ECCLESIOLOGIA Introduzione Innanzitutto perché studiare? Cosa c’entra lo studio con Dio? Lasciamoci aiutare da ciò che dice Simon Weil nel testo “Attesa di Dio” (Ed. Rusconi) e cui io cito più o meno a stima e solo alcuni pezzi: «La preghiera esige attenzione e la qualità della seconda è legata alla qualità della prima Lo studio serve per far crescere la qualità dell’attenzione e ogni volta che si fa un po’ più attenzione, si riesce a distruggere quel po’ di male che c’è in noi È poi molto importante non sorvolare sugli errori fatti, ma osservarli attentamente e guardare le correzioni degli insegnanti: lo studio aiuta così ad acquistare la virtù dell’umiltà, perché meditare sulla propria stupidaggine è molto spesso più utile che meditare sul peccato Lo studio aiuta poi a far sviluppare il desiderio e quindi la gioia di imparare e ciò aiuta molto la preparazione spirituale: soltanto il desiderio può infatti costringere Dio a scendere, in questo senso il Regno di Dio è dei violenti (?)» Bisogna poi far molta attenzione a separare le sfere della vita, perché se uno fa sul serio pastorale o spiritualità o studio, prima poi trova le radici della altre due Lo studio è vero se si portano delle domande perché sono segno di ricerca e sono ciò che aiuta a fare vera sintesi. Un corso di teologia è vero se fatto in compagnia di Dio, non si può infatti studiare Dio dandolo per assente e in corso di teologia sistematica sulla Chiesa non si può studiare la Chiesa senza la Chiesa e senza la sua fonte che è Dio. Per De Lubac: «È indispensabile una continuità tra lavoro teologico, attività pastorale e correnti spirituali, nessuna delle tre può stare … così un teologo separato dall’apostolo e dallo spirituale non può compiere correttamente il proprio lavoro di teologo», idem ovviamente per gli altri due nei quali tanti fallimenti sono essenzialmente un problema teologico. Come mai questo corso è all’ultimo anno? Perché esso ha essenzialmente un valore sintetico e di legame con cristologia, antropologia e trinitaria Premessa metodologica Un teologo vero riflette criticamente su una fede che lo precede, perciò è dalla fede che attinge “i mattoni” con cui lavorare, poi vede come il suo “prodotto finito” è vissuto nelle varie realtà (così fa il Kehl che è il nostro manuale di riferimento). Noi invece partiamo proprio dalla realizzazione reale della Chiesa, da come la cultura la percepisce, perché non si può fare una teologia da marziani, una teologia completamente avulsa dal tempo e dallo spazio in cui si vive e quindi da contesti culturali e sociologici ben precisi sui quali influiscono molto i soldi, le tradizioni, se si ha da mangiare o no ecc. Non cambiano le verità, ma i soggetti che si incontrano con esse sì e così anche il modo con cui esse risplendono. Non esiste una teologia che non sia inculturata (cf discorso di Benedetto XVI a Regensburg) perché quel Vangelo che è all’origine di ogni grammatica non può darsi (e non si è dato neanche all’inizio) senza grammatica come l’incarnazione, che è il motivo per cui esiste ogni carne, senza quella carne particolare non ci sarebbe stata! Non esiste quindi una teologia non contestuale (o contestualizzata che dir si voglia), che essa lo sappia o no, come non esiste un Vangelo nudo e crudo. La cultura ebraica in particolare ha un ruolo particolare perché Gesù ha assunto quella cultura particolare, egli non ha assunto “l’uomo” astratto, ma “quell’uomo” lì particolare! Allo stesso modo però non esiste alcuna teologia che contestualizzata non contesti la cultura in cui è contestuale! Anche qui il paradigma è l’incarnazione, perché l’umanità assunta contesta l’autoreferenzialità della carne, tanto che termine dell’incarnazione è il mistero pasquale! Perché abbiamo ucciso Gesù? Perché ci contestava! Cos’è in fondo il peccato se non chiusura in sé stessi, se non autoreferenzialità? La cultura non è mai il Vangelo ed è proprio per questo che c’è la necessità di annunciarlo e ciò è allo stesso di tempo di stimolo allo sviluppo della cultura stessa. Perciò ogni teologia, se è vera teologia, è contestuale e contestante, ogni processo di annuncio quindi è anche sempre un incontro tra culture e ciò è anche ciò che garantisce uno sviluppo storico della teologia e spiega il perché esista una storia del dogma, perché ogni volta che il Vangelo incontra nuova culture, incontra problematiche nuove che da un lato creano dei problemi, ma dall’altro se affrontate aiutano a conoscere sempre più in profondità il Vangelo! Se questo modo di fare teologia, vale per qualsiasi oggetto che essa studi, ciò vale a maggior ragione per la Chiesa che è l’oggetto di fede più empirico e contestualizzato di tutti, tanto che con Chiesa intendiamo tanto la Chiesa universale quanto la Chiesa particolare e quindi le Chiese che sono diverse tra di loro, tanto quanto lo sono le culture. Percorso o Collocazione della nostra ricerca sulla chiesa all’interno della cultura di oggi e più precisamente della cultura italiana per capire come è vista la chiesa e come è accolta. Arriveremo a vedere come l’identità ecclesiale è sempre più in crisi a dispetto di un forte ritorno religioso e la chiesa è vista solo come un’istituzione. o Cosa pensa la Chiesa di sé? Vedremo la risposta del Concilio Vaticano II indetto proprio per capire cosa la Chiesa dicesse di sé stessa (cf Paolo VI). La risposta in chiave sistematica sarà che essa è un mistero di comunione e sacramento della comunione con Dio e con gli uomini. o Si partirà a questo punto per vedere se questa risposta si può ritrovare prima nell’AT, poi nel NT (soprattutto Mt, Lc e Paolo) ed infine nella storia della Chiesa e della sua autocomprensione e quindi vedremo come nel primo millennio essa si è compresa essenzialmente come comunione, mentre nel secondo millennio più come istituzione o Ritorno al Concilio Vaticano II per un esame più tranquillo ed analitico dei testi, facendo particolare attenzione a: ecumenismo, dialogo inter-religioso, la salvezza per il mondo e se ci sarà tempo anche l’aspetto missionario. Nell’accostarsi al Concilio Vaticano II bisogna avvicinarsi con quell’umiltà di cui si è detto all’inizio per poi poter essere altrettanto umili nella sua applicazione pastorale. Es: «Ah io imposto la mia comunità parrocchiale secondo il Concilio Vaticano II …» andiamo piano, pisciamo corto! LA CHIESA NELLA CULTURA CONTEMPORANEA La realtà della Chiesa è quanto mai compromessa tanto a livello culturale quanto a livello della prassi, perché se si sta assistendo ad un ritorno del fenomeno religioso dall’altra parte è oggi compromessa più che in altre epoche la fede nella Chiesa e la appartenenza ad essa, l’appartenenza ecclesiale è infatti la prima a saltare e la Chiesa è proprio il primo oggetto di fede criticato. Critica della cultura alla Chiesa, esperienza religiosa al di fuori di essa. Nella cultura occidentale, europea, italiana, al laicismo ed anticlericalismo degli scorsi secoli è seguito un forte interesse religioso anche in chiave filosofica e sociologica; proprio il fallimento del culto della ragione ha segnalato infatti la plausibilità del ritorno religioso. Vattimo e Derrida nella loro introduzione al volume “La religione” (ed. Laterza) a tal proposito si chiedono: «Questa rinascita del religioso è veramente altro dalla morte di Dio?» Ed è sensato chiedersi ciò perché: - La morte di Dio intesa come fine della metafisica, fine di un soggetto razionale capace di pervenire ad una verità assoluta ed universale, fine di una storia orientata verso un senso è la crisi del linguaggio unico di tipo logico e porta ad una riapertura per il linguaggio poetico, mitico e religioso. La logica non significa più tutto e ciò che era vecchio e immaturo ritorna anche perché si è scoperto che in fondo esso non è meno logico e ciò che è stato buttato fuori dalla porta entra dalla finestra. La morte di Dio in questo senso significa quindi la fine della possibilità di una accesso onto-teologico alla verità intiera. - Se quindi con il concetto di “morte di Dio” si intende la fine della metafisica o delle metanarrazioni, è normale che ci sia un ritorno religioso che poco ha a che fare con la fede, la cui natura è l’avere proprio un orizzonte metafisico e veritativo. Si ha un ritorno a dio, ma ad un dio che si annichila nell’uomo e del quale non si può dire (e in fondo non interessa neanche) dire se c’è o non c’è, tanto che per Umberto Galimberti «quando diciamo Dio, diciamo il fondo enigmatico del soggetto». In quest’ottica quindi dio non è qualcuno a cui aderiamo! Conseguenza di ciò è che questo ritorno religioso è ben lungi da essere un ritorno alla chiesa infatti, sempre citando Vattimo e Derrida, esso «ha più a che fare con la morte di Dio che non con le chiese che sono sempre più vuote». Capiamo quindi che ci sono tre parole che stanno sullo stesso livello: metafisica, autoritarismo e chiesa. E per la cultura di oggi tutte e tre sono da cancellare! La Chiesa è vista infatti come colei che vuole garantire la verità per tutti (aspetto metafisico) e che per far ciò fa spesso appello alla sua autorità non senza scadere nell’uso della violenza anche solo verbale a volte (aspetto autoritativo). La parola che infatti manca nel trinomio e che è un po’ lo sfondo di tutto la questione è il rapporto verità-libertà perché la diffidenza verso questo trinomio nasconde una domanda: ma la verità fa davvero liberi? È infatti ancora troppo fresca l’esperienza del crollo del pensiero moderno con il suo forte afflato veritativo, il crollo delle meta-narrazioni tutte connotate dalla prospettiva della verità e che tanti male hanno provocato all’umanità. E sentendo che la Chiesa di definisce come depositaria della verità per tutti, i singoli pensano che con l’essere accolti in essa si perda in fondo sé stessi. L’analisi di Franco Crespi Per capire il modo di “sentire” la Chiesa da parte del mondo di oggi vediamo a questo punto l’analisi che fa un sociologo: Franco Crespi. Lui dice che l’uomo vive una vita drammatica perché ha una vita confinata, ma nel contempo è assetato di una ricerca di infinito Poiché l’uomo non può oltrepassare i confini della vita finita, il senso della vita rimane inattingibile, ma allo stesso tempo sempre sperato L’uomo può però ricercare dei significati dell’esistenza (regole, norme, simboli ecc.), dei “sensi” per i quali può anche spendere la propria vita, senza però pretendere che in essi sia inscritto “il senso” Se a questo “senso” diamo il nome “Dio” si capirà che di esso si può dire tutto e il contrario di tutto, perciò è meglio non dirne niente Nel nostro tempo questa dimensione drammatica dell’uomo emerge nella sua prepotenza, infatti questa ricerca e questo agognare sono oggi molto acuiti perché caduti molti dei “sensi”, le meta-narrazioni, per cui spendere la vita, ci sentiamo da un lato tutti più spaesati e dall’altro lato si riscopre l’importanza e l’assolutezza della relatività dei sensi rispetto “al senso”, che però ci lascia come “nudi” perché “il senso” non ce lo possiamo dare! (inizio parentesi nostra) Il crollo di questi sensi e con essi anche di tutto ciò che di buono portavano non va quindi visto solo come elemento negativo, ma contiene in sé dei kayros, dei segni di speranza per il futuro: ma attenzione che i segni di speranza non vanno cercati dove vogliamo noi, ma nella realtà così com’è! Non è giusto infatti dire che la speranza è pensare che nel 2020 ci sarà la ripresa del cristianesimo, perché non è questa la speranza cristiana: se decidiamo noi cosa sperare ci ergiamo a Dio! È perciò importante cosa spero ed è speranza tanto più autentica, quanto è più impreciso l’oggetto in cui si spera1, la speranza infatti è diversa dall’ottimismo, anzi più mi distacco dalle cose e più ho a che fare con l’intervento di Dio nella mia vita. (fine parentesi nostra) È plausibile quindi un ritorno religioso che non deve però essere un ritorno ad un’istituzione, ma ad una esperienza, perché il ritorno all’istituzione può essere in fondo dettato dalla paura o dal voler rinchiudere “il senso” all’interno di una istituzione. Non c’è da stupirsi quindi che l’esperienza religiosa si differenzi dall’esperienza della chiesa, perché non è di tipo cognitivo e se si ha a che fare con dei testi sacri, non ne interessa l’attendibilità storica: all’interesse religioso si accompagna un disinteresse cognitivo perché non interessa l’appartenenza religiosa ad un ente legato alla verità, non interessa se Dio c’è o no, ma ciò che interessa è la semplice esperienza religiosa che permette di vivere all’uomo nella tensione drammatica in cui si trova. Ecco perché la Chiesa non c’entra con questo ritorno religioso, perché l’istituzione religiosa e quindi anche la Chiesa, più che ad essere attenta alla tensione drammatica dell’uomo, è attenta a conservare l’accesso ad una verità, che una volta raggiunta “spezzerebbe” la drammaticità dell’umano, facendo sì che si formi un’alleanza, un circolo vizioso, tra istituzione e verità, perché l’istituzione propone una verità, il cui perseguimento tende a rinforzare l’istituzione stessa, esempio: la chiesa insegna che il peccato segna la vita dell’uomo e quando uno pecca deve andarsi a confessare e per farlo deve andare da un ministro della chiesa per esserne liberato Proprio questo circolo vizioso provoca l’impossibilità di fare una vera esperienza religiosa, perché impedisce ai soggetti una seria maturazione personale. L’adesione ad una verità vuol dire l’assimilazione del 1 A tal proposito vedere in “Il mistero dell’essere” di Gabriel Marcel il capitolo sulla speranza. soggetto ad essa, a scapito però della perdita della propria soggettività. (ndr E a ben vedere Crespi non ha tutti i torti, perché certi modi di intendere la verità schiacciano la diversità) Considerazioni su questo ritorno religioso e suo impatto sulla chiesa A riprova di ciò che dice Crespi nel mondo assistiamo ormai ad un arcobaleno religioso, con un pullulare di sette e di movimenti religiosi (circa 10.000 in tutto il mondo) di cui è difficile persino farne una classificazione perché hanno dei caratteri religiosi, ma non sono religioni; si appoggiano spesso su elementi “scientifici”, ma non sono scienze; propongono delle verità, ma non sono filosofie. Sono insomma un misto di antico di nuovo (es. astrologia e psicologia), tanto che molti le definiscono come religioni neo-arcaiche e neo-pagane. Volendo però semplificare si può vedere come ciò che caratterizza queste comunità è: - il peso che l’irrazionale e il sentimentale hanno in questi movimenti e quindi la grossa attenzione per i riti e la scarsissima attenzione che invece si dà ai contenuti da credere - il superamento dei limiti del dominio della ragione moderna e della tecnica - il superamento del dualismo anima-corpo, per raggiungere una nuova visione olistica dell’uomo (infatti si cerca sempre di fare esperienze che ti facciano stare bene) - una riscoperta della figura di Gesù, anche se visto solo come il Cristo esemplare che può aiutarmi a trovare l’armonia a tutti i livelli - un forte potenziale “ecumenico” vista l’assenza di agganci veritativi e la tensione alla pace Quindi questo ritorno religioso è: molto individuale, perché caratterizzato da una forte tensione all’autorealizzazione; connotato da una ricerca di spiritualità e di felicità limitata al presente; il più possibile distanziato da verità dogmatiche, perché la verità in fondo crea solo divisione2. Essendo queste le caratteristiche anche della maggioranza dei cristiani di oggi, assistiamo nella chiesa a quello che Prini chiama “lo scisma sommerso”, perché in essa c’è una crescente discrasia tra le posizioni della gerarchia e quelle della maggior parte dei cristiani, tra una proposta di verità alte ed esigenti ed un senso di appartenenza molto labile, perché i singoli si sentono autorizzati a scegliere ciò che è bene e ciò che è male e non solo a livello morale, tanto che il 40% di chi si definisce cattolico non crede alla risurrezione della carne! L’indifferenza dogmatica e morale si riflette poi anche sulla stessa pratica religiosa. In poche parole anche all’interno della Chiesa c’è un’istanza religiosa fortemente individualista. Volendo cercare degli elementi positivi in questo ritorno, in questa cultura post-moderna troviamo: La critica serrata e forte alla prospettiva di un pensiero che si sente capace di pervenire ad una verità valida per tutti, ma che non tiene conto dell’unicità, della singolarità e della libertà di ognuno. Tradotto teologicamente vuol dire che dovremo fare attenzione a certi metodi iperscolastici che portano ad una facile dimostrazione di Dio e della rivelazione Il mettere in guardia da una visione di chiesa che fosse pensata anzitutto come una istituzione garante di una verità, ma che non tiene conto dei singoli e della crescita degli uomini in quanto tali. Tradotto pastoralmente vuol dire che non basta più dire “sono il prete e lo dico io”, ma devo giocare con le libertà degli altri. Sono proprio così sbagliate? Sembra proprio di no. Perciò se “relativo” significa “io sono relativo a te” e ciò fonda il nostro dialogo e la ricerca comune della verità questo è bene, perché l’accettare un dialogo vero, è garanzia della ricerca di un certo tipo di verità! Critiche che si possono invece muovere a questo pensiero post-moderno sono invece: Chi l’ha detto che la chiesa è istituzione o soltanto questo? Se è vero che questa cultura lancia l’urlo della libertà dei singoli, il problema è che si vede le libertà a sé stanti, mai alleate tra di loro e si assiste paradossalmente ad una violenza nel dialogo, per cui alla fine non esiste dialogo! Ma questo è prevedibile perché se si dice che non esiste un accesso alla verità, le varie libertà procedono in modo disarticolato e l’assenza dell’unico Dio ha portato ad un politeismo nel quale si assiste ad una guerra tra dèi. Baumann fa notare come la ricerca d’identità, della vocazione, del proprio posto nell’universo, sia un valore moderno; la post-modernità invece pensa che l’identità sia un fardello e più uno è camaleontico, più si sa adattare al mondo che cambia! L’icona di tutto ciò è la facilità nel cambiarsi i vestiti. 2 L’AUTO COMPRENSIONE DELLA CHIESA LA CHIESA MISTERO DI COMUNIONE Dopo aver visto come la chiesa è percepita nel mondo attuale e le sfide che deve raccogliere, vediamo ora come la chiesa presenta se stessa e liberiamoci subito dell’idea che per parlarne nel modo più oggettivo se ne debba essere il più possibile lontani, perché questo tipo di approccio porterebbe ad equiparare la chiesa a tutte le altre società umane. Se infatti la chiesa è certamente una realtà storica, visibile, concreta, tangibile, una società tra le altre, un gruppo tra gli altri, e come tale può essere studiata sociologicamente nei suoi vari aspetti, il leggerla ed il ridurla a ciò vuol dire che la fede dei credenti non conta nulla, che la fede cioè è un fatto puramente individuale e che essa non produce intelligenza e ragione, ma non è così! Ma già solo nel credo che professiamo vediamo che si dice “credo la Chiesa” e quindi la fede ha a che fare con la Chiesa ed essa non può essere ridotta da un cristiano ad un fenomeno sociale come gli altri, pena l’andar contro la propria fede! Chiesa soggetto di fede Prima che oggetto di fede la Chiesa è soggetto di fede, perché l’atto di fede non è individuale, ma personale e quindi inserito in un contesto dialogico. Ciò emergeva molto bene nella prima chiesa, all’interno dei dialoghi che si avevano con il catecumeno. Il soggetto della fede non è quindi il singolo, l’io, ma il singolo appartenente ad una comunità, l’io appartenente al popolo che crede in Gesù Cristo e ciò comporta che non ci si può alzare al mattino e cambiare la propria fede, perché io sono credente con altri e grazie ad altri che mi hanno preceduto e che mi hanno trasmesso la fede. Proprio quest’ultimo punto ci fa poi vedere come l’atto più personale che esiste, la fede, ha come oggetto qualcosa che ci è trasmesso da altri che l’hanno custodita, essa quindi è in fondo un’atto “secondo”, all’atto “primo” che è l’autorivelazione di Dio all’uomo, e l’adesione ad essa comporta un adesione anche a tutti coloro che hanno creduto in Gesù prima di me e il soggetto che mantiene viva questa tradizione è proprio la chiesa. A tal proposito sentiamo anche altre voci: Wydenhoffer dice che: «Nessuno inventa da sé la propria fede che è “credere con” e “credere dopo”, senza l’altro io non posso credere»3. Joseph Ratzinger nel suo “Introduzione al cristianesimo” parla proprio di questa configurazione ecclesiale della fede che non è la risultante di un pensiero intra-personale, ma proviene dal dialogo ed è quindi molto diversa dal pensiero moderno tutto centrato sull’individuo che pensa da solo. Ricordando poi che come dice Rm 10,17 “”, “Fides ex auditu”, “La fede viene dall’ascolto” si capisce come: proprio nella sua origine la fede abbia già una dimensione sociale e quindi come il rapporto con Dio e con gli uomini siano due elementi inseparabili tra di loro; Dio non cerca mai l’uomo al di fuori della fraternità. Riflettendo poi sul Simbolo, con cui anticamente si indicava il Credo, esso era ciò che due persone spezzavano in due per stabilire un patto e che permetteva una volta che ci si re-incontrava di riconoscersi analogamente ciò significa che non si può credere senza mettere la propria fede vicino a quella del proprio fratello di fede. Bonhoffer ha scritto un libro che è tutto un programma “Sanctorum Communio”. Un’orazione della liturgia mozarabica dice: «Da’ alla tua Chiesa Cattolica e Santa la pienezza della fede che le desti da mantenere e custodire sempre perfettamente». Karl Barth in “Kirke Dogmatik” dice che davanti a Gesù c’è la Chiesa ed in essa i cristiani. De Lubac in “La Foi Cretienne” dice che “È la Chiesa che crede”. La Prima lettera di Giovanni sottolinea come: «quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo.» (1 Gv 1,3). Durante la messa si dice “Non guardare ai nostri peccati, ma alla fede della tua Chiesa” e quindi anche il peccatore più incallito può dirsi credente proprio in forza della fede della Chiesa ed è per questo che se io pecco non intacco la santità della Chiesa4! 3 4 Per una buona sintesi su questo punto vedere “Il mistero cristiano” di Natale Bussi Vedi a tal proposito l’articolo di Giacomo Canobbio in “Quaderni” del settembre 2006 Chiesa oggetto di fede A tal proposto vale subito la pena di notare che è un oggetto un po’ strano perché nel Credo NicenoCostantinopolitano5 non diciamo «Credo nella Chiesa», ma «Credo la Chiesa» e ciò vuol dire che è come se dicessimo: «Credo nello Spirito Santo nella Chiesa». Quindi la professione di fede è e rimane sempre ternaria, perché il credere si può dirigere soltanto a Dio6 e dire “Credo la Chiesa” vuol dire riconoscere che essa è l’opera più importante dello Spirito Santo, nella quale possono crescere e si possono comprendere tutti gli altri doni di Dio. Parlando di Chiesa è utile ricordare ciò perché non la si può concepire solo come una società di uomini, ma già nella sua costituzione è un qualcosa che trascende la semplice esperienza umana, è cioè un mistero che però non è autonomo, ma è derivato, in relazione, tanto che diciamo “Chiesa di Dio”. Se c’è una rivoluzione che il Concilio Vaticano II ha fatto, questa è stata il tornare a considerare la Chiesa anzitutto come un mistero di salvezza, tanto che il primo capitolo della Lumen Gentium (LG) è intitolato proprio così7 e fa subito vedere che la Chiesa si comprende anzitutto come strumento di salvezza ed inizio della salvezza! D’altronde esso è il primo e più importante concilio ad essersi espresso primariamente sulla Chiesa, tanto che K. Rahner ha detto che è stato il primo concilio della chiesa sulla chiesa. Ma perché è stato così importante? Perché ha dato all’ecclesiologia non solo un contenuto, ma anche un metodo. Se prima del Concilio infatti la Chiesa la si studiava in Apologetica perché era un oggetto da difendere e di cui si doveva dimostrare la fondazione storica da parte di Gesù e come Egli le abbia dato tutti i mezzi per mantenerla nella verità, primo fra tutti il magistero ed in particolare quello papale. Ora invece essa si studia all’interno della teologia dogmatica, proprio perché si parla di una realtà misterica e non più essenzialmente socio-giuridica! Ma cosa comporta questa opzione metodologica? - Non si può parlare della Chiesa guardandola dall’esterno, non può fare ecclesiologia chi non è un credente, come non può fare teologia in generale, perché essa è riflessione critica della fede su sé stessa! - La teologia non è qualcosa per gli addetti ai lavori, ma per ogni credente che è chiamato a riflettere sulla sua fede in Dio e chi dice che essa non c’entra con “quelli del popolo”, con la gente cristiana, vuol dire che egli non capisce nè cosa sia la gente né cosa sia la fede! In quest’ottica il carisma del teologo è al servizio del teologare del popolo di Dio, analogamente al sacerdozio ministeriale che è al servizio del sacerdozio regale dei fedeli. Insomma ogni cristiano è chiamato a pensare la propria fede ed in questo è aiutato dal teologo che è quindi un ministero ecclesiale molto importante! - Uno che fa da cinque anni teologia e non si nutre spiritualmente e pastoralmente di ciò che ha studiato vuol dire che c’è qualcosa che non va! Chiesa “ekklesia” Questa dualità insita nella Chiesa è già contenuta nel suo nome stesso, nel termine . Termine dell’antica Grecia, usato già nell’Antico Testamento e che nel Nuovo è ripreso con un significato nuovo. Esso non è l’unico termine con cui si esprime il mistero della Chiesa, ma dice qualcosa di importante di questa realtà, ed è stato riflettuto a lungo dalla tradizione della Chiesa. Ekklesia deriva dal verbo Kaleo che significa “convocare”. In Grecia era usato per indicare l’assemblea delle città – stato, il supremo organismo legislativo e giudiziario della democrazia e gli ekkletoi erano i convocati (coloro che potevano partecipare a quest’assemblea) che erano chiamati a raccolta dall’araldo. I diritti di questa ekklesia erano molto forti: scegliere e deporre i magistrati; scegliere se andare in guerra o no ecc. Già nella Grecia i due termini che erano maggiormente accostati ad ekklesia erano isonomia ed eleuteria, giustizia-uguaglianza e libertà a riprova che con In quelli precedenti di area greca si preferiva dire “eis ekklesia”, “nella Chiesa” mentre in quelli dell’area latina si diceva sia “in ecclesiam” che “ecclesiam”. 6 A tal proposito S. Agostino diceva poi che esistono tre tipi di credere: “Deum” cioè credere che lui esiste; “Deo” credere alle cose che dice (fides quae); “in Deum” affidarsi a lui (fides qua). 7 Ovviamente essa è la fine di un cammino e se già la Mystici Corporis di Pio XII era un buon documento, essa era ancora intrisa di forti dualismi. 5 questo termine si intende qualcosa di più che la cittadinanza in senso stretto. Questa ekklesia viene citata in Atti 19,29.32.38.39, quando scoppia il tumulto ad Efeso e tutti corrono nel teatro per tenere un’ekklesia, ma il cancelliere rimanda la decisione ad un’ekklesia secondo la legge, regolare. Come mai allora i cristiani usano questo termine per indicare la nuova realtà sociale che essi sono? Innanzitutto perché esso è già nell’AT secondo la traduzione dei LXX che traduce con questo termine sia qahal (il popolo riunito in assemblea, es.: Nm 10,1-3) che medà (usato per parlare di Israele riferendosi alla società nel suo complesso). I primi cristiani interpretavano quindi ciò che essi stavano vivendo nei termini di questa ekklesia8 perché: - si ponevano in continuità con il popolo di Israele, con il popolo di Dio; - come Israele, non sono radunati dalla loro volontà, ma per volontà di Dio che li ha chiamati a radunarsi e quindi appartenere alla Chiesa è primariamente frutto della grazia! È curioso notare poi che il termine greco in sé ha sia una valenza attiva, che una passiva, perché indica tanto la voce che raduna e convoca, la forza che riunisce, quanto l’effetto di questo chiamare a raccolta, ed usato a livello teologico mostra già in sé come essa sia opera di Dio, frutto della sua iniziativa e risposta a questa opera: in questo senso quindi la Chiesa precede i singoli, non soltanto in termini cronologici, ma ontologici, perché è raccolta, riunione, convocazione dei credenti. Chiesa “convocans et congregata” Anche i Padri hanno commentato molto il termine facendo ampio uso dei termini “convocatio et congregatio” e così: - Cirillo di Gerusalemme nella catechesi 17 al capitolo 24 dice che “La Chiesa è chiamata così perché convoca tutti a sé”; - Teodoro di Mopsuestia dice che “La Chiesa è l’assemblea dei fedeli che servono Dio in modo ortodosso”; - Ugo di San Vittore dice che “La Chiesa è l’universo dei credenti”; - Isidoro di Siviglia facendo il punto della situazione dice che la Chiesa è “convocans et congregans, convocata et congregata” Pur essendo così il termine ekklesia un termine “empirico”, esso indica già in sé, qualcosa di più del semplice oggetto visibile, aiuta già a capire come esso indichi non solo una società umana, ma un mistero, perché luogo della presenza di Dio, della sua dimora. Così: Proprio perché unita a Dio la Chiesa è Colei che convoca e raduna, raccoglie ed unifica o più precisamente: è in lei e per mezzo di lei che Dio raduna gli uomini e ne fa un sol tutto, tanto che anticamente uno degli attributi principali della Chiesa è che essa era Madre. Essa è però fatta di concreti credenti in Gesù Cristo, raccolti e riuniti da Dio. La Chiesa quindi è “mia Madre”, ma allo stesso tempo è “noi stessi”, una fraternità. Ancora una volta si vede quindi come credere sia in fondo in fondo con-credere. Chiesa “medium et fructus saluti” Dall’altra parte la Scrittura e poi anche i Padri mostrano come la Chiesa è frutto dell’opera divina, della salvezza è il primo frutto dello Spirito Santo e come tale è mezzo, strumento di salvezza ed infatti è lei che trasmette all’umanità la parola ed i sacramenti: essa è insomma la realtà nella quale e per mezzo della quale si sperimenta la salvezza, l’opera di Dio. E questo aspetto in fondo si manifesta proprio nella comunità di persone unite, convocate e radunate, che come tale è il primo frutto della salvezza, della divinizzazione degli uomini: «voi che un tempo eravate “non popolo” ora siete il popolo di Dio» (1 Pt 2,10). Conclusione La Chiesa è quindi una realtà complessa ed una sana ecclesiologia deve sapere tenere insieme aspetti complementari e saperli mettere in relazione tra di loro, come fa la Scrittura che non offre una definizione di Chiesa, ma la descrive raccontandone la vita o usando delle immagini. Solo se sarà così un’ecclesiologia sarà veramente cattolica e non dissolverà il mistero della dimensione umana e divina della Chiesa (cf LG 8: «non debole analogia con il mistero del Verbo incarnato»). 