti i livelli di produzione e
le famiglie a sopportare i sacrifici legati alla guerra ed all’assenza degli uomini validi,
lo sforzo maggiore fu sostenuto dalle Forze Armate.
Oltre cinque milioni di mobilitati, appartenenti a ben 27 classi di leva, di cui oltre
quattro milioni assegnati all’esercito operante; 680.000 caduti; 270.000 mutilati; oltre
un milione di feriti; 600.000 prigionieri, 64.000 dei quali morti per stenti in mano
nemica. Queste le cifre nude e crude e solo le foto non censurate o i cimiteri militari
ci possono oggi dare un’idea, …. ma solo un’idea, di ciò che queste cifre
rappresentano.
Morti e feriti nelle trincee del Carso, sui monti del Trentino, nei cieli, in Adriatico, o
all’estero, dove pure furono impegnate le nostre truppe, in Francia, in Albania, in
Macedonia, in Palestina.
In tutti questi luoghi la mobilitazione mise insieme italiani provenienti da ogni
regione, da ogni provincia, appartenenti a tutte le classi sociali, con i contadini che
costituivano il grosso delle fanterie e gli studenti che, inizialmente,fornivano il grosso
degli ufficiali di complemento. Per tre anni e mezzo tutti questi italiani vissero e
lottarono, spalla a spalla, accomunati dalle “ stellette “ nelle sofferenze. Sofferenze
che ai nostri giorni parrebbero – ed erano – ai limiti, ed oltre, dell’umana
sopportazione e che anche a quei tempi portarono a qualche caso di insubordinazione
(represso con estrema decisione). Eppure, anche attraverso queste sofferenze
condivise quotidianamente, nacque un nuovo sentimento di affratellamento, di
condivisione, che andava al di là dello spirito di corpo e, poi, della vittoria finalmente
conseguita. In quegli anni ed in quella guerra, l’unificazione italiana passò dal piano
meramente istituzionale a quello della condivisione di un destino; italiani di ogni
provenienza e di ogni ceto si amalgamarono.
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Nel 1921, in un periodo particolarmente delicato per “l’assestamento” socioistituzionale post conflitto, gli italiani tributarono un omaggio sincero al soldato
senza nome: “Il Milite ignoto”, prima forma di elaborazione del lutto personale e
collettivo.
L’Italia si stringeva attorno alla figura del nuovo Eroe che non era un generale, non
era il condottiero, ma il semplice cittadino e uomo d’armi che aveva combattuto per
l’Italia e per Essa era morto.
Il milite ignoto diviene simbolo di identità collettiva e di unione, rappresentando la
virtù degli umili ed il coraggio del quotidiano contrastare le prove più dure che
presenta la vita. Il concetto della totalità dei cittadini che costituisce lo Stato prendeva
una sua forma che prima non era contemplata poiché troppo astratta.
Il viaggio del Soldato sconosciuto (da Aquileia a Roma) fece si che tutti si sentissero
parte di una stessa Nazione, tutti lo accolsero, nelle tappe che toccò il feretro, nelle
città, lungo la ferrovia. Si avviava così una trasformazione sociale e spirituale della
Nazione stessa.
I Tricolore insieme al nero indossato dalle mamme, mogli e sorelle dei caduti fu
esposto in tutti i luoghi ove la tradotta (treno che trasportò il feretro) passava. La
retorica faceva spazio ai gesti semplici ed inusuali della pietà che il popolo mise in
atto con spontaneità, mentre i rappresentanti istituzionali facevano omaggio al
sacrificio dei combattenti e del popolo italiano.
Ecco perché il 4 novembre, “Festa della Vittoria” è al contempo motivo di
celebrazioni per l’Unità Nazionale e per le Forze Armate”.
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STORIA DEL MILITE IGNOTO
Già il 24 agosto 1919 era stata istituita una Commissione Nazionale per le Onoranze
ai Militari d’Italia e paesi alleati in guerra; il Presidente era il Maresciallo d’Italia
Armando Diaz. Fu proprio un membro di tale Commissione, precisamente l’allora
Colonnello Giulio Douhet, a lanciare l’idea di onorare i sacrifici ed eroismi della
collettività nazionale attraverso la collocazione della salma di un Soldato sconosciuto
in un luogo simbolo della Patria (la proposta inizialmente fu il Pantheon).
