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Edizioni Simone - Vol. 28/1 Diritto dei beni culturali e del paesaggio
Capitolo 8
La circolazione in ambito nazionale
Sommario
1. L’alienabilità dei beni demaniali. - 2. Altri tipi di alienazione. - 3. Procedure di trasferimento di immobili pubblici.
4. La permuta. - 5. I trasferimenti della proprietà e della detenzione. - 6. La prelazione. - 7. Il commercio.
1.L’alienabilità dei beni demaniali
La struttura del Capo IV del Codice, dedicato alla circolazione in ambito nazionale, riproduce quella già utilizzata dal legislatore nel T.U. del 1999, con una tripartizione delle sezioni, dedicate rispettivamente alla alienazione e altri modi di trasmissione (sez. I), alla prelazione (sez. II) ed al commercio (sez. III).
Al di là di queste analogie, le disposizioni contenute nel Codice tuttavia contengono novità
di rilievo rispetto al sistema delineato dal T.U.
La prima sezione del Capo IV, dedicata, alla alienazione e altri modi di trasmissione, affronta in primo luogo il tema della alienabilità dei beni demaniali.
Si tratta di una materia che ha subito forti trasformazioni nel corso del tempo e che si riflette nella sua evoluzione ultima nelle disposizioni del Codice.
L’interesse dello Stato alle vicende di trasferimento e/o di costituzione di diritti sulla res culturale risponde da
sempre ad esigenze specifiche. La dottrina ne ha enucleate alcune rendendo evidente l’interesse pubblico sotteso alla conoscenza della circolazione della res. Una di queste si ravvisa nella diversa condizione, ai fini di
conservazione e di uso pubblico, che il bene culturale assume a seconda dell’appartenenza ad un soggetto pubblico o ad un soggetto privato; in questo senso il trasferimento del bene incide sullo status giuridico dello
stesso. Alla stessa stregua, il mutamento di proprietà del bene ha influenza sulle condizioni di sicurezza e di
accessibilità pubblica. (ALIBRANDI-FERRI). Ne discende una fondamentale esigenza di controllo delle vicende traslative della proprietà del bene culturale, anche se con poteri più limitati, ad esempio, rispetto ai controlli
esercitati in altre materie, come quella della conservazione della res.
Gli effetti del controllo amministrativo si possono tradurre in chiave impeditiva, nel caso in cui il trasferimento
possa arrecare pregiudizio alle condizioni essenziali di conservazione e di pubblico godimento della cosa. In
questa ipotesi, per evitare il pericolo del verificarsi di tale pregiudizio, è possibile per l’amministrazione permettere il trasferimento del bene, imponendo al contempo specifiche prescrizioni di tutela. Altri effetti si possono ravvisare a fini meramente conoscitivi, come ad esempio nel caso della denuncia del trasferimento di detenzione dell’immobile vincolato (art. 59, comma 1). Infine, il controllo amministrativo si può tradurre in
un’acquisizione della res, sottraendola alla circolazione privata e riservandola alla sua destinazione pubblica
(ALIBRANDI-FERRI).
L’art. 53 del Codice detta una previsione di carattere generale, tesa a comprendere in un’unica definizione i beni appartenenti al demanio culturale.
Come si è visto nel capitolo dedicato alla tutela del patrimonio immobiliare pubblico, il codice civile individua
un diverso status giuridico per quei beni pubblici, di interesse culturale, che appartengono allo Stato, alle regioni ed agli altri enti territoriali e che si traduce nella loro demanialità. Tale condizione, ai sensi dell’art. 823 del
codice civile, produce l’inalienabilità degli stessi e l’impossibilità di essere oggetto di diritti a favore di terzi, se
non nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi che li riguardano.
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L’art. 53 si collega direttamente alle disposizioni del codice civile stabilendo che costituiscono il demanio culturale i beni culturali appartenenti allo Stato, alle regioni e agli altri
enti pubblici territoriali che rientrino nelle tipologie indicate all’art. 822 del codice civile
(immobili riconosciuti di interesse storico, archeologico e artistico a norma delle leggi
vigenti; raccolte dei musei, delle pinacoteche, degli archivi, delle biblioteche; gli altri beni
che sono dalla legge assoggettati al regime proprio del demanio pubblico). Le categorie del
codice, pertanto, vengono ricondotte ad unità — il c.d. demanio culturale — ed in quanto
tali sottoposti al regime giuridico contemplato dal Codice dei beni culturali. In questo senso, va letta la disposizione contenuta nel secondo comma dell’art. 53, dove si prevede una
riserva di legge a favore del codice dei beni culturali: «i beni del demanio culturale non
possono essere alienati, né formare oggetto di diritti a favore di terzi, se non nei limiti e con
le modalità previsti dal presente codice».
L’intervento correttivo del 2008 (D.Lgs. 62/2008) sulla disposizione contenuta nel secondo
comma dell’articolo 53 ha inteso chiarire che, riguardo ai beni che costituiscono il demanio
culturale, è solo la legislazione di settore che fissa non solo le modalità, ma anche i limiti e
le condizioni per l’eventuale dismissione o utilizzazione per delle finalità che in ogni caso
devono essere compatibili con le esigenze di tutela.
L’inalienabilità dei beni culturali pubblici era sancita dall’art. 23 della L. 1089/1939, che, al contempo, stabiliva nell’articolo successivo la possibilità per il Ministero di autorizzare l’alienazione di cose d’antichità e d’arte,
di proprietà dello Stato o di altri enti o istituti pubblici, purché non ne derivasse danno alla loro conservazione
e non ne venisse menomato il pubblico godimento. La successiva entrata in vigore del codice civile proponeva
la distinzione di status, indicata in precedenza, per i beni demaniali sottoposti ad un regime di inalienabilità
assoluta. Tale regime di inalienabilità viene confermato fino all’emanazione del D.Lgs. n. 490/1999 (T.U.).
Una spinta innovativa nella materia intervenne con l’art. 32 della legge 23 dicembre 1998, n. 448 (legge finanziaria 1999) che disegnò una compiuta disciplina per l’alienazione dei beni immobili appartenenti al demanio culturale. In base a questa norma, i beni immobili di interesse storico e artistico dello Stato, delle regioni, delle province e dei comuni non sono alienabili, salvo che nelle ipotesi previste con regolamento da adottare ai sensi dell’articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, su proposta del Ministro per i beni e le attività culturali. Il
regolamento doveva essere adottato entro un anno nel rispetto dei criteri indicati dalla stessa disposizione. Il regolamento è stato adottato con D.P.R. n. 283/2000, interrotto nel suo disegno dall’emanazione del Codice dei beni
culturali e paesaggistici, che l’ha abrogato espressamente con la disposizione contenuta nell’art. 184. In realtà, il
Codice ha ripreso e replicato più di una disposizione del D.P.R. n. 283/2000, pur abbandonando il sistema degli
elenchi ivi previsto e sostituendolo con il procedimento di verifica dell’interesse culturale ex art. 12.