8 Nei Vangeli il termine ekklesia appare solo tre volte e tutte e tre in Matteo (Mt 16,18 e 18,15.17). LA CHIESA SACRAMENTO DELLA COMUNIONE DI DIO La Lumen Gentium inizia con il primo capitolo intitolato “Il mistero della Chiesa” e nel primo punto dice subito che: «la Chiesa è, in Cristo, in qualche modo il sacramento, ossia il segno e lo strumento dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano» (LG 1). Ma prima di analizzare questa espressione è utile soffermarsi sul termine mistero. Modalità di approccio al mistero Vediamo innanzitutto cosa non è il mistero: - Non è l’irrazionale, l’assurdo dal punto di vista logico e quindi non è qualcosa di contraddittorio di fronte a cui si deve rinunciare a compiere uno sforzo intellettivo; - Non è qualcosa che ora non riusciamo comprendere a causa dei pochi mezzi della tecnica, ma che in futuro sarà possibile spiegare Entrambe le posizioni frutto della ragione moderna che si riduca alla logica e che sono presenti anche in molti tipi di pastorale per cui «è inutile parlare della Chiesa, o ci credi o non ci credi» oppure se la Chiesa si affidasse di più alle scienze e alla tecnologia sarebbe a posto! Già molti filosofi hanno comunque smascherato la falsità di un approccio al mistero con questo tipo di ragione, anche perché sennò moltissime cose non sarebbero indagabili dalla ragione. A tal proposito colui che ha fatto scuola è stato Gabriel Marcel con il suo “Posizioni e approcci al mistero ontologico”, nel quale dice di distinguere il problema dal mistero: - Il problema è una questione il cui soggetto conoscente è interamente di fronte ed estraneo all’oggetto che vuole conoscere e/o alla domanda che egli si pone. Ciò che aiuta a risolvere il problema è il dubbio, che è lo strumento della ragione logica. - Il problema si rivela invece inefficace quando con esso si vogliono trattare cose che non si possono trattare con esso se non con una finzione del pensiero come ad es. l’analizzare come mai l’incontro con quella persona ti ha cambiato la vita! È curioso notare come Paul Ricoeur dica che è stato proprio Nietsche a ridurre la forza del problema e quindi della logica scientifica, o meglio a smontarne l’incancrenimento e cioè il razionalismo, perché ha posto il dubbio sul fondamento del dubbio metodico, sul “cogito ergo sum” cartesiano … della serie “chi di spada ferisce, di spada perisce”. - Ci sono quindi questioni in cui il soggetto è totalmente coinvolto nella domanda che si pone: questi sono i misteri. Ma quali sono queste questioni? Tutte quelle metafisiche. Ma come affrontare i misteri, quale strumento usare? Con quella che Marcel chiama la riflessione seconda. Es.: Se con la riflessione prima io guardo il mio corpo come oggetto, con la riflessione seconda penso “io sono quel corpo”, attuando così quella che lui chiama l’incarnazione dell’io. E lo sbocco di questo modo di procedere non è la soluzione del problema, ma l’invocazione di una soluzione. Proprio per questo, questo modo di agire è detto ontologia dell’invocazione, perché il soggetto invocante si trova preceduto dalla questione posta. Nel caso della morte Marcel dice innanzitutto che il vero problema della morte non è la mia morte, ma quella dell’altro (smontando così anche il dogma razionalista per cui “se una cosa io non la provo non ne posso parlare”) e poi essa dice che è strettamente legata alla speranza, perché essa inizia laddove l’uomo non riesce più a fare nulla se non ad invocare l’aiuto di Qualcun Altro. Questo modo di approcciarsi al mistero aiuta anche la teologia infatti: - Aiuta a far risaltare alcuni aspetti del mistero teologico, perché si ricollega al disegno di Dio circa l’umanità sia nel caso dello scopo finale, sia nel caso dei mezzi. - Mette in risalto come il mistero sia inafferrabile per l’uomo perché è qualitativamente diverso dagli oggetti delle scienze umane, ma nel contempo lo riguarda, perché lo tocca nel profondo visto che la Rivelazione ha anche la pretesa di svelare e rivelare noi a noi stessi. Nel caso della Rivelazione quindi non la “capirò” mai, ma la “conoscerò” sempre meglio; non la possederò mai, ma nascerò-con essa continuativamente. - Aiuta a comprendere che il mistero, e quindi anche Dio, per raggiungerci deve diventare afferrabile ai nostri sensi, deve cioè diventare parola e segno efficace. Il mistero cristiano Esso può essere riassumibile nel disegno di Dio di salvare tutta l’umanità che si è rivelato ed ha cominciato ad agire nella storia e che si può riassumere nella persona di Gesù: il mistero della storia è quindi il mistero di Gesù Cristo. E la possibilità di penetrazione di questo mistero è legata al fatto che l’oggetto ed il soggetto della conoscenza sono entrambe vivi! Ora questo disegno nascosto nel cuore di Dio, realizzato ed insieme manifestato in Gesù Cristo, è di ricapitolare quindi tutta l’umanità, ed attraverso essa tutto il creato, in Gesù Cristo, di “cristificare” cioè tutta la creazione visibile ed invisibile, proprio perché Lui non è UN mistero, ma è IL mistero per eccellenza, parola epifanica di Dio, manifestazione del suo mistero di salvezza. Chi ha sviluppato bene questo concetto che segnerà profondamente la teologia è San Paolo (Col 2,2; Ef 3,4), che però mentre esplicita il mistero di Cristo parla anche sempre della Chiesa suo Corpo che sin d’ora è sotto il suo capo. Proprio questa continua connessione tra Cristo e la Chiesa ci fa capire che essa è mistero per derivazione, perché tutta orientata a Cristo e legata a Lui, è mistero relativo a Lui che è il mistero assoluto. Poiché dall’eternità Dio pensa Cristo pensa la Chiesa, come umanità raccolta da Cristo ed in Cristo. Paolo VI ha a più riprese detto ciò, come ad es. il 23 novembre 1966 nella sua allocuzione al Concilio dove disse che «per capire bene la Chiesa, bisogna rapportarla tutta a Cristo», come anche durante l’apertura della seconda sessione del Concilio quando disse che «in questa assemblea non deve brillare nessuna luce che non sia il Cristo». Alla luce di questo fatto si capisce come la creazione sia secondaria all’incarnazione, la creazione è pensata per rendere possibile l’incarnazione e solo se è ben chiaro questo allora anche lo schema cronologico creazione – peccato – incarnazione può essere letto correttamente. È infatti l’amore di Dio la condizione di possibilità dell’uomo e della sua condizione di peccato, infatti solo perché il Figlio è l’eterno “Sì” detto al Padre il peccato è permesso, perché sulla croce questo “Sì” sia la manifestazione dell’Amore che c’è in Dio: il “Sì” sulla croce è possibile perché il Figlio è da sempre “Sì” e lui che muore come un peccatore, non muore da peccatore! Rapporto mistero-sacramento Il concetto appena visto di mistero è una realtà strettamente connessa a quella che la tradizione cristiana ha chiamato sacramento. Vediamo l’evoluzione del rapporto tra questi due termini: Già nel II secolo il latino sacramentum traduceva il greco mysterion, il disegno salvifico di Dio attualizzato in Cristo. Ben presto però il termine mistero è usato anche per designare i diversi momenti della vita di Gesù: incarnazione, passione, morte, risurrezione ecc. dando così origine a “I misteri”, che erano tali proprio perché riferiti alla vita di Gesù, IL mistero. Parallelamente con il termine “I misteri” si iniziano a chiamare anche gli eventi dell’Antico Testamento perché venivano letti in una modalità cristocentrica, ecco allora: il mistero dell’uscita del popolo di Israele dall’Egitto, il mistero del Mar Rosso, il mistero del sacrificio di Isacco, il mistero dell’agnello pasquale ecc. Un evento storico viene cioè letto come mistero perché anticipazione di ciò che si realizza in Gesù Cristo, IL mistero. Così P. Smulders9 può affermare che: «Verso l’anno 200 nell’ambito cristiano mysterion indica: 1) il decreto eterno di Dio, che si è attuato e manifestato evento efficace e salvifico nella Persona e nella vita di Gesù; 2) la Persona di Gesù, che come evento di salvezza concretizza una rivelazione ed una realizzazione della grazia eterna di Dio salvatore, in questo mondo e nel nostro tempo; 3) le figure o profezie, nelle quali il mistero di Gesù operava anticipatamente in una rivelazione transitoria e indistinta». In qualsiasi senso esso sia usato nel termine mistero si trova comunque la tensione unitaria tra la realtà e l’azione divina da una parte e un evento e un segno terrestre dall’altra. Il mistero è insomma impropriamente un “segno pieno di realtà” perché in esso si manifesta l’azione di Dio sull’umanità e si realizza il suo decreto. In latino con il termine mysterium si iniziano designare il Battesimo e l’Eucarestia. Nell’articolo “La Chiesa sacramento della salvezza” contenuto nel testo “La Chiesa del Vaticano II. Studi e commenti intorno alla Costituzione dommatica Lumen Gentium” di G. Barauna, Vallecchi editore. 9 Così nel IV-V secolo sacramentum e mysterium erano ancora essenzialmente sinonimi e venivano ad indicare un complesso di realtà che va dal grande disegno di Dio, alla persona di Gesù, ai tipi dell’Antico Testamento, ai sacramenti. Essi intendono quindi il piano salvifico di Dio che si fa presente a noi e per noi e in quanto l’uomo si incontra con esso vi si dona e da Lui si lascia prendere e questa salvezza si attualizza anche nell’oggi e nello spazio del cristiano. Il distacco tra questi due termini avviene solo nel primo medioevo dove: o sacramentum viene definito come “segno visibile efficace della grazia” e diventa la designazione tecnica per i sette sacramenti; o mysterium assume invece un carattere più dottrinale. Dopo secoli di uso esclusivo e settoriale dei due termini risultava difficile ritrovare la stretta connessione tra i due e la capacità di “sacramento” di esprimere la realtà della Chiesa. Il movimento biblico e patristico portando a contatto con le fonti del cristianesimo fa sì che ad inizio ‘900 si torni ad applicare la categoria di sacramentalità anche alla Chiesa in forza di una sua visione come mistero derivato e strettamente unito a Cristo che a sua volta è il grande sacramento del Padre. Ciò avviene da principio in Francia con Congar e De Lubac (in “Meditazioni sulla Chiesa”), ma fu nell’ambito tedesco che prese piede questa prospettiva, nuova e allo stesso tempo tradizionale, grazie soprattutto a Otto Semmelroth (cf Mysterium Salutis VII), Karl Rahner e E. Schillebeeckx. Cristo è sacramento dell’incontro dell’uomo con Dio e così è il Cristo celeste, il Cristo la cui umanità è glorificata, l’Ur-Sakrament, cioè il sacramento originario, fontale, primordiale La Chiesa è sacramento perché a Lui strettamente collegata, è il corpo attraverso cui ed in cui il Cristo celeste continua ad essere presente ed attivo I sacramenti sono a loro volta un atto di salvezza personale del Cristo celeste stesso, nella forma di manifestazioni visibili, di atti funzionali della Chiesa. D’altronde anche usando la definizione classica di sacramento si vede che esso è una realtà empirica (segno), efficace, operante (della grazia) è cioè un segno che realizza qui ed ora una realtà trascendentale, realizza ciò che significa. Sintetizzando il sacramento in forza del quale tutti gli altri esistono è proprio Gesù la cui umanità e realizza e significa la sua divinità; conseguentemente viene la Chiesa, nella quale si realizza una realtà trascendente, il Cristo celeste; i sacramenti sono gli atti con cui questa realtà trascendente, il Cristo celeste, raggiunge l’umanità nella sua concretezza. Quindi se non c’è Cristo non c’è Chiesa e se non c’è Chiesa, non ci sono sacramenti e chiedersi come mai gli apostoli non siano stati battezzati vuol dire valutare i sacramenti in maniera individua, non in prospettiva teologica. I sacramenti sono quindi importanti, ma ci sono perché c’è la Chiesa che non è solo strumento, non è solo un canale, ma sacramento! Ridurre la Chiesa a strumento, sarebbe un ridurre l’umanità di Gesù a mero strumento della divinità. Detto ciò questa visione ha però un punto debole perché non tiene conto che se è vero che i sacramenti sono fatti dalla Chiesa, essi fanno anche la Chiesa tanto che è il Battesimo che costituisce la Chiesa, incorpora ad essa e l’Eucarestia è per noi, perché siamo sempre più, grazie ad essa, corpo di Cristo. Se è cioè importante dire che la Chiesa è sacramento da cui promanano i sacramenti (Chiesa convocante), bisogna anche dire che è essa stessa che proviene dai sacramenti, quasi a ricordarle che non è sacramento da sé, ma lo è solo perché lo diventa vivendo dei sacramenti (Chiesa convocata). Si arrivò così al Concilio, ma poiché il concetto di “sacramento” tra i padri conciliari era ancora solo quello legato al settenario, dovevano spiegarsi bene per far capire da un lato che la Chiesa non è un ente indipendente e capace di portare la salvezza da sé e dall’altro lato che la Chiesa non è l’ottavo sacramento. Con queste precisazioni il concetto di sacramento per descrivere la Chiesa fu importante e centrale nei testi conciliari, tanto che proprio la costituzione sulla Chiesa esordisce dicendo: «Cristo è la luce delle genti: questo santo Concilio, adunato nello Spirito Santo, desidera dunque ardentemente, annunciando il Vangelo ad ogni creatura (cfr. Mc 16,15), illuminare tutti gli uomini con la luce del Cristo che risplende sul volto della Chiesa. E siccome la Chiesa è, in Cristo, in qualche modo il sacramento, ossia il segno e lo strumento dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano, continuando il tema dei precedenti Concili, intende con maggiore chiarezza illustrare ai suoi fedeli e al mondo intero la propria natura e la propria missione universale.» (LG 1) da cui si evince che: o Il concetto di sacramento serve per esprimere la natura e la missione della Chiesa. o La Chiesa è insieme unita e distinta da Cristo che è la luce delle genti e quindi la Chiesa se rimane in relazione con Cristo, nello Spirito, al Padre è un segno significativo e riflette la luce di Cristo10. o L’inserimento di “in qualche modo” (veluti) è per non condurre a pensare alla Chiesa come un ottavo sacramento, per essere fedeli a Trento e poi la Chiesa (come ben fa notare Sartori) è “sacramento ” in analogia e non in identità con il settenario. o Oltre ad una migliore comprensione della Chiesa, il vederla come quasi sacramento aiuta a far uscire i 7 sacramenti dalle loro secche, dalla loro quasi autonomia rispetto a Cristo, perché come dice Gerard Philips: «una valida teologia dei sette sacramenti presuppone sempre la sacramentalità della Chiesa», perciò la sacramentalità della Chiesa non solo non stravolge il settenario Tridentino, ma in qualche modo le dà un fondamento, un terreno in cui germogliare e crescere11. o Si precisa che il sacramento è “segno e strumento” per evitare svilimenti o esagerazioni nell’uso del termine. Il sacramento infatti è “già e non ancora”, attualizza una presenza in maniera incoativa presenza che però non è un di meno, ma semplicemente ciò che alla fine si possederà nella gloria posseduto da viandanti.: il sacramento rimanda a qualcosa che va al di là di sé, ma allo stesso tempo esprime già la realtà di cui è segno, la porta con sé, la produce. Solo se la Chiesa è segno e strumento è un segno efficace, che permette di riattualizzare realmente il mistero svelato in Cristo12. Essa non è la salvezza di Cristo, ma non è solo un rimando ad essa: essa è la salvezza di Cristo in modo incoativo, alla maniera del sacramento, alla maniera dell’umanità di Gesù, anche se quest’ultima non era segnata dal peccato! o Va anche detto che “segno e strumento” è la definizione scolastica, ma “sacramento” è anche di più: è opera visibile ed insieme invisibile della Spirito, riattualizzazione dell’evento salvifico di Cristo, modo con cui Dio continua ad agire attualmente nella storia e che allo stesso tempo è attesa dell’avvento glorioso di Cristo. Ecco allo che dopo il Concilio si è insistito su come la Chiesa non è in un rapporto di sola significatività con la res perché come dice Congar in “Un popolo messianico”: «il Cristo è molto più che un segno anche se efficace della grazia, perché egli ne è l’epifania, la manifestazione e l’attualizzazione … Egli è segno perché è ciò che significa e così è la Chiesa … che vive già della realtà di cui è segno e al cui servizio è … la Chiesa non è sacramento di salvezza di per sé stessa, ma in unione a Cristo», in dipendenza da Lui che è il fondamento e la sorgente viva e presente della Chiesa, il cui fine è quindi è al di là di sé. È in fondo il mysterium lunae visto da un’altra angolatura! De Lubac invece in “Meditazioni sulla Chiesa” parlando del sacramento dice che esso sta all’incrocio di due mondi, perché è segno di una realtà altra, ma non è un segno provvisorio, bensì in rapporto essenziale con la 10 Questa concezione è eco della costituzione lunare della Chiesa tanto cara ai Padri e soprattutto a Didimo il cieco che oltre a dire che sganciata dal sole essa non avrebbe illuminato diceva anche come siano normali le fasi di oscuramento e addirittura le eclissi, segno di come il peccato incida ancora in essa. 11 La stessa espressione “Corpo di Cristo” riferita alla Chiesa, se si intende corpo nel suo senso biblico chiarisce bene in che senso la Chiesa è sacramento, perché il corpo è la persona vista nella sua manifestazione attiva, è la realtà grazie alla quale una persona esprime il proprio intelletto e la propria volontà e si rende concretamente attiva. 12 C’è quindi bisogno della Chiesa nel rapporto con Dio perché il Cristo Celeste non può raggiungere gli uomini se non in maniera ecclesiale, ma questo deve ancora entrare anche nella mentalità ecclesiale perché dei sacramenti si è dato per secoli una spiegazione individualizzata senza specificarne la dimensione ecclesiale, che con essi cioè si ottiene sempre un nuovo modo di appartenere alla Chiesa: essere Chiesa oggi vuol dire portare anche il peso di errori del passato. realtà presente e significata e quindi un sacramento, e in questo caso Cristo e la Chiesa, non può mai essere respinto come privo di senso o by-passato perché è l’unico modo di accedere alla realtà dello “altro mondo”. Il sacramento poi è anche all’incrocio del tempo, tra passato, presente e futuro perché presente nel qui ed ora come riattualizzazione dell’evento fondatore e per questo pegno e caparra di ciò che si compierà pienamente nell’escaton, perché il pegno è della stessa sostanza di ciò che sarà alla fine, ma che se allora mi raggiungerà al modo della gloria ora mi raggiunge al modo del pegno e della caparra. Così è la Chiesa che non è solo la botte in cui c’è il vino nuovo, ma è già essa stessa, incoativamente ed in maniera segnata dal peccato, quel vino nuovo! La Chiesa sacramento di Salvezza, di Comunione, del Regno Perciò la Chiesa in Cristo è quasi un sacramento, ma di che cosa? Di quale res è quasi segno e strumento, segno efficace? Quale res è già presente in lei in maniera incoativa e segnata dal peccato? Una prima risposta ci viene dal LG 48b e GS 45 dove si parla di Chiesa come sacramento universale di salvezza, perciò la res della Chiesa-sacramento è la salvezza a cui sono destinati tutti gli uomini. Il tema della salvezza sappiamo che non è accessorio nel Cristianesimo, tanto che Rossano nel Nuovo Dizionario di Teologia diceva che il Cristianesimo è annuncio e realizzazione della salvezza, che è per altro ciò per cui è venuto Gesù (Lc 2,11; Gv 3,17), e tutto il messaggio apostolico è sintetizzato nell’annuncio del “vangelo della salvezza” (Ef 1,13). Ma cosa si intende nel cristianesimo con il termine salvezza? Non si intende un fatto individualista che tocca solo il singolo, perché come dice un francese: «La mia gioia durerà solo se sarà la gioia di tutti». Non si intende una salvezza solo dell’anima a cui sottende quindi una visione dualista che porta poi a livello pastorale a cortocircuiti per cui si dice che la Chiesa deve pensare solo al bene soprannaturale dell’uomo, mentre la società a quello naturale. Da qui si vede come ad una visione di salvezza è legato un modo pratico di intendere la Chiesa. Non si intende qualcosa di solamente ultraterreno perché escaton non coincide con futuro! Essa è quindi qualcosa che tiene conto di tutte le realtà umane: è personale e comunitaria, temporale e spirituale, storica e trascendente ecc. E può essere vista : o Dal punto di vista dell’uomo e degli effetti che “provoca” su di lui e quindi come liberazione dal male, dal peccato, dalla schiavitù della carne e della legge (visione tipica dell’Occidente cristiano). o Dal punto di vista di Dio, come divinizzazione dell’uomo, come trasfigurazione di tutto l’uomo e di tutta la creazione (visione tipica dell’Oriente cristiano). Il NT per parlare di salvezza usa una pluralità di termini tra i quali, per il Fietta, ne spiccano 3: Soteria, espressa con i termini di liberazione, adozione, rinascita dall’alto, vita eterna, riconciliazione santità e agape (cf Rm 8). Eleuteria e cioè libertà, che dà la connotazione storica della salvezza, di passaggio da una situazione di schiavitù e di indigenza ad una nuova situazione. Koinonia, che non indica solo il carattere comunitario della salvezza, ma dice che la salvezza ha a che fare innanzitutto con la comunione di vita con Dio, con la partecipazione alla vita di Dio, con l’inserimento nella vita trinitaria che è la fonte della comunione interpersonale degli uomini tra di loro. In questi ultimi anni si è fatto avanti il concetto di “salvezza integrale”, ma soprattutto il termine “comunione” è stato fortemente sottolineato per spiegare la realtà della salvezza, tanto che: - Smulders sintetizza la salvezza nella duplice dimensione della comunione e quindi si può anche dire che la comunione è la res della Chiesa come sacramento. - Tillard dice che l’opera della salvezza di Cristo è consistita primariamente nella riconciliazione degli uomini con Dio e quindi tra gli uomini e la filiazione adottiva, frutto di questa riconciliazione, non è realtà individuale, ma coinvolge sempre la comunità, perché se l’essere figli costituisce la faccia divina della comunione, l’essere fratelli ne costituisce la faccia umana. La Chiesa quindi non è solo figli nel figlio o fraternità, ma comunione. L’umanità si può quindi vedere come ad una ruota dove gli uomini sono i raggi e più si è vicini al centro, al mozzo (Dio), più i raggi sono vicini tra di loro: più si è figli di Dio, più si è fratelli. La Chiesa sacramento di salvezza è sacramento quindi di questa comunione, è il luogo in cui si è salvati, si è cioè conformati a Cristo che è il Figlio di Dio fattosi primogenito di molti fratelli e questo evento comunionale avviene anche in forma comunionale, ecclesiale. Ciò che si è detto di ‘sta salvezza coincide anche con la realtà del Regno, centro della missione di Cristo e realtà di cui la Chiesa è germe ed inizio (cf LG 5), ma in fondo germe ed inizio è un modo più plastico per definire il sacramento e quindi si può tranquillamente dire che la Chiesa è sacramento del Regno. Dupuis, il cui “Introduzione alla cristologia” rimane una gemma, dice che il Regno da invocare è il dominio di Dio tra gli uomini che comporta un nuovo ordinamento delle relazioni umane e della società fondata sui valori consoni alla signoria di Dio che sono: libertà, fratellanza, pace e giustizia. A ben guardare Gesù denuncia tutto ciò che viola tutti questi valori e quindi non è un conformista, ma un sovversivo a favore della forza di Dio. Sia la categoria del Regno che quella della Salvezza sono comunque incentrate su Gesù Cristo che è segno e strumento di salvezza e inizio e germe del Regno e la Chiesa può essere tale se vista nel rapporto con Cristo, in unità e distinzione. Perciò Chiesa e Regno vanno identificate e distinte sia sul piano della storia che in ordine al compimento finale. E volendo sintetizzare è proprio la comunione che può esprimere tanto la salvezza quanto il Regno, tanto che Giovanni Paolo II disse che: «Il Regno di Dio è la comunione di tutti gli esseri umani tra di loro e con Dio». Posizione questa avvallata dal fatto che da più parti si è ormai detto che la categoria di comunione è centrale nella recezione della teologia del Concilio Vaticano II. “Formula ecclesiologica breve” di Medard Kehl Sintetizzando tutto ciò che abbiamo detto e cercando di sistematizzarlo Medard Kehl propone una “formula breve” che cerca di rendere ragione tanto alla tradizione ecclesiale come alle nuove prospettive ecclesiologiche: La Chiesa Cattolica si comprende come «sacramento della “communio” di Dio»; in quanto tale essa forma la comunione dei credenti unita dallo Spirito Santo, resa conforme al Figlio, Gesù Cristo, e chiamata con l’intera creazione al regno di Dio Padre, strutturata in modo sinodale e, insieme, «gerarchico». Commentando la “formula breve”: La Chiesa è sacramento della Communio di Dio, la Dimora di Dio, luogo in cui egli è all’opera e a cui rimanda, e in quanto tale è luogo della comunione dei credenti. Nella Chiesa si virilizza quindi ciò che Dio sta facendo nel mondo e questo grazie comunque alla mediazione della Chiesa che continua, “in una non debole analogia”, la mediazione cristologica: lo scandalo dell’universale particolare del cristianesimo continua! Non è quindi indifferente, per l’autocomprensione della Chiesa, l’immagine di Dio che essa ha, immagine che essa non può non ricavare se non dalla Trinità così come è stata rivelata da Gesù Cristo, ecco quindi lo stretto legame tra ecclesiologia, trinitaria e cristologia. Importantissimo è rispolverare a questo punto quello che Rahner chiamava lo “assioma fondamentale”: «La Trinità economica è la Trinità immanente e la Trinità immanente è la Trinità economica», perché Dio qual è in sé stesso noi lo conosciamo solo a partire dalla sua rivelazione quale si è manifestata nel salvarci. Possiamo perciò conoscere Dio solo a partire dalle missioni del Figlio e dello Spirito che ci mostrano come Dio è il Padre di Gesù e con Lui è il con-datore dello Spirito Santo e con loro opera ed agisce nella più profonda unità e proprio per questo lo conosciamo mentre ci salva e a partire da quest’opera di salvezza. Molti contestano la seconda parte dell’assioma, ma va mantenuta ed intesa bene perché non c’è un Dio diverso da quello che ci salva (anche se non si risolve certamente nella storia) e l’amore di Dio nell’economia salvifica non può che essere l’amore di Dio in sé stesso. La posizione di Rahner è quindi anti-teista, anti-deista e lui pone l’accento sul fatto che solo perché abbiamo sperimentato Dio nell’atto di salvarci possiamo dire che Egli è Uni-Trino, che Egli è Amore (1 Gv 4,8) perché Tre e Uno. In Dio quindi le ipostasi e le relazioni vanno di pari passo, non ci sono prima le une e poi le altre come nelle creature dove le due non coincidono, in Dio le ipostasi sono nella misura dell’essere con l’altro tanto che sono “relazioni sussistenti”: il Padre infatti è da sempre Colui che genera il Figlio, il Figlio è colui che da sempre è generato, “filiato”, lo Spirito è spirato dal Padre e dal Figlio. Unità e Trinità non sono quindi contrapposte o susseguenti, unità e distinzione sono due momenti simultanei e non solo in senso cronologico, ma soprattutto ontologico! Ciò permette di superare quella visione di Chiesa, preponderante dell’ultimo millennio, legata ad un cristocentrismo chiuso in sé stesso, Cristomonismo, e che partiva in fondo da una visione astratta di unità: un solo Dio, un solo Signore Gesù Cristo, un solo papa, una sola Chiesa. In quest’ottica l’ecclesiologia serviva solo a dimostrare che Gesù aveva istituito e fondato la Chiesa, l’aveva fondata sul papa ecc.: rapporto questo tra Chiesa e Gesù che era quindi solo di tipo estrinseco. Il Concilio Vaticano II ha rimesso la Chiesa e Cristo in una relazione più intima ed intrinseca, mettendo così la Chiesa in relazione anche con il Padre e con lo Spirito Santo, perché un sano cristocentrismo conduce di per sé alla Trinità13. Esemplari a tal proposito LG 4 che vede la Chiesa come: «un popolo che deriva la sua unità dall'unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» e UR 2 per il quale: «Questo è il sacro mistero dell'unità della Chiesa, in Cristo e per mezzo di Cristo, mentre lo Spirito Santo opera la varietà dei ministeri. Il supremo modello e principio di questo mistero è l'unità nella Trinità delle Persone di un solo Dio Padre e Figlio nello Spirito Santo». Affermazione quest’ultima che non va letta nel senso di vedere l’unità della Chiesa come copia in terra dell’Unità della Trinità, ma come realizzazione sacramentale di questo mistero di comunione e perché unità e distinzione in essa vanno lette contemporaneamente. Il rapporto unità-distinzione non va cioè pensato neo-plotinianamente, ma trinitariamente ponendo le distinzioni sullo stesso piano dell’unità, perciò mantenere la comunione non vuol dire essere tutti d’accordo su tutto, ma solo sulle cose di fede! Facciamo attenzione perciò a non usare le categorie nuove per legittimare prassi vecchie, a non mettere il vino nuovo in otri vecchie. Quindi la Chiesa essendo sacramento di questa comunione è allo stesso tempo sacramento di ogni singola ipostasi divina ed il guardare la Chiesa nella sua relazione con il Padre, con il Figlio e con lo Spirito Santo è guardare lo stesso oggetto da angolature diverse! Vediamole14: Siccome la Chiesa è solo là dove c’è lo Spirito Santo, per capire meglio in che senso la Chiesa sia comunione possiamo partire dalle caratteristiche dello Spirito santo stesso: o Lo Spirito è Colui che ci permette di riconoscere e di confessare Gesù come il Cristo e quindi solo nella Chiesa è possibile confessare Gesù come il Cristo, è Lei che rende possibile la fede dei singoli perché è il solo spazio in cui si può ricevere la fede e svilupparla. E notare che la Chiesa è comunque abitata dallo Spirito e ne è segno, anche se gli uomini non lasciano trasparire bene questo mistero che li abita! o Lo Spirito all’interno della Trinità è: il Dono per eccellenza che “rende possibile l’autodonazione di Dio”; il risultato dell’autodonazione tra il Padre ed il Figlio (procede dal Padre e dal Figlio) e quindi come la forma del “noi”; unione che non genera confusione, ma anzi distinzione. Perciò lo Spirito è autonomo, ma ha la stoffa del “noi” e crea autonomia ed è ovvio che anche le relazioni tra credenti vadano comprese come relazioni che uniscono e differenziano e personalità ed unità non sono antitetiche, perché più mi immetto nell’unità della Chiesa, più la mia distinzione va ed è salvaguardata e viceversa. o È dono di Gesù morto e risorto e siccome è legato al sangue e all’acqua è strettamente legato al Battesimo e all’Eucaristia che fanno dei credenti raccolti sempre più l’unico corpo di Cristo. 