ANNIBALE
Annibale Barca (gr. ᾿Αννίβας, lat. (H)annĭbal; in punico "la mia grazia è Ba᾿al") (Cartagine, 247
a.C. – Gebze, 182 a.C.) fu un condottiero e politico cartaginese, famoso per le sue vittorie durante
la Seconda guerra punica.
Figlio di Amilcare, fratello di Asdrubale Barca e Magone Barca che era stato soprannominato
"Barca" (da Barak che in punico significava "fulmine"), nacque nel 247 a.C. Il padre, dopo la
sconfitta di Cartagine nella Prima guerra punica convinse il "Senato" cartaginese a dargli un
esercito per conquistare l'Iberia che alcune fonti indicano come un dominio cartaginese perduto.
Cartagine fornì solo una forza relativamente ristretta e Amilcare accompagnato dal figlio Annibale,
dopo avergli fatto giurare odio eterno a Roma sull'altare di Baal, intraprese nel 237 la marcia lungo
le costa del Nord Africa fino alle Colonne d'Ercole. Gli altri due figli, Asdrubale e Magone,
restarono a Cartagine. Pur con poche truppe e pochi finanziamenti, Amilcare sottomise le città
iberiche .
Fornendo alla madrepatria convogli di navi cariche di metalli preziosi che aiutarono Cartagine nel
pagamento dell'ingente debito di guerra con Roma, Amilcare ottenne finalmente grande popolarità
in patria. Sfortunatamente rimase ucciso durante l'attraversamento di un fiume. I soldati, a questo
punto, acclamarono loro comandante all'unanimità, il giovane Annibale. Aveva ventisei anni e ne
aveva passati diciassette lontano da Cartagine. Il governo cartaginese confermò questa scelta.
Mosso dall'odio verso Roma, che il padre gli aveva inculcato fin da giovane aveva però bisogno di
un pretesto per cominciare la guerra. Fu così che cominciò ad attaccare la popolazione degli Olcadi,
che si trovavano a sud dell'Ebro, sottomettendoli (221 a.C.). L'anno successivo (220 a.C.), fu la
volta dei Vaccei, che sottomise anch'essi dopo un lungo assedio.
Annibale, dopo due anni trascorsi a completare la conquista dell'Iberia a sud dell'Ebro, si
sentì pronto alla guerra contro Roma.
Decise così di muovere guerra a Sagunto – città alleata a Roma – con il pretesto che si trovava a
sud dell'Ebro e quindi rientrava nei territori di competenza dei Cartaginesi e non dei Romani.
L'assedio durò otto mesi e terminò nel 219 a.C. con la conquista della città. Il senato cartaginese,
ricevuta alla fine di marzo 218 a.C. un'ambasceria romana non accettò le condizioni dei romani
(restituzione di Sagunto e consegna di Annibale) e così la guerra divenne inevitabile.
Nella primavera del 218 a.C., sul finire di maggio, Annibale, iniziò la grande marcia. 90 000 fanti,
12 000 cavalieri e 37 elefanti lasciarono Carthago Nova con meta l'Italia.
(Annibale varca le Alpi)
Dopo aver valicato il confine del fiume Ebro, iniziarono i primi problemi. L'opposizione delle genti
catalane a nord dell'Ebro fu molto forte. Polibio scrive che Annibale "dovette combattere contro
almeno quattro tribù". 50 000 fanti, 9 000 cavalieri e i 37 elefanti oltrepassarono i Pirenei durante il
mese di agosto. Raggiunto il Rodano agli inizi di settembre, Annibale trovò ad aspettarlo Magilo,
re dei Boi (popolazione della Gallia Cisalpina), venuto ad aiutare il generale cartaginese ad
attraversare le Alpi al fine di combattere il comune nemico: Roma.
Nel frattempo il console Publio Cornelio Scipione (padre del futuro Scipione l'Africano), che
aveva radunato in agosto il suo esercito a Pisa per imbarcarlo alla volta della Spagna, venne
raggiunto dalla notizia che Annibale aveva varcato i Pirenei e decise di bloccarlo sul Rodano
poiché, non essendo il fiume guadabile, Annibale avrebbe dovuto costruire un ponte di barche per
attraversarlo col suo imponente esercito, con conseguente rallentamento nella marcia. Così il
console veleggiò verso la città alleata di Massilia, l'odierna Marsiglia, alle foci del fiume.