Si osserva in dottrina che con il termine «alienazione» nel Codice si fa riferimento non ad un istituto giuridico specifico, ma ad un effetto che può conseguire da più istituti e che consiste nel trasferimento del diritto di proprietà, a
titolo oneroso o gratuito, o nella costituzione o traslazione di un diritto reale di godimento o di garanzia (SCIULLO).
A) I beni assolutamente inalienabili
L’art. 54 del Codice individua le categorie dei beni che restano assolutamente inalienabili.
Sotto questo aspetto, la norma riproduce in parte le disposizioni del D.P.R. n. 283/2000, che
analogamente prevedeva alcune categorie di beni culturali assolutamente inalienabili (monumenti nazionali, beni archeologici, beni di interesse storico-identitario, in quanto rappresentativi di istituzioni pubbliche, collettive, ecclesiastiche).
Sono pertanto inalienabili, ai sensi dell’art. 54, comma 1 del Codice (come modificato dal
D.Lgs. 62/2008):
a) gli immobili e le aree di interesse archeologico;
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b)
gli immobili dichiarati monumenti nazionali ai termini della normativa sull’epoca
vigente;
c)
le raccolte di musei, pinacoteche, gallerie e biblioteche;
d)
gli archivi;
d-bis) gli immobili dichiarati di interesse particolarmente importante ai sensi dell’articolo 10, comma 3, lettera d);
d-ter) le cose mobili che siano opera di autore vivente o la cui esecuzione non risalga ad
oltre cinquanta anni, se incluse in raccolte appartenenti a Stato, regioni e gli altri
enti pubblici territoriali.
È appena il caso di ribadire che si tratta di beni demaniali e che quindi il regime di inalienabilità è insito necessariamente nella sussistenza del carattere demaniale del bene.
Il comma 2 dell’art. 54 stabilisce l’inalienabilità temporanea per quei beni che non siano
stati sottoposti al procedimento di verifica culturale ex art. 12. Infatti, la norma dispone
l’inalienabilità delle cose immobili e mobili, appartenenti ad enti pubblici territoriali e non
ovvero a persone giuridiche private senza scopo di lucro, fino alla conclusione del procedimento di verifica. Deve trattarsi, in ogni caso, di cose che siano opera di autore non più
vivente e la cui esecuzione risalga ad oltre cinquanta anni.
Nella norma in esame, il legislatore ha previsto un ipotesi di inalienabilità cautelare, che non risulta del tutta
nuova nel sistema di tutela dei beni culturali. Infatti, una similitudine di regime è ricavabile nell’art. 6 del D.P.R.
n. 283/2000, che prevedeva la non alienabilità di quei beni culturali del demanio storico artistico di proprietà
pubblica (appartenenti a regione, provincia e comune) non inseriti negli elenchi di cui allo stesso regolamento.
Il legislatore è intervenuto nel 2006 con una modifica di cui al comma 2, lett. a) dell’art. 54,
dettata da esigenze di chiarezza in riferimento al collegamento con il procedimento di verifica ex art. 12. In particolare, si è reso chiaro che la misura della inalienabilità per le cose
che appartengono al demanio, sia dello Stato sia di un ente territoriale, trova applicazione
fino al momento della conclusione del procedimento di verifica.
Nel caso in cui il procedimento sia negativo, le cose che sono state sottoposte a verifica sono
liberamente alienabili, previa necessaria sdemanializzazione nel caso in cui la cosa sia
ascritta al demanio per altra finalità pubblica (quindi, non culturale). Nel caso in cui non vi
sia tale ascrizione al demanio, all’esito della verifica negativa del bene si potrà liberamente
commerciare il bene.
Si tratta di intendere quale sia l’ambito oggettivo e soggettivo del comma 2 dell’art. 54.
Per quanto riguarda il primo aspetto si discute sulla possibilità di comprendere o meno nel
regime cautelare di inalienabilità la totalità dei beni appartenenti agli enti pubblici e privati senza scopo di lucro o soltanto quelli che in certo modo presentino qualche caratteristica
di culturalità.
È evidente che l’accoglimento dell’una o dell’altra ipotesi produce conseguenze di rilievo
dal punto di vista pratico. Come è stato osservato da parte della dottrina, una verifica totale
dei beni appartenenti agli enti pubblici produrrebbe un’evidente mancanza di proporzionalità fra l’interesse pubblico da proteggere e i mezzi amministrativi dispiegati (SERRA). A
conferma di tale orientamento, viene proposta un’interpretazione del comma 2 dell’art. 54
che colleghi l’inalienabilità delle cose indicate all’art. 10, comma 1 con il regime cautelare
di inalienabilità, sulla base del riferimento testuale operato nel primo comma dell’art. 12
dove si legge che tale procedimento debba essere applicato solo alle cose immobili e mo-
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bili indicate all’art. 10, comma 1. Da questo punto di vista, l’inalienabilità temporanea
verrebbe a «colpire» solo i beni che presentino qualche caratteristica che faccia sospettare
la presenza dell’interesse storico-artistico.
Pur condividendo l’intenzione di rendere meno gravoso il regime di inalienabilità temporanea previsto dal Codice, non sembra possibile dar seguito all’interpretazione appena prospettata. In ciò si deve fare riferimento alla testualità del disposto di cui al comma 2 dell’art.
54, dove si legge che sono inalienabili le cose immobili e mobili appartenenti ai soggetti
indicati all’art. 10, comma 1 e non le cose indicate allo stesso comma. Inoltre, prendendo a
riferimento il procedimento di cui al D.M. 6 febbraio 2004 (Verifica dell’interesse culturale dei beni immobiliari di utilità pubblica), che coinvolge lo Stato e gli altri enti pubblici
territoriali, i richiami agli immobili da verificare per via informatica sono di carattere generale, senza alcun accenno ai soli beni immobili culturali. Infine, la prassi delle verifiche
effettuate dai competenti organi ministeriali dimostra che l’Agenzia del Demanio, cofirmataria del D.M. 6 febbraio, ha iniziato a sottoporre a verifica tutti gli immobili di appartenenza e non solo quelli che presentano una qualche caratteristica storico-artistico. In realtà,
accettare questo ultimo assunto porterebbe alla conseguenza di sottrarre al MiBACT, organo tecnicamente qualificato ed istituzionalmente deputato all’accertamento del valore storico-artistico di un bene, una sua propria competenza istituzionale, per cederla ad altri
soggetti, non altrettanto qualificati.
Da ultimo, si vuole ricordare che la relazione illustrativa al Codice, trattando del regime di
inalienabilità provvisoria, fa espressamente riferimento a tutte le cose immobili e mobili,
sia di proprietà pubblica, sia di proprietà di persone giuridiche private non perseguenti
scopi di lucro. In tale affermazione si trova la risposta anche alla domanda relativa all’estensione dell’ambito soggettivo di applicazione del regime provvisorio di inalienabilità che
deve necessariamente essere riferito anche alle persone giuridiche private non perseguenti
scopi di lucro ivi compresi gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti.