13 Mi fa sempre pensare come se ciò è vero a livello teologico lo è meno a livello pratico, perché una volta il senso dei carismi nel popolo c’era, mentre ora molto meno! 14 Molto sommariamente si può dire che se si parla di Chiesa come sacramento: - della Comunione, si manifesta maggiormente la relazione con lo Spirito Santo; - della Salvezza, si manifesta maggiormente la relazione con il Figlio; - del Regno, si manifesta maggiormente la relazione con il Padre. Proprio questo ultimo punto ci introduce al rapporto tra la Chiesa e Gesù: o Essa è l’evento del rendersi costantemente presente, sacramentalmente, di Gesù e della sua salvezza definitiva per l’umanità. Così nelle azioni fondamentali della vita della Chiesa opera l’intero contenuto della salvezza che Dio ci ha donato in Gesù Cristo, nella forza dello Spirito Santo, anche se esse sono distinte dalla salvezza che contengono in modo limitato e assai spesso deformato dal peccato: in quanto “sacramento”, la Chiesa rende presente l’amore salvifico di Dio in Gesù Cristo totum, sed non totaliter; essa cioè comunica il contenuto (opera dello Spirito) dell’amore di Dio nella sua pienezza, ma a causa della sua forma ciò si realizza solo in modo imperfetto. o Essa deve essere sempre conformata a Gesù come dice LG 7 e siccome ciò che lo caratterizza è l’essere Figlio, l’Incarnazione mostra cosa ciò vuol dire perché Egli nasce povero e vive povero. Proprio in questa povertà egli esprime il suo essere eternamente Figlio, perché essere povero significa riceversi costantemente da altri e nel suo caso dal Padre. La povertà spiegava e mostrava quindi bene la sua figliolanza divina e la Chiesa deve quindi configurarsi a Cristo povero, perché essa lo è già a livello ontologico e quindi è chiamata a ciò, perciò come dice LG 8: «Come Cristo ha compiuto la redenzione attraverso la povertà e le persecuzioni, così pure la Chiesa e chiamata a prendere la stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza. Gesù Cristo «che era di condizione divina... spogliò se stesso, prendendo la condizione di schiavo» (Fil 2,6-7) e per noi «da ricco che era si fece povero» (2 Cor 8,9): così anche la Chiesa, quantunque per compiere la sua missione abbia bisogno di mezzi umani, non è costituita per cercare la gloria terrena, bensì per diffondere, anche col suo esempio, l'umiltà e l'abnegazione. Come Cristo è stato inviato dal Padre «ad annunciare la buona novella ai poveri, a guarire quei che hanno il cuore contrito» (Lc 4,18), «a cercare e salvare ciò che era perduto» (Lc 19,10), così pure la Chiesa circonda d'affettuosa cura quanti sono afflitti dalla umana debolezza, anzi riconosce nei poveri e nei sofferenti l'immagine del suo fondatore, povero e sofferente, si fa premura di sollevarne la indigenza e in loro cerca di servire il Cristo. Ma mentre Cristo, « santo, innocente, immacolato » (Eb 7,26), non conobbe il peccato (cfr. 2 Cor 5,21) e venne solo allo scopo di espiare i peccati del popolo (cfr. Eb 2,17), la Chiesa, che comprende nel suo seno peccatori ed è perciò santa e insieme sempre bisognosa di purificazione, avanza continuamente per il cammino della penitenza e del rinnovamento.» Nel rapporto con il Padre, la Chiesa è chiamata con tutta la creazione al suo Regno, perciò la Chiesa: anticipa e realizza sacramentalmente il Regno, ma non lo esaurisce; è in relazione con il mondo e ne fa parte, ma non si risolve in esso. LA CHIESA NELLA SACRA SCRITTURA Vediamo ora se questa auto-comprensione della Chiesa è rintracciabile nelle Scritture, partendo dall’AT visto come profezia del NT, Cristo infatti è l’ultimo e il definitivo anche perché è il primo e già nell’AT si può intravedere Cristo unito alla sua Sposa. Come ricorda infatti NA: «Scrutando il mistero della Chiesa, il sacro Concilio ricorda il vincolo con cui il popolo del Nuovo Testamento è spiritualmente legato con la stirpe di Abramo. La Chiesa di Cristo infatti riconosce che gli inizi della sua fede e della sua elezione si trovano già, secondo il mistero divino della salvezza, nei patriarchi, in Mosè e nei profeti» (n° 4)e anche in LG: «In ogni tempo e in ogni nazione è accetto a Dio chiunque lo teme e opera la giustizia (cfr. At 10,35). Tuttavia Dio volle santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame tra loro, ma volle costituire di loro un popolo, che lo riconoscesse secondo la verità e lo servisse nella santità. Scelse quindi per sé il popolo israelita, stabilì con lui un'alleanza e lo formò lentamente, manifestando nella sua storia se stesso e i suoi disegni e santificandolo per sé. Tutto questo però avvenne in preparazione e figura di quella nuova e perfetta alleanza da farsi in Cristo, e di quella più piena rivelazione che doveva essere attuata per mezzo del Verbo stesso di Dio fattosi uomo » (n° 9) NELL’ANTICO TESTAMENTO Dio vuole la salvezza di tutti La Bibbia non inizia con l’elezione d’Israele, ma con la creazione; non con Abramo, ma con Adamo e questa che sembra una semplice banalità ha invece un gran peso teologico se confrontata soprattutto con la fine della Bibbia cristiana, con l’Apocalisse (Ap 21,1-22,5): In Gn c’è la creazione del mondo dal caos; in Ap c’è la nuova creazione, dove ognuno raggiunge il suo compimento in seguito all’esperienza del peccato. In Gn vengono creati il cielo e la terra, in Ap cieli e terra nuova. In Gn all’oceano (simbolo del caos) vengono posti dei confini; in Ap non c’è più il mare! In Gn per causa dell’uomo il suolo viene maledetto; in Ap non c’è più morte, lutto, dolore. In Gn con Babele il tentativo dell’uomo di voler raggiungere Dio con una torre polverizza l’umanità unita: “ibi peccata, ibi moltitudo”; in Ap la città che discende dal cielo non solo non disperde gli uomini, ma li convoca. Se in Gn 3,8-10 gli unici passi che si sentono sono quelli di Dio, ora gli eletti portano il suo nome sulla fronte e contemplano il suo volto Guardando poi alla città dell’Apocalisse come viene descritta bisogna notare che: La città dell’Apocalisse ha sullo sfondo i testi profetici sulla ricostruzione finale di Gerusalemme e poi nella cultura ellenistica la polis era il più alto grado di unione degli uomini! Per l’autore dell’Apocalisse quindi il progetto della creazione non è solo un giardino, ma una nuova società: la nuova creazione è così compimento della prima ed è scaturita dal controprogetto avviato dopo il peccato. La città è a base quadrata, tipico delle città ellenistiche, con un lato di 12.000 stadi che più o meno sono 2.400 Km, perciò l’area della città coincideva grosso modo con le dimensioni del mondo mediterraneo dell’epoca, come se il mondo dell’epoca fosse oramai una sola grande città. Siccome poi è alta altrettanto, sta a significare non solo la totalità “orizzontale”, ma anche “verticale”: in essa il mondo umano e divino si incontrano. È costruita con materiali preziosi a riprova che essa è costruita con il materiale migliore del mondo umano, perché tutto ciò che è bello viene assunto, attirato a sé da questa città. Le sue porte sono in diaspro, materiale prezioso e trasparente, come a dire che il male resta fuori, ma il mondo “purificato” è tutto dentro. Sul modello di Is 60 ad essa convergono tutti i popoli. Se nella città di Ez 40 il tempio aveva un posto particolare, qui non ce ne è più bisogno. In conclusione: La nuova creazione porta a compimento la prima. La nuova creazione è una società in cui confluiscono tutti i popoli. Dio non si interessa solo dell’anima individuale, ma anche della società, della storia, dell’umano in sé. La Bibbia inizia con la creazione dell’umanità intera e finisce con l’umanità intera radunata al modo della città. Dio salva il mondo attraverso un luogo concreto: Israele. Come Dio realizza però questo progetto? Il progetto di una riconciliazione universale ha caratterizzato tutti i grandi progetti rivoluzionari della storia che altro non sono stati se non secolarizzazioni del grande ideale ebraico-cristiano. Il problema è che essi volevano realizzarli con le sole forze umane e proprio per ciò hanno calpestato la libertà dei singoli. Il progetto – controprogetto di Dio invece è il vero progetto di riconciliazione universale che attua in pieno anche i tre valori di uguaglianza, libertà e fratellanza, ma incominciando dal piccolo, perché Dio cerca l’alleanza delle persone, di alcune libertà, di partner autentici. Da Gn 12 la storia che riguardava Adam si concentra su Abram, il controprogetto comincia a realizzarsi dal nucleo familiare di Abramo a cui è chiesto di lasciare patria, stirpe e famiglia. Ciò mostra come il nuovo modello societario dovesse rompere con quello di società esistente. Già ad Abramo viene detto che diventerà una grande nazione e chi lo benedirà sarà benedetto, chi lo maledirà sarà maledetto a mostrare come questo progetto nascente sia tanto importante che Dio si identifica con esso tanto che il come qualcuno tratta questo progetto è determinante per come Dio tratterà quel qualcuno. Il luogo concreto dove quindi Dio inizia il suo controprogetto è Israele, ma come mai proprio Israele? La risposta in ultima analisi è l’amore, ma Lothing mostra anche una costellazione di motivi: - Luogo giusto. Israele è situato in un luogo di passaggio di diverse civiltà e come tale sprigionante molte energie creative. In esso poi confluivano e si confrontavano le più grandi religioni dell’epoca e come tale era il luogo propizio per dire che JHWH è l’unico Dio. - Tempo giusto. Mentre le altre civiltà cominciano a decadere Dio cerca di realizzare una società diversa che funzioni diversamente. - Uomini giusti. Chiama uomini che possano dire sì al suo progetto. L’amore che elegge non è infatti privo di ragioni. La raccolta del popolo di Israele Dalla Bibbia Israele è visto come un popolo formato su legami di sangue (Abramo Isacco Giacobbe I 12 figli Le 12 tribù) e non si capisce in che senso il concetto di raccolta si possa applicare ad Israele. Molti sono però i passi che vedono Dio raccogliere Israele (Dt 30,1-6; Is 43,35; 56,8 e Ger 31,10) e proprio in questa sua azione consiste il salvarlo. Quella dell’essere raccolti da Dio è quindi un’esigenza permanente e costitutiva del popolo di Israele e Gesù, visto come il profeta escatologico, in quest’ottica parla quando dice che chi non raccoglie con lui disperde (Mt 12,30). Come conciliare le due visioni, quella del sangue con quella della raccolta? Molto probabilmente nei territori della Palestina andavano nascendo città-stato governate da monarchi che sottomettevano gli agricoltori del circondario. Questi agricoltori uniti ai sudditi delle città devono essersi ribellati e si sono confederati in un nuovo tipo di società alla quale si sono uniti molto probabilmente Mosè con i suoi provenienti dall’Egitto e con loro ci doveva essere sintonia perché entrambi avevano vissuto un’esperienza di liberazione e si costituiscono così come unico popolo il cui unico Signore è JHWH. È chiaro che se le cose sono andate così questo “essere raccolti” ha anche radici storiche che fonderebbe per altro anche la reticenza di Israele verso ogni tipo di monarchia: Israele era infatti popolo perché Dio li aveva resi popolo liberandoli da monarchie. E la lettura cronologico-familiare della Bibbia accentuerebbe simbolicamente come il popolo di Israele è unito come unita è una famiglia. L’Esodo Dt 26,5-10 mostra chiaramente come quando l’ebreo celebra la Pasqua è lui stesso che viene liberato dal Mar Rosso! Ciò che colpisce nella liberazione di Israele è come essa sia preceduto da antefatti su cui il libro dell’Esodo si sofferma a lungo: o L’obiezione di coscienza delle levatrici ebree (Es1) o Mosè che uccide gli schiavisti, come a simboleggiare un tentativo di rivolta (Es 2,11-14) o Mosè ed Aronne che chiedono di andare nel deserto col pretesto di andare a celebrare una festa, mentre forse era un tentativo di fuga del popolo (Es 5,1-4) Tutti tentavi falliti di liberarsi dalla tirannia egizia, di liberarsi da una società opprimente che era già più o meno in crisi. Tutti tentativi che non sono però ancora la soluzione che Dio ha pensato e che è un progetto di rottura vera e propria per fondare una nuova società libera e fraterna sulla base della Torah ed è soltanto Dio che può realizzare questo popolo nuovo. La Fede e la Legge di Israele Se c’è una cosa che coagula il popolo è quindi l’iniziativa di Dio, ma l’altra faccia della medaglia è la fede che il popolo ha in Dio e nella sua forza “raccoglitiva”, tanto che ogni generazione deve appropriarsi di questa promessa e della fede in essa. In questa cornice può essere anche letto il sacrificio di Isacco (Gn 22,1-18) dove si vede Abramo rispondere obbedientemente, confermandosi così l’uomo della fede assoluta nella realizzazione della promessa di Dio tanto da consegnare il figlio Isacco e che mostra come la fede è più importante ed è il fondamento di ogni legame biologico-naturale e quindi Abramo più che la vita ad Isacco ha trasmesso la fede! Ciò avviene anche con gli altri patriarchi perchè la primogenitura di Isacco non va ad Esaù, ma a Giacobbe, a rievidenziare come non sia il sangue a costituire il popolo. Lo stesso Giacobbe lo capirà nella lotta con l’angelo. Proprio per questo Paolo nella lettera ai Romani dice: «non tutti i discendenti di Israele sono Israele, né per il fatto di essere discendenza di Abramo sono tutti suoi figli. No, ma: in Isacco ti sarà data una discendenza, cioè: non sono considerati figli di Dio i figli della carne, ma come discendenza sono considerati solo i figli della promessa.» (Rm 9,6-8) La fede però non è un fatto individualistico o interiore, perché Dio raccoglie un popolo per farne una nuova società che come tale deve avere una legge. Non stupisce quindi che questa fede debba tradursi in una legge ed è per questo che la Torah nella Bibbia è l’altra faccia della medaglia dell’Esodo, tanto che la liberazione – formazione del popolo e la legge sono due momenti di una stessa vicenda e il centro di gravità della legge è la signoria di Dio che deve determinare ogni dimensione del popolo di Israele. Gesù stesso non è contro la legge, ma contro la sua assolutezza perché la legge è teocentrica, non deve sostituirsi a Dio che è e rimane il Signore del popolo. Proprio per questo prima di dare la legge JHWH dice a Mosè: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla condizione di schiavitù» (Es 20,2) e come dice il Deuteronomio: «Eravamo schiavi del faraone in Egitto e il Signore ci fece uscire dall'Egitto con mano potente» (Dt 6,20-25). Perciò la liberazione non è fine a sé stessa, ma alla costituzione di un popolo che può essere tale solo se c’è una legge il cui nerbo è la signoria di Dio, così se le altre società tendono a farsi degli dei, Israele proclama con forza che solo JHWH è Dio e che a Lui va sottoposta ogni cosa. Il problema è però come vivere questa signoria e Gesù lo mostrerà in maniera somma sulla croce. La continua ricerca della forma sociale del popolo di Dio Questo popolo non è quindi solo una “societas in cordibus” (Lutero), ma una società visibile e che si strutturò in varie forme vediamole: - Prima del 1000 a.C. Israele era una confederazione di Tribù. - Dall’anno 1000 inizia la monarchia, forse per difendersi dai filistei, e che ha un impatto ambivalente sulla storia del popolo: da un lato non fu mai vista di buon occhio, perché rischiava di compromettere l’unica Signoria di Dio, dall’altro lato Dio promette che è dalla discendenza di Davide che uscirà il rampollo che salverà Israele. - Dopo l’esilio ecco l’organizzazione come comunità del tempio visto come fattore di coesione, così i sacerdoti, e soprattutto il sommo sacerdote, assumono un ruolo strategico. - Dopo il 70 d.C ed il crollo del tempio ecco emergere l’unione di sinagoghe, edifici di culto costruiti alle porte della città, dove ci si radunava e dove si conservavano i documenti e queste sinagoghe erano collegate l’una con l’altra. Curioso notare come quest’ultima forma prende forma i concomitanza con il sorgere della Chiesa si comprenderà e si strutturerà così. NEL NUOVO TESTAMENTO Con la venuta di Gesù abbiamo ancora a che fare con il popolo di Israele? C’è una continuità con esso? E quale continuità tra la comunità con Lui nel ministero terreno e quella dopo? Analogamente alla cristologia si può parlare di una ecclesiologia implicita ed una esplicita? Prima di addentrarci in queste domande conviene fare delle premesse: Prima che esista un discorso sulla Chiesa nel Nuovo Testamento, esiste già la Chiesa, la comunità di chi crede in Cristo ed è stato rigenerato nel Battesimo (At 8,9-17;18,8), perciò bisogna sempre tenere presente che gli scritti neotestamentari parlavano molto alle comunità ecclesiali del luogo e del momento e dicevano così qualcosa di esse. Non basta vedere solo cosa il NT dice della Chiesa, perché in tutto il NT appare e traspare la realtà della Chiesa. Si deve sempre tenere conto delle peculiarità del Nuovo Testamento che non fornisce una presentazione sistematica di ciò che propone e soprattutto della Chiesa vista la realtà ecclesiale frammentata da cui esso stesso scaturisce. La tematica della Chiesa entra negli scritti del NT gradualmente e l’importanza è diversa a seconda di quanto il tema abbia legame con le tematiche degli scritti. La Chiesa per la quale e all’interno della quale sono stati scritti e tramandati i libri del NT, ci ha tramandato in essi anche la sua autocomprensione e quindi la realtà Chiesa è presente ovunque negli scritti neotestamentari, anche laddove non è tangibile. I libri sono quindi legati da un’intima testimonianza che rendono a Gesù Cristo e alla Chiesa. Conseguenze di queste premesse sono che: La storicità della Chiesa è un aspetto importantissimo nel NT, perciò è metodologicamente errato guardare nel NT come è la Chiesa e applicarlo alla realtà, perché quella visione di Chiesa è già impregnata di storia e con essa ci deve sempre avere a che fare. La Scrittura è un corpo di membra differenti e per fare una buona ecclesiologia si deve tener conto di tutti i libri da ognuno dei quali emerge un’ecclesiologia diversa. LA CHIESA SECONDO GLI SCRITTI LUCANI Luca mette bene in evidenzia nella sua ecclesiologia: - L’importanza del tempo all’interno della Chiesa perché è il tempo in cui lei vive - Questo tempo è quello dell’azione dello Spirito Santo, che è dono intimamente connesso alle apparizioni del risorto, per cui la stessa Chiesa ha origine nelle apparizioni del Crocifisso da Israele ora Risorto. - Essa è generata dall’annuncio della parola da parte degli apostoli e degli inviati da loro. - Essa è basata su fede, culto, carisma e ministero. Questi aspetti diversi vanno letti cercando di capire la Chiesa concreta in cui Luca viveva e che aveva davanti quando scriveva la sua opera. Ciò risulta in modo evidente ancor più dal fatto che Luca inizia proprio dicendo: «ho deciso anch'io di fare ricerche accurate su ogni circostanza fin dagli inizi e di scriverne per te un resoconto ordinato» (Lc 1,3) il suo intento è cioè quello di narrare ordinatamente e criticamente gli eventi accaduti tra lo 0 ed il 50 d.C. ma si tenga conto che lui scrive più o meno intorno agli anni 80 perciò scrive degli inizi, ma di fronte a un’altra comunità. Tempo della Chiesa Elemento caratteristico della ecclesiologia lucana è la sua prospettiva storico-salvifica, tanto che per molti esegeti l’attributo che Luca ha portato è stato quello di aver messo Chiesa e Storia in una mutua relazione, dando alla Chiesa un tempo specifico per la sua missione che è quello che va dalla intronizzazione di Gesù in cielo fino al suo ritorno (cf At 1,11). L’inizio degli Atti in questo senso è molto istruttivo perché Luca lascia sotto silenzio il destino della Chiesa dopo la parusia il cui momento è lasciato all’incertezza anche perché non è quello che importa (cf At 1,7-8). Questa insistenza sul tempo è legata al fatto che Luca è proprio il teologo del ritardo della parusia che i discepoli hanno scoperto, sulla propria pelle, non essere così imminente come sembrava e così si capisce che la Chiesa, la comunità dei discepoli di Gesù, ha un suo posto all’interno dell’Historia Salutis: iniziata con la creazione, si sviluppa da Abramo fino a Giovanni il Battista; ha il suo compimento nella vicenda di Gesù, il centro di questa storia di salvezza; si sviluppa nella Chiesa. Chi agisce in tutte le tappe è il Dio Creatore che Paolo testimonia all’Areopago (At 17,22-28) e che si è rivelato per la prima volta in Israele, la cui storia è orientata a Gesù. L’accentuazione del tema della Historia Salutis permette di vedere così il rapporto tra Israele e la Chiesa, vista come novità del compimento delle promesse escatologiche, ma in continuità, all’interno dell’unico piano di salvezza, non per niente Luca sottolinea come l’evangelizzazione sia sempre rivolta in primis ai giudei (cf At 13,46). Proprio questo primo tratto permette di intravedere le dinamiche ecclesiali degli anni 80, perché nella Chiesa, sfiduciata dal ritorno del Signore, ha affievolito la sua tensione escatologica, il suo essere in attesa del ritorno del Signore e di conseguente anche il suo slancio degli inizi. Per questo nel vangelo di Luca c’è un pressante invito alla conversione (tema raro in Paolo e nei Sinottici e assente in Giovanni) soprattutto nella parte tipicamente lucana (da 9,51 in poi) e questo tema (legato a quello della misericordia) caratterizza proprio gli episodi tipici di Luca: la pesca miracolosa (Lc 5), la peccatrice innominata (Lc 7), le tre parabole della misericordia (Lc 15), il ricco epulone e Lazzaro (Lc 16), il fariseo e il pubblicano (Lc 18), Zaccheo (Lc 19). Il tema della conversione è poi al massimo nella Passione: il rinnegamento di Pietro (Lc 22,32), Gesù sulla croce tra i due ladroni (Lc 23,34-43), dopo la sua morte tutti se ne vanno via battendosi il petto (Lc 23,48). E quando Gesù appare ai due di Emmaus dice loro: «Così sta scritto: il Cristo dovrà patire e risuscitare dai morti il terzo giorno e nel suo nome saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme.» (Lc 24,46-47). Questa insistenza sul tema della conversione e del perdono, per Lakony, è perché Luca vuol fare alla sua Chiesa una catechesi che, mentre ricorda l’evento di Gesù, vuole aiutarla a comprendere come anche essa è peccatrice e come tale bisognosa di perdono e di una nuova chiamata a conversione. E le rilassatezze di questa Chiesa sono dovute a: un indebolimento della fede Lc 18,8; mancanza di slancio nel ricercare il regno di Dio Lc 16,8 incoscienza e superficialità dei cristiani nella loro vita da discepoli Lc 14,28-32 buon numero di ritorni al paganesimo ( Lc 11,24-26) che poi ritornano (parabole della misericordia, specchio di figli persisi) scarso senso di responsabilità dei capi delle comunità dei credenti Lc 12,42-48 Tempo della Chiesa, tempo dello Spirito Questo tempo della Chiesa abbiamo detto che è il tempo dello Spirito Santo che: - Ha agito nel popolo ebraico e nei profeti (At 28,25) - Agli inizi del vangelo agisce in Elisabetta, Zaccaria, Maria, Simeone, Anna - Unge Gesù nel Battesimo al Giordano, guidandolo poi nel deserto - È frutto della Risurrezione (At 2,33.36.38) - È il dono escatologico, destinato a tutti, che viene donato da Gesù nella Pentecoste (At 2,1621), momento particolare per Luca perché è costitutivo della Chiesa: donato agli undici che sono in preghiera con Maria, e poi su Paolo, vede gli apostoli come i destinatari primi dello Spirito che ne diventano così portatori originali. Ciò a ricordare che lo Spirito vivifica innanzitutto gli apostoli e i ministri e tramite essi tuta la Chiesa. Tra gli apostoli emerge poi subito Pietro che è il portavoce ed il direttore della comunità degli apostoli fino ad At 12,88. Grazie alla Pentecoste la comunità di discepoli di Gesù si converte nella Chiesa di Cristo il cui principio vivificatore è lo Spirito Santo. - Muove i missionari del vangelo a predicare e a battezzare - È il primo responsabile della crescita della Chiesa e ingannare lo Spirito Santo porta a brutte conseguenze (cf At 5,1-11) - Assiste il concilio di Gerusalemme Questa insistenza sullo Spirito Santo per Lakony è dovuta molto probabilmente al fatto che la Chiesa al tempo di Luca viveva un vuoto di esperienza dello Spirito Santo ed è per questo che in Luca si vede Gesù che dice di pregare in modo incessante e senza stancarsi (cf Lc 18), preghiera che deve ricalcare quella di Gesù nel Getsemani e sulla croce e che come tale è lotta, agonia. E l’insistenza sulla preghiera è proprio perché il suo primo frutto è proprio il dono dello Spirito Santo (cf Lc 11,13) tanto che per Luca la preghiera è invocazione del Padre per ottenere lo Spirito Santo. Abbiamo così un nuovo scorcio ecclesiale, perché Dio agisce nel mondo tramite la Chiesa, dandole lo Spirito Santo e rendendo attraverso di Lei Gesù misteriosamente presente nel mondo e la sua impotenza e la sua fragilità non la devono preoccupare, lei è ancora spinta e avvolta dallo Spirito e quindi deve riprendere slancio, tornando ad essere il popolo della Pentecoste che invoca nella preghiera lo Spirito Santo. Chiesa generata e congregata dalla Parola e dai segni Lo Spirito Santo che opera nella Chiesa si rende percepibile nella parola annunciata e nei segni connessi ad essa come si vede bene nella Pentecoste e nelle vicende di Stefano, Barnaba, Apollo e della comunità in generale (At 4,31). La parola che viene annunciata è detta “Parola di Dio” o “Parola del Signore”, ma Pietro dice anche di «fare attenzione alle mie parole» (At 2,14) perciò la parola annunciata è insieme parola di Dio e parola dell’uomo. Una delle caratteristiche di questa parola apostolica è la parresia, la franchezza nel parlare, che scaturisce dalla libertà propria dello Spirito Santo. Questa Parola è talmente “altra” che spesso è citata come ente autonomo (At 6,7;12,24) e per questo non può quindi mai cadere sotto l’arbitrio né degli apostoli, né dei carismatici, perché entrambi ne sono in qualche modo servi e devono soffrire per essa: suggestivo a tal proposito il discorso di commiato di Paolo a vescovi e presbiteri di Efeso quando non affida a loro la parola di Dio, ma loro alla parola di Dio (At 20,32). La missione apostolica è quindi quella di annunciare la Parola ed è per mezzo di questo annuncio che viene convocata la Chiesa. Ma qual è il contenuto di questa parola di Dio? Tutto il mistero di Cristo e soprattutto la sua Pasqua (At 2,14ss). Curioso come in At 17,18 si mettano insieme l’annuncio di Gesù e la sua risurrezione. Ed è questo annuncio che fa nascere la Chiesa e la spinge a conversione, perché è in essa che si sperimenta la grazia di Dio che è salvezza, vita, luce. Lo Spirito agisce però non solo nella parola, ma anche mediante in segni efficaci come le lingue di fuoco nel giorno di Pentecoste, le guarigioni operate dagli apostoli ecc. dove è chiaro che Cristo agisce attraverso di essi. Certo questi segni efficaci vanno intesi nel loro rapporto con la parola predicata, perché ne testimoniano la potenza (At 14,3). Va aggiunto che se negli Atti predomina l’annuncio della parola, nel vangelo di Luca predomina l’esortazione all’ascolto della parola: paradigmatico è l’episodio di Marta e Maria (Lc 10,38-42). Marta svolge infatti un servizio, una diakonia, termine che è usato solo qui nel vangelo di Luca, mentre gli Atti lo usano spesso per indicare un servizio fraterno all’interno della Chiesa e la stessa “istituzione dei sette” (At 6,2-4) è fatta proprio perché gli apostoli devono dedicarsi alla diakonia della parola. Perciò se Marta è legata al servizio, Maria è legata all’ascolto della parola e Luca sottolinea come la parte buona è fondamentale per ogni esperienza di diakonia è proprio l’ascolto di Gesù e della sua parola, perciò anche una diakonia dell’annuncio della parola che non sia preceduta da questo ascolto è compromessa già in partenza! Lc 11,28 dice poi che l’ascolto della parola è una beatitudine evangelica, beatitudine che è un rafforzativo della beatitudine mariana la cui caratteristica è proprio quella di ascolta e custodire la parola, di conservarla e di meditarla (Lc 2,19.51). E che questa attitudine sia importante per Luca e per la sua ecclesiologia lo si capisce dalla spiegazione che Gesù dà della parabola del seminatore (Lc 8,15ss). Quindi solo un ascolto della parola di Dio serio e accompagnato dalla meditazione e dalla custodia di essa può sfociare nella pratica e portare frutto: ecco perché Luca apre con tre annunci (a Zaccaria, a Maria e ai pastori), ecco perché Emmaus (Lc 24), ecco perché la prima cosa che fa Gesù apparendo ai suoi da risorto è quella di parlare per quaranta giorni del regno di Dio (At 1,3) perché è il risorto che continua a parlare nel cuore della chiesa. Luca sembra quindi ricordare alla sua Chiesa che solo sulla base di una parola costantemente ascoltata, custodita e meditata la Chiesa può essere veramente efficace nel suo annuncio e lo smarrimento di una tensione escatologica porta ad un servizio e ad un impegno missionario serrato ma fine a sé stesso che non essendo fondato su niente è paglia! La Chiesa basata su fede, culto, carisma e ministero Se è vero che la Chiesa nasce dall’annuncio della parola questo è solo un aspetto della medaglia, servono anche persone che rispondano a questo appello. Paradigmatico è l’episodio di Lidia (At 16,14-15) che mentre ascoltava, il Signore le aprì il cuore, per aderire alle parole di Paolo e farsi battezzare. Spesso e volentieri Luca parla di fede in modo assoluto, ma spesso ne ricorda anche il soggetto e cioè Gesù e come essa comporti una conversione, un cambiamento di strada per dirigersi al Signore. Per Luca infatti il discepolo è colui che si mette sulla via non già arrivato. Per lui poi i credenti, i santi, sono la Chiesa e con questo concetto di Chiesa designa sia la Chiesa locale (Gerusalemme At 5,8; Antiochia At 11,26; Licaonia e Pissidia At 14,23), ma anche quella universale (At 9,31). Chiesa che è di giudei e di pagani, è convocata dai dodici apostoli e da Paolo, in virtù dello Spirito Santo mediante la parola e i segni. Ma come vive questa Chiesa? Essa è una comunità che si raduna dapprima nel tempio (Lc 24,53), ma poi anche nelle case (At 2,46) perché non è il luogo esterno a determinare la nuova comunità, ma l’annuncio della parola, tanto che si fa spesso notare come se cresce questa crescano il numero dei discepoli, cresca la Chiesa (At 6,7). Per capire la vita concreta è poi importante vedere i sommari come At 2,42-47 dove si sottolinea l’insegnamento degli apostoli, la koinonia, la frazione del pane e le preghiere. Ma cosa si intende con koinonia? Molto probabilmente il fatto che il ritrovarsi nell’assemblea per lodare Dio portava i membri a fare attenzione l’uno all’altro. L’essere fratelli non vuol comunque dire per Luca che si sia tutti uguali anche perché emergono subito i “carismatici”, se lo Spirito è sceso infatti su tutti i membri della comunità tra di essi emergono alcuni dotati di particolari carismi come ad esempio quello della profezia: Agabo (At 11,27ss; 21,10ss); alcuni nella comunità di Antiochia (At 13,1ss); Giuda e Sila (At 15,32ss), le quattro figlie di Filippo vergini-profetesse (At 21,9). Ci sono poi anche i titolari di un ministero che sono visti come continuazione del ministero degli apostoli nella Chiesa sia a Gerusalemme che in altre Chiese locali, tra essi spiccano gli anziani, che costituiscono come un senato in aiuto agli apostoli e sono simili al sinedrio ebraico. A fianco di questi anziani ecco poi l’istituzione dei sette con funzione ministeriale, per sollevare gli apostoli dal servizio delle mense. Tra gli apostoli emerge subito una posizione primaziale di Pietro. In generale comunque la funzione gerarchica, e quindi i ministeri nella chiesa strutturata, è un servizio fatto ai fratelli e come tale va vissuta. ( Lc. 22,24-27; Lc. 9,46). La Chiesa presentata da Luca è poi una chiesa: che conosce le persecuzioni e il martirio; nella quale è molto importante il tema della fraternità vissuta; dove è forte la tentazione delle ricchezze, tanto che il suo giudizio sui ricchi è veramente molto duro (Lc. 12,1621; 16,19-31; 19); nella quale la scelta dei poveri è molto importante (Lc 4) ecco quindi il dovere delle elemosine. Tutte indicazioni queste da vedere non in prospettiva sociologica, ma escatologica perché presentano un modello archetipo al quale convertirsi continuamente anche perché l’avere è un modo di sopperire a una crisi di speranza: c’è un modo “di vivere” da cristiani che indica mancanza di speranza. LA CHIESA SECONDO MATTEO All’epoca di Gesù due erano i poli della vita religiosa ebraica, il tempio e la legge di Mosè (scribi), e attorno ad essi gravitavano gruppi diversi, cioè i farisei, i sadducei, gli erodiani. Dopo la distruzione del tempio nel 70 d.C. il giudaismo tende a schiacciarsi su di un solo polo, sulla legge di Mosè ed acquistano così ancora maggiora importanza i luoghi deputati al suo studio, le sinagoghe, e il partito legato ad essa, quello dei farisei. Passando al Vangelo si vede chiaramente che Matteo scrive dopo la rovina di Gerusalemme (Mt 22,7) e i farisei ai quali Gesù si rivolge nel del Vangelo di Matteo sembrano essere più quelli del suo tempo che non quelli contemporanei di Gesù! Cercando di risalire dal vangelo di Matteo alle caratteristiche della Chiesa a cui scrive: Vi sono cristiani di origine giudaica che conservano le loro tradizioni, ma perché tali sono perseguitati come eretici dai farisei. Matteo ha un tono antifarisaico forte, perché vuole consolidare i cristiani che provenivano da tale mondo. Si trovano anche cristiani di origine pagana nella Chiesa, che rifiutano gli scritti dell’ AT e così nel discorso della montagna (Mt 5-17) si vede un Gesù che indica la strada, radicalizzando la legge, ponendo l’accento sul compimento della legge. Forte è poi l’insistenza di Matteo sui piccoli, sui bambini, su coloro che soffrono, e la grande severità verso coloro che detengono il potere, tanto che gli apostoli sono chiamati discepoli. Tutte queste cose sembrano denunciare il clericalismo e lo spirito di dominio che si sta instaurando all’interno della Chiesa. ( Mt 23,1-11). Ecco perché quindi i “ dicono e non fanno”; “ nessuno deve farsi chiamare rabbì” ecc. Dal discorso di Matteo sui falsi maestri e profeti (Mt 15-23) emerge poi che tra essi ce ne sono molti che diffondono false dottrine. Ogni cristiano è quindi chiamato ad una continua conversione che si manifesta nei frutti. Non basta pregare, ma bisogna fare la volontà del Padre e soprattutto chi ha delle responsabilità nelle comunità deve seguire l’esempio del Maestro! Sembra quindi che Matteo appartenga e scriva per una comunità di origine varia,proveniente o dalla Siria o giudei-cristiani di lingua greca dalla Siria e dalla Palestina. Lo Schlier dice poi che le categorie ecclesiologiche fondamentali in Matteo sono: - Il tema della Chiesa connesso al tema del regno di Dio che: è già in opera o immanente; è presente nella persona di Gesù; è un’entità escatologica (Mt 6,10), metafore del banchetto e della mietitura; si è avvicinato (Mt 4,17;10,7), è un’imminenza temporale ma non si sa quando arriverà, la sua vicinanza si può sperimentare in Gesù e nella “Parola del Regno” cioè nella sua predicazione che è un insegnamento di “ uno che ha autorità”, e nel suo parlare in parabole sono celati i misteri del Regno dei Cieli (Mt 13,11), svelati soprattutto ai fanciulli. Questa parola è rivolta innanzitutto ai peccatori, come parola di perdono. Questo Regno è dischiuso anche nei gesti di Gesù: i miracoli dicono la vittoria dello Spirito sul demonio (Mt 12,28). - Di fronte alla persona di Gesù bisogna prendere una decisione di vita o di morte. Ci può essere il Regno dei Cieli, avvicinatosi in Gesù, solo se vi sono coloro che ne hanno sperimentato la vicinanza. Tale vicinanza si realizza nel discepolato a Gesù che Egli chiamerà “ Mia Chiesa” (Mt 16,18), tanto che dalle folle si distinguono spesso i discepoli (Mt 5,1). Il motivo della distinzione è dato dalla chiamata e dalla sequela (Mt. 4,18-22) e la chiamata dei primi quattro discepoli è un paradigma per la chiamata più generale. L’essenziale del discepolato è infatti mettersi alla sequela, radicale, che arriva al rinnegamento di sé e che consiste nel cercare il Regno e la sua giustizia. Il rapporto discepolo-maestro è esemplare per la comunità cristiana. Se il Regno è del Padre, se essere figli del Padre e discepoli del Messia è la stessa cosa, l’etica del Regno è uguale. Per Matteo essere discepoli è un rapporto vicendevole con coloro che sono alla sequela di Gesù, che fanno la volontà del Padre e come tali sono fratelli (Mt. 5,22; 7,3segg; 18,15-21- 35). Dietro il “fratello” quindi (Mt 23,8) c’è il compagno di fede cristiana, non solo linguistico ma anche sperimentabile, la forza dell’effusione dello Spirito che ci rende figli è concreta. Passando ai temi trattati, centrali sono: 1) Il ruolo dei dodici (Mt. 10,5; 20,17; 26,14-20): loro missione è quella di annunciare la vicinanza del Regno dei Cieli e continuare l’attività escatologica di Gesù; chi li accoglie, accoglie Colui che li ha mandati; sono coloro a cui Gesù consegna sé stesso nella cena. All’interno dei dodici risaltano alcune persone singole, soprattutto Pietro. 