5 FACTS&NEWS Risparmio tissutale nella ricostruzione del ginocchio In una relazione al 93° Congresso SIOT, una panoramica delle soluzioni di protesizzazione del ginocchio con tecnica mininvasiva La via italiana verso la vera chirurgia mininvasiva: così il professor Norberto Confalonieri ha definito la chirurgia con risparmio tissutale nella ricostruzione del ginocchio. L’occasione è stata il 93° congresso della Società Italiana di Ortopedia e Traumatologia (SIOT) tenutosi a Roma lo scorso novembre. Il professor Confalonieri lavora presso il Centro Traumatologico e Ortopedico (Cto) di Milano e ha attinto alla sua vasta esperienza clinica e all’approfondita conoscenza della materia per compiere, nella mattinata del 25 novembre, un excursus attraverso queste tecniche, che si è tradotto in un articolo di prossima pubblicazione, firmato anche da K. Motavalli, A. Manzotti, F. Montironi (sempre del Cto) e C. Pullen (del Royal Melbourne Hospital). La relazione si è aperta con alcune considerazioni preoccupate per i potenziali rischi della chirurgia ricostruttiva mininvasiva (MIS), che pure negli ultimi anni ha suscitato un notevole interesse nel mondo ortopedico: nel caso del ginocchio si ottengono una perdita ematica ridotta, una degenza più breve e costi inferiori. Tuttavia, a fronte di questi vantaggi, ci si espone a diversi potenziali pericoli: mal allineamento delle componenti, avulsioni e fratture ossee, complicanze della ferita chirurgica, ritenzione posteriore del cemento. Mininvasività, non solo nel taglio Alcuni specialisti hanno fatto notare inoltre che un’incisione breve può pregiudicare la visione del chirurgo, dare origine a un allineamento non ottimale dei componenti, con risultati negativi a lungo termine, che comprometterebbero il vantaggio iniziale. L’entusiasmo, in molti casi, si sta trasformando in cautela. Secondo il professore milanese, c’è un equivoco di fondo: spesso la MIS è identificata, sia dai chirurghi che dai produttori di protesi, come una chirurgia che utilizza un’incisione più breve per posizionare una protesi totale. Gli autori propongono una soluzione ben diversa e già in pubblicazioni precedenti avevano sottolineato che la chirurgia realmente mininvasiva “non dovrebbe comprendere soltanto un’incisione più breve, ma un maggiore rispetto di tutti i tessuti che permettono di preservare la cinematica articolare”, definendola come chirurgia a risparmio tissutale. Questi piccoli impianti hanno evidenziato chiari vantaggi, tuttavia non sono diventati uno standard internazionale e alcuni autori continuano a preferire l’artroprotesi totale (TKR). Quindi, in questa presentazione, il professor Confalonieri ha voluto esaminare in modo sistematico le potenzialità oggi offerte dalla chirurgia con risparmio tissutale in vari contesti, secondo una filosofia in cui la chirurgia mininvasiva passa attraverso un reale rispetto dei tessuti: non soltanto tramite una piccola incisione ma anche con la salvaguardia della biomeccanica naturale dell’articolazione. Impianti piccoli e davvero meno invasivi sono utilizzabili per la protesi monocompartimentale, la protesi patello-femorale e la protesi bimonocompartimentale. Per ciascuna casistica sono state illustrate le opzioni oggi disponibili e i risultati degli studi pubblicati fino a questo momento. Per esempio, come ha dichiarato il professor Confalonieri, “il confronto tra la protesi totale del ginoc- chio (TKR) e la protesi monocompartimentale (UKR) è fortemente in favore della seconda. Ci consente di utilizzare piccoli impianti, brevi tempi operatori, minor degenza ospedaliera, nessuna trasfusione di sangue, minori complicanze tromboemboliche, di preservare ambedue i legamenti crociati ed eseguire minime resezioni ossee”. È lo stesso relatore ad aver pubblicato recentemente uno studio comparativo tra UKR ed il miglior modo di impiantare una totale, col computer, nel trattamento della gonartrosi mediale isolata. Senza entrare nei dettagli, basti ricordare che tutti i pazienti del gruppo UKR hanno raggiunto una motilità maggiore di 120° e possono percorrere un tragitto più lungo, senza dolore. Anche l’artroprotesi femoro-rotulea è una alternativa alla TKR che offre vantaggi potenziali. L’indicazione ideale è l’artrosi realmente isolata con una deformità in varo non superiore a 5°6° ed una deformità in valgo di 7°-8°. Secondo quanto riportato in letteratura, si possono ottenere buoni risultati in più dell’80% dei pazienti con corrette indicazioni e tecniche chirurgiche. Alcuni chirurghi, nel mondo, hanno utilizzato impianti meno invasivi anche nelle protesi totali con risparmio dei due crociati. Già da molti anni, protesizzazioni monocompartimentali rivolte ad ambedue i compartimenti femoro-tibiali simultaneamente, presentano esperienze positive, soprattutto nell’artrosi post traumatica del giovane. Il professor Confalonieri si è infine soffermato su uno degli argomenti più discussi: l’associazione tra impianti