Sono altresì inalienabili, ai sensi del comma 2 dell’art. 54 i singoli documenti appartenenti
agli stessi soggetti nonché gli archivi e i singoli documenti di enti ed istituti pubblici diversi da quelli indicati all’art. 53.
Il comma 3 ed il comma 4 dell’art. 54 configurano due eccezioni a quanto previsto nei
commi precedenti. In particolare, il comma 3 dispone che i beni inalienabili, ai sensi dei
commi 1 e 2 dell’art. 54, possono formare oggetto di trasferimento tra lo Stato, le regioni e
gli altri enti pubblici territoriali.
Inoltre, il legislatore del 2008 (D.Lgs. 62/2008) ha previsto che, nell’ipotesi si tratti di beni
o cose che non siano in consegna al Ministero, sia obbligatorio dare preventiva comunicazione al Ministero stesso per gli effetti di vigilanza ed ispezione di cui agli articoli 18 e 19
del Codice.
Sulla base della relazione illustrativa del Codice si ricava che la ratio della norma è fondata su due aspetti. Il
primo si riferisce al fatto che il passaggio da un ente territoriale all’altro non modifica il regime demaniale cui
i beni sono assoggettati. Il secondo aspetto attiene allo scopo di consentire una migliore distribuzione dei beni
stessi tra le raccolte pubbliche, con vantaggio della loro fruibilità da parte della collettività. Un’altra considerazione si basa sul significato da attribuire alla nozione di trasferimento che, secondo parte della dottrina, configurerebbe una situazione diversa da quella della commerciabilità del bene, in quanto solo nel primo caso il
carattere della demanialità del bene culturale rimarrebbe immutato, mentre nel secondo caso viene sottinteso un
passaggio con negozio di diritto privato a titolo oneroso, incidente sullo status futuro del bene (TRENTINI).
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Infine, l’ultimo comma dell’art. 54 prevede la possibilità di utilizzazione del bene e delle
cose indicate ai commi 1 e 2 esclusivamente secondo le modalità e per i fini previsti dal
Titolo II, dedicato alla fruizione e valorizzazione.
B) Beni alienabili
L’art. 55 del Codice prevede le ipotesi di alienabilità di immobili appartenenti al demanio
culturale. Infatti il codice dopo aver individuato le categorie di beni culturali per cui è sancita l’inalienabilità (definitiva o provvisoria), agli articoli che vanno dal 55 al 57 configura
un regime di alienabilità, sottoposta al controllo del Ministero (autorizzazione).
Prima di procedere all’esame del procedimento di autorizzazione, è interessante notare il
meccanismo di garanzia apprestato per la tutela dei beni culturali pubblici, una volta che
siano stati alienati. In particolare il comma 3-quinquies (inserito dal D.Lgs. 62/2008) dispone che per tali beni l’autorizzazione comporta la sdemanializzazione (la perdita del carattere della demanialità) del bene a cui si riferisce. In ogni caso il bene resta sottoposto a
tutte le disposizioni di tutela previste nel Titolo I della Parte Seconda del Codice.
Come si è visto, l’interesse culturale richiesto per il singolo bene si differenzia a seconda della appartenenza
dello stesso, secondo una graduazione che parte dalla semplice sussistenza nelle cose pubbliche, al carattere di
particolare importanza nelle cose private. Con questa premessa, si capisce che il richiamo operato dall’art. 55
comporta che possano assurgere allo status di bene culturale anche quegli immobili diventati privati pur non
presentando l’interesse particolarmente importante richiesto ordinariamente, ma al contrario un interesse di
intensità minore (SERRA).
L’autorizzazione ad alienare comporta automaticamente la sdemanializzazione del bene,
che da quel momento cessa di avere il carattere di bene demaniale.
Quanto alla procedura di autorizzazione, il Codice richiede la sussistenza di condizioni ben
precise, che garantiscano la funzione culturale dei beni oggetto di alienazione.
Al riguardo si deve ricordare che il legislatore del 2008 (D.Lgs. 62/2008) ha novellato profondamente la procedura di autorizzazione ad alienazione, introducendo maggior controllo preventivo in funzione delle finalità dell’alienazione in relazione alla valorizzazione e tutela del bene.
Per fare un esempio, nel 2004 il legislatore aveva posto come requisito del rilascio dell’autorizzazione all’alienazione il rispetto della condizione che dalla stessa non dovesse derivare pregiudizio al pubblico godimento del bene. L’intervento del 2006 ha prodotto il mutamento della formula positiva costituita dall’assicurazione della fruizione pubblica ad
opera dell’alienazione. Con la novella del 2008 la prospettiva muta ancora una volta con un
inasprimento delle condizioni e di limiti di tutela.
In particolare, la richiesta di autorizzazione ad alienare deve essere corredata: a) dalla indicazione della destinazione d’uso in atto; b) dal programma delle misure necessarie ad assicurare la conservazione del bene; c) dall’indicazione degli obiettivi di valorizzazione che si
intendono perseguire con l’alienazione del bene e delle modalità e dei tempi previsti per il
loro conseguimento; d) dall’indicazione della destinazione d’uso prevista, anche in funzione
degli obiettivi di valorizzazione da conseguire; e) dalle modalità di fruizione pubblica del
bene, anche in rapporto con la situazione conseguente alle precedenti destinazioni d’uso.
Prima di procedere al rilascio del provvedimento di autorizzazione dovrà essere acquisito
il parere della competente soprintendenza di settore, dovrà essere sentita la regione e, per
suo tramite, gli altri enti pubblici territoriali interessati.
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Al riguardo si osserva un maggior coinvolgimento degli enti pubblici territoriali sin dalla fase di autorizzazione
all’alienazione, con una conseguente equilibrata valutazione degli interessi coinvolti, ma anche con un inevitabile appesantimento burocratico dell’iter procedimentale.
Ad un’attenta analisi, l’indicazione del legislatore sulla configurazione del procedimento autorizzatorio dei beni
demaniali si differenzia in misura notevole dall’analoga previsione di cui al D.P.R. n. 283/2000 per il punto
specifico riservato al coinvolgimento della regione e degli altri enti territoriali interessati. Infatti, tale previsione non era presente nel procedimento autorizzatorio configurato dal D.P.R n. 283/2000. Da segnalare la difficoltà interpretativa di “spiegare” l’intervento degli enti locali territoriali in un procedimento che si basa su una
valutazione ordinariamente esercitata degli organi ministeriali competenti. Con tutta probabilità l’intervento
(formale?) assicurato a regioni ed enti locali va ascritto al ruolo esercitato in tema di assicurazione sulla valorizzazione del bene garantita dall’alienazione. In ogni caso, resta dubbio cosa accada nel caso in cui gli enti
territoriali non vengano sentiti così come richiesto dalla norma in esame.