2) Il Gesù storico e la Chiesa post-pasquale al quale è legato quello del discepolato come preformazione della Chiesa, perché la comunità di discepoli attorno al suo Maestro si può dire Chiesa nel modo della promessa, Chiesa presente in germe, ma che solo nel Mistero Pasquale avrà la pienezza della manifestazione della vicinanza del Regno. 3) Lothing aggiunge anche il rapporto tra Israele – Chiesa. Matteo è l’unico a usare il termine “Ecclesia” (Mt 16,18; 18,17) e ciò sottolinea come per Matteo Gesù si sia rivolto esclusivamente a Israele e come la folla che segue Gesù rappresenti il vero Israele, laddove infatti il discorso della montagna viene ascoltato nasce il nuovo Israele. Gesù è inviato ai figli di Israele (Mt 15, 24-36) è il pastore del popolo di Israele, la cui funzione è la raccolta escatologica, il raduno del popolo di Israele e così i dodici (Mt 10,6), sono mandati solo alle pecore della casa di Israele. Al cap. 21 compare però il rifiuto di Israele a Gesù, (Mt 21, 346; 22,1-14), rifiuto che culminerà davanti a Pilato, dove tutto il popolo grida (Mt 27,25). A questo rifiuto di Israele, corrisponderà il rifiuto dell’Israele infedele, (Mt 8,11ss), dei figli del Regno che non avranno parte alla “Basilea”. Questa fine dell’Israele infedele si ha in Mt 21,43 dove si mostrerà il rifiuto corrispondente di Dio che darà il Regno ad un altro popolo. Questo versetto, proprio di Matteo e della sua concezione di Chiesa, è al futuro, quando si avrà il rifiuto definitivo e mostra la correlazione tra Regno di Dio e popolo di Dio. All’interno di Israele si opera quindi una divisione: tra coloro che accolgono Gesù e quelli che lo rifiutano. Se anche Israele non perde la sua funzione storico-salvifica, il popolo a cui sarà consegnato il Regno, almeno in parte, sarà costituito dallo stesso Israele: il vero Israele sarà formato da coloro che accettano Gesù all’interno del popolo e coloro che provengono da altri popoli (cf I Magi). Israele continua quindi a vivere nella Chiesa, nell’antico Israele vi è il “vero” Israele e Cristo rivela chi è il “vero” Israele. Altro versetto importante è Mt 16,18 che è anch’esso al futuro perché la Chiesa non si può pensare come realtà altra da Israele, non si può parlare di fondazione della Chiesa da parte di Gesù, intesa come realtà totalmente altra da Israele, perché l’operato di Gesù non è volto alla fondazione di una nuova entità, ma alla introduzione di Israele nella nuova forma escatologica della vera sequela e del vero discepolato. Non è quindi possibile attribuire a Matteo la logica per cui la Chiesa sostituisce Israele: c’è bisogno di redenzione e non di sostituzione. LA CHIESA SECONDO GIOVANNI (mia sintesi dello Schlier) Giovanni non usa mai il termine ekklesia e non ne parla mai esplicitamente, anche perché ciò che interessa all’autore, e che traspare dalla sua opera, è la natura intima della Chiesa e cioè comunione dei suoi membri e loro rapporto con Gesù. Per Giovanni la Chiesa è essenzialmente comunità di discepoli: presente fin dall’inizio nel discepolato del Gesù terreno, si presenta con valore paradigmatico nel discepolato del Gesù risorto e raggiunge la sua vera essenza nel discepolato del Gesù glorificato, presente nello Spirito, che rimanda comunque sempre a quella iniziale. Questa visione ecclesiologica è strettamente legata a quella cristologica giovannea per cui il Gesù Risorto e Glorificato è accennato simbolicamente in quello terreno e può essere conosciuto solo grazie allo Spirito Santo, il solo che pone fine alle incomprensioni e ai fraintendimenti storicizzanti. La Chiesa come schiera dei credenti Giovanni nell’inno iniziale dice subito che : «A quanti però l'hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome». Ecco allora che ci sono persone che non credono (5,38), che non possono credere (5,44; 12,39), che pur avendo visto Gesù non credono (6,36; 10,24ss; 15,24), ma dall’altra ci sono: quelli che credono, ma non appartengono alla cerchia dei discepoli: 4,39.41; 4,53; 9,38; 11,27; quelli che credono di nascosto (12,12; 19,38); quelli che credono solo ai suoi segni, ma dei quali Gesù non si fida (2,23ss) anche s se i segni di Gesù possono condurre alla vera fede (11,45; 12,10; 14,11). Da tutti questi elementi si deduce che la vera fede del discepolo e quindi le caratteristiche del vero membro della Chiesa sono: rimanere nella parola di Gesù (8,31; 5,38; 15,7); una fede che “conosce” (6,69); una fede che “porta molto frutto” (15,8). In quest’ottica i “dodici” sono visti unicamente nel loro essere veri discepoli, coloro che credono in Gesù, anche se certamente in mezzo a molte comprensioni; ciò emerge bene in 6,67.70 e dal fatto che quando si cita il nome di qualche discepolo esso è sempre uno dei dodici e proprio per questo gli stessi dodici sono visti come tipi e rappresentanti dei credenti ad eccezione di Pietro e di Giuda. Il discepolato I discepoli si sentono affidati da Dio a Gesù (6,39.44.65), si considerano scelti da Lui (6,70; 13,18; 15,16) dal mondo (15,19) ed Egli ha dimostrato loro il suo amore immolandosi per loro (13,1; 15,12ss; 12,24.25; 13,34) e per il popolo (11,50ss;18,14) ed è per questo che egli è l’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo (1,29.36). Questa “dipartita” non lo allontana però dai suoi discepoli, anzi ritorna e rimane in eterno (14,16) nello Spirito che permette loro: di riceverlo (7,79), di incontrarlo (16,7), di vederlo (16,7), di ricordare le cose da lui dette (14,26) … in breve è Colui che guiderà alla verità (16,13) e per mezzo del quale Gesù è continuamente presente nel discepolato della Chiesa (perchè è lo Spirito che glorifica Gesù (16,14) e Gesù è glorificato proprio nei discepoli!) di modo che coloro che aderiscono a Gesù ne riflettono lo splendore e la potenza. Vediamo nel concreto questo rapporto tra la Chiesa, il discepolato di discepoli, e Gesù: - I discepoli devono stare sotto la sua parola (17,2.6.8) e soprattutto sotto il suo comandamento dell’amore ed il suo modello normativo (13,34s; 13,15; 15,12), sotto la sua destinazione (15,16) e la sua chiamata alla sequela (1,43) - Gesù li sorregge con la sua preghiera (17,9), ne chiede la santificazione nella verità (17,16) e la preservazione del male (17,15) che concretamente vuol dire il rimanere nel nome di Dio (17,11), l’essere una cosa sola con il Padre ed il Figlio (17,12.21) - Il discepolato dei discepoli è così il luogo in cui le preghiere nel suo nome vengono esaudite (14,13; 15,16; 16,23.26) perché è la dimora di Gesù e del Padre (14,23) - Se i discepoli hanno in Gesù il loro Signore e di lui sono servi (13,13.16; 15,20) Gesù chiama i discepoli: amici (15,14ss), figlioli (13,33), fratelli (20,17), suoi (13,1; 10,14) perché il Padre glieli ha affidati (10,29) e obbediscono a lui e al Padre (17,10) Il discepolato vive quindi chiaramente di Gesù e ciò appare bene da due testi: L’immagine della vite (15,1ss) per cui i discepoli: o Sono uniti a Gesù in maniera stretta, intima o Egli è colui del quale vivono, nel quale operano e senza cui non possono fare nulla o Nella fedeltà della fede in lui, la loro fede porta frutto, egli diviene vivo nell’amore e la loro preghiera è esaudita o Non portano ma frutto a sufficienza e Dio li pota perché portino più frutto o Se abbandonano Gesù cadono nel giudizio L’immagine del gregge e del pastore (10,1-17) da cui si evince che Gesù è: o colui che le pecore seguono come loro legittimo e ben conosciuto pastore o colui nel quale le pecore trovano ingesso, uscita e pascolo e così vengono salvate o il buon pastore che dà la vita per le sue pecore ed esse vivono della sua immolazione o colui che le custodirà eternamente e donerà loro la vita eterna Gesù è così l’origine, il futuro comune e il centro fecondatore della comunione del discepolato. Chiesa universale Il discepolato di Gesù è l’unica Chiesa universale e ciò è rappresentato: Nella donna samaritana (4) alla quale Gesù si rivela come Messia (4,26), che gli rende testimonianza tra la gente della sua città (4,28ss) mettendola sulla strada di Gesù (4,29ss). Ciò emerge bene dal rimando alla messe escatologica (4,31-38) perché il mondo con l’attività di Gesù è ormai maturo e alla Chiesa spetta solo raccogliere i frutti. Nel popolo che corre incontro al re d’Israele che entra a Gerusalemme (12,12ss) tanto che i farisei alla scena dicono: «Ecco che il mondo gli è andato dietro!» e tra quella folla ci sono dei proseliti ellenisti che ricorrono alla mediazione di Filippo per vedere Gesù (12,20), ma Gesù dicendo che solo: «se il chicco di grano … muore, produce molto frutto» (12,24) fa capire che solo dopo la sua morte e il suo ingresso nella gloria tutti i popoli verranno a Lui mediante i suoi discepoli che compiranno le sue opere e anzi ne faranno di maggiori (14,12). Questa Chiesa formata da tutti i popoli, fondata nell’attività di Gesù e costituita dall’opera dei discepoli è per Giovanni l’unica Chiesa di Dio in Gesù e questa unità interiore ed esteriore è il senso e lo scopo dell’opera di Gesù (10,16; 11,51) non però fine a sé stessa, ma perché (17) il mondo tramite essa possa giungere alla fede nella rivelazione e alla conoscenza dell’amore di Dio per esso. Chiesa e mondo I discepoli scelti dal mondo da Gesù (15,19) e quindi non sono più del mondo (17,14) e sono mandati nel mondo come vi è stato mandato Gesù (17,18) cercando di non conformarsi ad esso (17,15). Esso infatti è tenebra (1,5), le sue vie e i suoi fini per essi sono fatali (12,35; 14,4) e gli uomini che credono in esso e l’amano vengono attratti nella fatalità delle sue tenebre (3,19ss). Questa tenebra può essere avvertita nella menzogna, nel peccato e nella morte (8) che si oppongono alla verità e consistono quindi nell’incredulità e nelle varie forme di egoismo (3,19). Gli uomini così come compaiono nel mondo sono quindi morti (5,25) e in mezzo alle loro menzogne, i loro peccati e la morte, cercano luce, verità, libertà, vita (4,15; 6,31), ma siccome sono ciechi, perché pensano di vedere (9,41), non credono che Gesù sia la via e la risposta (5,39; 8,24), anzi lo odiano e lo distruggono (8,37). Il discepolato crede invece in lui e vive di lui, non crede nel mondo e non vive di esso, partecipando così del destino di Gesù nel presente e nel futuro (15,18) e come lui è stato espulso dalla sinagoga (9,22) così succederà anche a loro (16,2ss) perché come il mondo avvertiva Gesù come una odiosa contraddizione così è anche nei confronti dei discepoli (17,14), detto ciò però essi sono mandati al mondo per convincerlo dell’amore di Dio per esso. Strutture della Chiesa Se è vero che a Giovanni non interessa più di tanto dire al forma che questo discepolato assume è sbagliato dire che per lui la Chiesa sia solo spirituale, perché già dal vangelo emerge come essa esista nel quadro di una Chiesa visibile ed “esteriore”. Vediamo i tratti: Essa è missionaria e ciò emerge nel Battista (1,6.33; 3,28), in Gesù inviato dal Padre (3,17; 5,36.38; 6,29) e poi anche nei discepoli inviati da Gesù e che come tali sono tutti apostoli (13,16). 4,38 mostra come la missione sia un fenomeno escatologico e come essa sia una continuazione della missione di Gesù (13,20; 17,18; 20,21). Il ministero è riconoscibile nella persona e nella funzione di Pietro che pur comparendo anzitutto come uno dei discepoli o dei dodici, ne è anche il portavoce, ma non solo! A lui infatti Gesù dà il nome di Cefa (1,42), cioè di fondamento della sua Chiesa. Accanto a Pietro compare spesso “il discepolo che Gesù amava” (13,23; 19,26; 20,2; 21,7.20) che molto probabilmente (20,3.8) coincide con “l’altro discepolo” (18,15ss) e forse con “colui” che depone in favore della testimonianza del testimone oculare (19,35) e con il discepolo che ha scrtitto il vangelo (21,24). Ogni volta che questi due compaiono insieme questo appare sempre come colui che aveva una particolare consuetudine con Gesù (tipo della figura carismatica?), mentre Pietro è sempre colui che ha autorità e l’ufficio. Nel capitolo 21 Pietro è poi presentato come: il pescatore di uomini, che accoglie nella rete indilacerabile della Chiesa i credenti (21,11); pastore degli agnelli e delle pecore, incaricato da Gesù (21,15); colui che ama Gesù e ne diviene martire (13,36; 21,18) Alla Tradizione si accenna quando si parla della predicazione dello Spirito (4,26; 16,13ss e 15,26ss), infatti le parole dette da Gesù, dopo il suo ingresso nella gloria, sono insegnate e ricordate dallo Spirito (14,26). Se non ci fosse quindi lo Spirito, la Tradizione, ciò che Gesù ha detto sarebbe solo un evento del passato, ma ciò lo fa attraverso i discepoli, che dall’inizio sono con Gesù, e grazie a questo “essere con” conservano, grazie allo Spirito, come suo “ricordo” ciò che dall’inizio è avvenuto in Lui. Così anche Gesù può identificarsi con la comunità e dire che il suo conoscere e vedere immediato è assimilato a quello che la Chiesa assume nella tradizione (3,11). Il culto può essere rintracciato nell’adorazione in spirito e verità che inizia con Gesù ed irrompe con lo Spirito Santo (4,19-24) e nel nuovo tempio che è il corpo di Gesù, al quale appartengono i credenti (2,18-21) Di battesimo in acqua e Spirito si parla espressamente in 3,1ss e, unitamente all’Eucarestia in 19,34. L’Eucarestia è menzionata frequentemente soprattutto nel capitolo 6. L’incarico di rimettere i peccati e di ritenerli (20,21ss) non va visto solo come continuazione, conferma e compimento della generale funzione di giudice propria di Gesù (3,19; 5,27; 9,39) ma di una missione speciale, con poteri speciali, che il Risorto dà ad alcuni suoi discepoli che se da un lato rappresentano tutti i discepoli, dall’altro rappresentano la schiera degli apostoli. LA CHIESA SECONDO LE LETTERE GIOVANNEE (mia sintesi dello Schlier) Appare ormai chiaro, con ogni probabilità, che questi scritti sono più recenti del vangelo di Giovanni e che traggono origine dalla stessa “scuola”. In esse la Chiesa emerge con maggiore chiarezza in alcuni elementi della sua struttura concreta. L’autore di fronte alla comunità In tutte e tre le lettere l’autore si distingue e se nella 2° e nella 3° dice di sé che è un , termine che va inteso non tanto come titolo ministeriale, ma come designazione della sua dignità e autorità forse di trasmettitore della tradizione apostolica, nella 1° non dice niente, ma la sua autorità spirituale emerge in maniera più netta, infatti egli: - non si comprende soltanto nel “noi” della comunità, ma usando spesso il “voi” pretende di esserne il rappresentante e il portavoce (1 Gv 1,3) - presenta alla comunità delle proposizioni vincolanti dal punto di vista della fede, con la pretesa di offrire una verità infallibile (1 Gv 2,1.15.27) chiama i membri della comunità sia (1 Gv 2,7; 3,2.21; 4,1.7.11; 3 Gv 2,5.11) che (1 Gv 3,13), ma anche (1 Gv 2,1.12.28; 3,7.18; 4,4; 5,21; 2 Gv 1) e (1 Gv 2,14.18 3 Gv 4) a intendere una stretta relazione personale, ma anche un potere spirituale che l’autore ha sui suoi uditori. Dalle lettere compare perciò che l’autore è un rappresentante e portavoce di un gruppo della comunità che, come custode della tradizione e in forza della sua autorità spirituale, scrive fraternamente e paternamente alla comunità opponendosi nella 3° ad un certo Diostrefe che molto probabilmente è investito di un ufficio ecclesiastico. L’autocomprensione della comunità Per l’autore la comunità sta nella comunione con il Padre e il suo Figlio Gesù Cristo ed è fondata sull’amore preveniente di Dio che Egli ci ha dimostrato mandando proprio il suo Figlio che è la manifestazione della vita eterna (1 Gv 1,1 ecc.) e che, venuto nella carne (1 Gv 4,2): - ci ha dato l’intelligenza affinché conosciamo il Verace (5,20) - ha emanato i suoi comandamenti (1 Gv 2,3ss; 3,22) che sono i comandamenti di Dio (1 Gv 3,22.24; 5,2ss) e sono antichi e sempre nuovi (1 Gv 2,7ss) e riassumibili in quello dell’agape (1 Gv 2,7ss; 3,23; 4,21; 2 Gv 4.5.6) - ha dato la sua vita per noi (3,16ss) e ora è nostro avvocato presso il Padre (1 Gv 2,1) - è stato inviato in propiziazione dei nostri peccati (1 Gv 3,5; 4,10) e del mondo intero (1 Gv 2,2) e purifica con il suo sangue ogni peccato ed ingiustizia (1 Gv 1,7.9) - ha distrutto così le opere del diavolo (1 Gv 3,8) facendo brillare la vera luce e scacciando le tenebre (1 Gv 2,8) e determinando il futuro con suo ritorno, la sua parusia e rivelazione - è il giudice davanti al quale ognuno deve rispondere e che prende la decisione definitiva (1 Gv 2,28; 3,2ss; 4,17). Questa comunità ha anche lo Spirito Santo che: - è lo Spirito di Dio (1 Gv 4,2) e si manifesta in molte maniere (1 Gv 4,1ss) - le è stato donato da Dio (1 Gv 3,24; 4,13), ma anche da Gesù Cristo tramite un’unzione che “rimane” nei membri della comunità (1 Gv 2,20.27) - è lo Spirito di verità (1 Gv 4,6), anzi è a verità (1 Gv 5,6) e quindi dona la conoscenza (1 Gv 2,20) ed “istruisce su tutto” (1 Gv 2,27) - dona testimonianza al battesimo, all’eucarestia e alla croce di Gesù (1 Gv 5,6ss) - è colui che fa la vera confessione di fede (1 Gv 4,2) - agisce nella parola della comunità (1 Gv 4,6) - è la virtù e la prova del fatto che l’amore di Dio ci muove (1 Gv 3,24; 4,13) - le permette di possedere la parola tramandata fin dal principio, Gesù stesso, come realtà viva e attuale (1 Gv 1,1ss) e così la comunità può annunciare la parola fatta carne permettendo ai suoi membri di giungere alla comunione con Dio, con Lui e tra di loro, a far rifluire cioè su di loro la vita e far sì che si amino vicendevolmente (1 Gv 1,2ss) a patto che camminino nella luce, custodiscano la sua parola, osservino cioè i suoi comandamenti (1 Gv 2,3ss) Curioso è il riconoscere i peccati di 1 Gv 1,9 che sembra far alludere ad una esplicita e personale confessione dei peccati posteriore alla quale è implicita l’assoluzione e che fa pensare quindi ad una prima forma di confessione sacramentale. Chiesa e mondo La Chiesa è quindi la comunità dei credenti, di coloro che conoscono e amano, di coloro che purificati dal perdono di Dio e di Gesù Cristo riposano in Dio e lo conservano in sé. La fede viene suscitata e risponde alla testimonianza dello Spirito nella parola (1 Gv 5,6.9ss) e consiste in: - credere in Dio (1 Gv 5,10), all’amore che Dio ha per noi (1 Gv 4,16) - credere nel nome del Figlio di Dio (1 Gv 5,13), che Gesù è il Figlio di Dio (1 Gv 5,5), - avere in sé la testimonianza del Figlio di Dio (1 Gv 5,10), una parola di Dio (1 Gv 1,10), parola che si è udita fin dal principio (1 Gv 2,24) - osservare i comandamenti (1 Gv 2,3; 3,23) e cioè amare Dio e i fratelli (1 Gv 3,23; 4,2.21 ecc.) che porta noi a rimanere in Dio e Dio a rimanere in noi (1 Gv 3,24; 4,16) - conoscere nell’amore Dio (1 Gv 3,1; 4,6.7), Gesù (1 Gv 2,3ss.13ss; 3,6; 5,20), la verità (1 Gv 2,20ss) e quindi un vincolo intimo dell’uomo con Dio definito come filiazione divina - vincere sul mondo (1 Gv 5,4), sul maligno (1 Gv 2,13ss) e sull’eresia (1 Gv 4,4) Proprio quest’ultimo punto porta a far capire come i membri della comunità sappiano di essere separati dal mondo, anzi di essere in contrasto con esso (1 Gv 2,15ss) intendendo per mondo il modo in cui se ne fa esperienza, ben sapendo che esso custodisce anche molti beni. Il tratto fondamentale del mondo così inteso è infatti la concupiscenza o l’alienazione dell’uomo perduto che eleva il suo sguardo a cercare se stesso, mettendosi così in mostra, ostentando i propri mezzi e le proprie ricchezze e quindi non ricevendo il proprio essere da Dio, ma vivendo di sé stesso e quindi di ciò che è passeggero: nel suo complesso quindi è posto “nel maligno” perché è dominato da esso (5,19) ed è quindi male perché la situazione concreta in cui lo si incontra è di male. Risulta quindi comprensibile perché il mondo che non ha conosciuto Dio, non conosca neanche i figli di Dio (1 Gv 3,1) e non li ascolti (1 Gv 4,6) rimanendo così nella morte, nelle tenebre (1 Gv 3,13ss) ed il contrasto è tanto forte che si raffigura come distinzione tra figli di Dio e figli del diavolo, il peccatore dal principio (1 Gv 3,8), di cui loro nelle loro azione peccaminose ripetono e rappresentano l’antichissimo peccare, tanto che i peccati sono detti “opere del diavolo”. Il mondo e il suo svolgimento sono così in mano a Satana, ma siccome il Figlio di Dio è venuto proprio per distruggerne le opere, i neofiti hanno vinto il maligno (1 Gv 2,14) ed i credenti il mondo (1 Gv 5,4). Il mondo ed il suo principe sono entrati però anche nella comunità cristiana mediante le eresie che la minacciano: ecco allora il sorgere degli anticristi (1 Gv 2,18), rappresentanti dell’Anticristo (1 Gv 2,22; 4,3.6; 2 Gv 7), continuazioni dei falsi profeti venuti nel mondo (1 G 4,1), che trascinano i membri della comunità nell’errore (1 Gv 2,26; 3,7) e sono usciti dalla comunità perché in fondo non vi hanno mai appartenuto (1 Gv 2,18ss). Gli errori di questi anticristi riguardano la cristologia, perché non confessano come Cristo il Gesù terreno (1 Gv2,22; 4,2ss; prodromi del docetismo), ma anche la soteriologia perché si vedono senza peccato benché tradiscano la legge (1 Gv 1,8; 3,4.7ss). Essi non rimanendo nell’insegnamento di Cristo non hanno quindi Dio (2 Gv 9) e non vanno ricevuti (2 Gv 10), ecco quindi che i cristiani devono guardarsi dalle infiltrazioni mondane (1 Gv 5,21) e provare gli spiriti (1 Gv 4,1) rimanendo in ciò che hanno ascoltato dal principio (1 Gv 2,24). Gesù venendo nel mondo ha fatto splendere la luce nelle tenebre che ora si stanno diradando (1 Gv 2,8): è iniziato il tempo finale e il segno ne è la Chiesa, tentata, ma sempre fedele alla dottrina di Cristo e quindi nei comandamenti realizzati in essa mediante la fede e la carità. - LA CHIESA NELL’APOCALISSE DI GIOVANNI (mia sintesi dello Schlier) La Chiesa di Gesù Cristo La Chiesa è la Chiesa di Gesù Cristo: il Testimone fedele, il Primogenito tra i morti, il Principe dei re della terra (1,5), il Primo e l’Ultimo, morto e ora vivente per i secoli che tiene le chiavi della morte e dell’Ade (1,17; 2,8), il Figlio di Dio (2,18), l’Unto (11,15; 12,10), il re Davide della fine dei tempi (3,7; 5,5; 22,16), il leone della tribù di Giuda che ha vinto (5,5), l’Agnello sgozzato (5,6) degno di ricevere la potenza, la ricchezza, la sapienza, la forza, l’onore, la gloria e la lode (5,12; 13,8) … insomma Egli è colui che è prima di ogni altra cosa e che morto e risorto ora regna per tutta l’eternità sui vivi e sui morti, è il sovrano messianico che regna avendo attraversato la passione e la morte, l’Agnello immolato che ora porta i segni della sua dignità regale. Come tale Egli è però soprattutto colui che viene, che nel suo giudizio prenderà la decisione ultima come sovrano e giudice (1,7; 3,20; 14,14ss; 19,11ss) e questa venuta è imminente (1,1.3; 2,16; 3,3.11; 10,6; 12,12; 16,15; 17,10; 22,6.7.12.20) perciò il suo regno è assoluto. Chiesa redenta La Chiesa è la proprietà di Gesù Cristo “ottenuta” grazie alla sua morte espiatrice (7,14; 12,11) con la quale ne ha fatto un regno di sacerdoti per il suo Dio e Padre (1,5ss), raccolti da tutte le razze e le lingue, i popoli e le nazioni e che regneranno sulla terra (5,9ss; 14,3-4). Egli è così il Signore di questa Chiesa, la custodisce (1,13.16.19.20; 2,1; 3,1), essa quindi è debitrice del suo amore ed al contempo è il luogo della sua presenza di crocifisso e glorificato. È poi Cristo che affida al veggente l’incarico di scrivere la sua storia in un libro da inviare alle sette Chiese, alla Chiesa nel suo complesso (1,11.19; 10,4.8) e chi accoglie la parola di questo servo (1,1) accoglie la voce dello Spirito (2,7.11.17). Alla fine del libro (22,6-11) compaiono ancora una volta insieme Cristo, il veggente, lo Spirito e la Sposa, la Chiesa redenta. Il Signore glorificato conosce poi la sua Chiesa, perché ne conosce la sofferenza e le prove, ma anche perché meglio di lei la sua condizione e gliela rivela (vedi le sette lettere iniziali). Se da un lato poi gli appartenenti alla chiesa sono soggetti a maggior responsabilità (2,5.12.22ss; 3,3b.16) e a maggiori prove (3,19) ad essi egli dona le sue promesse (2,7.11.17) aprendo alla sua Chiesa la porta dell’eternità (3,8). Questo legame Cristo-Chiesa è talmente forte che i servi di Dio sono segnati sulla fronte con il sigillo del Dio vivente (7,2ss), che imprime su di essa il nome di Dio e di Cristo (14,1; 22,4), gli appartengono e così in mezzo agli orrori del tempo sperimentano anche la sua particolare protezione (9,4) e siccome i loro nomi sono scritti nel libro della vita (3,5; 13,8; 17,8; 20,12.15; 21,27) hanno diritto di cittadinanza nella città celeste (22,14.19). Questa Chiesa è universale e in quanto popolo di Dio (18,4; 21,3) sostituisce Israele, tanto che i 144.000 sono l’Israele ricostituito nel popolo di Dio escatologico che è la Chiesa (7,1ss; 21,12), la folla immensa, impossibile a enumerare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua (7,9), che serve davanti al di Dio (7,13ss) e che sotto il nuovo cielo e sulla nuova terra sarà la celeste Gerusalemme, la dimora di Dio con gli uomini (21,2ss). I giudei che non hanno accettato Cristo non sono quindi i veri giudei, ma sono in realtà una sinagoga di Satana (2,9; 3,9). Chiesa confessante Visti nel loro essere proprietà di Dio, i membri della Chiesa di Cristo vengono detti “santi” (5,8; 8,3.4; 1,18; 13,7 ecc), da cui rimangono distinti i “profeti” (11,18; 16,6; 18,20) anche se entrambi sono chiamati “servi di Dio” (1,1; 2,20; 7,3; 10,7; 11,18; 22,9) ad indicarne l’elezione e la missione. Visti invece nel loro rapporto vicendevole sono chiamati “fratelli” sia i membri della Chiesa (6,11; 12,10) che i profeti (19,10; 22,9). I membri della Chiesa sono “santi” e “servi di Dio” in quanto: - Si sono convertiti (9,20-21; 16,9.11) e continuano a convertirsi (2,5.16.21.22; 3,3.19), perché è nella conversione che si dà gloria a Dio (16,9). - Coloro che si convertono sono quelli che si ricordano del vangelo ricevuto, della testimonianza di Gesù, dello Spirito della profezia (19,10) e lo ascoltano (1,3; 2,7.11; 3,8.10), infatti la discendenza della Donna sono coloro che obbediscono agli ordini di Dio e possiedono la testimonianza di Gesù (12,17; 2,9.13; 14,12). - Temono il nome di Dio (11,18) e confessano il nome di Gesù (3,8) - Compiono le opere rette (19,8) che sono: l’amore, la fede, la dedizione, la costanza (2,19), il rifiuto di ogni genere di idolatria (14,4ss; 17,2.4; 18,3.9; 19,2), la non conoscenza della menzogna e l’essere senza colpa (14,5), il seguire l’Agnello ovunque vada (14,4). Il compiere queste opere, questo cammino in compagnia di Cristo, porta alla “vittoria” passando attraverso la passione e la morte. - Sono dei confessori (1,9) dei martiri, che testimoniano con la loro esistenza il “Testimone fedele” (1,5; 3,14; 6,9; 7,9.14; 22,14) giungendo così al vertice del loro essere cristiani, alla perfezione in virtù del sangue dell’agnello e della testimonianza del loro martirio, disprezzando la vita fino a morire (2,13; 12,11; 14,12; 16,6; 17,6; 20,4; 22,14) L’inimicizia del mondo Ma come mai la Chiesa di Gesù Cristo si manifesta Chiesa di martiri? Perché: Rappresentando Cristo sulla terra prende su di sé l’ostilità del mondo contro il suo Signore Il Signore nel suo amore ha già vinto ed essi affidandosi a Lui, il Vincitore, lottando per lui, vincono ogni egoismo, sono essi stessi vincitori e in parole e opere continuano a manifestare concretamente questa sconfitta del mondo egoista che gli si rivolge perciò contro. Ciò emerge bene nella visione del drago nel cap. 12 nel quale si vede come il diavolo, il principe dell’egoismo, spodestato dal suo trono ora è fremente di collera perché sa che i suoi giorni sono contati e per quanto possa far anche più male di prima, non può comunque più vincere. Ciò emerge bene nel cap. 13 che indica il centro e il fondamento nascosto di tutti gli eventi della storia dopo Cristo, che si delinea come storia contro Cristo e i suoi e che è ipostatizzata nel cap. 17 nella grande Babilonia, la prostituta, la cosmopoli sintesi della politica anticristiana che oltre ad inebriarsi del sangue dei cristiani (17,6) mette al bando tutto ciò che, mediante Cristo, è stato reso santo sulla terra: povertà, umiltà, pentimento, dolore, tristezza, morte ecc. (18,7). L’urto dei cristiani con questa città che si vede come il luogo in cui si pensa eliminata ogni indigenza è enorme. Chiesa tentata e trionfante Sotto questa pressione la Chiesa acquista più coscienza della sua natura di chiesa oppressa dal mondo il cui unico scopo è il suo annientamento, di Donna Popolo di Dio (12,1ss) – Sposa dello Agnello (19,7; 21,9) – Gerusalemme che discende dal Cielo (20,9; 21,2.10) a cui si oppone la Babilonia Meretrice – Prostituta impudica – Città senza Dio (14,8; 16,19; 17,1ss; 18,1ss). In questa situazione la Chiesa è messa alla prova e tentata di: - apostatare a causa delle tribolazioni (2,10; 3,10) - cedere a dottrine erronee provenienti dall’esterno e dall’interno (2,2.6.114.15.20.24) ed identificabili probabilmente in circoli gnostico-libertini - cedere alla propaganda politico-religiosa dello stato mondano (13,2ss.11ss) Queste prove rendono spesso le comunità deboli nella fede e nella carità anche se nella maggior parte dei casi le fan solo barcollare, ma non mollare (2,2ss.19; 3,1.14ss) facendo così appare in esse la Chiesa preservata da Dio e alla fine trionfante (11,1ss; 12,13ss). La Chiesa è quindi continuamente chiamata da Dio nella rivelazione di Gesù Cristo ad opera dello Spirito e mediante i profeti: ecco allora i continui appelli alla vigilanza e alla perseveranza! LA CHIESA SECONDO LE LETTERE PAOLINE I nomi e i concetti con cui Paolo presenta la Chiesa Questi si possono riassumere in Popolo di Dio, Corpo di Cristo e Tempio dello Spirito Santo, ma prima di passare ad analizzarli è opportuno osservare che: - Paolo basa le sue riflessioni sulla sua esperienza che è segnata dalla sua conversione, dallo sconvolgente incontro con Cristo Risorto e quindi dalla rottura dal vecchio Israele per passare al nuovo Israele che è nello spirito (Fil 3,1-14) - L’epistolario paolino è la fonte più feconda per l’ecclesiologia ed è una riflessione in itinere, che si svolge in concomitanza con lo svolgersi della sua attività pastorale. Quindi: Ciò che lo guida in queste lettere non è nella linea della prima evangelizzazione, che egli già presuppone, ma in quella della sollecitudine per tutte le chiese (2 Cor 11,28) e quindi più catechetiche e pastorali. Di conseguenza egli non guarda tanto alla persona del Gesù storico (tema da prima evangelizzazione appunto), quanto al Cristo vivente ora nella Chiesa. La sua riflessione sulla Chiesa va sviluppandosi man mano, si possono vedere stadi successivi di un pensiero che si va precisando. Detto ciò, passiamo a vedere i tre termini con cui Paolo indica la Chiesa: POPOLO DI DIO E CHIESA. Soltanto due volte Paolo applica il termine di “popolo di Dio” alla nuova realtà dei credenti in Gesù e lo fa con citazioni dell’AT (Rm 9,25ss; 2 Cor 6,16) e ciò