monocompartimentali e femoro-rotulei. In particolare ha accennato a un modello “rivoluzionario” di protesi bi-compartimentale proposto nel 2007 che prevede un unico dispositivo di protesizzazione femoro-rotuleo e del comparto mediale e lascia intatto il comparto laterale e il pivot centrale. L’attenzione alle nuove tecniche chirurgiche deve coniugarsi costantemente con il concetto di “trattamento personalizzato”. Concludiamo dunque con le parole del professore: “oggi, in commercio esistono diversi modelli protesici, a risparmio o non dei crociati e dei comparti. In accordo con la severità delle patologie, delle diverse indicazioni e delle esigenze di ciascun paziente, è assurdo impiantare la stessa protesi totale a tutti”. la medicina offre alle mani del chirurgo e non solo. Principi attivi utilizzati per scopi che non si avvicinavano neanche all’idea di chirurgia, strumentari, tecnologie sempre più avanzate oggi possono essere considerati efficaci “aiuti” alle mani del chirurgo, almeno per determinate e selezionate casistiche. Queste molto probabilmente saranno le sale operatorie del futuro: postazioni chirurgiche dove la bravura di chi opera si fonde con le più avanzate tecnologie e dove la ricerca non può e non deve restare indietro. Renato Torlaschi Farmaco innovativo per chirurgia vertebrale Un nuovo farmaco è in grado di scollare le fibre cicatriziali dal tessuto sano. La revisione chirurgica nell’approccio lombare può cambiare D ue sono i maggiori responsabili che rendono le revisioni operatorie di interventi chirurgici sulla colonna lombare più impegnativi per il possibile insorgere di complicanze: la complessità stessa dell’intervento e la durata. Uno dei principali fattori che rendono la vita del chirurgo più complicata durante le revisoni è la presenza di uno strato fibroso (volgarmente possiamo definirla cicatrice del precedente intervento) che si sviluppa a livello epidurale. Questa cicatrice è spesso originaria dai residui di lamine e si diffonde nei muscoli paravertebrali: il grosso problema è che la diffusione del tessuto cicatriziale non è controllabile né valutabile, quindi molto spesso ci troviamo di fronte ad un tessuto neoformato che aderisce completamente anche alla dura madre e alle radici nervose. Quindi causa di dolore. Negli interventi di revisio- ne la presenza di un materiale verosimile di origine fibrosa-cicatriziale rende assai difficile riuscire a scollare senza danneggiare la parte in eccesso dal canale vertebrale. Il rischio che si verifichino lesioni della dura madre, delle radici nervose e sanguinamenti locali diventa così assai più alto. Nonostante l’accuratezza del chirurgo, la precisione nell’esecuzione delle manovre e l'affidabilità degli strumentari dedicati, non è sempre facile asportare la cicatrice senza incombere in complicanze chirurgiche più o meno gravi, dovute principalmente alla difficoltà meccanica di scollare le fibre cicatriziali dal tessuto sano. Il problema è così sentito a livello della comunità scientifica che è stato coniato un nome per tutti i pazienti che a causa della formazione di tessuto cicatriziale lombare si sono dovuti sottoporre ad interventi di revisione: failed back sindrome. Una scoperta casuale Si è cercato così di porre una soluzione che potesse rendere più semplice scollare la cicatrice fibrosa dal tessuto sano. Nato come uroprotettore in trattamenti con ossazafosforine (prevenzione delle lesioni tossiche delle vie urinarie provocate ad esempio da ciclofosfamide, ifosfamide) il MESNA (sodio 2-mercaptoetanolo solfonato) oggi è impiegato anche nella chirurgia vertebrale. Si presenta come un materiale liquido le cui spiccate capacità mucolitiche agiscono creando spazio tra i tessuti: in particolare creando un piano di clivaggio tra la cicatrice (tessuto fibroso) e le sedi anatomicamente integre (la dura madre – le radici nervose). Utilizzato in soluzione, il farmaco viene direttamente espanso a livello della cicatrice permettendo così al chirurgo di ricavare più facilmente un piano di clivaggio con il tessuto sano e quindi con più facilità di asportate la parte fibrotica. Alcuni studi ne certificano l’efficacia Sono stati condotti diversi studi tra il 2003 e il 2006 che hanno dimostrato come l'utilizzo del MESNA ha portato ad avere dei risultati notevolmente vantaggiosi per chi ha associato alla tecnica chirurgica l’utilizzo di questa soluzione farmacologica. Dai casi emersi in letteratura, la riduzione delle complicanza intra e post operatorie negli interventi di revisione per precedenti interventi a carico della colonna lombare ha mostrato come il ridursi del tempo chirurgico, il miglior distacco tra i tessuti abbiano portato complessivamente ad un notevole miglioramento in questo tipo di approccio. Tecnologia e ricerca i partner del chirurgo Quello che abbiamo voluto sottolineare con questo breve articolo è la possibilità continua di evoluzione che Lorenzo Castellani Matteo Laccisaglia