Il provvedimento, ai sensi del comma 3 dell’articolo 55, dovrà: a) dettare prescrizioni e
condizioni in ordine alle misure di conservazione programmate; b) stabilire le condizioni
di fruizione pubblica del bene, tenuto conto della situazione conseguente alle precedenti
destinazioni d’uso; c) pronunciarsi sulla congruità delle modalità e dei tempi previsti per il
conseguimento degli obiettivi di valorizzazione indicati nella richiesta.
Ancora una volta, si può osservare che le norme introdotte dal D.Lgs. n. 62/2008 assumono
maggior rigorosità rispetto alle formulazioni del 2004 e del 2006, implicando un controllo
specifico e dettagliato degli obiettivi di conservazione, valorizzazione e fruizione pubblica
del bene.
Al riguardo, l’articolo 55 introduce diverse novità racchiuse nei commi che procedono dal
3-bis e si concludono al 3-sexies e che si inseriscono nell’ottica di un maggior controllo
della circolazione interna dei beni culturali.
Si osserva che l’autorizzazione non potrà essere rilasciata se la destinazione d’uso proposta
sia suscettibile di arrecare pregiudizio alla conservazione e fruizione pubblica del bene o
comunque risulti non compatibile con il carattere storico e artistico del bene medesimo,
potendo il Ministero indicare quali siano le destinazioni d’uso compatibili (art. 55, comma
3-bis).
Una notevole innovazione è costituita dalla previsione di cui all’articolo 55, comma 3ter
in base alla quale il contenuto del provvedimento di autorizzazione potrà essere anche concordato con il soggetto sulla base di una valutazione comparativa fra le proposte avanzate
con la richiesta di autorizzazione ed altre possibili modalità di valorizzazione del bene.
Un’ulteriore interessante previsione è costituita dalla disposizione contenuta nell’articolo
55, comma 3quater che nell’ipotesi di alienazione di immobili utilizzati a scopo abitativo
o commerciale, stabilisce che la richiesta di autorizzazione sia corredata dai soli elementi
di cui al comma 2, lettere a), b) ed e) [a) dalla indicazione della destinazione d’uso, in atto;
b) dal programma delle misure necessarie ad assicurare la conservazione del bene; e)
dalle modalità di fruizione pubblica del bene, anche in rapporto con la situazione conseguente alle precedenti destinazioni d’uso.], e l’autorizzazione è rilasciata con le indicazioni di cui al comma 3, lettere a) e b) [a) detta prescrizioni e condizioni in ordine alle misure
di conservazione programmate; b) stabilisce le condizioni di fruizione pubblica del bene,
tenuto conto della situazione conseguente alle precedenti destinazioni d’uso].
Infine, il comma 3-sexies dispone, in linea con le previsioni di carattere generale, che l’esecuzione di lavori ed opere di qualunque genere su beni alienati è sottoposta alla preventiva
autorizzazione di cui all’articolo 21, commi 4 e 5.
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Il legislatore del 2008, inoltre, ha previsto un nuovo articolo (55-bis) che impone l’apposizione nel provvedimento di autorizzazione della c.d. clausola risolutiva espressa a garanzia
del rispetto delle obbligazioni relative alle prescrizioni e condizioni dell’autorizzazione
stessa.
È necessario osservare che il regime di autorizzazione ad alienare beni di appartenenza pubblica trovava efficace applicazione con il D.P.R. n. 283/2000, agli artt. 7 e ss. Facendo un rapido raffronto con le disposizioni del
Codice appena commentate, si ricava agevolmente che la novella del 2008 ha sciolto l’idea che la previsione
del regolamento individuava forme maggiori di garanzia «concreta» degli obiettivi di tutela e valorizzazione
conseguibili con l’alienazione. In particolare, nel regolamento l’alienante era obbligato a presentare un programma che contenesse tali indicazioni, con riferimento alle misure di conservazione, destinazione d’uso del bene,
modalità di pubblica fruizione e tempi di realizzazione. Inoltre, nel caso che l’alienazione riguardasse porzioni
di complessi immobiliari, il programma avrebbe dovuto contenere l’indicazione dell’impatto degli interventi
previsti sul complesso in cui il bene era inserito. L’autorizzazione veniva rilasciata, tra l’altro, sulla base del
programma presentato la cui mancata realizzazione costituiva uso del bene incompatibile con il suo carattere
storico-artistico (art. 10, comma 8 del D.P.R. n. 283/2000). Inoltre, all’art. 11 veniva prevista l’ipotesi di risoluzione del contratto di alienazione in caso di inadempimento degli impegni assunti. Il mantenimento di tali
previsioni anche nel Codice ha prodotto una maggiore garanzia di tutela e conservazione del bene alienato. Da
ultimo giova ricordare che l’organo del MiBACT competente al rilascio dell’autorizzazione ad alienare è la
Direzione regionale.
2.Altri tipi di alienazione
Proseguendo nell’esame delle alienazioni soggette ad autorizzazione da parte del Ministero,
l’art. 56 elenca le fattispecie di alienazione di beni pubblici o appartenenti a soggetti privati non perseguenti scopo di lucro, ivi compresi gli enti ecclesiatici civilmente riconosciuti.
Infatti, l’articolo 56 prevede il meccanismo di autorizzazione per quei beni culturali appartenenti allo Stato, alle regioni e agli altri enti pubblici territoriali, diversi da quelli già indicati ai commi 1 e 2 dell’articolo 54 e comma 1 dell’articolo 55; in definitiva dei beni culturali residuali rispetto a quelli contenuti nelle previsioni indicate in precedenza, anche con
riferimento alla natura dei soggetti proprietari (soggetti pubblici diversi da quelli indicati alla lettera a) o a persone giuridiche private senza fine di lucro, ivi compresi gli enti
ecclesiastici civilmente riconosciuti).
Anche in questo caso si assiste ad una riduzione numerica e qualitativa delle condizioni
richieste per l’autorizzazione come nelle ipotesi di alienazione di immobili utilizzati a scopo abitativo o commerciale. In particolare, la richiesta di autorizzazione è corredata dagli
elementi di cui all’articolo 55, comma 2, lettere a), b) ed e) e l’autorizzazione è rilasciata
con le indicazioni di cui al comma 3, lettere a) e b) del medesimo articolo.
Il comma 4ter dell’articolo 56bis, inoltre, prevede che le prescrizioni e condizioni contenute nell’autorizzazione siano riportate nell’atto di alienazione e siano trascritte, su richiesta
del soprintendente, nei registri immobiliari.
Il comma 4-quinquies non fa che replicare il contenuto della originaria formulazione dell’articolo 56 del Codice 2004 che riprendeva pedissequamente il contenuto dell’articolo 57 del
T.U. del 1999. Il comma 4-quinquies prevede l’estensione del regime di autorizzazione
anche per le costituzioni di ipoteca e di pegno e, più in generale, per i negozi giuridici che
possono comportare l’alienazione di beni culturali.