mette da un lato subito in chiaro come per lui ci sia una profonda continuità tra questa nuova realtà e Israele e dall’altro lato come con questo termine non si esprima in maniera pregnante ciò questa nuova realtà è nella sua natura più intima. Ciò è invece espresso meglio dal termine Ekklesìa , Chiesa appunto, che ricorre 114 volte nel NT e ben 62 volte in Paolo. Termine che condensa la realtà di “popolo di Dio”, ma lo supera rimandando alla Qa’al dell’AT. Il termine Chiesa compare da subito in quella che deve essere la prima opera di Paolo, nella quale scrive «alla Chiesa dei Tessalonicesi» (1 Ts 1,1) dove con “Chiesa” si intende il popolo radunato «in Dio Padre e nel Signore Gesù Cristo» in un preciso luogo. Anche quando Paolo userà il termine “Chiesa” da solo, andrà sempre compreso nel senso “di Dio”, genitivo che non è un’aggiunta, ma parte di una formula fissa, originale, perché è Dio la fonte della vita e dell’esistenza della Chiesa, perché è Lui che li raccoglie attraverso la predicazione di Cristo Crocifisso. Ma cosa intende Paolo con il termine Chiesa? Per Schlier intende: La continuazione di Israele, del popolo di Dio, tanto che la Chiesa comincia laddove comincia Israele e si configura visibilmente come l’Israele di Israele, quello che accoglie il Messia, il profeta escatologico. Si tenga conto che guardando il rapporto Chiesa-Israele vediamo in filigrana anche il rapporto Cristo-Chiesa che più che di fondazione è di fondamento e la Chiesa è realtà “nuova” rispetto ad Israele in base al rapporto con la “novità” che è Cristo. In tutto il ministero di Gesù più che di momenti in cui fonda la Chiesa e le sue istituzioni, si può parlare di momenti di valore fondativi e così il mistero cristologico è anche ecclesiologico. Tornando al rapporto Chiesa-Israele Lothing fa notare che Paolo, soprattutto in Rm 9-11, combatte la tendenza nelle comunità pagano-cristiane di non avvertire più questo rapporto e lo fa enumerando i privilegi storico-salvifici di Israele, che preludono già all’afflusso dei popoli in Israele: essi infatti hanno le promesse, da essi viene il Messia e da essi dovrà partire la trasformazione messianica del mondo … Le cose nel concreto vanno però diversamente perché essi sono Israele, ma: «non tutti i discendenti di Israele sono Israele» (Rm 9,6) lo sono infatti: «non sono considerati figli di Dio i figli della carne, ma come discendenza sono considerati solo i figli della promessa» (Rm 9,8). Ciò però non significa che Israele abbia perso l’elezione: «Impossibile!» (Rm 11,1) Questo per due motivi: o Si è verificata una divisione all’interno di Israele, divisione provocata dal Messia, perché non tutto Israele è stato ribelle, c’è stato un resto (Rm 9,27; 11,5) che ha creduto al Vangelo e questo resto è la Chiesa giudeo-cristiana di cui Paolo per altro fa parte e che è diventato tutto ciò che Israele sarebbe dovuto essere da sempre e siccome questo resto esiste vuol dire che l’elezione non è stata revocata, che Dio non ha ripudiato Israele. o La mediazione di Israele continua perché proprio mediante il rifiuto del “non resto” la salvezza è giunta ai pagani (Rm 11,11): Israele ha comunicato la fede ai pagani mediante la sua incredulità, è diventato nemico di Dio a vantaggio dei pagani (11,28), il suo fallimento ha arricchito il mondo (Rm 11,2), la sua disobbedienza è grazia per il mondo (Rm 11,30). Così i pagani, grazie al rifiuto degli israeliti, vengono inseriti nella storia di elezione di Israele e ciò è ben mostrato dalla allegoria dell’ulivo (Rm 11,13-32) dove si vede come i pagani sono alimentati dalla radice santa che è Israele e che un giorno tutto Israele sarà salvato e lo sarà per la via della Chiesa e per la gelosia nel vedere coloro che erano non-popolo (i pagani) esserlo diventato e così non più le genti vedendo Gerusalemme ed il suo splendore affluiranno ad essa, ma Israele vedendo ciò e preso dalla gelosia sarà attratto nella Chiesa. Lothing dice quindi che in Paolo non c’è spazio per la fondazione della Chiesa da parte di Gesù, Egli infatti agisce all’interno dell’economia salvifica ed universale di Dio, della quale la Chiesa è solo un aspetto, seppur strabiliante. Il pensiero di Paolo in sintesi si potrebbe riassumere così: o Dio pone Cristo in Israele come pietra di scandalo che divide il popolo … o … indurisce il cuore della maggior parte di Israele … o … lascia un resto di Israele … o … immette i pagani in tale resto e quindi nella storia di elezione di Israele … o … mediante il fascino che si irradia dal vero Israele composto da ebrei e pagani, Dio conduce l’Israele incredulo alla conversione e alla sua salvezza … o ... così mediante Israele Dio salva tutto il mondo: le jeux son fait. Per Paolo quindi Gesù ha fondato la Chiesa non come realtà altra da Israele, ma in continuità con esso, essa è sì il frutto di una discontinuità, ma all’interno di una più profonda continuità15, come quando si dice che la Chiesa è sempre nuova, anche se per esserlo veramente deve essere sempre sé stessa! In Gesù Cristo la Chiesa è il popolo di Dio del raduno escatologico, il popolo di Dio che si realizza in Cristo, con cui Dio stipulerà il nuovo patto sigillato nel corpo e nel sangue di Cristo e che Dio continua a sigillare nell’Eucaristia. Così la Chiesa è nuovo popolo di Dio perché popolo di Dio in forza del corpo di Cristo. Perciò il compimento del popolo di Dio, ma allo stesso tempo la discontinuità in esso è dovuta proprio al corpo e al sangue di Cristo! Questo popolo escatologico pur comparendo ovunque nelle singole Chiese, rimane un unico popolo. La singola comunità quindi è una rappresentazione di questo unico popolo, e ciò è messo bene in evidenza dal concetto stesso di Chiesa che Paolo usa prevalentemente per indicare la singola comunità (Rm 16,1-23; 1 Cor 4,17) o la chiesa “domestica”, che si ritrova a casa di qualcuno (Rm 16,5; Col 4,15; Fil 4,22). Spesso poi Paolo parla di “Chiese”, indicando le Chiese che stanno in un luogo determinato e ciò che è fatto in esse ha una ripercussione sull’intera Chiesa (1 Cor 10,32; 11,22). Come articolare Chiese e Chiesa? Come, diremmo oggi, vedere il rapporto tra Chiese locali e Chiesa universale? L’incipit di 1 Cor e di 2 Cor ci ci può aiutare: «Alla Chiesa di Dio che è in Corinto» La Chiesa esiste e si manifesta quindi laddove esiste una comunità e non c’è dubbio che tutte le Chiese formino per essenza una unità, un solo popolo di Dio, del quale la Chiesa locale è la rappresentazione. In ciò si deve far bene attenzione che l’articolazione plurale-singolare non sia letta come uniformità. La Chiesa è la riunione dei santi per chiamata dei “” che formano la “”, la santa assemblea, la santa chiamata. Vista nel suo senso greco-pagano del termine, come riunione dei cittadini, la Chiesa è anche una entità pubblica e visibile. CORPO DI CRISTO. Termine questo che indica la novità cristologica, il popolo del raduno escatologico definitivo in stretta ed intima relazione con Cristo, relazione che Paolo raffigura come “corpo”, concetto che esisteva già tra i pagani, ma che è totalmente nuovo in teologia e che è un concetto caratteristico di Paolo e forse il suo aspetto più originale e fecondo in ecclesiologia. Questo concetto di “corpo” viene però usato da Paolo con due sensi diversi: In Ef e Col oltre che di Chiesa-Corpo, si parla di Cristo-Capo e per comprendere ciò si deve entrare nella antropologia biblica dove il corpo non è una parte, ma l’uomo nell’aspetto del suo corpo, come a dire che nella Chiesa Cristo è presente in un modo tutto particolare, anche se, siccome l’uomo non coincide con il suo corpo, Cristo non coincide con la Chiesa: Cristo è presente nella Chiesa in modo tale da stargli anche davanti, di fronte. Se non si può parlare di Chiesa senza Cristo, non lo si può neanche identificare in senso pieno con Lui e ciò è manifestato con il concetto del Capo e del Corpo che dice anche due altre cose: o la supremazia, il dominio di Cristo e la subordinazione a Lui della Chiesa, o essendo il capo la sorgente della vita, è da Cristo ed in vista di Cristo che il corpo della Chiesa cresce ben ordinato (cf Ef 4,16) Con questa figura si dice quindi che: o Cristo è il fondamento ed il fine permanente della Chiesa, perché non solo è unito a lei, ma è fonte della sua vita, la domina e la colma di tutte le risorse del suo potere e della sua grazia. o Per Lo Schlier si mette bene in luce che per raggiungere il capo che è nel cielo, si deve passare dal corpo che è in terra, la Chiesa è la strada per raggiungere Cristo L’alterità di Cristo rispetto alla Chiesa è poi messa bene in luce dalla metafora dello sposo e della sposa che mostra anche come la relazione di Cristo con il suo corpo, con la Chiesa, sia una relazione di amore, amore che parte da Cristo, lo sposo, alla quale la Chiesa, la sposa, aderisce rispondendo con un amore obbediente. La Chiesa come donna-sposa sperimenta 15 Paradossalmente quindi il processo di raccolta avanza e continua nella divisione-dispersione quindi la protezione, l’assistenza e l’intimità dell’amore di Cristo: il “con Lui” è risposta la fatto che Egli è con essa e il “con Lui” è quindi anche “sotto di Lui”. Con questa metafora si mette bene in risalto gli obblighi della Chiesa verso Cristo e l’amore di Cristo verso la sua Chiesa. Le immagini di Corpo e di Sposa sono saldate in Ef 1,22; 4,11-16 con quella di pienezza per dire come Cristo si realizza nella Chiesa raggiungendo progressivamente la sua pienezza in tutte le cose, perché la prospettiva escatologica di Cristo-Capo è per tutta la realtà creata che va ri-capitolata, “in-testata” a Lui e la Chiesa è la realtà storica di questa ricapitolazione, in-testazione. In Rom e 1-2 Cor non si mette in evidenza il rapporto Cristo-credenti, quanto più quello dei credenti tra di loro e in quest’ottica il corpo è prima dei singoli membri! In quest’ottica quindi la Chiesa non è più un mondo omni-comprensivo come prima, ma uno spazio preciso nel mondo, un ambito ristretto. Se prima l’ottica era quella del mistero e del disegno di Dio che è Cristo con la Chiesa, in questo caso la prospettiva è quella storica, del divenire, del formarsi della Chiesa nel tempo e nello spazio e prende così importanza l’ottica sacramentale della Chiesa tanto che i discorsi sulla Chiesa sono quasi sempre fatti all’interno del contesto eucaristico, tanto che si vede la Chiesa come Corpo di Cristo in relazione al Corpo di Cristo Eucaristico: segno e strumento dell’unità è quindi proprio l’Eucaristia, l’unico pane spezzato. Ad esempio 1 Cor 12 è collocato in un orizzonte di riflessione sui carismi e solo attraverso il Corpo di Cristo Eucaristico si edifica il Corpo di Cristo reale che è la comunità. La sintesi è in 1 Cor 10,16-17 perché noi diventiamo Corpo di Cristo perché facciamo comunione al Corpo di Cristo Eucaristico. TEMPIO DELLO SPIRITO. Concetto espresso anche con i termini di: casa, edificio, città. Tutti elementi per dire che la Chiesa è il luogo in cui Dio agisce mediante lo Spirito Santo tanto (2 Cor 6,16). Ciò serve anche a ricordare che è lo Spirito Santo che distribuisce i carismi, è lui il principio vitale dei ministeri e dei vari membri della Chiesa anche perché essa è santa proprio per questo! Il mistero della Chiesa Detto tutto ciò, come Paolo è arrivato a parlare della Chiesa come Corpo di Cristo? Per Paolo il Corpo di Cristo è anzitutto quello crocifisso, ma come è arrivato a definire la Chiesa così? La risposta la troviamo nella lettera agli Efesini dove la Chiesa è vista come mistero perché non ha origine dalla storia, ma la sua più profonda origine è proprio nella predestinazione di Dio che da sempre vede davanti a sé la Chiesa e la vuole e proprio per ciò vuole condurre tutte le cose (cielo e terra) sotto un unico capo. L’essenza della Chiesa va quindi cercata nella volontà salvifica di Dio che precede ogni esistenza, tanto che la stessa creazione è realizzata in vista della Chiesa, la presuppone: con il mistero della Chiesa viene quindi anche in luce il mistero della creazione, mistero che è rivelato in Gesù Cristo e che è il mistero di Dio (Col 2,2) e nel mistero pasquale che è il mistero di Cristo (Col 4,3). Stando a 2 Cor 5,14ss questo mistero consiste nel fatto che uno è morto per tutti, a vantaggio di tutti e che nella sua morte tutti sono privati della vita per sé stessi, perché in forza di essa non viviamo più per noi stessi, ma per Lui, in Lui e in vista di Lui. Stando poi a Ef 2,15-22 Cristo nel suo mistero di morte e Risurrezione ha riconciliato non solo gli uomini con Dio, ma anche gli uomini tra di loro, facendone un solo uomo nuovo. In che senso infatti Gesù è la nostra pace? Perché ha riunito nel suo corpo ebrei e pagani e li ha riconciliati a Dio per mezzo del suo sangue, così l’origine della Chiesa nel tempo e nel mondo si trova nel Corpo di Gesù Cristo in croce, perché è in esso che tutti sono accolti e fatti nuovi, riconciliati con Dio e con gli uomini, ed esso è già potenzialmente e virtualmente il corpo della Chiesa, perché inseriti e in quel Corpo Crocifisso gli uomini sono davanti a Dio un nuovo essere: la Chiesa. Come tutti si sono alleati per uccidere quel corpo, così solo in quel corpo tutti sono alleati! Una prima risposta alla domanda iniziale è quindi che poiché Cristo è il mistero per eccellenza, allora la Chiesa è mistero e per questo è ad esso strettamente congiunta, resta però ancora da risolvere il problema di come la Chiesa diventi IL Corpo di Cristo, di come il Corpo di Cristo morto e risuscitato diventi il corpo di Cristo ecclesiale, cosa stabilisce la relazione tra i due … Lo Schlier dice che la realtà del Corpo di Cristo in Croce prende forma e si costruisce come dimensione salvifica della Chiesa e ciò avviene per opera dello Spirito Santo che dischiude e attualizza in concreto la realtà redentrice della riconciliazione con Dio e tra gli uomini e così attraverso il corpo ecclesiale si giunge al Corpo di Cristo crocifisso, nello Spirito Santo. Così la differenza tra il corpo in cielo e quello in terra è solo nel modo di essere perché quello in terra si attualizza e si rappresenta mediante lo Spirito Santo. L’edificazione della Chiesa Va bene, ma come lo Spirito realizza e trasforma la dimensione salvifica, offerta da Cristo in croce, nella immagine salvifica della Chiesa? Paolo risponde che ciò avviene mediante: - L’annuncio del Vangelo di Dio (Rm 1,9.16), della Testimonianza di Dio (1 Cor 2,1), della Parola di Dio (1 Cor 14,36), del Vangelo di Cristo (1 Ts 3,2), della Testimonianza di Cristo (1 Cor 1,6), della Parola del Signore (1 Ts 1,8). È Dio stesso, è Cristo stesso infatti a chiamare mediante l’annuncio del Vangelo! - Le azioni efficaci e i segni efficaci che oggi chiamiamo sacramenti e tra i quali spiccano il Battesimo e l’Eucaristia e soprattutto quest’ultima. - Con l’ausilio di: servizi ministeriali, perché il Vangelo e i segni efficaci operano mediante dei ministri, tanto che Paolo si ritiene apostolo, servo di Cristo e amministratore dei misteri di Dio e in 1 Cor 5 si presenta come ministro della riconciliazione e questo incarico che lui “si trova addosso” non finisce con lui tanto che a Timoteo è affidato lo stesso incarico; dei carismi. Curioso a tal proposito che nei due elenchi che Paolo fa (1 Cor 12,28ss e Ef 4,1116) ministeri e carismi siano insieme, a dire che non sono la stessa cosa, ma che la fonte è la stessa come anche il motivo per cui operano: dal Corpo di Cristo per il Corpo di Cristo. I membri della Chiesa Cosa avviene quanto una persona diventa membro del Corpo di Cristo, della Chiesa? Non avviene qualcosa di assimilabile all’entrata in una qualsiasi società o gruppo perché se ogni volta che ciò avviene la Chiesa si edifica, non c’è edificazione nella misura in cui i membri del corpo non edificano sé stessi consolidandosi sempre più in Cristo (cf Gal 3,27 o 1 Cor 1,30). Gli uomini infatti sono da Cristo e in vista di Cristo perciò i cristiani vengono introdotti nella storia salvifica di Cristo, partecipando della sua morte, resurrezione e ascensione e questo perché Cristo si è “impadronito” dei cristiani, divenendone il fine e il destino, tanto che Paolo parlando di sé dice: «Non sono più io che vivo, ma Cristo che vive in me» (Gal 2,20), ma spesso parla anche di Cristo nei cristiani (Rm 8,10; 2 Cor 13,5; Col 1,27). E questa presenza dei cristiani in Cristo e di Cristo nei cristiani avviene nello Spirito Santo (Rm 8,9) che ci è stato dato e che come cristiani abbiamo ricevuto, che abita in noi e che ci accorda di vivere come Cristo, è nello Spirito infatti che non apparteniamo più a noi stessi e siamo quindi liberi (2 Cor 3,17; 1 Cor 6,19). Quella appena descritta è la dinamica della mistica che non è riservata a qualcuno, ma a tutti coloro che appartengono a Cristo ed è una dinamica tipicamente relazionale, perché non comporta fusione: più cresce l’unione più differenzia. Soltanto in questa luce si leggono correttamente tutti i concetti usati da Paolo per spiegare l’esistenza cristiana: elezione, chiamata, giustificazione, riconciliazione, illuminazione, liberazione ecc. proprio perché in Cristo il cristiano sperimenta di essere libero dal peccato, dalla morte e da sé stesso e proprio per questo sperimenta che tutto gli appartiene! Bulgakov intende lo Spirito Santo come Gloria di Dio, che abitando l’uomo in qualche modo lo glorifica e ciò avviene solo stando e perseverando nella vita secondo lo Spirito, che fa vincere ed uccidere le opere “del corpo”. Tutto ciò si realizza nella fede, nel lasciarsi giustificare da Dio e all’operare nell’amore (Gal 5,6; 1 Cor 13). Lo Schlier conclude dicendo che questa vita in cui il cristiano viene edificato consiste quindi nel gloriarsi in Lui e non in sé stessi. LA CHIESA NELLE LETTERE PASTORALI (mia sintesi dello Schlier) Lettere post-paoline, hanno presente una struttura della Chiesa nuova, diversa da quella di Paolo, Luca e Giovanni, struttura che comunque viene vista come una attualizzazione del pensiero paolino in un contesto mutato. Questa trasformazione, soprattutto per quanto riguarda il ministero ecclesiastico, viene avvertita come conseguenza delle istruzioni impartite da Paolo ai suoi discepoli e quindi corrispondente alla spirito e alla volontà dell’apostolo. Della Chiesa in quanto tale si parla poco, e quando se ne parla è su questioni riguardanti il ministero ecclesiastico, ma se ne possono rilevare tre elementi importanti: È nata dall’immolazione di Gesù Cristo per noi, ed è proprietà sua (Tt 2,14) È paragonata ad una famiglia terrena e si può vedere come “famiglia di Dio” (1 Tim 3,5.15) Può essere vista come un edificio, come il fondamento divino della fede (1 Tim 2,4.7; 4,3) Chiesa fondata sul ministero apostolico paolino Questa Chiesa si fonda sul ministero apostolico ed è curata da esso ed è proprio questo tema il centro di gravità di queste lettere. Principio di questo fondamento è l’apostolato paolino, perché è a Paolo che è stato affidato in origine il vangelo della gloria di Dio (1 Tim 1,11) ed è apostolo di Gesù Cristo «secondo l’ordine di Dio nostro Salvatore e di Gesù Cristo nostra speranza» (1 Tim 1,1; 2 Tim 1,1). Ma in che senso Paolo, che è morto, è ancora l’Apostolo per eccellenza che 1 Tim 2,7; 2 Tim 1,11 e 4,17 mostrano attualmente in attività mentre scrive ai suoi discepoli e attraverso essi alla Chiesa? Egli è presente con il suo kerygma e il suo vangelo, inteso come dottrina vincolante, grazie alla interpretazione autentica di alcuni suoi discepoli. Ministero apostolico paolino presente nel ministero dei ministri ecclesiastici Il crescente potere d’ordine e di governo dei ministri ordinati è visto come: - Sviluppo dell’apostolato paolino, tanto che tutto (servizio religioso, ordinamento, vita e pensiero ecclesiastico) è sottoposto alle direttive dell’Apostolo. Due esempi: 1) Paolo indica il modo di cooptazione dei vari ministeri ecclesiastici, le norme che fissano le condizioni di dignità, i principi del loro servizio e della loro condotta e del rapporto con essi; 2) Paolo ha il potere giuridico di infliggere delle penitenze (1 Tim 1,20), di ordinare (2 Tim 1,6; 1 Tim 4,14) e di dirimere casi particolari. L’Apostolo è quindi visto permanentemente e storicamente presente nella ministerialità - Trasposizione dal diritto divino a quello ecclesiastico. In queste lettere, ad es. 1 Tim 5,17, non si parla più di un diritto sacro visto in chiave escatologica, ma di un diritto sacro presente nella giuridicità permanente che crea un ordinamento sempre vincolante, grazie ad una distinzione tra ciò che vi era di transitorio nell’apostolato paolino e ciò che era fondamentale e permanente. Trasmissione del ministero apostolico da Paolo ai ministri ecclesiastici L’apostolato paolino è quindi presente e permanente nel ministero apostolico, così inteso, da cui scaturiscono dei ministeri che devono essere visti come delle esplicazioni e delle trasformazioni del paolinismo nel presente. Timoteo e Tito in quest’ottica, visto anche il profondo rapporto personale con l’Apostolo, diventano i tipi dei titolari di un ministero: in essi viene in luce con estrema chiarezza la peculiarità di questo ministero postapostolico che non è la continuazione dell’escatologico ufficio apostolico di un tempo, ma l’esplicitazione della sua ministerialità per la concreta situazione postapostolica. Detto questo passiamo a vedere come la giustificazione del ministero di Timoteo divenga ora: - Formale, perché ciò che durante la vita dell’Apostolo, nei suoi provvedimenti e nella sua missione pratica, era operante in maniera velata, ora si manifesta e diviene operante nel suo senso giuridico e istituzionale (cf 1 Tim 1,18). - Sacramentale, perché il carisma di Dio che permette di appartenere al ministero apostolico, che viene conferito una volta per sempre, si comunica con l’imposizione delle mani da parte del presbiterio e dell’Apostolo. Di questo dono ricevuto egli deve preoccuparsi, per rinfocolarlo affinché divenga operante (1 Tim 1,18; 4,14; 2 Tim 1,6; 2,2; Tit 1,5) e proprio perché ordinato il ministro può svolgere, in determinate circoscrizioni ecclesiastiche, la funzione di rappresentante dell’Apostolo (1 Tim 3,15; 4,13; 2 Tim 4,9; Tit 3,12) e di suo successore (2 Tim 4,5ss) Il ministri ecclesiastici devono ricalcare il ministero paolino nella forma In questo contesto si inseriscono le funzioni che spettano al ministro ordinato dall’Apostolo: - Il servizio della parola, l’insegnamento, nelle sue varie realizzazioni: predicazione, testimonianza, istruzione, esposizione dottrinale, esortazione pastorale ecc. I momenti in cui avviene questo insegnamento sono soprattutto le assemblee pubbliche della comunità e i temi trattati sono la fede, la morale e l’ordine della comunità (1 Tim 2,12; 4,3). Data la nuova situazione della Chiesa, questo insegnamento è particolarmente “apologetico” perché è visto come fondamento della reazione contro gli eretici che stanno comparendo nelle comunità. Viene infatti presentato come un’istruzione apostolica quella che prescrive di presentare la dottrina di fronte agli eretici, in maniera cordiale e pedagogicamente positiva, di proclamare la parola in ogni momento (2 Tim 4,2), di custodire il deposito apostolico (1 Tim 6,20), di non discutere (2 Tim 2,14.23ss) e di non abbandonarsi a favole profane e racconti da vecchie donne (1 Tim 4,7). - La potestà amministrativa che non condivide con la comunità intera, ma tutt’al più con altri titolari di ufficio a lui subordinati. Timoteo è così presentato come responsabile della casa di Dio, nella quale: deve sapere come comportarsi (1 Tim 3,15); deve sorvegliare non solo sui membri della comunità, ma anche su tutti i ministeri stabilendo direttive ad es. per le vedove (1 Tim 5,7), i presbiteri (1 Tim 5,17ss). - Quello che potremmo chiamare “potere d’ordine” perché può costituire dei presbiteri nella comunità (Tit 1,5), presbiteri che se hanno funzioni direttive vengono detti episcopi (Tit 1,57) il cui compito è insegnare, presiedere e ordinare (1 Tim 4,13; 5,17; 2 Tim 2,2) e al cui fianco stanno dei diaconi (1 Tim 3,1-7.8-13). È significativo comunque che in queste lettere la missione paolina dei discepoli dell’Apostolo e i ministeri riconosciuti e onorati da Paolo nelle comunità, siano fondati nella successione ministeriale e nell’ordinazione sacramentale: la potestà ministeriale perciò non solo fonda la Chiesa, ma la edifica! Il ministri ecclesiastici devono ricalcare il ministero paolino nello spirito Il ministero apostolico paolino viene conservato nel ministero di Timoteo e Tito non solo nella sua forma esteriore, ma anche in quella interiore, anche se un po’ modificata. Lo Spirito è infatti il fondamento e la forza dell’attività ministeriale (2 Tim 1,6-14; 2,1; 1 Tim 4,14) ed in questo senso è un ministero “spirituale” e come tale si deve manifestare nell’esistenza del ministro che deve: - Perseguire la giustizia, la pietà, la fede, la carità, la costanza, la dolcezza, combattere la buona battaglia e conquistare la vita eterna (1 Tim 6,11ss; 2 Tim 2,3-15). - Essere un esempio per la comunità (1 Tim 4,12; Tit 2,7). - Soffrire con l’Apostolo per il Vangelo (2 Tim 1,8; 2,11ss; 3,10ss; 4,5ss). - Far sì che il suo ministero sia come quello apostolico e quindi centrato su , combattimento (1 Tim 1,19; 2 Tim 2,3.4) e , servizio (1 Tim 1,12; 4,6; 2 Tim 4,5). - Esercitare il ministero in continuo riferimento all’ufficio apostolico: Soprattutto per quanto riguarda la dottrina (1 Tim 6,3; 2 Tim 2,14; Tit 3,1), sulla quale essi devono vegliare e che devono conservare (1 Tim 4,16; 6,20) trasmettendo le tradizioni formulate (2 Tim 2,2.11ss), ma soprattutto con l’aiuto dello Spirito (2 Tim 1,13ss) e del Signore (2 Tim 2,7ss): in altre parole un ministro ordinato insegna guardando con fede e con amore alla vivente tradizione apostolica, continuamente interpretata e tradotta con l’aiuto del Signore e dello Spirito. Nelle attività giudiziarie e di governo (1 Tim 3,1-7ss; 5,3ss-19; Tit 1,5ss) Nella condotta Posizione nella Chiesa dei ministri ecclesiastici Anche riguardo alla posizione all’interno della Chiesa di questi ministri ecclesiastici viene ribadita e conservata, nella nuova situazione, la caratteristica dell’ufficio apostolico di Paolo ai suoi tempi, dell’ufficio apostolico escatologico e così nei confronti dell’ufficio, per quanto concerne una partecipazione al potere spirituale, la comunità è pienamente subordinata. Le lettere sono infatti rivolte soltanto ai titolari di qualche ministero, mentre della comunità sappiamo solo che: ascolta (1 Tim 4,16), prega (1 Tim 2,1.8; 5,5), vi si entra con il Battesimo (Tit 3,5ss), svolge attività caritative (1 Tim 5,10.13; 6,17ss; Tit 1,11ss), alcuni di essi svolgono dei servizi volontari all’Apostolo o al suo rappresentante (2 Tim 1,16.18; 4,10ss.19ss; Tit 3,12), tutti sono invitati ad istruirsi a vicenda (Tit 2,3ss), va diminuendo la presenza dei carismi tra i quali resistono i profeti (1 Tim 1,18; 4,1.14). Ogni autorità e responsabilità è così riposta nei detentori di uffici ecclesiastici: - Il cui insegnamento è vincolante per tutti, perché non proveniente da loro, ma dalla tradizione apostolica da essi accettata e come tali vanno accettati ed ascoltati. - Essa va usata soprattutto per trattare con gli eretici (1 Tim 1,3; 2 Tim 2,15) fermo restando che deve essere regolata sempre dall’Agape, in quanto sorretta da essa (2 Tim 2,14.24ss) essendo la Chiesa la famiglia di Dio (1 Tim 5,1ss) - Anche nelle funzioni direttive (1 Tim 5,7) nelle quali un ministro ecclesiastico non condivide la sua autorità con l’assemblea e neppure con i carismatici, ma soltanto con il collegio dei presbiteri (1 Tim 4,14; 5,17ss) - Essi devono comunque rifarsi continuamente agli apostoli, nella fede e nell’amore in Cristo (2 Tim 1,13), nella forza dello Spirito (1 Tim 4,14; 2 Tim 1,6.14), sotto l’assistenza del Signore e mediante la sua grazia (2 Tim 2,1.7) - Essa è quindi essenzialmente una autorità spirituale e siccome è dal compimento personale e ministeriale del servizio apostolico in quello ecclesiastico che dipende la salvezza del detentore dell’ufficio e degli uditori, egli deve essere: mantenuto dalla comunità (1 Tim 5,17ss), onorato (1 Tim 5,19) e rispettato (1 Tim 4,12.13; Tit 2,15) LA CHIESA NELLA LETTERA AGLI EBREI (mia sintesi dello Schlier) Della comunità a cui è indirizzata la lettera sappiamo che: - è una comunità etnico-cristiana della seconda generazione, sub-apostolica (5,11ss; 6,1ss) - ha già sofferto molte tribolazioni (10,32ss) - ha dimostrato molta carità per il nome di Dio (6,10) - ora è in pericolo di stancarsi e di rinunciare alla fede (12,3.12ss), di distaccarsi da Dio (3,12) - si raduna in assemblee che però alcuni disertano (10,25) - i suoi membri sono tutti battezzati (6,4ss; 10,23.26.32) - in essa agiscono la parola (2,1ss; 4,12; 6,1; 12,25; 13,7.22), il vangelo (4,2.6), la dottrina sia come istruzione elementare che come gnosi superiore (5,12ss;6,1ss; 13,9) - conosce tradizione (2,3), confessione (3,1; 4,14; 10,23), lode (13,15) e preghiera (13,18) - ha presidenti o capi: che le predicano la parola di Dio (13,7); ai quali deve obbedire e sottomettersi, poiché a loro è demandata la responsabilità davanti a Dio delle loro anime (13,17); dei quali devono ricordarsi ed imitare la fede (13,7); distinti da essa (13,24). L’autore stesso si attribuisce l’autorità spirituale, sembra pari a quella di Timoteo (13,23), per insegnare a questa comunità una gnosi superiore (6,1.3) ed esorta i membri, che chiama “santi fratelli” (3,1), “fratelli” (3,12; 13,22), “diletti” (6,9), ad accogliere la sua “breve” lettera (13,22), mediante la quale è in Dio che parla (12,25), e a pregare perché sia reso loro al più presto (13,23). Il tema ecclesiologico interessa poco l’autore il cui interesse è prevalentemente cristologico, ma proprio in riferimento a Lui evinciamo della comunità che: - è detta “casa di Dio” (10,21), sopra la quale sta, in quanto Figlio, il grande Sacerdote Gesù Cristo che l’ha preparata (3,3.6) realizzando ciò che Mosè aveva solo anticipato (3,5); - è detta “popolo di Dio” (4,9; 10,30; 11,25) mentre Israele è detto “il popolo” (2,17; 5,3); - i suoi membri, compreso Cristo, hanno tutti la stessa origine e come tali sono fratelli di Cristo (2,11) anche se sono pure suoi figli (2,13). In sintesi la Chiesa deve la sua esistenza a Dio e Cristo di cui è proprietà in quanto popolo di Dio e famiglia di Cristo. Fondandosi su quanto Dio ha fatto in Gesù Cristo conviene rivedere i tratti del Figlio come tracciati dall’autore, infatti egli lo mostra come: - Colui che nel quale Dio ha continuato e portato a termine il discorso che aveva iniziato, sotto molteplici forme, con i profeti (1,2). - Mediatore della creazione e reggitore di tutto mediante la sua parola onnipotente (1,2.10). - Parola creatrice di Dio per il quale e mediante il quale tutto esiste (2,10). - Introdotto da Dio nel mondo e benché generato da Dio (1,5; 2,11; 5,5), splendore ed immagine della sua sostanza (1,3) ha partecipato alla carne e al sangue, divenendo in tutto simile ai suoi fratelli (2,14.17): germogliato dalla tribù di Giuda (7,14) ha esercitato la giustizia e odiato l’empietà (1,9), è stato tentato (2,18) senza però mai peccare (4,15), ha sofferto (2,9.10.18) anche fuori della porta (13,2) sulla croce (6,6; 12,2) e ciò lo rende misericordioso e soccorrevole verso gli uomini che vengono tentati (2,17ss; 4,15) anche perché ha espiato i peccati del popolo (2,17) prendendoli su di sé e compiendo la purificazione dei peccati (1,3) e santificando così il popolo con il suo sangue (13,12). - Mediante questo suo prendere su di sé i peccati, avvenuto nella sua passione e morte per noi, e quindi nella liberazione da essi in virtù della sua morte, si carica della discendenza di Abramo (2,16), strappa l’uomo al diavolo, il mentitore all’origine della caduta del peccatore, e il peccatore sostenuto da Gesù è liberato dalla paura della morte (cf 2,9.14ss). - Per la sua passione mortale è stato condotto alla perfezione da Dio (2,10) e proprio per questo è: incoronato di gloria e di onore (2,9); seduto alla destra della Maestà nell’alto dei cieli (1,3; 12,2); superiore agli angeli (1,4ss; 2,5ss); erede di tutte le cose (1,2) a cui tutto è stato sottoposto da Dio (2,8); principio della nostra salvezza (2,10). Il “per noi” suo e di Dio è divenuto presenza perenne per tutti gli uomini (13,8); - Proprio per questo è Sommo Sacerdote, titolo che in fondo può essere scambiato con