Lo scopo di Annibale era di arrivare in Italia e fomentare la sollevazione delle popolazioni
assoggettate dai romani; così dopo aver fatto passare il fiume agli elefanti tramite un espediente
(zatteroni mimetizzati da terreno con ai fianchi otri di pelle pieni di paglia per reggere il peso),
puntò verso nord risalendo il corso del Rodano.
Era la fine di ottobre e Annibale riuscì a raggiungere la Pianura Padana poco prima dell'inverno,
mantenendo quell'effetto sorpresa che voleva ottenere
(Annibale supera il Rodano e
scende nella Pianura Padana)
Dei 60 000 che avevano attraversato i Pirenei, quasi 50 000 tra fanti e cavalieri e tutti i 37 elefanti
(di cui, secondo Polibio, solo uno riuscirà a sopravvivere all'inverno e alle conseguenze del viaggio,
gli altri moriranno l'anno seguente), riuscirono ad arrivare nella Pianura Padana. Sconfiggendo
tribù montane, difficoltà del terreno e intemperie, Annibale aveva compiuto una delle imprese
militari più memorabili del mondo antico. Assai dettagliata è la descrizione dell'attraversamento
in Livio che cita anche un geniale metodo per spaccare le rocce che impedivano il passaggio
(metodo confermato anche da Vitruvio e Plinio): Annibale riscaldò la roccia e un volta
raffreddatasi la spezzò dopo averla ricoperta di aceto.
L'arte militare di Annibale trova origine nella tradizione ellenistica, ma per la sua intima
grandezza si rende indipendente ed autonoma da essa.
Nella sua mente la battaglia è un tutto unico: certo, lo scontro sul campo sarà diviso in momenti e in
azioni diverse, ma in realtà si tratta di un solo, unico movimento compiuto dall'esercito nel suo
complesso. L’esercito non è un “insieme di parti organizzate” come era l'esercito ellenistico: le
truppe, il loro schieramento e il piano di battaglia sono un’unica materia finalizzata alla
vittoria.
Di Annibale è sempre stata esaltata, e a ragione, l'abilità nella guida delle truppe mercenarie
provenienti dalle più svariate regioni del mondo. E si sottolinea la sua abilità nel trasformare bande
tribali rozze e feroci in uno strumento di vittoria.
Annibale è un eccezionale "autore-regista" di battaglie: come un autore-regista di cinema o di
teatro inventa una trama, scrive un copione, assegna le parti agli attori e li guida e li istruisce
nell'interpretazione, altrettanto Annibale fa nelle sue battaglie, che non per nulla sono considerate
dei capolavori dell'arte militare.
Annibale pone grandissima cura nello studio psicologico dell'avversario e fa leva sul carattere
del nemico per ottenere quei vantaggi che si rivelano poi decisivi sul campo di battaglia.
Dopo aver sconfitto i Romani, guidati dal console Publio Cornelio Scipione, in una scaramuccia
lungo il Ticino (Battaglia del Ticino, 218 a.C.), nel dicembre dello stesso anno (218 a.C.) ebbe
l'opportunità di mostrare la sua capacità strategica quando attaccò al fiume Trebbia (Battaglia della
Trebbia) vicino Piacenza le forze di Publio Cornelio Scipione (padre dell'Africano). Annibale
aveva informazioni precise sul carattere dei consoli: conosceva l'impulsività di Sempronio Longo,
ed aspettò il giorno in cui era al comando lui e non Publio Cornelio Scipione per tendere una
trappola all'esercito romano ed attirarlo in battaglia: 1.000 cavalieri numidi e 1.000 fanti leggeri
furono occultati in un'imboscata al comando di Magone e quindi, all'alba, il resto dei numidi fu
inviato a molestare il campo romano. Nel frattempo Annibale si assicurava che i suoi uomini
facessero una colazione calda e si proteggessero dal freddo ungendosi d'olio. Sempronio reagì
secondo quanto previsto, portando le truppe fuori dal campo senza nemmeno farli mangiare, dando
subito la caccia ai numidi con la cavalleria ed inseguendoli oltre la Trebbia, gelata per il freddo.
Così i romani si schierano oltre il fiume e quando il movimento avvolgente di Annibale e l'attacco
alle spalle di Magone li manda in rotta, molti perirono annegati nella Trebbia. Le perdite di
Annibale furono leggere, soprattutto galli: truppe che egli usava cinicamente in posizione molto
esposta per assorbire gli attacchi dei romani.