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Pegno ed Ipoteca
Pegno: ai sensi dell’art. 2784 del codice civile il pegno si costituisce a iniziativa del debitore o di un
terzo per il debitore; potendo essere dati in pegno i beni mobili, le universalità dei beni mobili, i crediti ed altri diritti aventi ad oggetto beni mobili. L’art. 2786 cod. civ. prevede che il pegno si costituisca
con la consegna al creditore della cosa o del documento che conferisce l’esclusiva disponibilità della
cosa. Attraverso la procedura di cui agli artt. 2796-2797 del codice civile, il pegno può condurre alla
alienazione del bene, rendendo necessaria l’autorizzazione del MiBAC nel momento costitutivo del
pegno stesso.
Ipoteca: costituisce una forma di garanzia sui beni del debitore o di terza persona, a vantaggio del
creditore, per assicurare sul valore dei beni il soddisfacimento del credito (art. 2808 cod. civ). L’oggetto dell’ipoteca può essere costituito da beni immobili, diritti di usufrutto, superficie e diritti enfiteutici. Anche l’ipoteca può comportare l’alienazione del bene con necessaria preventiva autorizzazione
del MiBAC.
Pertanto, sia nel caso di costituzione di pegno che di ipoteca, potendosi verificare l’alienazione del bene in favore del creditore, in caso di mancata soddisfazione del debito, sarà
necessario ottenere preventivamente il rilascio dell’autorizzazione del Ministero.
Infine, il novellato articolo 57 dispone che gli atti che comportano l’alienazione di beni
culturali a favore dello Stato, ivi comprese le cessioni in pagamento di obbligazioni tributarie, non sono soggetti ad autorizzazione
3.Procedure di trasferimento di immobili pubblici
Si è osservato in precedenza quanto è previsto dal codice in tema di autorizzazione ad alienare ed in particolare delle condizioni richieste per il regime autorizzatorio sui beni appartenenti al demanio culturale, dalle previsioni contenute negli articoli 55 e seguenti.
Proseguendo nell’esame, una disposizione di particolare interesse, soprattutto perché frutto
della novella del 2008, è contenuta nell’articolo 57bis rubricata come «procedure di trasferimento di immobili pubblici».
Il legislatore, nel caso specifico, dispone che le indicazioni normative contenute negli articoli 54, 55 e 56 si applicano a qualsiasi procedura di dismissione o di valorizzazione e
utilizzazione, anche a fini economici, di beni pubblici di interesse culturale. Si tratta, pertanto, delle ipotesi di alienazione, in termini generali e generici, di concessione d’uso e di
locazione degli immobili rientranti nella tipologia appena richiamata.
La novità non è di poco conto se solo si rifletta sulla portata che potrebbe avere l’imposizione di una procedura così appesantita dalla novella del 2008 in tema di alienazione anche
alle ipotesi di concessione d’uso e di locazione di beni pubblici di interesse culturale.
Resta fermo in ogni caso il dispositivo di cui al comma 2 dell’articolo 57-bis, in base al
quale le condizioni e le prescrizioni contenute nell’autorizzazione sono riportate nell’atto
di concessione o nel contratto di locazione e sono trascritte su richiesta del soprintendente
nei registri immobiliari. Per rendere effettiva ed operativa l’obbligatorietà delle prescrizioni e delle condizioni imposte, la norma dispone che in caso di loro inosservanza da parte
del concessionario o del locatario si proceda, su richiesta delle amministrazioni cui beni
pertengono, alla revoca della concessione o alla risoluzione del contratto senza indennizzo.
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4.La permuta
L’art. 58 del Codice riproduce il contenuto dell’art. 56, comma 1 del T.U. del 1999. La
norma, infatti, dispone la facoltà per il Ministero (direzione regionale) di autorizzare la
permuta dei beni indicati agli artt. 55 e 56 nonché di singoli beni appartenenti alle pubbliche
raccolte con altri appartenenti ad enti, istituti e privati, anche stranieri.
La condizione richiesta per il rilascio dell’autorizzazione alla permuta è che ciò comporti
l’arricchimento delle pubbliche raccolte ovvero un incremento del patrimonio culturale.
La permuta è un negozio traslativo della titolarità dei beni. L’art. 1552 del codice civile la definisce come quel
contratto che ha per oggetto il reciproco trasferimento della proprietà di cose o di altri diritti, da un contraente all’altro. Si tratta, pertanto, di un contratto consensuale, con effetti reali, a titolo oneroso, che si distingue
dalla vendita, perché invece di realizzare uno scambio di cosa contro prezzo, realizza lo scambio di cosa contro
cosa.
La permuta di beni culturali è vista con favore, in quanto con essa si ritiene che si abbia un
risultato di accrescimento del patrimonio culturale. Risulta consequenziale che l’autorizzazione del Ministero debba consistere in una valutazione di prevalenza di interesse pubblico
ad acquistare la cosa di appartenenza privata, anche di provenienza straniera, piuttosto
che a conservare la cosa di proprietà pubblica offerta in permuta (ALIBRANDI-FERRI).
Dal punto di vista delle competenze, il D.P.R. n. 233/2007(regolamento di organizzazione
del ministero) prevede che il Direttore regionale autorizza le alienazioni, le permute, le
costituzioni di ipoteca e di pegno e ogni altro negozio giuridico che comporta il trasferimento a titolo oneroso dei beni culturali appartenenti ai soggetti pubblici ai sensi degli articoli
55, 56 e 58 del Codice (art. 17, comma 3, lett. h).
Inoltre, l’articolo 18, lett. l affida alla competenza delle soprintendenze l’espressione dei
pareri sulle alienazioni, le permute, le costituzioni di ipoteca e di pegno e di ogni altro negozio giuridico che comporti il trasferimento a titolo oneroso di beni culturali appartenenti
a soggetti pubblici come identificati dal Codice.
L’art. 58 del Codice, come si è visto, stabilisce che dalla permuta derivi un incremento del
patrimonio culturale. Ciò non risulta essere sempre il primo obiettivo delle Amministrazioni coinvolte o dei soggetti che chiedono tale tipologia di autorizzazione. Questo strumento
è diventato oggetto di veri e propri scambi tra beni culturali e beni non culturali, in ciò
tradendo lo spirito della norma. Infatti, l’autorizzazione viene chiesta come una sorta di
autorizzazione ad alienare, ma con minori requisiti da rispettare, visto il contenuto dell’art.
58 del Codice. Auspicabile in tal senso un’azione correttiva degli organi preposti alla tutela, diretta a ristabilire l’essenza della permuta di beni culturali che necessariamente deve
prevedere un arricchimento del patrimonio culturale della Pubblica Amministrazione e non
già un suo impoverimento, derivante da una spoliazione di beni culturali.
5.I trasferimenti della proprietà e della detenzione
L’art. 59 del Codice, riferito alla denuncia di trasferimento, riproduce con alcune modifiche il contenuto dell’art. 58 del T.U. del 1999. Una prima differenza si ricava già dall’intitolazione della norma che non si arresta, come l’omologa disposizione del 1999, alla indicazione generica dell’istituto (denuncia), ma aggiunge un elemento ulteriore rappresentato
184
Capitolo 8
dall’indicazione dell’oggetto della denuncia, cioè il trasferimento (si intende della proprietà o detenzione di beni culturali).