quello di Figlio (3,1-6; 4,14-15; 5,5-10) e che per l’autore rappresenta la vera gnosi (6,10), il centro della seconda parte della lettera (4,14-10,18), che mostra come l’essere sommo sacerdote e autore della salvezza siano in stretta connessione e come il sacrificio di sé (unico e definitivo) compiuto un tempo per noi, nel quale e mediante il quale noi siamo stati santificati una volta per tutte, è presente in maniera tale che egli ora intercede continuamente in nostro favore e si avvicina il giorno in cui apparirà a coloro che lo attendono (10,25.37). Quest’ultimo punto permette di entrare nei frutti dell’evento salvifico: Egli, come grande sacerdote sovrano (4,14) è alla testa della casa di Dio (10,21) e cioè, per tutti coloro che gli obbediscono è divenuto principio di salvezza eterna (5,9), salvezza che significa il perdono dei peccati (9,28; 10,12.18), purificazione della coscienza dalle opere morte per poter servire il Dio vivo (9,14.15), in una parola santificazione (10,10.14.29). La fondazione della nuova alleanza da parte di Dio, di cui Gesù è mediatore (9,15; 12,24) e garante (7,22), a scapito di quella antica che sta per scomparire (8,13). I chiamati alla nuova alleanza hanno ricevuto l’eredità promessa (9,15), alla quale ora possono partecipare anche i fedeli defunti dell’AT (11,39), e che è il riposo del settimo giorno (4,9), il possesso di una ricchezza migliore e stabile al confronto di tutti i beni terreni (10,34): la vita, il vedere Dio (12,14), il ricevere il possesso di un regno incrollabile (12,28). La nuova alleanza con le sue promesse nuove e definitive è così introduzione di una speranza migliore, mediante la quale ci avviciniamo a Dio (7,19): promessa e speranza sono legate (10,23) e formano la caratteristica del nuovo popolo di Dio (10,19) che è popolo peregrinante di Dio, che ha una meta celeste ed è continuamente in cammino verso questa meta. Giunto alla montagna di Sion, alla città del Dio vivente (12,22ss) il popolo di Dio è orientato a quella futura, ma si può aprire alla futura, perché è pervenuto a quella presente, la Nuova Alleanza della promessa eterna è quindi presenza di ciò che è futuro e futuro di ciò che è presente: giungere presso il futuro equivale ad irrompere in esso. Si entra in questa Nuova Alleanza, si svolge questo pellegrinaggio, si incontra come presente il futuro che si ricerca, ascoltando la voce di Dio (4,7) e obbedendo a questa parola viva ed efficace che Dio ha detto (4,12ss) con la predicazione del Signore, trasmessa autenticamente dagli uditori (2,3ss) e ora annunciata da coloro che presiedono le comunità e dall’autore della lettera (13,7.22), obbedendo alla quale si obbedisce al Figlio che ha imparato lui per primo l’obbedienza divenendo così il principio della salvezza (5,9). Questa obbedienza caratterizza la fede mediante la quale si perviene a Dio (11,6), si entra nel suo riposo (4,3) e si ottiene la vita (10,39), fede della quale Gesù è l’iniziatore e il perfezionatore (12,2) e che è “definita” nel cap.11 che inizia con una definizione veloce (11,1), mostrando poi i prototipi dell’AT nei quali si vede come fede e speranza-pazienza sono complementari. Al centro di questa fede c’è il Battesimo: nel quale si concentrano provvisoriamente tutte le esperienze della salvezza e che è unico e irripetibile (6,4ss; 12,17) e che è il presupposto per l’ingresso nel santuario (10,22ss) e la promessa viene ottenuta solo quando i battezzati proclamano la speranza nella fede, soprattutto in mezzo alle prove. La lettera è scritta come parola di esortazione (13,22) e quindi ecco che essa contiene anche delle indicazioni pratiche per conservare e rafforzare il popolo di Dio in questa fede, la Chiesa in cammino verso la sua meta celeste: o Deve evitare la disobbedienza, l’apostasia della fede (3,18; 4,11) il fallire la meta (2,1), l’arrestarsi (4,1) il deviare (12,12) facendo attenzione, perché il pericolo di errore è molto più alto che ai tempi di Israele (2,2ss; 10,26ss; 12,25ss) e perché Dio è un giudice infallibile (4,12ss) ed è spaventoso cadere nelle sue mani (10,31). o Per non incappare in questi intoppi deve fare attenzione a ciò che si è udito (2,1) e soprattutto ciò che ode ora mediante la parola dell’autore (13,22) e dei suoi capi (13,7), nella quale si realizza di continuo l’oggi di cui parla Davide (4,7), evitando così di lasciarsi fuorviare da dottrine diverse ed estranee (13,9). o Per camminare, per ascoltare concretamente, deve sforzarsi (4,11), risvegliarsi dal sonno (12,12), perseverare nella confessione (4,14) che paradossalmente è definita come un accostarsi al trono della grazia (4,16) e che si tratta della confessione di Gesù Cristo gran sacerdote e della speranza connessa (10,23.35ss). Bisogna essere costanti e fedeli per il breve tratto che ancora manca all’apparizione di Gesù Cristo (3,6.14; 6,11; 10,36) guardando a mo’ di consolazione e sprono: a Gesù che fedele fino all’ultimo (3,1ss) ora è assiso alla destra del trono di Dio (12,2ss); alla nuvola di testimoni (12,1) la cui fede provata viene diffusamente presentata (11); alla fede e alla condotta dei propri capi (13,7) e a quella dei credenti in generale (6,12); al comportamento della stessa comunità nei primi giorni (10,32ss). o Per perseverare nella confessione i suoi membri devono: accettare l’educazione di Dio (12,4ss); rifiutare il peccato e la lotta fino al sangue contro di esso (12,1.4); essere continenti e casti (13,4); rifiutare l’avarizia confidando nell’aiuto di Dio (13,5ss); santificarsi (12,14); essere riconoscenti per il regno incrollabile che riceviamo (12,28); amarsi fraternamente, essere ospitali, interessarsi dei fratelli incarcerati (13,1ss); fare beneficenza e curarsi della comunità (13,16); frequentare le assemblee della comunità (10,25); ricordarsi del comune sacrificio di lode e della professione della fede (13,15); ricordarsi dei capi della comunità (13,7), obbedir loro (13,17) e pregare per loro (13,18); interessarsi dei membri della comunità (10,24). Tutto ciò ben sapendo che è Dio che rende i cristiani atti a compiere ogni bene, perché è Lui il grande pastore delle pecore che guida la sua comunità (13,20ss). LA CHIESA NELLA PRIMA LETTERA DI PIETRO (mia sintesi dello Schlier) Il dono della grazia L’evento di grazia di Gesù Cristo, in quanto storia di Dio per noi, nel quale è stata fatta una nuova offerta della vita, si dischiude a colui che obbedisce con una fede piena di speranza, in virtù dello Spirito mediante il vangelo come già è avvenuto nei profeti (1,11). L’evento di Gesù Cristo è così visto come compimento delle affermazioni profetiche e in connessione con la storia di Israele tramandata nell’AT, ma ciò può essere colto solo grazie alla predicazione, al vangelo (4,6.17) che è il modo con cui giunge a noi la parola che rimane in eterno (1,25) grazie a dei messaggeri mossi dallo Spirito Santo (1,12), Spirito che ha risuscitato Gesù Cristo introducendolo nella gloria (1,21) e che consola con silenziose parole coloro che sono oltraggiati per il nome di Cristo (4,14). Dal legame della fede con il vangelo, predicato nello Spirito, si evince che: - Esso è l’appello di Dio, il modo con cui Lui ci chiama (1,15; 2,9.21; 3,9; 5,10) e ci pone di fronte alla pietra angolare posta in Sion (2,8) e coloro che urtano contro di essa sono i disobbedienti della parola (3,1; 4,17), mentre coloro che aderiscono a questa chiamata, all’offerta misericordiosa della storia di Gesù Cristo, aderiscono a Lui (1,8) nell’obbedienza della fede che spera o nella speranza che crede. - Essendo però Gesù presente nel vangelo, la fede in Lui è anche fede nella parola, nel vangelo (2,8; 3,1; 4,17), in quanto dono di Cristo (1,21) e decisione dell’uomo (1,7). - Questa fede conduce i fedeli attraverso il tempo finale e li conserva per la futura salvezza (1,5) e così apre alla speranza, alla quale è strettamente connessa (1,21), perché la fede, attraverso la provvisorietà dell’apparizione di Gesù Cristo nel vangelo, crede alla sua definitiva rivelazione: l’esistenza cristiana è così esistenza di speranza (1,3.13;3,15) - La fede e la speranza costituiscono a loro volta l’obbedienza, perché i cristiani sono coloro che sono stati scelti per obbedire (1,2.14;2,25) al contrario di quelli che non credono, perché non obbediscono alla parola (2,7.8; 3,1.20; 4,17) - La conclusione provvisoria e il nuovo punto di partenza della fede e dell’obbedienza che sperano, come pure il sempre rinnovato impegno, sono costituiti dal battesimo, che seppur menzionato solo una volta (3,21) pervade totalmente il nostro scritto. Prefigurato nell’arca di Noè esso salva in virtù della risurrezione di Gesù Cristo (1,3; 3,21), e comportando un “voto” del battezzando (3,21), lo rigenera facendolo rinascere in virtù della misericordia di Dio (1,3.23), santificandolo mediante lo Spirito (1,2) e facendogli desiderare il latte spirituale non sofisticato, cioè il vangelo (2,2ss). Chiesa come popolo di Dio In mezzo a coloro che, al seguito della chiamata di Dio l’hanno ricevuta nel Vangelo ed hanno ricevuto il battesimo, la grazia si crea il popolo di Dio tratto dai pagani, la Chiesa (2,10), nel quale Israele ha trovato il suo compimento e che ora è sostituito da esso. Vediamone le caratteristiche: - È la razza eletta (2,9) e i suoi membri sono stranieri nella diaspora del mondo (1,1), perché la loro unica terra santa è il cielo e così in questa terra, che per loro è terra di pellegrinaggio (), vi soggiornano soltanto per breve tempo (1,17), non come cittadini, ma come stranieri, pellegrini (). Nella città terrena essi formano al massimo una colonia e non per mancanza di interesse o di attenzione nei suoi confronti, ma perché essi non si aspettano la salvezza dal mondo e dagli uomini, ma da colui in cui credono, Gesù Cristo, e dal suo frutto che le darà come un dono (1,3ss; 2,2; 4,13). - Assume tutti gli attributi onorifici di Israele e così i suoi membri (2,9ss) sono re (hanno potenza e libertà), sacerdoti (hanno libero accesso a Dio) e profeti (con parole e azioni predicano agli altri uomini la potenza divina della misericordia che essi hanno sperimentato). - È il gregge di Dio (5,2) che è il loro pastore ed il custode delle loro anime (2,25), di cui attendono l’apparizione (5,4) e nell’attesa della fine Dio si avvarrà di “pastori” umani che ne pascolano il suo popolo escatologico (5,2) come Mosè costituì Giosuè (Nm 27,15ss) e Dio Davide(Sal 78,70). Questi pastori sono chiamati “anziani” e lo stesso autore della lettera è un anziano (5,1). Il loro compito consiste nel pascere il gregge di Dio e quindi dirigerlo, nutrirlo e assisterlo e per far ciò devono essere: disponibili per questo servizio, disinteressati, zelanti e modelli per il loro gregge (5,2-4). - È la casa di Dio (4,17) nel duplice senso di: Famiglia di Dio: composta di “fratelli” sotto un unico “padre” che li ha generati (1,3.23); sparsa in tutto il mondo (5,9); da amare (2,17) e nella quale si deve sperimentare un amore fraterno (3,8) Nuovo tempio, che abitato dallo Spirito, è opera prodigiosa di Dio (2,5) e il cui fondamento è Gesù Cristo e se ci si avvicina a lui, pietra viva, con il desiderio della sua parola e nella fede (2,2.4.6) si viene rigenerati (1,23) diventando a propria volta pietre vive per la costruzione di questa casa dello Spirito (2,5) nella quale si offrono per mezzo di Gesù Cristo, sacrifici spirituali graditi a Dio, rendendo testimonianza dei suoi prodigi (2,9). Questa edificazione sulla terra non avrà mai fine. La Chiesa nel mondo Questo popolo di Dio vive in mezzo a un mondo pagano e alle tribolazioni che esso gli provoca: Tribolazioni che provengono dal mondo che sono loro stessi e quindi non devono più conformarsi alle concupiscenze di un tempo (1,14), trascorrendo il tempo che rimane non più secondo le passioni umane, ma secondo il volere divino (4,2). Tribolazioni che provengono dal rapporto con quelli del mondo che giudicano strano che essi non corrano con loro verso quel torrente di perdizione e che si diffondono in oltraggi (4,4) e così le donne sposate con pagani non hanno vita facile (3,1-7); gli schiavi cristiani di padroni pagani devono subire da loro parecchie ingiustizie (2,19ss). Tribolazioni che provengono dall’ostilità che il mondo ha verso i cristiani, infatti l’essere cristiani è motivo di: denuncia, accusa e condanna (4,14ss; 5,9), calunnia (2,12), insulti (3,9; 4,14), discredito (3,16), aggressioni (3,9). L’atmosfera anticristiana è così talmente forte che si fa ripetutamente menzione della passione (2,19-20;3,14.17; 4,13.15ss.19; 5,9.10), si presentano i cristiani nella tribolazione e tentati (1,6), sottoposti ad un incendio, ad un rogo per essere provati (4,12). Alla base di questo atteggiamento sta un’ostilità che vuole annientare il cristiano nella sua fede, nella sua speranza e nel suo corpo, ostilità fomentata dal diavolo che si aggira nel mondo affamato di cristiani (5,8), ma è proprio nel passare attraverso questa ostilità, nell’affrontare questa passione, che è all’opera la mano potente di Dio (5,6), la cui volontà decide al di sopra di tutte queste vicissitudini (1,6; 3,17; 4,19) Proprio a questa gente così tribolata si rivolge questa lettera, esortandoli a: ○ Resistere nelle prove della fede (1,7) e perseverare fermamente nella speranza (1,13) ○ Non abbandonarsi all’antico egoismo (1,14) ed astenersi dalle concupiscenze (2,11; 4,2) ○ Essere pazienti (1,6ss; 2,20ss; 5,6ss) e umili (3,8; 5,5) ○ Compiere ciò che è giusto e buono (2,14.15.20) ○ Vivere per la giustizia (2,24) e amare incondizionatamente (1,22; 2,17; 3,8ss; 4,8) ○ Essere santi nella condotta della vita (1,15.22), poiché Dio è santo (1,16) ○ Soffrire con pazienza, perché è in ciò che si manifesta la speranza (1,2; 2,18) e si prende parte alla Passione di Cristo (4,13; 5,1) seguendone l’esempio (2,21; 4,1): chi soffre con pazienza quindi, non solo persevera nella grazia, ma vive nella grazia, perché vive tutto come donato da Dio e dal suo futuro e su di lui riposa lo Spirito della gloria di Dio (4,14) ○ Essere sobrio (1,13) e vigilante (5,8) in vista della preghiera (4,7) per essere liberi da sogni e illusioni, ponderando le cose con chiarezza e serenità di fronte a Dio. Tutto questo è tanto più pressante, perché è ormai vicina la fine di tutte le cose (4,7) CONCLUSIONI (mia sintesi dello Schlier) Negli scritti neotestamentari si possono individuare degli elementi di piena concordanza sui punti più qualificanti, nonostante: la varietà delle situazioni e dei fini per cui nascono i singoli scritti; la diversità dei punti di vista che in essi emergono; differenziazione nel modo di riflettere che di volta in volta li determina. Queste concordanze costituiscono quindi l’essenza della Chiesa e sono una interrogazione mai assopita rivolta alla Chiesa e alla sua storia, vediamole: Nel parlare di Chiesa il NT pensa sempre alla concreta Chiesa universale o alle concrete Chiese locali e non ad un’entità ideale, ma ad una Chiesa terrena che, come fenomeno trascendente, viene considerata nella sua essenza teologica. Una trattazione sociologica della Chiesa non potrebbe trovare alcun punto di appoggio nel NT. La Chiesa è opera misericordiosa di Dio, riposa sulla sua volontà, provvidenza e predestinazione eterne, è una manifestazione della sua multiforme sapienza e come tale non è, nella sua essenza, un prodotto della storia e della società terrena e neanche della creazione, ma è Cristo, nel quale, mediante il quale e in vista del quale tutto è stato creato ed ha consistenza: perciò anche nella Chiesa di Gesù, proporzionalmente ed in maniera provvisoria, si dischiude la creazione. In quanto opera di Dio prevista e predeterminata dall’eternità la Chiesa si fonda nell’immolazione di Gesù Cristo, che è risorto come Crocifisso, è apparso come Risorto ed è presente nella sua glorificazione come Signore. Il Corpo di Gesù Cristo sulla croce è quindi la dimensione originaria della Chiesa continuamente presente nel Risorto e nel glorificato Sulla croce, nel suo corpo crocifisso, culmina il “per noi” di Gesù Cristo e in virtù della sua resurrezione e glorificazione questo “per noi” è la permanente ed immensa dimensione-potenza personale che sta alla base del suo corpo, che ora è la Chiesa e che viene edificato e portato a temine come dimensione del “per noi” nella Chiesa In questo senso Gesù Cristo può dire che la Chiesa è “la mia Chiesa” e può chiamare i suoi membri discepoli, suoi, servi, figlioli, amici, fratelli perché Egli è in mezzo a loro, si rivela a loro, ed essi stanno sotto la sua parola, la sua promessa e il suo comandamento dell’amore, sostenuti dalla sua preghiera Mediante Gesù Cristo i membri della Chiesa hanno accesso a Dio, da lui sono custoditi e salvati, per lui portano frutto, da lui ricevono la vita e senza di lui non sono e non fanno nulla ecc. La Chiesa è inscindibile da Gesù Cristo, essa è l’incorporazione della sua presenza sensibile nel mondo. La Chiesa “precedendo” la creazione, precede anche Israele che viene considerato sotto più punti di vista e proprio perché riconosce in Israele la sua promessa, la Chiesa non prescinde da Israele, ma sta in un continuo dialogo con esso, da cui trae origine. La Chiesa ha anche un altro presupposto: la schiera dei discepoli del Gesù terreno. Schiera che Gesù separa dalle folle, apre, ordina, articola e nella quale è già presente in maniera provvisoria e nascosta la Chiesa che, preformata in quel discepolato, viene conosciuta ed agisce solo dopo la morte e la resurrezione, proprio come Gesù. Ciò dimostra l’omogeneità e l’identità essenziale dell’originario con il successivo mettendo in luce la realizzazione storica del successivo a partire dall’originario. La resurrezione e glorificazione di Gesù Cristo Crocifisso, costituiscono pure l’origine dello Spirito Santo che non è altro che la forza, la Dynamis, dell’autorivelazione di Dio in Gesù Cristo unita all’automanifestazione del Crocifisso-Risorto-Glorificato e come tale: o Ha edificato il luogo di presenza della Chiesa, che è da Lui convocata, in Lui ha la sua energia vitale e mediante Lui viene conservata come Chiesa: così il tempo della Chiesa è tempo dello Spirito e la storia dello Spirito è la storia della Chiesa. o Inabita ed ispira la Chiesa in modo da rendere presente “in” e “con” essa, lo spazio di vita del corpo di Cristo in croce. o È la forza della verità che edifica la Chiesa e la conserva nella sua essenza. o Rende la Chiesa popolo di Dio, tempio di Dio, casa di Dio, gregge di Cristo, suo corpo e sua sposa, con tutto quello che ciò comporta. o Elegge, chiama e soprattutto santifica i membri della Chiesa, perché da ad essi quella qualità trascendente che permette loro di essere un “organismo” differenziato qualitativamente da tutte le altre creazioni sociali. Questa Chiesa, in quanto entità trinitaria, di Dio, di Gesù e dello Spirito, è: o Apostolica. Non c’è Chiesa senza gli Apostoli e senza un rapporto con essi, perché: Sono testimoni del Risorto e di tutto il suo ministero Come tali sono i primi e fondamentali recettori e possessori dello Spirito che li ha abilitati al servizio del Vangelo. Con essi prende inizio la missione del vangelo che convoca la Chiesa Pur non riuscendo a capire molte cose, come ad es. il passaggio dai “dodici” agli “apostoli”, è un fatto che la Chiesa sia fondata internamente ed esternamente dagli apostoli e da ciò perennemente determinata nella sua essenza quindi non è senza effetto ed importanza l’articolazione dell’apostolato vigente nella Chiesa preformata del circolo dei discepoli come ad es. la posizione di Pietro all’interno di essa. o Universale, per principio e tendenza pratica, interiormente ed esteriormente, quindi: Non è una società misterica, ma un’entità aperta, un’assemblea pubblica, “politica”, Ekklesia appunto. Avanza il diritto di dominio sul mondo di tutti i tempi, su tutti i popoli e su tutti gli uomini, ad essa può appartenere chiunque ed è formata da tutte le razze, lingue, popoli e nazioni. Le sue misure corrispondono quindi a quelle del cosmo e anche in questo senso è un pleroma. o Una. Unità che è esigita dall’unico Dio, dall’unico Signore, dall’unico Spirito, dall’unica fede, dall’unico battesimo e che in fondo è l’unità dell’amore che si realizza nell’unico gregge sotto un solo pastore, frutto e copia dell’unità di Gesù con il Padre. Questa unità è richiesta dal mondo che può giungere alla fede solo contemplando e accogliendo l’invito di una schiera una e compatta, per questo ogni scisma ed eresia danneggiano la Chiesa locale come quella universale. Per il NT quindi, non è concepibile un pluralismo della fede, della dottrina e del Vangelo. Sulla base della rivelazione e in virtù dello Spirito, gli apostoli costituiscono la Chiesa con: o La parola, parola di Dio incarnata in quella umana che viene designata come vangelo, kerygma, testimonianza, dottrina, ecc. e che nella sua trasmissione è legata alla parola apostolica e quindi è sempre tradizione che può cristallizzarsi in varie forme, ma che non è mai manipolabile, perché è essa che dispone di colui che la pronuncia. Mediante essa si opera l’attualizzazione dell’evento salvifico del quale essa, in virtù dello Spirito, è debitrice perché esso ne mette in luce la verità e rimanda ad essa. La parola concorre così in ogni modo all’edificazione della Chiesa mediante l’edificazione di ognuno dei suoi membri e della comunità raccolta. o I segni sacramentali dei quali hanno un particolare ruolo specialmente: Il battesimo, sigillo della nuova nascita, atto conclusivo e decisivo dell’incorporazione nel corpo di Cristo, dell’inserimento nella storia e nella dimensione salvifiche di Gesù Cristo, che garantisce ed esige l’applicazione della nuova creazione. L’eucaristia, la cena del Signore, la frazione del pane che: è una partecipazione alla proclamazione della morte del Signore; produce un’unione con il corpo e il sangue del Signore e quindi una comunione con Lui e con i fratelli. Così il corpo di Cristo in croce si edifica nel corpo di Cristo, nella Chiesa, mediante il corpo di Cristo nella Cena. L’assoluzione, anticipazione della nostra confessione, compare solo marginalmente. È quindi caratteristica della Chiesa del NT radunarsi ed ordinare un po’ alla volta in “liturgia” gli elementi fondamentali degli inni, della preghiera, della dossologia e della benedizione e di trasformare l’assemblea in luogo e punto di riferimento dei suoi aiuti fraterni ad es. nella forma di collette per i poveri della propria o di altre comunità. In tutto ciò la Chiesa si presenta così come un’assemblea santa. Fin dal principio è ordinata, perché: o Colmata di carismi di ogni specie, ognuno di essi deve essere esercitato nella comunità al suo posto, a suo modo e a suo tempo, visto che la loro funzione è quella di servire e promuovere l’edificazione della Chiesa. o È presente, anche se non molto tematizzato, lo “ufficio” che trova un punto di aggancio nella funzione escatologica dei “dodici” tra la Chiesa preformata del discepolato del Gesù terreno, che si esplica poi nell’ufficio, nel mandato e nella missione degli “apostoli” responsabili della Chiesa. Con il principio ed il fatto dell’ufficio, che è ordinato soprattutto all’insegnamento, ma contempla anche il governo ordinatore della comunità, è dato pure l’inizio della successione e della consacrazione. Dall’apostolato scaturiscono in seguito i ministeri di ogni tipo. Il NT introduce come qualcosa di pacifico entrambi questi fattori d’ordine, che non operano alla periferia, ma al centro e che non sono mai visti, in linea di principio, in opposizione. Si diventa membri della Chiesa, si è incorporati ad essa, in base alla conversione nella fede, mediante il battesimo. La fede viene diversamente accentuata: o È un’obbedienza che ascolta e si fida dell’appello del vangelo, nonché di Dio che è presente in Gesù Cristo, mediante lo Spirito Santo, nella sua azione salvifica. o Può assumere più o meno il carattere della speranza. o Può avvicinarsi alla perseveranza e alla fedeltà o In quanto adulta si esplica in conoscenza di fede e diviene operante nell’amore verso Dio, Cristo, i “fratelli” o anche verso gli uomini estranei alla comunità. Di conseguenza la Chiesa è una fraternità: non solo le singole comunità, ma anche il loro insieme nella dispersione. Già nel NT si vede poi come la fede della Chiesa sia continuamente messa alla prova, che la sua speranza divenga spesso timida e ammutolisca, che la sua carità si raffreddi e che abbia sempre bisogno dell’incitamento e di essere svegliata, del dono e del comandamento. È una Chiesa nel mondo, ma non del mondo: o È in mezzo al mondo, da cui è stata tratta, all’umanità caduta nel peccato, nella menzogna e nella morte, inviata ad essa come segno dell’amore di Dio per il mondo. o Per sua natura non ne condivide la comprensione e le intenzioni, per questo vive come “straniera”, come in esilio in questo mondo, perché è già pervenuta alla città celeste e sta per entrarvi. Questo comporta una Chiesa: o Tentata dal mondo fin dal principio e in misura sempre crescente o Contro cui il mondo si costituisce come una religione secolarizzata e intollerante o Nella quale opera lo spirito corruttore del mondo o Oppressa, perseguitata e sofferente, è la Chiesa dei martiri, fin dalla Chiesa preformata nel discepolato del Gesù terreno: d’altronde il suo Signore è il Crocifisso e non deve stupirsi dell’ardore della passione che la coglie, non è nulla di strano! In mezzo a tutto ciò ella però “ha la pace” e durerà fino alla fine. È un fenomeno escatologico in virtù: o Della sua origine, perché nella persona e nell’opera di Gesù Cristo il regno di Dio è “divenuto vicino” e segretamente operante. o Dello Spirito che la convoca e la custodisce e che è l’inizio degli ultimi giorni. o Della sua attività con la quale pone il mondo e gli uomini di fronte alla loro fine, alla fine liberatrice dei loro egoismi, alla fine che è il “per noi” di Gesù Cristo. Perciò: o Come tale la Chiesa, può essere riconosciuta anche attraverso la sofferenza provocata dalla autoaffermazione del mondo di fronte alla sua fine iniziata in Gesù Cristo, di cui essa continua la Passione. o Il tempo della Chiesa e gli ultimi tempi, sono un unico e medesimo tempo. o Il fatto che la Chiesa sia interessata dalla fine del tempo, dall’inizio del Regno di Dio in Gesù Cristo, dà un’impronta particolare a questa fine, che è presente in essa e con essa: la Chiesa è concretamente il luogo della fine imminente. LA CHIESA NELLA STORIA Il Kehl fa la seguente suddivisione: la communio nella patristica, il medioevo (in cui la Chiesa Cattolica è vista come Chiesa Romana), il Concilio Vaticano I (il papa come garante decisivo dell’unità e della verità) e il Concilio Vaticano II (riscoperta del comune essere soggetto della Chiesa). Noi ci atterremo a questa scansione cercando di capire quali passaggi sono intervenuti e se è evidente che ciò vuole essere una riprova-verifica dell’impostazione data all’inizio, non faremo una storia della Chiesa, ma della coscienza che essa ha avuto di sé stessa. È curioso notare già da subito come parallelamente ad una coscienza antropologica ne corrisponda sempre una ecclesiologica e di come la differenza che c’è negli stili, spesso e volentieri, è la differenza della storia, sociale e personale, in cui sono immersi gli autori, ma d’altronde siccome la fede è una, toccando un aspetto della sua autocomprensione se ne toccano anche altri. Introduzione Non si hanno trattati veri e propri di ecclesiologia se non a partire dalla bolla Unam Sanctam di Bonifacio VIII contro Filippo il Bello (18 novembre 1302, DS 875) nella quale si parla delle due spade e si afferma la superiorità di quella spirituale su quella temporale e quindi del potere spirituale del Papa su ogni potere temporale. Ad essa seguiranno in trent’anni ben trenta trattati di ecclesiologia che hanno tutti nel titolo il tema del “potere”, anche se più che lavori di teologia è meglio parla di opere di diritto pubblico ecclesiastico. Nell’epoca patristica invece non solo non si hanno trattati, ma non appare dai vari scritti una concezione così strettamente legata al potere e alla difesa del papa, anche perché la Chiesa del momento non viveva come problema primario quello del rapporto tra Chiesa, principi e imperatori, ma se non c’erano trattati non vuol dire che non ci fosse un’autocoscienza di Chiesa! Guardando i commenti di molti Padri della Chiesa si può vedere come se ne parla in lungo e in largo e come parlando del mistero di Cristo simultaneamente parlino di quello della Chiesa: esemplare a tal proposito è il Commento al Cantico dei Cantici di Origene dove la sposa è vista come la figura dell’anima dell’uomo e della Chiesa. Si può dire quindi che dagli scritti dei Padri emerge una Chiesa che è l’humus in cui è ricevuta, si alimenta e vive la fede e che la loro è una visione straordinariamente ricca nella quale è implicito parlare dei vari misteri della fede, ecco perché Fries dice che per sintetizzare l’autocoscienza ecclesiale si deve usare la parola “mistero”. I cristiani in questo periodo per parlare della Chiesa si basano quindi non su elementi esterni, ma interni e le affermazioni e le immagini della Scrittura, sono vive e presenti. La Chiesa è così vista come: nuovo popolo di Dio fondato sulla fede e i sacramenti (cf Didachè 9,4: «Comunione che Dio aduna da tutte le regioni della terra»); terza generazione che è “altra” dai giudei e dai pagani; adempimento delle promesse fatte ad Israele e come tale preesistente da sempre (cf nel Pastore di Erma la donna anziana o Agostino che parla della Chiesa “ab Adam o ab Abel”). SVILUPPO DELL’IMMAGINE DELLA CHIESA COME CORPO DI CRISTO L’epoca patristica: Chiesa come Corpo di Cristo nell’Eucaristia L’immagine più importante è comunque quella paolina del Corpo di Cristo nel suo inscindibile intreccio plastico tra celebrazione eucaristica e Chiesa, perché per i Padri 16 era chiaro che parlare di Corpo di Cristo era parlare del triplice corpo: nato dalla Vergine, eucaristico e ecclesiale. Tre corpi tenuti insieme da una intelligenza simbolica perché il primo che era stato donato sulla croce, per la mediazione del secondo, incorporava a sé il terzo, il corpo reale e più vero: partecipando dell’unico pane eucaristico erano i cristiani l’unico Corpo di Cristo, perché è la Chiesa il fine stesso dell’Eucaristia , il Corpo che aspetta di diventare il Cristo totale che comprende tutta l’umanità. Se quindi l’effetto dell’Eucaristia era che la Chiesa diventava il Corpo di Cristo, per l’orizzonte patristico-simbolico (ben diverso da quello medioevale-dubitante) era ovvio che ciò avveniva perché l’Eucaristia era il Corpo di Cristo e cioè simultaneamente il simbolo reale del corpo nato dalla Vergine e del corpo che è la Chiesa, che si va formando proprio a mezzo della celebrazione eucaristica17. Questo tipo di intelligenza simbolica (che collega, che tiene insieme) che parla dell’Eucaristia come “imago rei futura” o “figura nostra”, e quindi dei cristiani che cominciano ad essere ciò che sarà nella pienezza escatologica verso cui tutti camminiamo, è lo stesso tipo di intelligenza che vede nell’AT la figura di Cristo, tanto che la Chiesa è come il pane portato sull’altare perché come il pane è formato dai tanti chicchi di grano macinati, così la Chiesa. I Padri intendono quindi per figura ciò che noi intendiamo simbolo in senso forte. 