Anno 2 - N. 11 (#18) Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004 art. 1, c1, DCB Milano - Supplemento al Corriere della Sera del 18 marzo 2012, non può essere distribuito separatamente IL DIBATTITO DELLE IDEE NUOVI LINGUAGGI ARTE INCHIESTE RACCONTI #18 Domenica 18 marzo 2012 Molto meglio emigrare Roberto Innocenti per il Corriere della Sera DOMENICA 18 MARZO 2012 4 LA LETTURA CORRIERE DELLA SERA Risate al buio Il dibattito delle idee di Francesco Cevasco { Eccesso di sinonimi Tu mi torni in mente, genio come sei. Scriveva monsignor Ravasi, nel suo illuminante Breviario, che la gioventù dei college americani descritta da Nabokov evoca il «Was ist der Menschen Leben» di Paradossi Cosa si nasconde dietro la continua insistenza a inasprire le sanzioni L’incursione La pena come vendetta RRR di Vincenzo Ostuni Religione e costumi hanno riscritto il significato: così la società è diventata giustizialista di UMBERTO CURI Hölderlin. In mancanza di traduzione autentica, che cosa intende Ravasi con Leben? Esistenza, Essere, Vita, Abitare, Dimorare, Essere in vita, Risiedere; o uno dei, più o meno, venticinque sinonimi? LIBERIAMO LA POESIA, SÌ MA DAI PIAGNISTEI FACILI CHE NEPPURE VENDONO ILLUSTRAZIONE DI PIERLUIGI LONGO L’ O rmai è diventato un riflesso condizionato, diffuso e ricorrente. Attraversa gli schieramenti politici, con una maggiore presenza a destra, ma con un’incidenza non trascurabile a sinistra. Accomuna orientamenti culturali per altri aspetti diversi e lontani. Ogni volta che la cronaca riporta notizie di qualche reato particolarmente odioso o spettacolare, e talora anche quando riferisce della proliferazione dei crimini di strada, si alza imperiosa la richiesta di accrescere le pene per i responsabili: «In galera, e buttare via la chiave» — questa è la battuta che riscuote il maggior successo trasversale. A ciò si aggiunga una peculiarità già presente nel nostro ordinamento giuridico, vale a dire la previsione di una sanzione penale anche per i cosiddetti reati bagatellari, vale a dire per infrazioni della legge oggettivamente molto lievi. Ebbene, a cosa corrisponde, in termini concettuali e non soltanto psicologici, questa richiesta di pene severe? È possibile individuare un fondamento razionale per spiegare questo fenomeno? Si può, insomma, cercare di capire se vi siano motivazioni reali alla base di questa esigenza, o se non si tratti piuttosto di una indistinta istanza di vendetta sociale? In origine, in Omero o anche nei tragici, il termine greco ponos (da cui l’italiano «pena») ha un significato ambivalente. Da un lato indica la mercede, la riparazione; dall’altro, coincide con la punizione, il castigo. Questa originaria duplicità di significati si consoliderà ulteriormente in tempi successivi, nel momento in cui, soprattutto nelle lingue neolatine, la parola assumerà anche il senso di «dolore». L’originaria duplicità di significato del ponos viene in tal modo a specificarsi come compresenza di due «famiglie» di termini, le quali indicano rispettivamente la pena come punizione o castigo, e la pena come sofferenza o dolore. Il legame che unisce questi due significati è l’idea che attraverso il dolore (pena) subìto sia possibile eliminare o riscattare la punizione (pena) inflitta. Le leggi penali tradizionali, il perdono ottenuto con la penitenza, la perfezione conseguita con l’ascetismo, la sofferenza di Cristo ci offrono esempi della stessa problema- RRR Tiromancino La sinistra mollusco In America chiamano Obama il «ruminatore di rucola», perché ostenta gusti snob, dunque europei. In Francia c’è l’espressione «gauche caviar», e non c’è bisogno di spiegarla. In Germania la sinistra con i soldi è definita dalla villeggiatura: «Toscana Fraktion». Che nome daremo ai nostri politici, da Lusi a Emiliano, invaghiti di ostriche, cozze e crostacei, possibilmente gratis? Sinistra mollusco? Antonio Polito tica: la pena è redentrice, il dolore possiede una funzione purificatrice della vita umana. Si coglie qui un punto di grande importanza. L’originaria coincidenza di significati fra sofferenza e punizione ha suggerito la convinzione che ciò implicasse anche la loro indissolubilità, nel senso che non sia possibile applicare adeguatamente una pena, se non a condizione di indurre dolore in colui che ad essa venga assoggettato. A ciò si aggiunga la persuasione