L’elemento aggiuntivo di riferimento è inteso a soddisfare un’esigenza di maggior chiarezza della norma, rispetto alla sua formulazione precedente, facilitandone l’osservanza del
precetto.
Il comma 1 pone un generale obbligo di denuncia al Ministero (Soprintendenze ndA) degli
atti che trasferiscono in tutto o in parte, a qualsiasi titolo, la proprietà o la detenzione di
beni culturali.
L’obbligo di denuncia trova applicazione sia per gli atti che trasferiscono la proprietà del bene, sia per gli atti che
trasferiscono la detenzione del bene, come i contratti di locazione, deposito e comodato. Si osservi che, a differenza di quanto accade per l’autorizzazione ad alienare, relativa esclusivamente ad atti a titolo oneroso, nel caso
della denuncia di cui all’art. 59, il riferimento è fatto agli atti che trasferiscono la proprietà a qualsiasi titolo, sia
oneroso che gratuito. La dottrina, inoltre, è orientata ad assoggettare ad obbligo di denuncia qualsiasi atto di
trasferimento di diritti reali e, pertanto, anche il trasferimento o la costituzione di un diritto reale limitato (CASU).
La denuncia ha in definitiva lo scopo di permettere all’amministrazione di avere una conoscenza sempre aggiornata dello status del bene, per assumere le necessarie iniziative di
tutela quando occorra, e per essere in grado di esercitare la prelazione, quando siano presenti le condizioni che la permettono.
L’art. 59 identifica chiaramente i soggetti obbligati alla denuncia, che nel caso della alienazione a titolo oneroso o gratuito sarà l’alienante, mentre nel caso del trasferimento della
detenzione sarà il cedente.
A differenza di quanto appena detto, il T.U. all’art. 58, comma 2, prevedeva che nel caso di trasferimento della
detenzione, la denuncia dovesse essere fatta dal detentore, cioè dal soggetto che avesse ricevuto la detenzione
del bene e non l’avesse ceduta. Il mutamento del soggetto obbligato alla denuncia non è esente da conseguenze
solo se si pensi che, in caso di inosservanza dell’obbligo, la sanzione prevista dal Codice è dell’applicazione
della pena della reclusione fino ad un anno e la multa da  1.549,50 a  77.469. Da questo punto di vista, suscita una certa perplessità l’operato del legislatore delegato che, seppur indirettamente, ha prodotto in questo
caso una innovazione non consentita dalla delega contenuta nella L. 137/2002, che non riguardava in alcun modo
il riordino dei profili sanzionatori previsti nell’ordinamento, con riguardo ai beni culturali, configurandosi,
pertanto, un eccesso di delega.
Nell’ambito di procedure di vendita forzata o fallimentare, oppure in forza di sentenza che
produca gli effetti di un contratto di alienazione non concluso, il soggetto obbligato alla
denuncia è l’acquirente del bene.
Si ricorda che ai sensi dell’art. 2932 del codice civile, se chi è obbligato a concludere un contratto, non adempie
l’obbligazione, l’altra parte può ottenere, in presenza delle condizioni di legge, una sentenza che produca gli
effetti del contratto non concluso.
Per gli atti mortis causa la denuncia va effettuata dall’erede o dal legatario. Per l’erede, il
termine per effettuare la denuncia decorre dalla accettazione dell’eredità o dalla presentazione della dichiarazione ai competenti uffici tributari. Per il legatario il termine decorre
dall’apertura della successione, salva rinuncia ai sensi delle disposizioni del codice civile.
Questa era la formulazione originaria della norma del Codice che è stata oggetto di modifica ad opera del d.lgs. n. 156/2006.
Si legge nella Relazione illustrativa del decreto la necessità di correggere la disposizione in
quanto foriera di dubbi interpretativi da risolvere. In particolare, il comma 2, lett. c) dell’art.
La circolazione in ambito nazionale
185
59, nella formulazione del 2004, individuava per il legatario, nel caso di successione a
causa di morte, il termine per la denuncia, fissandolo entro 30 giorni dall’apertura della
successione.
Il problema interpretativo sorto in riferimento a quest’ultimo punto era che per il legato,
disposto con atto testamentario, l’obbligo di denuncia non poteva essere fatto risalire al
momento di apertura della successione, ossia al momento della morte del testatore, in quanto il legatario ha effettiva conoscenza dell’acquisto soltanto a seguito di comunicazione
notarile, di cui all’articolo 623 del cod. civ.
La denuncia deve contenere precise e puntuali indicazioni. In particolare, dovranno essere
indicati i dati identificativi delle parti e dei beni; l’indicazione del luogo ove si trovano i
beni, l’indicazione della natura e delle condizioni dell’atto di trasferimento, l’indicazione
del domicilio in Italia delle parti ai fini delle eventuali comunicazioni previste dal Titolo I
della Parte Seconda. Infine, una prescrizione «innovativa» è quella che richiede la sottoscrizione della denuncia ad opera delle parti o dei loro rappresentanti legali. Come spiega la
relazione illustrativa al codice, si tratta di un ritorno al passato, in quanto tale obbligo era
previsto dal regolamento di cui al R.D. 30 gennaio 1913, n. 363. In tal modo, risulterà che
entrambe le parti sono edotte dei vincoli esistenti sulla cosa per effetto della notifica (art.57
del R.D. n. 363/1913) e si assumono la responsabilità di ottemperare alle prescrizioni di
tutela.
A tale proposito occorre fare una breve precisazione. L’obbligo della sottoscrizione della denuncia ad opera dei
contraenti era stato previsto, come si è detto, nel regolamento del 1913 ed il fatto che il T.U. del 1999 non
avesse riprodotto tale obbligo nel corpus delle sue disposizioni e, specificamente all’art. 58, non ha avuto alcuna influenza sul vigore dello stesso. In realtà, l’obbligo de quo non è stato mai espunto dal sistema, in quanto il
regolamento ha mantenuto la sua efficacia fino ad oggi. Infatti, l’art. 130 del Codice recita testualmente che «..
fino all’emanazione dei decreti e dei regolamenti previsti dal presente codice, restano in vigore, in quanto applicabili, le disposizioni dei regolamenti approvati con regi decreti 2 ottobre 1911 n. 1163 e 30 gennaio 1913,
n. 363…».
Quanto al termine entro il quale deve essere fatta la denuncia, esso è fissato in 30 giorni,
che decorreranno dall’atto di trasferimento, ad eccezione delle ipotesi già indicate in precedenza in merito agli atti mortis causa.
Un’ultima notazione va riservata all’organo ministeriale competente alla ricezione delle
denunce che è identificato, sia nel codice sia nel regolamento di riorganizzazione del MiBAC,
nel soprintendente del luogo ove si trovano i beni.