16 Tra i tanti ci sono la Didachè, Cipriano o Agostino nel suo celebre discorso 272. Oggi, in seguito alle controversie eucaristiche, noi pensiamo sempre solo al legame Eucaristia-Corpo nato dalla Vergine ed è De Lubac il primo che, nella sua opera “Corpus Mysticum”, ha rimesso in auge anche il legame Eucaristia-Chiesa: «Infatti l’Eucaristia non è rivolta solo verso il passato, ma anche all’avvenire: l’edificazione della Chiesa e l’Avvento della verità. Perciò sacramento di memoria e di speranza, che riproduce e anticipa, che produce significando ed è segno efficace del Corpo di Cristo che è la Chiesa, della carità fraterna tra i suoi membri, della pace e dell’unità. Significa insomma noi a noi stessi» 17 Analogamente se i Padri dicevano che Cristo è venuto per la nostra divinizzazione, era chiaro che intendevano “per essere in Cristo”, perché Cristo è venuto, non per essere solo, ma per essere e stare con tutti gli uomini, perché noi entrassimo in Lui e quindi la divinizzazione non è un fatto individuale, ma cristologico ed ecclesiale, infatti Cristo non sarà contento finché l’ultimo l’uomo non sarà in Lui e l’umanità non sia così un tutt’uno. L’umanità quindi sarà divinizzata solo quando ogni uomo sarà divinizzato criticamente, conformato a Cristo dallo Spirito Santo. Ecco perché se non tutti possono celebrare l’Eucaristia, chi celebra l’Eucaristia prega per tutti! Tornando all’intreccio indissolubile tra Chiesa ed Eucaristia, essi sono due misteri che si sostengono l’un l’altro e proprio perché la Chiesa si percepisce e si autocomprende a partire dalla celebrazione eucaristica, il mistero per eccellenza, allora si autocomprende come mistero 18. Ciò emerge in tutte le preghiere eucaristiche nelle quali si prega il Padre perché doni lo Spirito per trasformare sì pane e vino, ma anche i presenti, perché diventino Corpo di Cristo: si celebra quindi l’Eucaristia per diventare Corpo di Cristo. Detto in altri termini i Padri avevano chiaro che sì è la Chiesa che fa l’Eucaristia, ma anche che è l’Eucaristia che fa la Chiesa, che di domenica in domenica rende la Chiesa sempre più Corpo di Cristo, tanto che in tutti i testi patristici si parla del corpo ecclesiale significato e contenuto nell’Eucaristia come del corpo di Cristo reale e più vero. L’epoca medioevale: Chiesa come Corpo Mistico Come mai però nel Medioevo prende piede l’idea della Chiesa come Corpo mistico? I Padri ed il primo Medioevo applicavano il termine “Corpo mistico” all’Eucaristia intesa come “caro mistica” dove mistico va inteso nel senso del mysterion patristico e non è forse proprio l’Eucaristia il mistero per eccellenza? Il corpo più reale, più vero, la cosa, la res della celebrazione eucaristica era e rimaneva la Chiesa. Solo successivamente il termine mistico è applicato anche alla Chiesa ed il primo fu Maestro Simone che lo usa dicendo che “la Chiesa è il corpo misticamente significato”, da che cosa? Ovviamente dall’Eucaristia che significa, nel mistero, la Chiesa. In seguito alle dispute medioevali la Chiesa sarà invece intesa come “Corpo Mistico” in un senso meno pieno, come a dire “in qualche modo strano”, proprio perché non si partirà più a parlare della Chiesa dalla celebrazione misteri, ma da elementi societari e così il Corpo ecclesiale non sarà più letto in analogia con quello eucaristico, ma con i vari corpi sociali. Se anche Paolo lo usò a partire da quel senso, lo trasformò però dal di dentro portandolo al senso usato dai Padri! Dicendo quindi che la Chiesa era il “Corpo mistico” si intendeva dire che era il corpo sociale spirituale e come tale era la societas perfecta che ha un capo, il papa, al quale tutti devono obbedire … curioso come in quest’ottica il capo non sia più Cristo, ma il papa e come con stessi termini, “corpo” e “capo”, si intendano realtà diverse. Nel valutare questo cambiamento si deve tenere conto della lotta per la sua libertà che la Chiesa ingaggiò in Occidente, dell’interesse al cambiamento della società che essa ha sempre dimostrato, mentre in Oriente questo problema non c’è mai stato, visto il suo disinteresse per la società e quindi il legame Eucaristia – Chiesa è rimasto anche se difetta il legame Eucaristia – attesa escatologica e quindi impegno nel mondo! Connessa a questa idea di corpo mistico c’è anche quella di Madre, perché la Chiesa genera ed è una fraternità. SVILUPPO DELL’AUTOCOMPRENSIONE DELLA CHIESA LA CHIESA COME COMMUNIO ECCLESIALE Il fatto che la Chiesa nasca dall’Eucaristia e che è lì che si percepisce come mistero di comunione, è la pratica della communio ecclesiarum. L’unità della Chiesa per l’epoca patristica viene infatti dall’unità di Dio e ciò si realizza proprio nell’Eucaristia, è perciò l’Eucaristia a fare la Chiesa. Infatti essa è la ripresentazione del mistero di salvezza, ma allo stesso tempo l’Eucaristia celebrata qui è la stessa celebrata nelle altre chiese e se la Chiesa è il frutto dell’Eucaristia, questa Chiesa è tale solo se è in comunione con le chiese che nascono dalla stessa eucaristia. Perciò le chiese sono tante, ma tali perché in comunione con tutte le altre che nascono dall’Eucaristia e con il Vescovo che la presiede, che a sua volta è tale perché fa parte del collegio dei vescovi. Collegio perché è un 18 Connessa alla Chiesa intesa come mistero c’è anche l’idea della Chiesa come Madre, perché genera, e di fraternità. collegium, un collegamento, infatti il vescovo che presiede l’eucaristia è collegato agli altri vescovi che la presiedono e questa collegialità emerge bene anche nel fatto che per l’ordinazione di un vescovo ce ne vogliono almeno tre! La presidenza dell’eucaristia è così il punto più alto della presidenza della comunità e quindi lo “ubi episcopus ibi est ecclesia” nell’eucaristia è sommo. Al centro di questa rete, di questo collegium, c’è la chiesa di Roma che ha la cura di questa comunione. LG 23 riprende questa concezione comunionale quando dice che la chiesa universale è “in” e “da” ogni chiesa locale, che quindi non è un pezzo di chiesa, ma la chiesa tutta: forte è l’analogia con l’essere umano perché io sono uomo in quanto tale e non in quanto pezzo di umanità, ma allo stesso tempo sono uomo solamente perché legato e in relazione agli altri uomini, così ogni chiesa locale è chiesa e la sua autonomia è reale, ma relata … la stessa prima chiesa di Gerusalemme era sia locale che universale. Unità e diversità si danno quindi simultaneamente e la Chiesa una è “in” e “a partire da” le Chiese particolari. Tutto ciò si vede bene dalle varie “strutture di comunione” che vigevano nella chiesa ai tempi dei padri: In ogni chiesa c’era una sola eucaristia presieduta dal vescovo e quando ciò non è stato più possibile ecco che ad es. nella chiesa di Roma spuntò il “rito del fermentum” che consisteva nell’andare a prendere un pezzo di pane consacrato dal vescovo per portarlo nelle parrocchie dove si celebrava l’eucaristia. Le littere comunionis che venivano date a chi si spostava da una chiesa ad un’altra e che erano indirizzate da un vescovo ad un altro vescovo. La comunione di consacrazione. Quando un vescovo andava in un’altra chiesa era invitato a presiedere l’eucaristia e ciò manifesta molto l’unità, soprattutto quando magari tra i due vescovi era noto esserci delle tensioni, delle diversità di opinione. La categoria di comunione non va infatti mistificata dicendo che bisogna andare tutti d’accordo o che ognuno fa da sé perché tanto l’importante è sentirsi in comunione e ricordarsi bene che “corruptio optimi pessima”, quando si corrompe una cosa ottima diventa una cosa pessima. Principio sinodale. Quando c’era un problema che travalicava i confini di una diocesi ecco che si instaurava il sinodo dei vescovi di diverse chiese e ciò portò alla nascita delle chiese meteropolite, che facevano da riferimento per quelle suffraganee. LA CHIESA DOPO LA SVOLTA COSTANTINIANA La Chiesa passando da piccolo gregge perseguitato ad essere religione di stato: - si vede sempre più come “domina et imperatrix” - si serve delle stesse strutture e articolazioni usate dallo stato romano, dall’impero; - i vescovi vengono equiparati agli altri funzionari dello stato, con onorificenze e privilegi; - da “populus dei” diventa “populus christianus”; - se prima era molto netta in lei la coscienza escatologica, ora questa viene sempre meno e il Regno viene sempre più a coincidere con la chiesa. Tutto ciò viene acuito poi anche da degli altri fattori: - la divisione dell’impero romano d’Oriente, da quello d’Occidente, che porta Costantinopoli a voler essere considerata anche lei come sede apostolica; - con la caduta dell’impero romano d’Occidente la chiesa si trova a dovere svolgere anche delle funzioni di supplenza per tutto ciò che riguarda ciò che “è di Cesare”. Il passaggio nell’autocoscienza della chiesa è quindi legato a dei motivi contingenti, ma d’altronde ogni coscienza di chiesa è legata al tempo in cui vive e pure oggi non siamo esenti da questa regola! Se in Oriente questa società-chiesa è sempre stata guidata dagli imperatori, in Occidente si ingaggia una forte lotta tra sacerdotium e imperium, per capire chi dovesse dirigere e guidare questa societàchiesa: se in un primo momento è il secondo ad avere la meglio, nell’XI secolo sorge un movimento opposto che parte da Cluny e che porta alla preminenza del primo e quindi del papa sull’imperatore, grazie soprattutto a Ildebrando di Cluny, papa Gregorio VII, e alla sua lotta per la libertas ecclesiae dalle pretese dell’imperatore su di essa. La vittoria del sacerdotium sul’imperium comporta: Una chiesa occidentale che, come fa notare Lafont, viene sempre più assumendo l’immagine gregoriana di un grande monastero e con tutte le lotte ad essa connesse: contro la simonia, contro il matrimonio dei preti, contro le investiture dei laici ecc. Congar sulla stessa linea dice che la cristianità occidentale si è lentamente trasformata in una grande abbazia dove i laici sono i “conversi”, i fratelli sposati che si occupano delle necessità dei ministri di Dio. L’immagine della chiesa si verticalizza così sempre di più ed è sempre più clericale, ma a ben guardare questo processo è abbastanza logico, perché se durante la persecuzione la necessità prima della chiesa era di serrare le fila e il momento migliore è quando ci si ritrovava intorno all’Eucaristia, ora nessuno non è cristiano e se l’imperium è tenuto dai laici la lotta tra sacerdotium e imperium in fondo altro non è che lotta tra clero e laici e così è ovvio che la chiesa assuma sempre di più una forma clericale. Se con popolo di Dio nella prima chiesa si intendeva tutta la chiesa ora si intende sempre più solo i laici distinti dal clero e se il mondo prima indicava ciò che non era la chiesa, ora è una categoria interna ad essa, è ciò che appartiene e di cui si occupa il potere terreno. La lotta dei due poteri da un lato, il crescente processo di “monasticizzazione” e di clericalizzazione della chiesa portano a vedere sempre più nello “abate”, nel papa, il fondamento e la fonte della sua unità. Se prima il termine “sede apostolica” era usato per tutte le chiese fondate da un apostolo ora solo per Roma e se prima il termine “papa” era usato per tutti i vescovi, ora solo più per il vescovo di Roma. Così Roma è vista come l’unica Chiesa Madre e il Papa come il Vicario di Cristo. Le Diocesi diventano sempre più come pezzi di chiesa, come priorati dell’abbazia madre. Si ha una crescente giuridicizzazione della chiesa che porta l’attenzione sempre più sul potere e questo per De Lubac è ovvio, perché vedendosi la chiesa in contrapposizione dialettica con i poteri mondani non poteva che concepirsi anche essa come potere: la polemica è sempre una gabbia che porta ad unilateralità. Si arriva così alla “Unam Sanctam” nella quale si dice come al papa spetti il potere sulle due spade, quella spirituale e quella temporale, e se lui da quella mondana ai laici è solo per sua magnanimità! LA CHIESA NELL’EPOCA MODERNA La Riforma protestante Continua “l’essere in lotta” della chiesa, ma cambia il nemico: Lutero e il protestantesimo. Si assiste infatti al sorgere di un insieme di processi “centrifughi”: il dissolvimento dell’unica civitas christiana nelle varie nazioni; il parallelo dissolvimento della chiesa nelle varie nazioni che fa vacillare la “chiesa abbazia” con alla sommità il papa; le spinte conciliariste; la crescente autonomia dei laici rispetto al clero; l’emancipazione del soggetto ecc. La Riforma Protestante manifesterà ed insieme cavalcherà tutti questi movimenti trasformandoli, a livello ecclesiale, in effetti disgregatori che toccheranno l’ecclesiologia sul piano dei fatti, perché la chiesa per la prima volta si trova spaccata. I motivi di questa spaccatura non sono però solo quelli “sociologici” appena visti, ma anche teologici, perché da tempo nella chiesa ci si auspicava una riforma “in capite et in membris”, una reazione contro gli abusi e le carenze della chiesa e ci si auspicava un cambiamento non solo dai singoli, ma delle istituzioni stesse e inoltre la Riforma inoltre toccherà il nodo centrale della giustificazione che sarà il principio teologico sul quale la chiesa sarà divisa. Lutero in due suoi scritti “La prigionia Babilonese” e “Alla nobiltà cristiana della nazione tedesca” si scaglia contro gli abusi della chiesa e accusa i “romanisti” di essersi fatti scudo con tre muri che impediscono qualsiasi riforma: - la superiorità del potere spirituale su quello terreno - l’interpretazione delle Scritture riservata al papa e a nessun altro - la possibilità di convocare un concilio solo da parte del papa Con questi hanno sottratto le tre verghe (potere terreno, scrittura e concilio) che permettevano di vigilare sulla condotta della chiesa, per poter così commettere tutte le canagliate che vogliono. Lutero cerca di ritagliarsi quindi uno spazio dove la gratuità e l’assolutezza di Dio siano salvaguardate e per farlo procede prima con un pars destruens nella quale fa una critica serrata alla messa intesa come sacrificio e poi conseguentemente attacca il ministero ordinato nella sua componente sacerdotale, perché dice che la sua peculiarità non sta nell’ordinazione sacramentale, ma nelle funzioni che esso assume in quanto delegato della comunità che è tutta fatta di sacerdoti. A questa succede una pars construens, nella quale (come fa notare Cereti) tratteggia i contorni della sua immagine di chiesa o di comunità come la chiama lui: È “creatura verbi”, convocata dall’annuncio della parola e nella quale il vangelo, il battesimo e l’eucaristia sono solo i segni che le permettono di riconoscersi come tale: ogni comunità è quindi LA comunità; Il ministero, che vede nel vescovo il suo vertice, è visto come delegato dalla comunità ed è principalmente il servizio della parola e poi dei sacramenti. Il potere temporale non spetta a loro, è stato solo un compito di supplenza che hanno fatto in un certo periodo della storia. Ferma restando la componente visibile della chiesa, esiste una chiesa nascosta, una chiesa spirituale che è nota soltanto a Dio, che è formata da persone che conosce solo lui che conosce i cuori e ciò porta inevitabilmente ad un ampliamento dei confini della chiesa: «la cristianità è corporalmente diversa, ma unita dall’unico vangelo» La contestazione fu dunque radicale e legata al fatto che per lui la chiesa romana era troppo frapposta tra il Cristo e i credenti, mentre la vera chiesa si costruisce non attraverso le sue strutture visibili, ma attraverso il legame interiore tra il credente e Cristo e tra i credenti, legame che si crea con l’accoglienza della predicazione. Sia Lutero che Calvino poi non rifiutano l’esistenza del ministero, ma ne relativizzano l’importanza. La chiesa protestante in sintesi accentua quindi l’avvenimento più dell’istituzione, la parola più del sacramento strutturando un’ecclesiologia uguale e contraria a quella contestata, perché se quella era basata sulla visibilità, questa sull’invisibilità. Il Concilio di Trento e la Controriforma La chiesa cattolica reagirà riaccentuando la visibilità della chiesa, istituzionalizzando l’immagine della chiesa come società visibile, il cui promotore principale fu san Roberto Bellarmino che con il suo “De controversis christianae fidei adversus huius temporis hereticos” concentra l’ecclesiologia proprio nei punti sui quali i riformatori avevano spinto l’attacco, così: «l’unica vera chiesa è la comunità di uomini raccolti insieme dalla professione della medesima fede cristiana e congiunti nella comunione ai medesimi sacramenti, sotto il governo dei legittimi pastori e specialmente dell’unico vicario di Cristo in terra, il pontefice romano». Tale comunità è «visibile come il regno di Francia o la repubblica di Venezia» e al di fuori di essa non c’è salvezza. Congar fa notare a tale proposito che questo trattato ecclesiologico e quelli successivi sono scritti con la spada in mano e più che trattati di ecclesiologia sono trattati di gerarcologia. Da questo momento la riflessione ecclesiologica sulle note della chiesa sarà per cercare e per giustificare quale è la vera chiesa e così l’ecclesiologia sarà sempre più verticistica, gerarchica e apologetica. IL CONCILIO VATICANO I Tendenze ecclesiologiche preparatrici Le stesse caratteristiche della Controriforma contrassegneranno anche i periodi successivi per affrontare il giansenismo, il gallicanesimo, l’episcopalismo e il laicismo. L’immagine di chiesa che si va facendo largo è quella di corpo di Cristo, ma solo nel suo essere visibile e per evidenziare il carattere di societas inequalis e quindi un’immagine apologetica ed estrinsecista, poco importa il lavorio dello Spirito Santo e le sue caratteristiche misteriche. Verso fine ‘700 inizio ‘800 sorge però un’altra corrente che trova nelle scuole di Tubinga e Roma. La prima trova il suo rappresentante più significativo in Mohler che con Newman è definito l’antenna sensibile di quest’epoca. Egli sviluppa la sua riflessione in tre momenti: 1. Nel primo parte da una concezione giuridica per passare alla sua concezione misterica, penetrando in maniera maggiore nel mistero della chiesa. 2. Nel secondo dall’interno torna verso l’esterno, dall’organismo vivificato dallo Spirito Santo, deduce che gli aspetti esterni della chiesa devono essere una manifestazione di quelli interni. 3. Nel terzo va dall’alto verso il basso, perché lega più strettamente il mistero della chiesa a quello del Verbo incarnato, dicendo che la Chiesa è continuazione nella storia del Verbo incarnato, ma il problema è che se si tira troppo questa concezione si arriva ad uguaglianza esagerate, perché Cristo è Cristo e la Chiesa rimane la Chiesa e non tutto quello che lei dice o fa è incarnazione perfetta del Verbo. In generale quindi l’apporto di Mohler è buono, perché non si preoccupa solo dell’aspetto esteriore della chiesa, anche se non vede adeguatamente la distinzione tra il mistero della chiesa e quello di Cristo, ma è uno di quegli errori che commettono quelli che pensano! La scuola romana, che fa capo allaGregoriana, trova i suoi massimi esponenti in Passaglia, Franzelin e Shrader. Riattingendo alla Scrittura e alla Patristica questi rimettono in auge la prospettiva della chiesa come Corpo Mistico di Cristo che, nell’orizzonte di un’ecclesiologia societaria, è una gran novità. Il Concilio Vaticano I Si arriva così al Concilio Vaticano I con due scuole: una più istituzionale e giuridica e una più sacramentale e teologica. Lo schema preparatorio, ad opera di Shrader, era tutto imperniato attorno all’idea di Corpo Mistico di Cristo ed era importante perché: partiva dalla Scrittura; riattribuiva il giusto posto al mistero della chiesa; avrebbe corretto le esagerazioni controriformiste; sarebbe stato più adatto alla situazione pastorale di quel momento. Questo schema fu però bocciato perché se anche quell’impostazione era ritenuta bella, veniva vista come troppo spirituale e prestante il fianco ai protestanti; molto meglio trattare della chiesa in termini dogmatici e quindi a partire dalla sua visibilità. Il secondo schema, più istituzionale, è intitolato Pastor Aeternus (DH 3050-3075) viene presentato nell’aula conciliare ed approvato il 18 luglio 1870. Dopo un prologo sull’istituzione e il fondamento della chiesa seguono quattro capitoli: l’istituzione del primato apostolico nel beato Pietro; la perpetuità del primato di Pietro nei vescovi di Roma; valore e natura del primato del vescovo di Roma; il magistero infallibile del vescovo di Roma. Quelli che fecero problema furono gli ultimi due, nei quali si affermava dogmaticamente il primato di giurisdizione del papa sull’intera chiesa e l’infallibilità pontificia in casi particolari. Mancò il tempo per fare una riflessione sulla collegialità episcopale e così il Vaticano I è visto come l’apice ed il trionfo della visione istituzionale e giuridica della chiesa. Proprio questa mancanza è però la pietra d’attacco sul quale si innesterà il Concilio Vaticano II. Vediamo comunque i punti caldi della decisione conciliare: Guardando in particolare alla funzione universale di governo del papa (DH 3059-3064) essa viene presentata come dottrina appartenente al deposito della fede cattolica e si pone così fine al conciliarismo, perché è al papa che spetta la pienezza della suprema potestà in merito a fede, costumi, ordinamento e governo di tutta la chiesa. Potestà che è ordinaria, immediate ed episcopale, ma che non limita per questo la potestà dei singoli vescovi e perciò non viene visto come un potere assolutistico, anche se non si dice niente su come vadano articolate la potestà papale e quella episcopale. Questo primato dice sacramentalmente l’unità della chiesa, unità che viene da Cristo e dallo Spirito Santo e non dal popolo o dal papa. Il Concilio Vaticano I tratteggia quindi una chiesa: centrata sull’autorità; la cui priorità è data all’istituzione e all’aspetto societario; fortemente papalista,; fortemente clericalizzata; descritta in termini apologetici e non a partire dal suo mistero. TRA IL CONCILIO VATICANO I E IL CONCILIO VATICANO II A partire soprattutto dal 1920 emergono alcuni elementi innovatori che da una parte hanno favorito il rinnovamento ecclesiologico e dall’altra ne sono figli: - Innanzitutto un forte risveglio comunitario opposto alle prospettive totalitarie e individualiste allora imperversanti. - Una rinnovata spiritualità cristocentrica che porta a leggere la Scrittura e la Patristica e, come disse Congar «questo nuovo fervore nei confronti di Cristo, ha portato ad un nuovo fervore nei confronti della Chiesa». - Il risveglio del laicato che si visibilizza nella formazione dell’Azione Cattolica. - Il rinnovamento liturgico passato soprattutto nella categoria di assemblea che va di pari passo con la riscoperta, dal punto di vista teologico, della categoria di popolo di Dio. - Il rinnovamento degli studi biblici che ha portato a non usare più la Scrittura come supporto per teologie già preparate, ma soprattutto come sorgente. - Il risveglio ecumenico partito in casa protestante, ma che ha lentamente contagiato anche molti cattolici. Nel 1943 si arriva così ad un’enciclica fondamentale per l’ecclesiologia: la Mystici Corporis (DH 3800-3822). Enciclica particolare perché scritta in un’epoca in cui le encicliche contavano ancora e perché la Chiesa viene letta come Corpo di Cristo distinguendo quest’immagine da una sua idea sociale, ma anche da un’idea puramente morale, perché è molto più di un’idea, di una prospettiva e di un’immagine. Perciò quest’enciclica fa fare un grosso passo all’ecclesiologia, anche se ha il grosso limite di identificare il Corpo Mistico di Cristo con la Chiesa Cattolica Romana e di usare solo questa immagine scritturistica per parlare della chiesa può portare a pensare che chiunque è fuori della Chiesa Cattolica Romana è sullo stesso piano, ortodosso o buddista che sia. IL CONCILIO VATICANO II La promulgazione della Lumen Gentium avviene il 21 novembre del 1964 insieme al documento sull’ecumenismo, la Unitatis Redintegratio, e perciò vanno letti insieme. Il documento ha però radici profonde ed inizia quando Giovanni XXIII nei primi del 1959 indice il Concilio Vaticano II: Viene costituita una commissione preparatoria presieduta dal card. Tardini che deve consultare vescovi, università ecc. Le proposte ricevute vengono raccolte in 15 volumi e quelle sulla Chiesa hanno tutte un comune denominatore: completare il Concilio Vaticano I e dare una struttura organica alla natura e alla costituzione della Chiesa, al suo ministero e al suo magistero, ai rapporti con la società civile e con le comunità non cattoliche. Lo schema per il trattato sulla chiesa viene affidato ad una commissione preparatoria presieduta dal card. Ottavini e il cui segretario era il gesuita padre Tromp, che verosimilmente era già stato dietro alla stesura della Mystici Corporis. Esso è composto di 13 punti e di 11 capitoli. ( vedi “Il Concilio Vaticano II” Vallecchi editrice) Presentato nel 1962 in aula conciliare non fu accolto molto bene, perché affrontava tutte le tematiche richieste nella linea del Concilio Vaticano I e poi perché: o Giovanni XXIII indicendo il concilio aveva dato un’impronta ben determinata che era pastorale e non dogmatica, perché ciò che si metteva a tema era il rapporto della chiesa con il mondo contemporaneo e soprattutto con la modernità, ciò che premeva era «come ridire la verità di sempre in modo nuovo». Intenzione era stata ripresa da Paolo VI nell’Ecclesiam Suam e che non era quella perseguita da questo schema. o In concomitanza alla preparazione di questo schema, ne stavano girando anche altri preparati dalle varie università, dai vari teologi19 e uno di quelli che riscosse maggiori consensi fu quello della Chiesa belga che faceva capo all’università di Lovanio, “capitanata” da Gerard Philips. Esso era diviso in quattro capitoli: De Ecclesia misterio; De constitutione gerarchica ecclesiae et in specie de episcopato; De populo Dei et in speciem de laicis; De vocationem at sanctitatem in Ecclesia. Rifiutato il primo, il 30 settembre ed l’1 ottobre del 1963 fu discusso questo schema della scuola belga e fu giudicato positivo dai padri, infatti su 2031 votanti: 2231 placet, 43 non placet, 27 nulli. Nello specifico dei vari capitoli: o L’introduzione viene giudicata in generale buona sia per i contenuti che per lo stile irenico, si richiede solo di fare degli interventi per approfondire le varie immagini della Bibbia sulla chiesa e per chiarirne l’aspetto sacramentale. o Il secondo capitolo era considerato il più importante, visto che era quello che doveva completare il Concilio Vaticano I, senza snaturarlo, cercando anche di articolare bene il principio di giurisdizione papale e la collegialità. La dottrina dell’episcopato era ormai abbastanza sviluppata, ma si trattava di precisarne la natura e i limiti e qui si vennero a creare due partiti, quello di chi poneva più l’accento sull’importanza del 19 Di questo non ci si deve scandalizzare perché il Concilio è un evento ecclesiale e non solo magisteriale, quindi è tutta la Chiesa che vi partecipa anche se poi le votazioni spettano ai soli vescovi. romano pontefice e quello di chi poneva più l’accento sull’importanza dei vescovi. La discussione fece pervenire a cinque punti controversi su cui tutti erano d’accordo: la consacrazione episcopale costituisce il grado supremo del sacramento dell’ordine; ogni vescovo legittimamente consacrato e in comunione con gli altri vescovi e il romano pontefice è membro del corpo o collegio episcopale; il collegio dei vescovi succede al collegio apostolico e insieme al suo capo, il romano pontefice, possiede piena e suprema autorità sulla chiesa universale; questa suprema e piena potestà gli compete per diritto divino; l’opportunità di ripristinare il grado del diaconato come permanente. o Il terzo capitolo viene approvato con alcune osservazioni: la dottrina del laicato è troppo idealista; bisogna chiarificare la dottrina del sacerdozio comune precisando anche la sua differenza sostanziale dal sacerdozio ministeriale; ribadire la dipendenza dei laici dalla gerarchia anche per quel che riguarda i carismi e il sensus fidei; la riflessione sul popolo di Dio va divisa da quella sui laici. Proprio quest’ultimo punto porta alla seconda rivoluzione dopo quella operata con l’introduzione, perché il capitolo sul popolo di Dio viene spostato prima di quello sulla gerarchia e così con il termine “popolo di Dio”, non si intendono solo i laici, ma tutti i cristiani, perché tutti siamo fondamentalmente cristiani, anche se in modo diverso, siamo tutti figli nel Figlio anche se in modi diversi. o Sul quarto capitolo i padri in generale furono favorevoli anche se si indicò di trattare in un capitolo a parte il tema della vita consacrata. A ciò va aggiunto che: o Vi fu una lunga discussione riguardo alla trattazione di Maria, se ci volesse un documento a parte o se si dovesse far confluire nella trattazione sulla Chiesa. Alla fine si optò per quest’ultima impostazione che è un’altra rivoluzione conciliare perché passa dall’interpretazione cristotipica di Maria a quella ecclesiotipica, in quanto in lei si vede innanzitutto il modello, il tipo della Chiesa, la prima credente e la prima redenta. o Si decise di aggiungere una trattazione sul rapporto tra Chiesa peregrinante e celeste, militante e gloriosa. Nel terzo periodo fu nuovamente discusso lo schema revisionato e furono aggiunti altri emendamenti in aula soprattutto sul capitolo più discusso, il terzo, che fu talmente discusso da far aggiungere una nota esplicativa previa per specificare cosa si intenda per comunione. Alla fine la costituzione fu approvata con 2151 placet e 5 non placet e se da un lato porta tutti i limiti di un compromesso, dall’altro ha la forza di essere fortemente condivisa. Pregi e difetti della Lumen Gentium Provando a leggere LG guardando ai suoi punti di forza e ai suoi limiti, alla luce anche degli sviluppi post- conciliari, partiamo dai punti di forza: Si evince fin dal primo capitolo come la chiesa sia reintegrata in un contesto generale di storia della salvezza anche se non è confusa con il regno e non è essa stessa la salvezza! Non è quindi il Regno, non è la salvezza, non è la comunione, ma ne è il sacramento, ha a che farci: “distinto da” infatti non vuol dire che “non avere a che fare con”, tanto che LG al punto 3 e 5 parla della chiesa come “germe e inizio” e come “regno in mysterium”. Questo rapporto di distinzione-relazione si evince anche dalle immagini usate per descriverla (LG 6) e che dicono l’identificazione e la differenza con Cristo. Se all’immagine di Corpo di Cristo viene dedicato un paragrafo in particolare (LG 7), la categoria su cui ci si baserà per il rinnovamento conciliare sarà quella di popolo di Dio a cui è dedicato tutto il secondo capitolo. Al n°8 si dice della chiesa che: «Per una analogia che non è senza valore, quindi, è paragonata al mistero del Verbo incarnato», perché anche in essa vi è una parte divina e una parte umana, anche se nella persona di Cristo esse sono unite nell’ipostasi e nella Chiesa esse sono due realtà distinte anche se non separabili. Restituisce alla comunità ecclesiale, in quanto tale, i privilegi e la missione di Cristo che una certa immagine di chiesa attribuiva solo ad alcuni. E questo grazie proprio al capitolo II sul popolo di Dio che, posto prima di qualsiasi distinzione di ruoli, ricorda a tutti l’appartenenza all’unico popolo di Dio, come la sorgente dalla conformazione a Cristo scaturisca innanzitutto dal Battesimo. Vera perla è ad esempio il n°9 che può essere considerato come la carta costituzionale della Chiesa: «Questo popolo messianico ha per capo Cristo [ndr e non il papa] « dato a morte per i nostri peccati e risuscitato per la nostra giustificazione » (Rm 4,25), e che ora, dopo essersi acquistato un nome che è al di sopra di ogni altro nome, regna glorioso in cielo. Ha per condizione la dignità e la libertà dei figli di Dio [ndr ogni titolo è secondario], nel cuore dei quali dimora lo Spirito Santo come in un tempio. Ha per legge il nuovo precetto di amare come lo stesso Cristo ci ha amati (cfr. Gv 13,34). E finalmente, ha per fine il regno di Dio, incominciato in terra dallo stesso Dio, e che deve essere ulteriormente dilatato, finché alla fine dei secoli sia da lui portato a compimento, quando comparirà Cristo, vita nostra (cfr. Col 3,4) e «anche le stesse creature saranno liberate dalla schiavitù della corruzione per partecipare alla gloriosa libertà dei figli di Dio» (Rm 8,21)». Nella stessa scia in LG 32 (nel IV capitolo, quello sui laici) si parla dell’uguaglianza, per dignità e per missione, di edificare il Corpo di Cristo. Perciò non ci sono cristiani di serie A o di serie B, anche se ciò non vuol dire che questo popolo sia amorfo, che tutti possano fare tutto e che lo Spirito Santo non lo abbia dotato di tutti gli organismi necessari per campare. Le distinzioni nella chiesa derivano dai carismi ricevuti e dai ministeri ricevuti, che conformano a Cristo in modo diverso. Riemerge così, al n°10, anche la tesi sul sacerdozio comune, che non si tratta di un sacerdozio rituale, ma spirituale, nello Spirito Santo e che viene subito distinto da quello ministeriale, da cui differisce non solo di grado, ma essenzialmente, perché proviene da un sacramento e non da un incarico della comunità: anzi è perché esiste un prete che tutto il popolo di Dio può essere un popolo sacerdotale, perché è grazie al suo ministero che può offrire la vita per, con e in