della funzione «riparatrice» della pena (punizione e dolore), in quanto mediante l’afflizione provocata dalla punizione si ristabilirebbe un ordine — comunque definito — che resterebbe altrimenti turbato. L’enfasi sulla funzione catartica della pena ha indotto a porre tra parentesi il fatto che essa resta in ogni caso, e in qualunque condizione, anche afflizione, e che dunque può pretendere di «emendare» solo a patto di infliggere sofferenza. Non è dunque la pena uno strumento puramente neutro di ricostituzione dell’ordine, ma in tanto può aspirare a tale obiettivo, in quanto realizzi compiutamente il potenziale di dolore che essa porta con sé. Infliggere una pena non significa, dunque, ristabilire un equilibrio turbato, se non a patto di un ulteriore squilibrio, o se non altro di una «riparazione» che non cancella affatto la preesistente lesione, ma la riproduce altrove. Il contesto nel quale la nozione di «pena» assume la sua forma compiuta è quello della religione. Qui la pena si presenta immediatamente come punizione, e più specificamente come castigo, come «salario del peccato». Storicamente e concettualmente, la stessa nozione giuridica di pena, intesa come «giusta» remunerazione di un reato, si afferma attraverso la traduzione dall’originario ambito religioso all’ambito del diritto positivo. Questa origine spiega non solo la convinzione che l’irrogazione di una pena sia comunque necessaria, allo scopo di retribuire adeguatamente il reato commesso, ma motiva anche l’impossibilità di concepire un reato, al quale non si faccia simmetricamente corrispondere una pena. Scaturisce di qui il conferimento alla pena di un carattere sacrale, l’idea che essa serva anche alla restaurazione di un «buon ordine» cosmico e al riscatto del colpevole. Ma ciò conduce a un primo paradosso. Proprio nella sfera del diritto penale, che è quella nella quale dovrebbe essere più marcato lo sforzo per esercitare il massimo di razionalità, si coglie al lavoro un presupposto di carattere mitologico. Difatti, la relazione di proporzionalità fra colpa e pena si regge soltanto se si accetta che la pena possa funzionare come espiazione, vale a dire a condizione di assumerla come una condotta di annullamento, capace di cancellare il reato, e dunque reintegrare l’ordine. Soltanto a condizione, dunque, che alla pena-espiazione venga attribuita la stessa funzione attribuita alla purificazione in ambito reli- gioso. La conclusione di questo paradosso mette in evidenza l’esistenza di una difficoltà logica insormontabile alla base del diritto penale. Difatti, l’equivalenza posta fra colpa e pena non testimonia affatto — come si potrebbe credere — l’assunzione di un criterio massimamente razionale, di tipo calcolistico-matematico, ma al contrario manifesta la condivisione di un presupposto razionalmente infondato, giustificabile solo in un contesto di carattere religioso o in una prospettiva mitologica. Insomma, per acquisire uno statuto pienamente razionale il diritto penale dovrebbe liberarsi di ogni presupposto di carattere mitologico-religioso, primo fra tutti quello che attribuisce alla pena una funzione purificatrice. Ma, in questo modo, eliminando il mito dell’espiazione, si priverebbe del principio stesso sul quale fonda la propria legittimità, vale a dire la corrispondenza proporzionale fra il reato e la pena. La sacralizzazione della pena giuridica è la conseguenza di un mito teomorfico: il monarca, la patria, lo Stato sono concepiti a «immagine e somiglianza di Dio», e ne condividono gli stessi attributi di onnipotenza, infallibilità e sovranità. Emerge qui un ulteriore paradosso. Come ha dimostrato Paul Ricoeur, interpretando le Lettere di San Paolo, già nel contesto della religione, alla quale pure si fa risalire l’origine della sacralizzazione della pena, è possibile ritrovare il superamento della logica dell’equivalenza, che connette «proporzionalisticamente» colpa e pena. Nell’epistola paolina, la logica della pena viene usata come contrappunto per l’enunciazione di un’altra logica, per certi aspetti opposta. La «giustizia» di Dio fa saltare ogni presunta possibilità di stabilire corrispondenze fra la condotta dell’uomo e la «risposta» di Dio. La grazia è ciò che, per definizione, eccede ogni criterio sedicente razionale di retribuzione della colpa, introducendo uno scarto — la «sovrabbondanza» della misericordia divina — in nessun modo compatibile con ciò che la «legge» vorrebbe imporre. Di tutto ciò dovremmo essere consapevoli, quando invochiamo l’inasprimento delle pene. Della mancanza di ogni sicuro fondamento razionale alla base di questo concetto. Del fatto che esso sopravvive nell’ordinamento giuridico delle democrazie moderne solo come espressione di una persistente esigenza di vendetta sociale. Una conferma, fra le molte, della verità enunciata da Sofocle: «Molte sono le cose terribili, ma la cosa più terribile è l’uomo». © RIPRODUZIONE RISERVATA RRR Ritornello «In galera, e buttare via la chiave» è la battuta che raccoglie il maggiore consenso di fronte a crimini particolarmente efferati «incursione» di Carlo Carabba sulla «Lettura» di domenica scorsa reca nel titolo il motto Liberiamo la poesia, con il quale concordo di slancio. Con il resto, meno. In sintesi: Wislawa Szymborska (un quarto d’ora dedicatole da Saviano il 5 febbraio a Che tempo che fa) è in testa alle classifiche; ergo la poesia — se «si capisce e commuove» — può vendere; ergo (?!?) dàgli a Sanguineti e ai Novissimi, che bandiscono «il significato» e «l’io» e dàgli a Ostuni che nella prefazione ai Poeti degli Anni Zero (appena ripubblicati in volume da Ponte Sisto) aborre «il sentimento come la peste» e propugna una poesia che «non piace a nessuno» (ma che senza distribuzione è in seconda edizione; virgolettati di Carabba non di Ostuni). Liberiamo la poesia, certo! Liberare qualcuno — il lettore vorrà concedermi — implica modificarne la condizione. Qual è la condizione della nostra poesia, se ne prendiamo le principali incarnazioni: la collana «bianca» Einaudi e lo Specchio Mondadori? A parte il bel lavoro sugli stranieri (e su italiani ormai classici: Balestrini, Zanzotto ecc.), nella quasi totalità i nuovi poeti italiani in esse ospitati seguono l’aureo precetto carabbiano, «si capiscono e commuovono»: indicazione legittima che, se elevata a must, dipinge (e crea) un pubblico di ricettori passivi, incapaci d’interpretazione, interessati alla mera catarsi espulsiva delle proprie emozioni. Un capire e un commuoversi innati e immodificabili, dobbiamo RRR I successi meritati Per Szymborska e Tranströmer penso all’opportunità suggerita da Giuliani sui «Novissimi»: si deve poter profittare dei versi come di un incontro un po’ fuori dall’ordinario dedurre: assurdo, se si pensa alla diffusione di tanta «oscura» e «gelida» arte contemporanea. Ecco: sono quelle collane ad arrivare nelle librerie, con Carabba (Mondadori) in testa (e alcune sequenze non memorabili: «Ho lasciato che il dolore mi sperdesse / come il vento la neve sulle ali / di un aereo»; «e ho amato, quanto ho amato, e adesso sono solo»: giù lacrime!) e tuttavia la poesia continua a non vendere. Finché arriva la grande (lei sì) Szymborska, Nobel nel 1996 — o Tranströmer, Nobel 2011, prova provata, nella sua austera borealità, che la poesia può vendere anche senza immediatezza. È solo Saviano? È solo il Nobel? Preferisco pensare che per quei due poeti sia anche valso quel che scrisse Giuliani nella prefazione ai Novissimi: «Si deve poter profittare di una poesia come di un incontro un po’ fuori dall’ordinario». E in modo fuori dall’ordinario trattano esperienza e linguaggio i Poeti degli Anni Zero: sempre con rigore, senza inseguire né l’oscurità né le vendite (è un difetto?) e senza timore di ricevere la «qualità dai tempi», i tempi di oggi: né quelli di Sanguineti né tanto meno quelli di Pascoli, che non meritano la rovina dell’epigonismo. Si chiamano Annovi, Biagini, Bortolotti, Calandrone, Frene, Giovenale, Inglese, Marzaioli, Pugno, Riviello, Sannelli, Ventroni, Zaffarano: leggeteli e sappiatemi dire se «rifiutano l’io» o ne offrono personali reinterpretazioni; se «negano il significato» o hanno l’umiltà di «sedere al tavolo dei linguaggi» contemporanei e non arroccarsi nella tradizione; ditemi se reagirete — io ci scommetto — con meraviglia e vera liberazione o invece con formidabile noia, come quella che si prova, da adulti, scorrendo certe innocue e lamentose filastrocche. © RIPRODUZIONE RISERVATA Vincenzo Ostuni (Roma, 1970) è editor di saggistica e narrativa per Ponte alle Grazie. Ha pubblicato Faldone zero-otto (Oedipus) e curato Poeti degli Anni Zero (Ponte Sisto) è redattore de «Il caffè illustrato»