6.La prelazione
La Sezione II del Capo IV si occupa della prelazione artistica. Si tratta di un istituto autonomo che, pur essendo previsto legalmente, non partecipa degli elementi propri e comuni
della c.d. prelazione legale, assumendo un’autonoma disciplina dettata in via esclusiva dal
Codice.
La giurisprudenza ha osservato che la c.d. prelazione artistica si differenzia dalla prelazione legale, in quanto
costituisce tipica espressione di potestà autoritativa a carattere ablatorio, poiché l’amministrazione non acquista
la proprietà del bene culturale attraverso il rapporto negoziale sotteso, subentrando alla regolamentazione giuridica posta in essere col contratto, bensì attraverso un provvedimento amministrativo a contenuto sostanzialmente espropriativo, come tale idoneo a degradare le posizioni soggettive a meri interessi legittimi (PALUMBO).
186
Capitolo 8
Le disposizioni contenute originariamente agli artt. 60-62 modificano parzialmente la disciplina contenuta del D.Lgs. n. 490/1999, per ricollegarsi sotto certi aspetti alla normativa del
1939. D’altra parte anche il legislatore del 2006 è intervenuto sulle disposizioni relative alla
prelazione determinando nel corso del tempo un quadro incerto e confuso ed, in alcuni casi,
non fondatamente giustificato.
Procedendo con ordine, si dirà in primo luogo che il legislatore delegato mostra di aver
recepito quanto appena detto in tema di differenziazione tra prelazione artistica e legale,
tanto da aver eliminato nelle norme de quo qualsiasi riferimento al termine «diritto» di
prelazione. In questo modo si è inteso accogliere, anche formalmente, l’orientamento giurisprudenziale in materia.
La prima novità riguarda i soggetti che possono esercitare la prelazione. A tale proposito è
evidente, nella lettura del comma 1 dell’art. 60 in coordinamento con il comma 3 dell’art.
62, che oltre allo Stato, anche gli enti pubblici territoriali possono esercitare la prelazione
artistica. Si faccia attenzione al fatto che anche nel sistema previgente, come delineato dal
T.U, la regione e gli altri enti pubblici territoriali potevano acquistare il bene in via di prelazione, ma l’unico soggetto demandato all’emanazione del decreto di prelazione era lo
Stato (art. 61, comma 3). Nel Codice, il tenore della previsione dell’art. 62, comma 3 è tale
per cui sarà lo stesso ente territoriale ad adottare il provvedimento di prelazione, notificandolo all’alienante e all’acquirente, sempre che lo Stato abbia rinunciato all’acquisto del bene
in via di prelazione.
È necessario specificare che l’acquisto viene effettuato dallo Stato (o dagli enti pubblici
territoriali) allo stesso prezzo stabilito nell’atto di alienazione.
In caso di mancata indicazione del prezzo di cessione del bene, o di permuta, o di vendita di bene culturale in
blocco con altri beni, il valore economico è determinato in prima battuta dal soggetto che procede alla prelazione.
Nel caso in cui l’alienante non ritenga di accettare la determinazione così effettuata, sarà un terzo a dover individuare il valore economico del bene. Il terzo viene designato di comune accordo dal soggetto che procede alla
prelazione e l’alienante. In caso di disaccordo, la nomina è effettuata, su richiesta di una delle parti, dal presidente del tribunale del luogo in cui è stato concluso il contratto. Ad un’analisi attenta si può ricavare che il
procedimento di determinazione del valore del bene, indicato ai commi 2, 3 e 4 dell’articolo 60, è un’ipotesi di
arbitraggio del tutto analoga a quella contenuta nell’art. 1473 del codice civile, in tema di compravendita. La
determinazione del terzo dovrà essere effettuata con equo apprezzamento e sarà impugnabile se frutto di errore
o di manifesta iniquità.
La prelazione può essere esercitata anche quando il bene sia a qualunque titolo dato in pagamento.
L’art. 61 detta le condizioni della prelazione. Il primo comma adegua i termini per l’esercizio della prelazione rendendoli omogenei nel computo fissato dal codice. In questo modo,
il termine risulta individuato in 60 giorni dalla data di ricezione della denuncia, prevista
dall’art. 59, e non più in due mesi, come determinato nel sistema previgente al Codice.
Nell’ipotesi in cui la denuncia sia stata omessa o sia stata presentata tardivamente oppure
risulti incompleta, il termine per esercitare la prelazione è fissato in 180 giorni dal momento in cui il Ministero ha ricevuto la denuncia tardiva o ha acquisito tutti gli elementi costitutivi della stessa. Questa previsione rappresenta una novità rispetto al sistema previgente,
in cui l’art. 135, comma 2 disponeva che, in caso di dichiarazione omessa o incompleta,
restava ferma la facoltà del Ministero di esercitare il diritto di prelazione.
La circolazione in ambito nazionale
187
Come si può notare, il termine per esercitare la prelazione diviene duplice: uno di carattere ordinario, che opera nel caso di denuncia presentata tempestivamente nei trenta giorni dall’atto e in modo formalmente regolare;
l’altro, patologico, che opera quando vi sia una denuncia non regolare (CASU).
Entro i due termini indicati (60 e 180 giorni) a seconda dell’ipotesi in cui si versi, il provvedimento di prelazione è notificato all’alienante e all’acquirente. Dalla data dell’ultima
notifica la proprietà passa allo Stato.
Uno dei motivi che hanno indotto il legislatore delegato ad optare per una duplice indicazione di termini nel
procedimento, per il caso di denuncia regolare e per quello di denuncia incompleta, tardiva oppure omessa, è
da far risalire all’esigenza di conformare la disciplina della prelazione alle indicazioni provenienti dalla Corte
europea dei diritti dell’uomo. Quest’ultima ha rilevato come la precedente disposizione contenuta nell’art. 135
del T.U. (…Le alienazioni, le convenzioni e gli atti giuridici compiuti contro i divieti stabiliti dalle disposizioni
di questo Titolo, o senza l’osservanza delle condizioni e modalità da esso prescritte sono nulli. Resta sempre
ferma la facoltà del Ministero di esercitare il diritto di prelazione..) manchi di chiarezza nella carenza di una
previsione temporale entro cui esercitare la prelazione, introducendo un margine di manovra della amministrazione eccessivamente ampio e tale da ledere il principio del giusto equilibrio fra richieste di interesse generale
della comunità e salvaguardia dei diritti fondamentali dell’uomo (Beyeler c. Italia n. 3320/96 del 5 gennaio
2000). D’altra parte anche la giurisprudenza italiana ha rilevato come la facoltà concessa all’amministrazione
di porre in essere l’atto ablativo in ogni tempo produca una limitazione permanente del diritto del venditore ed
un altrettanto permanente incertezza.
Un’altra novità introdotta dalla disposizione in esame e che risulta, anche in questo caso,
un ritorno alle disposizioni della normativa del 1939 è quella prevista dal comma 4 dell’art.
61 il quale stabilisce che l’atto di alienazione rimanga condizionato sospensivamente all’esercizio della prelazione con il divieto per l’alienante di effettuare la consegna della cosa.