Cristo e il fatto che questo ministero sia un sacramento sta proprio a ricordare che tutto ciò è per grazia, che la fonte della Chiesa non è la Chiesa stessa. È infatti nella partecipazione al mistero della grazia, nell’eucaristia presieduta dal vescovo o dal prete, che noi ci configuriamo come popolo sempre più a Cristo. Tutto il popolo di Dio partecipa anche all’essere profeta di Cristo (LG 12) perché possiede il sensus fidei che è lo sfondo, l’humus, in cui leggere il magistero e la sua infallibilità, perché c’è un’infallibilità in credendo che precede quella in docendo. Il popolo di Dio non può infatti sbagliarsi nelle cose da credere, anche se il problema è come verificarlo. Il popolo di Dio partecipa anche della regalità di Cristo, regalità che è la diaconia nella carità, perché il trono su cui Cristo ha regnato è la croce. Lo Spirito Santo distribuisce poi a ciascuno i propri doni e carismi (cf LG 12), anche nella Chiesa di oggi. Il termine “carisma” già nel NT è un concetto molto complesso e oggi ci sono tanti luoghi comuni che solo ragionando si possono dipanare. Alla gerarchia poi non spetta il compito di creare i carismi e tanto meno di estinguerli, ma di fare discernimento per vedere se essi sono al servizio della comunità e di autenticarli, esaminando tutto e tenendo ciò che è buono. In questo processo si deve poi ricordare che lo Spirito Santo è all’origine anche della gerarchia e quindi per ben discernere i membri della gerarchia devono essere persone spirituali, che stanno sempre in ascolto dello Spirito Santo. Perciò la dimensione più intrinseca del governo nella chiesa è una dimensione inter-personale, perché il primo criterio per discernere un carisma è quello di conoscere la persona interessata. Al ministro ordinato spetta dunque il dono-carisma della sintesi e di garantire alla comunità la sua ecclesialità. Restituzione alla Chiesa del suo carattere fondamentalmente sacramentale. Il Battesimo infatti incorpora alla Chiesa e così abilita alla missione (LG 11) , l’Eucaristia è il centro vitale della Chiesa per eleva alla comunione con Cristo e tra di noi (LG 7). La Chiesa quindi (LG 11) è costituita dai sacramenti. Per la prima volta (LG 21) si afferma il carattere sacramentale dell’episcopato, perché è la consacrazione episcopale a fare il vescovo e conferire tutti e tre i “munus”, non solo quello santificandi: se la Chiesa è vista come una comunione sacramentale anche le funzioni dipendono dai sacramenti stessi. Riscoperta della cattolicità della chiesa, come unità nella diversità, in due sensi (LG 13): o Ad extra: «Siccome dunque il regno di Cristo non è di questo mondo (cfr. Gv 18,36), la Chiesa, cioè il popolo di Dio, introducendo questo regno nulla sottrae al bene temporale di qualsiasi popolo, ma al contrario favorisce e accoglie tutte le ricchezze, le risorse e le forme di vita dei popoli in ciò che esse hanno di buono e accogliendole le purifica, le consolida ed eleva» o Ad intra: «Ne consegue che il popolo di Dio non solo si raccoglie da diversi popoli, ma nel suo stesso interno si compone di funzioni diverse ... Così pure esistono legittimamente in seno alla comunione della Chiesa, le Chiese particolari, con proprie tradizioni, rimanendo però integro il primato della cattedra di Pietro, la quale presiede alla comunione universale di carità, tutela le varietà legittime e insieme veglia affinché ciò che è particolare, non solo non pregiudichi l'unità, ma piuttosto la serva». Si noti che il Concilio usa a volte il termine “particolare” a volte “locale” in modo analogo, anche se il primo mette l’accento sugli elementi che fanno sì che ciò di cui si parla sia una chiesa e il secondo sul suo essere in un luogo preciso. In questo contesto il ruolo della Cattedra di Pietro è ben specificato e quindi è visto come un punto metafisico per articolare l’unità e la diversità e in questo senso il papa può essere visto come “sacramento dell’unità”. LG 23 svilupperà ancor di più la nota della cattolicità, in questo secondo senso, dicendo che: «Il romano Pontefice, quale successore di Pietro, è il perpetuo e visibile principio e fondamento dell'unità sia dei vescovi sia della massa dei fedeli. I singoli vescovi, invece, sono il visibile principio e fondamento di unità nelle loro Chiese particolari queste sono formate ad immagine della Chiesa universale, ed è in esse e a partire da esse che esiste la Chiesa cattolica [ndr e non universale!!] una e unica. Perciò i singoli vescovi rappresentano la propria Chiesa, e tutti insieme col Papa rappresentano la Chiesa universale in un vincolo di pace, di amore e di unità». Questo testo è quanto meno un’apertura alla prospettiva della communio ecclesiarum, della visione della Chiesa Cattolica come comunione tra le Chiese tra loro. Chiese locali viste quindi non come “parti” della Chiesa universale, ma come realtà in cui si realizza tutta la Chiesa di Cristo. Analogamente si può dire che un pezzo di una macchina è una sua “parte” e non ha a che fare con il tutto, una “porzione”, un “pezzo” di torta invece ha a che fare con il tutto, perché mangiando una porzione di torta posso tranquillamente dire che ho mangiato la torta. La Chiesa particolare è così una “porzione” e non “parte” della Chiesa Cattolica che non è quindi neanche la somma delle varie Chiese. I Philips: «Le chiese particolari non sono parti che per addizione o per federazione costituiscono la chiesa universale, al contrario ogni chiesa particolare è la Chiesa di Cristo in quanto presente in un luogo determinato. Ciò esclude sia l’idea di una semplice federazione, sia quella di una mescolanza-uniformità completa e ogni vescovo così non rappresenta la sua chiesa, ma ne è il pastore». Nel 1992 viene pubblicata la lettera ai vescovi della chiesa cattolica della Congregazione per la dottrina della fede “Alcuni aspetti della chiesa intesa come comunione” nella quale al n°9 si dice che: «Essa [la chiesa universale] non il risultato della loro [delle chiese particolari] comunione, ma, nel suo essenziale mistero, è una realtà ontologicamente e temporalmente previa a ogni singola chiesa particolare … Perciò la formula del concilio Vaticano II “La chiesa nelle e a partire dalle chiese”, è inseparabile da quest’altra “Le chiese nelle e a partire dalla chiesa”». Per quanto questo intervento sia stato dettato da motivi pastorali gravi, Kasper però ha fatto notare che non è detto che ribaltando il principio di LG 23 esso funzioni ancora e poi LG 23 parla di Chiesa Cattolica e non Universale. Il documento dice poi anche come il ministero di Pietro sia: «già appartenente all’essenza di ogni chiesa particolare “dal di dentro”» e questo è giusto perché se una chiesa è tale lo è nel suo legame con la chiesa di Roma. La posizione conciliare sembra molto più equilibrata, anche se più fragile, perché a ben guardare non esiste la Chiesa se non come realtà altra da quella che è “nelle” e “dalle” chiese particolari. Se la concezione della congregazione tirata per i capelli rischia di ridurre la Chiesa ad un artifizio ad un’idea platonica, quella particolarista rischia di arrivare al gallicanesimo. Il nocciolo della querelle teologica in atto è quindi quello della possibilità di ribaltare o meno il principio di LG 23, facendo bene attenzione che su di esso si basano: ○ La dottrina del collegio dei vescovi (LG 22), perché il vescovo è pensato, da subito, inserito nel collegio dei vescovi e con responsabilità sulla chiesa universale e proprio per questo può essere principio di unità nella sua chiesa particolare e nel contempo punto di contatto e vincolo tra la chiesa particolare e quella cattolica. ○ Il problema ecumenico che permette di parlare delle chiese ortodosse come di chiese sorelle. Restano però dei problemi ancora aperti. È stato detto (Acerbi) che il Vaticano II ha giustapposto due ecclesiologie (una di comunione e una istituzionale) e ciò emerge dalle tensioni presenti nel testo e la necessità della stessa nota esplicativa previa. E se prima del Concilio esisteva una “Denzinger Theologie”, dopo, per un po’ di tempo, è esistita una “Concilium Theologie” che presentava l’ecclesiologia del concilio come armonica e tutta comunionale … se certo nel concilio l’ecclesiologia di comunione ha fatto la sua comparsa, in molti casi il suo sorgere si è scontrato con l’altra e le tracce di questo “scontro” sono evidenti. In particolare due sono i punti di tensione: Rapporto tra collegialità e primato. Il capitolo III cercando di completare la Pastor Aeternus non ha infatti dato una dottrina armonica perché parla di due soggetti del potere supremo nella chiesa, il papa e il collegio dei vescovi unito al papa, ma ciò che non si capisce è se si tratti di un unico soggetto o di due soggetti inadeguatamente distinti. La nota esplicativa previa (anche se è lunga, aggiunge ed è dopo …) presenta a tal proposito il pontefice come unica sorgente del collegio. Così alcuni parlano del consiglio dei vescovi come la corona del papa o come usufruibile da lui solo quando non ce la fa più a sostenere il suo compito. Così allo stato attuale i vari sinodi dei vescovi sono sempre solo consultivi, ma mai deliberativi, perché solo il Concilio è deliberativo. Rapporto tra Popolo di Dio e gerarchia, il cui posto, seppur ricollocato, non sempre, nei testi stessi del concilio, è così chiaro e preciso tanto che in LG 25 quando si parla del compito di insegnamento dei vescovi si parla ampiamente del loro diritto di essere ascoltati e quasi per nulla del loro dovere di ascoltare il popolo e la voce dello Spirito Santo … DUE AFFONDI ECCLESIOLOGICI … L’Ecumenismo Testi fondamentali sono LG 8.15, UR e la “Ut unum sint” di Giovanni Paolo II. Nel primo schema del 1962 si trovava scritto che: «La Chiesa cattolica romana è il corpo mistico di Cristo e solo quella che è cattolica e romana ha il diritto di essere chiamata chiesa». Tra le varie critiche mosse a questo schema c’era anche quella mossa a questa identificazione troppo stretta. Nel secondo schema si tenne la frase e si aggiunse: «ma molti elementi di santificazione si possono trovare al di fuori della sua intera struttura e appartengono in proprio alla Chiesa di Cristo» e nacque così la domanda su quale coerenza ci fosse fra la prima soluzione e la seconda affermazione. Si arrivò così al terzo schema nel quale si disse: «La Chiesa di Cristo sussiste nella chiesa cattolica» per armonizzare proprio le due prospettive e che porta al riconoscimento, anche al di fuori della chiesa cattolica, di elementi ecclesiali. Detto ciò rimangono però dei problemi da vedere: Cosa significa infatti questo “subsistit in” per il nostro concetto di chiesa cattolica? La relatio della commissione teologica recita, per il n°15 di LG: «la chiesa è unica e su questa terra è presente nella chiesa cattolica, benché si trovino degli elementi ecclesiali al di fuori di essa». Perciò in questa chiesa concreta che è la chiesa cattolica, si ha la garanzia che la chiesa di Cristo, come Lui l’ha voluta, si trovi nella pienezza del suo essere chiesa. Come poi la chiesa di Cristo sussiste nella chiesa cattolica nei fatti? In quale maniera avviene? UR 2 recita: «Gesù Cristo vuole che il suo popolo, per mezzo della fedele predicazione del Vangelo, dell'amministrazione dei sacramenti e del governo amorevole da parte degli apostoli e dei loro successori, cioè i vescovi con a capo il successore di Pietro, sotto l'azione dello Spirito Santo, cresca e perfezioni la sua comunione nell'unità: nella confessione di una sola fede, nella comune celebrazione del culto divino e nella fraterna concordia della famiglia di Dio» e UR 4 parla della: «unità dell'unica Chiesa che Cristo fin dall'inizio donò alla sua Chiesa, e che crediamo sussistere, senza possibilità di essere perduta, nella Chiesa cattolica, e speriamo che crescerà ogni giorno più fino alla fine dei secoli». Così la chiesa di Cristo sussiste nella chiesa cattolica, in quella unità, sia interiore sia visibile, descritta in UR. Se l’unità della Chiesa di Cristo può quindi essere trovata precisamente nella chiesa cattolica, ciò non significa che non ci possa essere reale e anche imperfetta unità altrove. Inoltre non solo la nota dell’unità esiste pienamente nella chiesa cattolica, ma anche le altre tre, perché se anche la chiesa cammina ancora nella storia (LG 48) ed è abitata da peccatori, queste proprietà inalienabili non possono venirle meno. UR 3 recita: «solo per mezzo della cattolica Chiesa di Cristo, che è il mezzo generale della salvezza, si può ottenere tutta la pienezza dei mezzi di salvezza», ciò quindi apre alla possibilità che anche al di fuori della chiesa cattolica, nelle varie chiese e comunità ecclesiali, siano presenti, in gran numero, alcuni di questi mezzi di salvezza, anche se queste hanno carenze più o meno accentuate. Ocio che in tutto questo discorso stiamo parlano del “sacramentum” non della “res sacramenti”, infatti io posso avere anche tutti gli strumenti di salvezza, ma essere meno santo dell’altro che ne ha meno di me! Superata l’identificazione esclusivista tra Chiesa di Cristo e Chiesa Cattolica Romana, e così anche la divisione tra “membri in re” e “membri in voto” proposta dalla Mystici Corporis, LG 15 descrive i molti modi secondo i quali la chiesa cattolica è legata e unita con i cristiani non cattolici, infatti «La Chiesa sa di essere per più ragioni congiunta con coloro che, essendo battezzati, sono insigniti del nome cristiano, ma non professano integralmente la fede o non conservano l'unità di comunione sotto il successore di Pietro». Per il dialogo con i protestanti ecco che si dice: «Ci sono infatti molti che hanno in onore la sacra Scrittura come norma di fede e di vita, manifestano un sincero zelo religioso, credono amorosamente in Dio Padre onnipotente e in Cristo, figlio di Dio e salvatore, sono segnati dal battesimo, col quale vengono congiunti con Cristo, anzi riconoscono e accettano nelle proprie Chiese o comunità ecclesiali anche altri sacramenti», mentre in merito agli ortodossi dice: « Molti fra loro hanno anche l'episcopato, celebrano la sacra eucaristia e coltivano la devozione alla vergine Madre di Dio». La relativo teologica al n°15 dice che: «gli elementi qui menzionati non concernono solo i singoli individui, ma anche le comunità cristiane» ed è proprio su questo punto che fonda il dialogo ecumenico tra comunità e non solo tra individui, perché essa porta al riconoscimento del ruolo salvifico di quelle chiese o comunità ecclesiali, in quanto tali tanto che UR 3 dice: «Tutte queste cose, le quali provengono da Cristo e a lui conducono, appartengono a buon diritto all'unica Chiesa di Cristo …Perciò queste Chiese e comunità separate, quantunque crediamo abbiano delle carenze, nel mistero della salvezza non son affatto spoglie di significato e di valore. Lo Spirito di Cristo infatti non ricusa di servirsi di esse come di strumenti di salvezza, la cui forza deriva dalla stessa pienezza della grazia e della verità, che è stata affidata alla Chiesa cattolica». Proprio perché in queste chiese sono stati conservati dei mezzi di salvezza, allora queste comunità hanno un ruolo e un peso salvifico! Questo passaggio è stato talmente grande e importante che ha creato non poco imbarazzo in aula conciliare, ma si è risposto velocemente che la parola e i sacramenti sono strumenti “ecclesiali”, che formano la chiesa, per natura loro. La chiesa si realizza così in modi diversi a seconda dei mezzi di salvezza di cui predispone e quando due chiese hanno gli stessi sacramenti, su di essi “si è chiesa” allo stesso modo, è in essi che siamo una chiesa una, è su di essi che siamo in comunione, a quei livelli siamo già un’unica chiesa. Su tutto il resto “viva la varietà”, perché ciò su cui basta essere uniti è la fede, la morale e gli elementi ecclesiali, per quanto riguarda le varie spiritualità o esperienze cristiane, per quanto importanti possano essere, non sono strumenti di salvezza. In quest’ottica l’incontro della chiesa cattolica con questi elementi “altri” delle altre chiese o comunità la aiuta a recepire le meglio, a valorizzare le cose che lei già ha. La comunione è perciò un “partecipare a”, perché partecipando agli elementi ecclesiali che ogni chiesa o comunità ha, è già in comunione con le altre chiese o comunità ecclesiali. Il processo ecumenico è quindi un partire da ciò su cui si è attaccati, per mettersi insieme su ciò su cui si è staccati. Il Concilio distingue frequentemente tra chiese e comunità ecclesiali e questo in base ad un criterio di ecclesiologia eucaristica, perché le prime sono quelle che hanno ordine ed eucaristia, come ben mette in luce UR 22 parlando dei protestanti che: «specialmente per la mancanza del sacramento dell'ordine, non hanno conservata la genuina ed integra sostanza del mistero eucaristico» anche se non vuol dire che le loro celebrazioni eucaristiche non abbiano senso, perché: «mentre nella santa Cena fanno memoria della morte e della resurrezione del Signore, professano che nella comunione di Cristo è significata la vita e aspettano la sua venuta gloriosa». Perciò ciò che fonda questa distinzione è praticamente ciò che fondava la distinzione tra scisma ed eresia. Esiste quindi una gradazione di attuazione nell’essere chiesa e questo a seconda dei mezzi di salvezza o di elementi ecclesiali conservati e quindi la chiesa si realizza anche in un certo grado al di fuori della chiesa cattolica. Se poi i cristiani cattolici sono “incorporati” alla Chiesa di Cristo, degli altri si dice che sono “congiunti”. In sintesi si potrebbe dire che i cristiani non cattolici sono visti come incamminati verso una pienezza in virtù degli elementi ecclesiali a cui essi già partecipano e la comunione non è da pensare solo in senso interiore, ma anche esteriore, perché basata sulla condivisione di elementi ecclesiali comuni. Il legame dei non cattolici con la chiesa appare quindi come un dono mediato storicamente dagli elementi che le chiese e le comunità ecclesiali hanno mantenuto e che solo presi globalmente fanno la chiesa. La chiesa cattolica realizza in forma piena la sacramentalità della chiesa perché: «arricchita di tutta la verità rivelata da Dio e di tutti i mezzi della grazia» (UR 4) anche se spesso: «i suoi membri non se ne servono per vivere con tutto il dovuto fervore», mentre le altre la realizzano in modo più o meno pieno a seconda degli elementi ecclesiali conservati. La chiesa cattolica ha così raccolto i frutti del cammino ecumenico sorto fuori di lei e vi si è inserita tenendo conto di quella che UR al n°11 chiama la “gerarchia nelle verità della dottrina cattolica”. Con l’enciclica del 1995 “Ut unum sint” Giovanni Paolo II ha dato un giudizio positivo del movimento ecumenico nel suo insieme, della UR e dei frutti prodotti nel dopo-Concilio. Essa è strutturata nel modo seguente: Introduzione; capitolo su “l’impegno ecumenico della chiesa cattolica”; capitolo su “i frutti del dialogo”; capitolo “quanta est nobis via?” su cosa resta ancora da fare, quali passi ancora percorrere; esortazione finale. Altro documento importante è poi la lettera apostolica Orientale Lumen, sempre del 1995, che è così strutturata: introduzione “Conoscere l’oriente cristiano un’esperienza di fede”: Vangelo, Chiese e culture; Tra memoria e attesa; Il monachesimo come esemplarità di vita battesimale; Tra Parola ed Eucaristia; Una liturgia per tutto l'uomo e per tutto il cosmo; Uno sguardo limpido alla scoperta di se stessi; Un padre nello Spirito; Comunione e servizio; Una persona in relazione; Un silenzio che adora “Dalla conoscenza all’incontro”: Esperienze di unità; Incontrarsi, conoscersi, lavorare insieme; Camminare insieme verso l'«Orientale Lumen» Conclusione. Da sottolineare in questi due documenti: - Le chiese orientali sono viste come chiese sorelle, che hanno molta ricchezza alla quale attingere: la dottrina della divinizzazione e l’importanza della liturgia e del monachesimo. - Per quanto riguarda le comunità ecclesiali nate dalla Riforma non si tacciono gli elementi di divisone che permangono (UUS 63) Ribadendo la fondamentalità del ministero petrino (UUS 95-96) viene richiesto un aiuto ai teologi per la ridiscussione della forma del suo esercizio. Dove si ha a che fare con il martirio siamo certi che li si ha la comunione piena (UUS 84) Chiesa e salvezza dell’umanità, chiesa e altre religioni In questo paragrafo c’è l’annosa questione dell’Extra ecclesiam nulla salus. Nel trattare la questione si deve tener fermi due dati, cercando di armonizzarli: la necessità della chiesa per la salvezza e l’universale chiamata alla salvezza (cf 1 Tim 2,4). Nel tentativo di armonizzazione si è sempre oscillati più sull’uno o più sull’altro, così oggi siamo più sensibili al secondo, vista la situazione plurale in cui viviamo, ma non bisogna scordarsi della prima. Dimenticare la seconda porta ad un rigido esclusivismo, dimenticare la prima porta a non capire il senso della missione e della chiesa. Dando ragione di questi due dati, vediamo cosa ha detto il Concilio. Esso dicendo che la chiesa è sacramento universale di salvezza, ha riaffermato la convinzione che la Chiesa sia necessaria alla salvezza. Non ha ritenuto però che l’appartenenza alla chiesa sia necessaria alla salvezza, perciò c’è possibilità di salvarsi anche al di fuori della chiesa. Questo modo di ragionare è stato reso possibile dal “subsistit in”, usato nel caso ecumenico, legato al concetto medioevale per cui Dio non lega le sue azioni esclusivamente ai sacramenti. Proprio la prospettiva sacramentale della chiesa diventa quindi il punto nevralgico per cogliere questa relazione tra i due dati irrinunciabili: la chiesa è segno e strumento del disegno di Dio, che è disegno si salvezza per tutti; la chiesa non si identifica con questo disegno, ma senza di lei non lo potremmo conoscere e non potrebbe operare. Vediamo i testi: - LG 2: «come si legge nei santi Padri, tutti i giusti, a partire da Adamo, “dal giusto Abele fino all'ultimo eletto”, saranno riuniti presso il Padre nella Chiesa universale», cioè tutti i salvati appartenenti alla chiesa nel suo destino escatologico. La relazione della commissione dottrinale su questo punto dice che questo tema patristico è stato ripreso per dire che la salvezza si ottiene mediante Cristo e la sua Chiesa, che estende il suo influsso a tutto il genere umano nella sua totalità. - LG 9: «In ogni tempo e in ogni nazione è accetto a Dio chiunque lo teme e opera la giustizia (cfr. At 10,35)» e quindi salvezza universale, però «il popolo messianico, pur non comprendendo effettivamente l'universalità degli uomini e apparendo talora come un piccolo gregge, costituisce tuttavia per tutta l'umanità il germe più forte di unità, di speranza e di salvezza. Costituito da Cristo per una comunione di vita, di carità e di verità, è pure da lui assunto ad essere strumento della redenzione di tutti e, quale luce del mondo e sale della terra (cfr. Mt 5,13-16), è inviato a tutto il mondo». Ciò per ribadire ancora una volta che se alcuni sono salvati pur non appartenendo “fisicamente” alla chiesa, la chiesa è comunque lo strumento di salvezza e quindi chi è salvo ha qualche legame con la chiesa, anche se qui non viene specificato come. A tal proposito la relazione dottrinale rimanda a LG 16 che vedremo dopo. Queste due frasi giustapposte volutamente, come emerge dalla discussione e dalla storia dei testi, stanno a dire che la chiesa è necessaria e lo è se strutturata gerarchicamente, ma la sua funzione è per tutti. L’appartenenza alla chiesa più che in senso etico è vista quindi in senso dogmatico. La chiesa è dunque necessaria, perché se non ci fosse, l’umanità non conoscerebbe e non potrebbe raggiungere la sua meta, l’unità con Dio e tra di essa. - LG 14: «Il santo Concilio si rivolge quindi prima di tutto ai fedeli cattolici. Esso, basandosi sulla sacra Scrittura e sulla tradizione, insegna che questa Chiesa peregrinante è necessaria alla salvezza. Solo il Cristo, infatti, presente in mezzo a noi nel suo corpo che è la Chiesa, è il mediatore e la via della salvezza; ora egli stesso, inculcando espressamente la necessità della fede e del battesimo (cfr. Gv 3,5), ha nello stesso tempo confermato la necessità della Chiesa, nella quale gli uomini entrano per il battesimo come per una porta. Perciò non possono salvarsi quegli uomini, i quali, pur non ignorando che la Chiesa - - cattolica è stata fondata da Dio per mezzo di Gesù Cristo come necessaria, non vorranno entrare in essa o in essa perseverare.» Philips commentando questo passo diceva che alcuni pensano che la chiesa romana abbia abbandonato il suo ruolo di condurre gli uomini alla salvezza, ma ciò dal punto di vista storico e teologico è falso. In questo testo bisogna far bene attenzione alle parole usate: Si parla di chiesa pellegrinante, per non falsare il problema e parlare solo di chiesa trascendente, perché è ovvio che quest’ultima sia necessaria alla salvezza, ciò che fa problema è la chiesa visibile. Si richiama qui la “non debole analogia con il Verbo Incarnato” di LG 8. Il motivo della necessità della chiesa è la presenza in essa di Cristo, mediatore e via della salvezza, e la sua disposizione circa la fede e il battesimo. Non si tratta perciò solo di un precetto di Cristo, ma del legame che c’è tra Lui e la chiesa. La necessità della chiesa è rafforzata dal concetto di “consapevolezza”, ma facendo bene attenzione che la conoscenza non riguarda solo la chiesa, ma la necessità della chiesa per la salvezza e poi cosa significa “conoscere”? Si può veramente conoscere l’amore e poi rifiutarlo? Certo non possiamo pensare che non esista la possibilità di rifiutare la fede. È quindi la relazione con Cristo a fondare la necessità della chiesa. LG 16 parla della relazione dei non cristiani con la chiesa. Se per i non cattolici si parla di appartenenza per diversi gradi (UR 3), per i non cristiani si usa “ordinati”. Proprio perché la Chiesa è ordinata alla salvezza, allora tutti gli uomini sono in qualche modo ordinati alla chiesa, ma da subito si dice che anche questa ordinazione conosce diverse gradazioni, legate alla diversa accettazione del Dio della Rivelazione. Si lascia così cadere la dottrina del “voto inconscio” e si rimanda al mistero di Dio nulla dicendo di come questo intersechi la situazione personale. Dio vuole la salvezza di tutti, la chiesa è il sacramento di salvezza, quindi ci deve essere un legame tra queste due proposizioni, legame che il concilio non lega tanto al fatto oggettivo, ma soprattutto al soggetto. Se prima del concilio si poneva l’accento sulle condizioni poste dal soggetto per ottenere la salvezza, il concilio pone l’accento sulla situazione in cui il soggetto si trova in forza della volontà di Dio di salvare tutti. La questione non è dunque l’appartenenza o no alla chiesa, ma la chiesa percependosi come frutto dell’azione di Dio in Gesù Cristo, che vuole la salvezza di tutti, si mette alla ricerca di quegli elementi che mostrano l’azione di Dio anche al di fuori di essa e che creano il contatto tra la chiesa e il resto dell’umanità. GS 22: «ciò vale non solamente per i cristiani, ma anche per tutti gli uomini di buona volontà, nel cui cuore lavora invisibilmente la grazia. Cristo, infatti, è morto per tutti e la vocazione ultima dell'uomo è effettivamente una sola, quella divina; perciò dobbiamo ritenere che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità di venire associati, nel modo che Dio conosce, al mistero pasquale» Cristo è dunque l’uomo perfetto e l’unica vocazione umana è quella alla vita divina e in questo senso la distinzione natura-sopranatura non ha senso; l’uomo non si può vedere con Dio o senza Dio, perché parlare dell’uomo al di fuori del suo rapporto con Dio va contro la realtà! L’unica natura dell’uomo è quella che vede l’uomo felice dell’incontro con Cristo. Siccome però la chiesa è sacramento universale di salvezza, essa ha certamente il suo influsso anche su coloro che vengono messi a contatto con il mistero pasquale, anche se il Concilio non dice come ciò avvenga. SCHEMA DELLA COSTITUZIONE DOGMATICA “LUMEN GENTIUM” SULLA CHIESA (21 novembre 1964) CAPITOLO I - IL MISTERO DELLA CHIESA 1. La Chiesa è sacramento in Cristo 2. Disegno salvifico universale del Padre 3. Missione del Figlio 4. Lo Spirito santificatore della Chiesa 5. Il regno di Dio 6. Le immagini della Chiesa 7. La Chiesa, corpo mistico di Cristo 8. La Chiesa, realtà visibile e spirituale CAPITOLO II – IL POPOLO DI DIO 9. Nuova alleanza e nuovo popolo 10. Il sacerdozio comune dei fedeli 11. Il sacerdozio comune esercitato nei sacramenti 12. Il senso della fede e i carismi nel popolo di Dio 13. L'unico popolo di Dio è universale 14. I fedeli cattolici 15. I cristiani non cattolici e la Chiesa 16. I non cristiani e la Chiesa 17. Carattere missionario della Chiesa CAPITOLO III – COSTITUZIONE GERARCHICA DELLA CHIESA E IN PARTICOLARE DELL'EPISCOPATO 18. Proemio 19. L'istituzione dei dodici 20. I vescovi, successori degli apostoli 21. Sacramentalità dell'episcopato 22. Il collegio dei vescovi e il suo capo 23. Le relazioni all'interno del collegio episcopale 24. Il ministero episcopale 25. La funzione d'insegnamento dei vescovi 26. La funzione di santificazione 27. La funzione di governo 28. I sacerdoti e i loro rapporti con Cristo, con i vescovi, con i confratelli e con il popolo cristiano 29. I diaconi CAPITOLO IV – I LAICI 30. I laici nella Chiesa 31. Natura e missione dei laici 32. Dignità dei laici nel popolo di Dio 33. L'apostolato dei laici 34. Partecipazione dei laici al sacerdozio comune 35. Partecipazione dei laici alla funzione profetica del Cristo 36. Partecipazione dei laici al servizio regale 37. I laici e la gerarchia 38. Conclusione CAPITOLO V - UNIVERSALE VOCAZIONE ALLA SANTITÀ NELLA CHIESA 39. La santità nella Chiesa 40. Vocazione universale alla santità 41. Esercizio multiforme della santità 42. Vie e mezzi di santità CAPITOLO VI – I RELIGIOSI 43. I consigli evangelici nella Chiesa 44. Natura e importanza dello stato religioso 45. La gerarchia e lo stato religioso 46. Grandezza della consacrazione religiosa 47. Esortazione alla perseveranza CAPITOLO VII – INDOLE ESCATOLOGICA DELLA CHIESA PEREGRINANTE E SUA UNIONE CON LA CHIESA CELESTE 48. Natura escatologica della nostra vocazione 49. La Chiesa celeste e la Chiesa peregrinante 50. Relazioni della Chiesa celeste con la Chiesa peregrinante 51. Disposizioni pastorali del Concilio CAPITOLO VIII – LA BEATA MARIA VERGINE MADRE DI DIO NEL MISTERO DI CRISTO E DELLA CHIESA I. 52. Proemio 53. Maria e la Chiesa 54. L'intenzione del Concilio II. Funzione della beata Vergine nell'economia della salvezza 55. La madre del Messia nell'Antico Testamento 56. Maria nell'annunciazione 57. Maria e l'infanzia di Gesù 58. Maria e la vita pubblica di Gesù 59. Maria dopo l'ascensione III. La beata Vergine e la Chiesa 60. Maria e Cristo unico mediatore 61. Cooperazione alla redenzione 62. Funzione salvifíca subordinata 63. Maria vergine e madre, modello della Chiesa 64. La Chiesa vergine e madre 65. La Chiesa deve imitare la virtù di Maria IV. Il culto della beata Vergine nella Chiesa 66. Natura e fondamento del culto 67. Norme pastorali V. Maria, segno di certa speranza e di consolazione per il peregrinante popolo di Dio 68. Maria, segno del popolo di Dio 69. Maria interceda per l'unione dei cristiani SCHEMA DEL DECRETO “UNITATIS REDINTEGRATIO” SULL'ECUMENISMO 1. PROEMIO CAPITOLO I – PRINCIPI CATTOLICI SULL'ECUMENISMO 2. Unità e unicità della Chiesa 3. Relazioni dei fratelli separati con la Chiesa cattolica 4. L'ecumenismo CAPITOLO II – ESERCIZIO DELL'ECUMENISMO 5. L'unione deve interessare a tutti 6. La riforma della Chiesa 7. La conversione del cuore 8. L'unione nella preghiera 9. La reciproca conoscenza 10. La formazione ecumenica 11. Modi di esprimere e di esporre la dottrina della fede 12. La cooperazione con i fratelli separati CAPITOLO III – CHIESE E COMUNITÀ ECCLESIALI SEPARATE DALLA SEDE APOSTOLICA ROMANA 13. Le varie divisioni I. Speciale considerazione delle Chiese orientali 14. Carattere e storia propria degli orientali 15. Tradizione liturgica e spirituale degli orientali 16. Disciplina degli orientali 17. Carattere proprio degli orientali nell'esporre i misteri 18. Conclusione II. Chiese e Comunità ecclesiali separate in Occidente 19. Condizione di queste comunità 20. La fede in Cristo 21. Studio della sacra Scrittura 22. La vita sacramentale 23. La vita in Cristo 24. Conclusione