Tatticamente la battaglia anticipò quella di Canne. Dei 16.000 legionari e 20.000 alleati, si
salvarono circa 10.000 uomini che ripiegarono nella colonia romana di Piacenza fondata da pochi
anni (218 a.C.).
Nella primavera del 217 a.C. Annibale con le sue truppe e l'unico elefante sopravvissuto all'inverno,
attraversò l'Appennino senza incontrare opposizione, ma perse molte delle sue truppe per i disagi e
le malattie e dove egli stesso perse un occhio.
Con l'aiuto della nebbia riuscì a sconfiggere i romani nella più conosciuta Battaglia del Lago
Trasimeno (217 a.C.) piombando all'improvviso dalle colline circostanti sulle truppe romane in
spostamento e intrappolandole sulle spiagge e nelle acque del lago: Annibale provoca i Romani ad
inseguirlo dopo aver devastato il territorio etrusco, quindi si incammina lungo la riva del lago
Trasimeno e lo supera, ma le sue fanterie leggere e galliche si dispiegano per vie nascoste lungo la
cresta che lo costeggia. Quando il console Flaminio, ripreso l'inseguimento senza un minimo di
ricognizione, si accorge che spagnoli ed africani gli bloccano il passaggio, tenta di schierarsi in
battaglia, ma è perfettamente inutile, perché l'inaspettato attacco sul fianco ne ha già decretato la
sconfitta. La disfatta per i romani fu pesantissima!
La strada per Roma era aperta, ma solo teoricamente. Se da un lato è vero che nessun esercito si
frapponeva più fra lui e Roma, d'altro canto Annibale si rendeva conto di non disporre di un
esercito tecnologicamente attrezzato per un assedio della Città, prevedibilmente lungo. Fra
l'altro, man mano che si addentrava in Umbria, dovette anche constatare che le popolazioni si
mostravano sempre più fedeli a Roma e a lui più ostili, pertanto preferì sfruttare la sua vittoria per
spostarsi dal Centro al Sud Italia e lì provare a suscitare una generale rivolta contro i dominatori di
Roma. Nonostante un iniziale successo, questa strategia a lungo andare fallì perché comunque la
maggior parte delle città sottomesse a Roma non si rivoltarono.
(“La battaglia sul Trasimeno” Niccolò Circignani detto
il Pomarancio))
Nel 216 a.C. nei pressi di Canne (Battaglia di Canne ) Annibale si superò. Il centro a forma di
mezzaluna, la fanteria africana divisa sui due fianchi, un'ala di cavalleria forte ed una debole: è tutto
un unico meccanismo finalizzato alla distruzione di un'armata nemica che si è fatta confinare in uno
spazio ristretto. La formazione di fanteria va letta nella sua simmetria, dividendola per un asse
centrale: si tratta di un doppio "fianco rifiutato rinforzato", ovvero di due diagonali accostate con
le estremità "forti": una, quella proiettata verso il nemico, per resistere il più possibile alla sua
pressione, e dare il tempo materiale alla seconda, quella lontana, di operare l'aggiramento, i cui
tempi sono dettati e scanditi dall'azione della cavalleria, che deve sopraffare le ali nemiche per
chiudere e completare l'aggiramento.
La cavalleria pesante compie un'azione non comune nella storia militare: addirittura una tripla
carica, dimostrando di essere non solo sotto controllo, ma eccezionalmente misurata nello sforzo.
Prima sconfigge la cavalleria romana sulla propria ala, poi gira dietro lo schieramento per andare a
distruggere quella opposta, che i numidi hanno tenuto a bada con le loro schermaglie, e infine
assesta il colpo mortale alla fanteria attaccandola alle spalle. Ma è errato credere che sia la
cavalleria a vincere la battaglia: essa completa e corona un'opera già iniziata dalla fanteria: e
ogni parte fornisce un contributo essenziale ed irrinunciabile. I Romani ebbero quasi 80.000
caduti, 10.000 prigionieri e solo 10.000 circa riuscirono a scappare. Le perdite di Annibale furono
circa 6.000: un vero trionfo!
Questa vittoria portò al suo fianco la quasi totalità delle popolazioni meridionali, mentre l'Etruria e i
Latini restarono fedeli all'Urbe. Non avendo però ricevuto aiuti a sufficienza né dalla madrepatria
né dai nuovi alleati, non poté portare un attacco diretto a Roma nonostante questa non potesse più
schierare molte truppe a sua difesa. Dovette quindi accontentarsi di dispiegare le truppe al controllo
del territorio.
