Memorie e rimedi della medicina popolare di Alessandra Gasparroni Per la gente di montagna e quella contadina della nostra terra abruzzese, nel passato, rivolgersi alle cure mediche era da considerarsi l’ultima fase di un percorso che prevedeva in precedenza l’affidarsi a terapie di medicina popolare che, se in alcuni casi fungevano da placebo, in altri aiutavano il malato nella sua morbilità attingendo a rimedi naturali che venivano forniti da quello che l’uomo poteva facilmente reperire sul territorio. Le credenze popolari attribuivano alcune qualità, vere o presunte, alle piante; alcune di queste hanno trovato larga applicazione in campo farmaceutico. Una volta i nostri contadini se avevano qualche malanno non ricorrevano subito al medico ma cercavano di curarsi con metodi antichi che, spesso, avevano buon esito. Sicuramente molti di questi rimedi erano mescolati a credenze che ne facevano medicine miracolose, era il loro orizzonte di conoscenze: il mondo entro il quale loro vivevano e nel quale dovevano in qualche modo affrontare ogni serie di ostacoli. Alcuni di questi impedimenti erano le malattie che non permettevano, ad esempio, di poter lavorare e quindi tutto il peso dei campi o del governare le bestie si rallentava procurando seri danni economici alle famiglie. Il medico veniva chiamato solo in casi gravissimi, nel frattempo, si procedeva ad una serie di cure nate da quelle poche notizie che si avevano sull’efficacia delle piante o di altri medicamenti naturali. Studiosi abruzzesi già dalla fine del XIX secolo raccolsero dalla viva voce degli informatori che vivevano il territorio notizie riguardanti la medicina popolare per poi farne pubblicazioni in saggi e volumi. Naturalmente oggi si può sorridere su alcuni di questi rimedi ma bisogna considerare che allora quello era il primo, se non l’unico, metodo di cura. Sfogliando le pagine di Antonio De Nino nella sua importante raccolta Usi e costumi abruzzesi. Malattie e rimedi del 1891, leggiamo: che per la febbre si usava una pianta detta jervariccia colta dai crepacci dei vecchi muri, si faceva bollire nel vino, si filtrava e si beveva tutte le mattine. Un’altra erba detta la pastorella si legava ai polsi del malato per curare la febbre quartana. Ancora c’era l’infuso dell’assenzio e quello della genziana che in numerosi posti in Abruzzo cresceva spontanea. Si bollivano nel vino le sajiettelle (peperoncini rossi a forma di saette), si beveva il sugo dei cascigni (specie di cicoria campestre) pestati. Se il malato poteva camminare andava davanti ad una pianta di sambuco e diceva: “Sambuco mio, sambuco mio, questa febbre a te la lascio; non me la ridare finché non ci ripasso”. Per il raffreddore si facevano friggere in un tegamino olio e fiori di camomilla e si frizionavano le sopracciglia e le narici, le tempie, lo stomaco, e la parte del cuore. Per curare i porri, stando a digiuno, si spargevano con l’umore de jiu floregialle (quello della cicoria campestre), oppure con il latte delle foglie di fico e anche con le mazocchette delli gigli de li preti (il gigliaccio selvatico di colore scarlatto). Per la rogna (malattia cutanea) si facevano frizioni con vino bollito con elleboro che si trova nelle nostre montagne e doveva essere colto al solleone. In alternativa si preparava un unguento di olio e zolfo e ciànere de ficora bianche (cenere di fico bianco). Per la scottature si consigliavano applicazioni della raschiatura delle scorze fresche di sambuco o la fronna de lle cinche nerve (la fronda dei cinque nervi, cioè la fronda delle scottature. È una pianta simile alla bietola con cinque coste trasversali). Per le punture di spini veniva usata la cicoria campestre e per i morsi degli scorpioni i cascigni pestati. Per la piccole ferite si facevano applicazioni con li cappellitte de lli canne, che ste dentr’a lli canna ‘gna se spaccane (i cappelletti delle canne: stanno dentro alle canne, come si spaccano. Sono quelle pellicole rotonde e biancastre, tra nodo e nodo di canna). Per il mal d’orecchi si preparava un batuffolo di ovatta intinto nell’olio di camomilla, meno comune era la spremitura nell’orecchio del sugo della pera. Per l’itterizia si masticava il rabarbaro. Per la palpitazioni di cuore si preparava un decotto con le foglie di gramigna. Gennaro Finamore nella sua raccolta Tradizioni popolari abruzzesi del 1894 registra usi di medicina popolare che citiamo testualmente: “L’ernia dei bambini si cura in questo modo: Spaccato un querciolo per mezzo, in guisa da formare come un largo occhiello, restando intatto il fusto da sopra e da basso, si fa passare tre volte il piccolo paziente per quel fesso. Se, dopo di ciò, il querciolo continua a vegetare, e quella fessura si riattacca, vuol dire che la svendature guarisce. […] I geloni ggelune giova fregarli con neve di marzo, o bagnarli con orina, ungerli con sego scaldato al fuoco, lavarli, specialmente appena si mostrano con acqua in cui furono cotte le rape o le castagne o i sedani. […]. Il morso del gatto è sempre velenoso. Sulla ferita bisogna applicare subito del pelo tolto al gatto istesso e dell’aglio fresco […]. Le diverse forme di otite esterna, ed anche di otite media, acuta sono, per la gente tutte “flussioni” o “dolori” di orecchi, di cui ordinaria causa è l’aria fredda e umida. Lu latte de la cìtela fèmmene o de lu cìtele mascule, ossia di donna che allatta una bambina o un bambino, è quasi una panacea in tutte le forme di acute, specialmente se dolorose di otite”. Estella Canziani giornalista anglo-italiana che negli anni ’20 del 1900 viaggiò in Abruzzo, sull’onda del Gran Tour, restò colpita dagli abiti, i riti, le processioni, lo stile di vita degli abitanti dei paesi annotando e disegnando moltissimo e pubblicando in seguito il volume Through the Appennines and the Lands of the Abruzzi, lanscapes an paesant life. Tra i suoi appunti, mentre visitava Cocullo e Scanno leggiamo: “Durante la vigilia di San Giovanni si raccolgono i fiori del sambuco, della malva, dell’absinthium (assenzio), della menta e di altre erbe, poi si mettono ad essiccare e si usano per combattere ogni sorta di malattia e per far irrobustire i bambini”.