L’11 agosto 1920 veniva approvata la legge riguardante le onoranze da rendere alla
“salma senza nome”.
Il Ministero della guerra diede incarico ad una commissione che esplorò attentamente
tutti i luoghi nei quali si era combattuto, dal Carso agli Altipiani, dalle foci del Piave
al Montello; e l'opera fu condotta in modo che fra i resti raccolti ve ne potessero
anche essere di reparti di sbarco della Marina.
Fu scelta una salma per ognuna delle seguenti zone: Rovereto, Dolomiti, Altipiani,
Grappa, Montello, Basso Piave, Cadore, Gorizia, Basso Isonzo, San Michele, tratto
da Castagnevizza al mare. Le undici salme, una sola delle quali sarebbe stata
tumulata a Roma al Vittoriano, ebbero ricovero, in un primo tempo, a Gorizia, da
dove furono poi trasportate nella Basilica di Aquileia il 28 ottobre 1921. Qui, di
fronte a undici bare esattamente identiche, si procedette alla scelta della salma
destinata a rappresentare il sacrificio di seicentomila italiani.
La scelta fu fatta da una popolana, Maria Bergamas di Trieste, il cui figlio Antonio
aveva disertato dall'esercito austriaco per arruolarsi nelle file italiane, ed era caduto in
combattimento senza che il suo corpo potesse essere identificato.
La bara prescelta fu collocata sull'affusto di un cannone e, accompagnata da reduci
decorati al valore e più volte feriti; fu deposta in un carro ferroviario, appositamente
disegnato, su un affusto di cannone.
Le altre dieci salme rimaste ad Aquileia furono tumulate nel cimitero di guerra che
circonda il tempio romano.
Scelta la salma del “Milite Ignoto”, fu trasferita a Roma per essere tumulata al
Vittoriano, sede stabilita come più idonea per la celebrazione che le cronache
dell’epoca definirono il momento di maggior commozione dell’Italia, che diveniva in
vero l’Altare della Patria.
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Per il trasferimento a Roma, il feretro del “Milite Ignoto” venne sistemato su di un
carro ferroviario appositamente modificato.
Il viaggio si compì sulla linea Aquileia-Venezia-Bologna-Firenze-Roma a velocità
moderatissima in modo che presso ciascuna stazione la popolazione ebbe modo di
onorare il caduto simbolo.
La cerimonia ebbe il suo epilogo nella capitale. Tutte le rappresentanze dei
combattenti, delle vedove e delle madri dei caduti, con il Re in testa (Vittorio
Emanuele III), e le Bandiere di tutti i reggimenti mossero incontro al Milite Ignoto,
che da un gruppo di decorati di medaglia d'oro fu portato a S. Maria degli Angeli.
Il 4 novembre 1921 il Milite Ignoto veniva tumulato nel sacello posto sull'Altare
della Patria. (la salma venne infatti posta nel monumento, l'epigrafe riporta a tutto
oggi la scritta Ignoto militi e le date MCMXV e MCMXVIII, gli anni di inizio e fine
del conflitto.
Nel corso degli anni 30 il feretro del Milite Ignoto venne traslato nella cripta interna
del Vittoriano denominata sacello del Milite Ignoto dove tutt'ora si trova. Parti della
cripta e del sepolcro sono realizzate con materiali lapidei provenienti dalle montagne
teatro degli scontri della prima guerra mondiale, tra cui il Grappa e il Carso.
Al Milite Ignoto fu concessa la medaglia d'oro con questa motivazione:
"Degno figlio di una stirpe prode e di una millenaria civiltà, resistette inflessibile
nelle trincee più contese, prodigò il suo coraggio nelle più cruente battaglie e cadde
combattendo senz'altro premio sperare che la vittoria e la grandezza della patria."
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