Nel 212 a.C. Annibale ottenne un grande successo conquistando la colonia greca di Taranto, in
prospettiva utile porto per ricevere aiuti via mare dall'Africa.
Nel 207 a.C. Annibale ritornò in Apulia, dove sperava di riuscire a concertare un ricongiungimento
con un esercito cartaginese che stava discendendo l'Italia agli ordini del fratello Asdrubale. Per sua
sfortuna, Asdrubale fu sconfitto e morì. Il fratello superstite Magone venne fermato in Liguria 205
a.C. – 203 a.C. L'ultima speranza di successo in Italia ebbe così termine e Annibale ritornò in
Africa, quindici anni dopo avere attraversato le Alpi.
(Itinerari di Annibale e Asdrubale durante la seconda
guerra punica)
Nel 203 a.C. Annibale e il fratello Magone, che aveva appena subito una sconfitta a Milano e che
morì nel viaggio di ritorno, furono richiamati in patria e il condottiero fece vela per l'Africa.
Nel 202 a.C., dopo un'inutile conferenza di pace con Scipione, si scontrò con lui nella Battaglia di
Zama. Scipione ormai conosceva le tattiche dell'avversario e le usò contro il loro inventore. La
cavalleria numidica sbaragliò quella cartaginese. Inoltre le disaggregate forze cartaginesi non
poterono reggere al confronto con l'esercito romano, ottimamente addestrato e disciplinato.
La sconfitta di Annibale a Zama pose fine alla residua resistenza di Cartagine e alla Seconda
guerra punica.
Annibale aveva appena 46 anni e dimostrò di saper essere non solo un condottiero, ma anche un
uomo di stato. Dopo un periodo di oscuramento politico, nel 195 a.C. tornò al potere come suffeta
(capo del governo). Il titolo era diventato abbastanza insignificante, ma Annibale gli ridiede potere
e prestigio.
Annibale tentò una riforma dello Stato per incrementare le entrate fiscali, ma l'oligarchia, sempre
gelosa di lui, tanto da accusarlo di aver tradito gli interessi di Cartagine quando era in Italia,
evitando di conquistare Roma quando ne aveva avuto la possibilità, lo denunciò ai sempre
sospettosi romani.
Annibale preferì scegliere un volontario esilio. Prima tappa fu Tiro, la città-madre di Cartagine.
Dopo fu a Efeso alla corte di Antioco III.
Dalla corte di Antioco che sembrava pronto a consegnarlo ai Romani, Annibale fuggì per nave fino
a Creta. È celebre l'aneddoto del suo inganno; i Cretesi non volevano lasciarlo più partire a meno
che non lasciasse nel loro tempio principale l'oro che aveva con sé come offerta votiva. Egli allora
finse di acconsentire. Consegnò un grosso quantitativo di ferro appena ricoperto da un sottile strato
d'oro e trafugò invece le sue barre fondendole e nascondendole all'interno di statue di magnifica
fattura che egli portava sempre con sé e che i Cretesi gli permisero di portar via.
La parabola del Condottiero si conclude in Bitinia (vicino alla città di Bisanzio, nell’odierna
Turchia) presso il re Prusia. Ancora una volta i Romani sembrarono determinati nella sua caccia e
chiesero la sua consegna. Prusia accettò di consegnarlo loro, ma Annibale scelse di non cadere vivo
nelle mani del nemico. A Libyssa sulle spiagge orientali del Mar di Marmara prese quel veleno
che, come diceva, aveva a lungo conservato in un anello.
Curioso (ma non si sa quanto veritiero) a questo punto l'oracolo che, in giovane età, lo aveva
sempre convinto che sarebbe morto in Libia, a Cartagine e che citava testualmente: "Una zolla
libyssa (libica) ricoprirà le tue ossa". Immaginiamo quale fosse il suo stupore quando apprese il
nome di quella lontana località in cui si era rifugiato. Le sue ultime parole si dice fossero: "Poiché i
Romani non hanno tempo di aspettare la morte di un vecchio, vediamo di fare loro questo favore".
L'esatta data della sua morte è fonte di controversie. Generalmente viene indicato il 182 a.C. ma,
come sembra potersi dedurre da Tito Livio, potrebbe essere stato il 183 a.C., lo stesso anno del suo
vincitore: Scipione l'Africano.
Nicoletta De Luca