Si ricorda che la condizione è un evento (naturale o causato dall’uomo) futuro ed incerto al cui verificarsi è
subordinato l’inizio o la cessazione dell’efficacia del negozio. Nel primo caso si parla di condizione sospensiva,
nel secondo di condizione risolutiva.
Al contrario, nel sistema configurato dal T.U. nel periodo necessario per poter esercitare la
prelazione l’atto di alienazione era inefficace. La differenza, dal punto di vista operativo è
notevole. Infatti, nel caso di diritto sospensivamente condizionato, non è pregiudicato in
alcun modo il potere di compiere atti conservativi, cioè atti diretti alla conservazione materiale e giuridica del diritto, come, ad esempio, nelle ipotesi previste all’art. 2905 c.c.
(sequestro conservativo) e 2901 c.c. (azione revocatoria). Inoltre, in pendenza di condizione, resta ferma la disponibilità del diritto, ivi compresa la possibilità di trasferirlo.
Infine, trattandosi di condizione e non di inefficacia, gli effetti dell’avveramento della stessa opereranno dalla conclusione del contratto (ex tunc) e non ex nunc.
La precedente disciplina del T.U., invece, prevedendo l’inefficacia del contratto, comportava che nel termine indicato vi era l’impossibilità assoluta di compiere alcun atto conservativo e/o dispositivo.
L’ultimo comma dell’art. 61 prevede, infine, che le clausole del contratto non vincolano lo
Stato ed è previsto per l’acquirente la facoltà di recesso dal contratto, nel caso in cui venga
esercitata la prelazione su parte delle cose alienate.
L’art. 62 detta le norme procedimentali per l’esercizio della prelazione. Una prima considerazione si riferisce al mancato coordinamento della norma del Codice con quella relativa
alla competenza degli organi ministeriali, contenuta originariamente nel D.P.R. n. 173/2004.
Infatti, mentre il primo comma dell’art. 62, pone a carico del soprintendente l’obbligo di
188
Capitolo 8
dare immediata comunicazione della denuncia ricevuta (ex art. 59) alla regione e agli altri
enti territoriali nel cui ambito si trova il bene, il D.P.R. n. 173 (all’art. 20, comma 4, lett. n)
imponeva alla Direzione regionale di effettuare la comunicazione prescritta dal comma 1,
art. 62.
La questione è stata affrontata anche con i successivi interventi regolamentari che hanno
precisato, nell’art. 17 comma 3 lett. g), il compito del Direttore regionale che si concretizza
nel trasmettere al competente direttore generale centrale, con le proprie valutazioni, le proposte di prelazione che gli pervengono dalle soprintendenze destinatarie, ai sensi dell’art.
62, comma 1, del Codice, della denuncia di cui all’art. 60 del medesimo Codice, ovvero le
proposte di rinuncia ad essa.
Si tenga conto che nel caso di bene mobile, la regione ha l’obbligo di darne notizia nel
Bollettino ufficiale ed eventualmente con altri idonei mezzi di pubblicità a livello nazionale, con la descrizione dell’opera e l’indicazione del prezzo.
Il comma 2 dell’art. 62 nella sua formulazione originaria prevede che la regione e gli
altri enti territoriali, nel termine di 30 giorni dalla denuncia, formulano al Ministero la
proposta di prelazione corredata dalla deliberazione dell’organo competente che predisponga la necessaria copertura finanziaria della spesa, a valere sul bilancio dell’ente. Il
Ministero, qualora non intenda esercitare la prelazione, ne dà comunicazione all’ente
interessato entro quaranta giorni dalla denuncia. In ogni caso, resta fermo il limite dei
sessanta giorni dalla denuncia, per l’ente interessato alla prelazione, che in detto termine
dovrà necessariamente adottare il provvedimento di prelazione e notificarlo ad alienante
ed acquirente.
Il sistema individuato dal legislatore, pur nella evidente volontà di rendere più celere e «semplice» il procedimento stesso, finisce con l’appesantire l’iter stesso rendendo oltremodo gravosa la possibilità di esercitare la prelazione da parte di Stato ed enti locali. Come si è detto, tutto il procedimento ordinario deve
concludersi entro i 60 giorni dalla ricezione della denuncia dell’atto soggetto a prelazione. La denuncia
viene ricevuta dalle soprintendenze di settore del luogo ove è ubicato il bene (art. 59 del Codice in coordinamento con l’art. 17, comma 3, lett. g del D.P.R. n. 233/2007), che provvede a comunicare immediatamente la denuncia agli enti territoriali interessati. A questo punto, nel caso in cui gli enti locali vogliano esercitare la prelazione, devono formulare la proposta al Ministero, entro 30 giorni dalla denuncia, cioè dal momento in cui il soprintendente ha ricevuto la denuncia e non dal momento in cui gli enti hanno ricevuto la
comunicazione. In questi 30 giorni, che necessariamente risulteranno all’atto pratico in numero inferiore,
in quanto occorrerà del tempo per la comunicazione che la soprintendenza deve effettuare, gli enti locali
dovranno formulare la proposta con la necessaria copertura finanziaria. Sempre dalla denuncia decorrono i
40 giorni entro i quali la Direzione regionale dovrà proporre al Direttore Generale competente per materia,
dopo aver sentito le soprintendenze di settore, l’esercizio della prelazione oppure la rinuncia ad essa e trasmettere al Direttore Generale medesimo le proposte di prelazione da parte degli enti locali territoriali (dopo
averle ricevute, entro i 30 giorni dalla denuncia!), accompagnate da proprie valutazioni. Successivamente
a questi incombenti, ma entro i 40 giorni dalla denuncia, il Direttore regionale dovrà comunicare, su indicazione del Direttore Generale competente, la rinuncia dello Stato all’esercizio della prelazione all’ente che
ha formulato la proposta. Infine, entro i sessanta giorni dalla denuncia, dovrà essere adottato il provvedimento di esercizio di prelazione.
Date queste premesse è evidente che il procedimento, anziché semplificarsi, risulta di non piana applicazione,
soprattutto per il frammentarsi delle competenze ministeriali, tra tre organi diversi, di cui due di livello periferico ed uno centrale. Attualmente la situazione appare maggiormente complicata dall’attribuzione della competenza relativa alle Commissioni regionali del patrimonio culturale ad opera del D.P.C.M. n. 171/2014.
La circolazione in ambito nazionale
189
La situazione si è venuta ulteriormente aggravando con l’intervento del legislatore nel 2006.
In particolare, si è optato per una maggiore drastica riduzione dei termini procedimentali,
ponendo il Ministero in una situazione imbarazzante di potenziale inefficienza. Infatti, il
comma 2 dell’art. 62 riduce a venti giorni — da trenta — il termine entro il quale la regione o gli altri enti devono formulare la proposta al Ministero per l’esercizio della prelazione.
Nello stesso arco temporale — venti giorni dalla ricezione della denuncia — il Ministero
può rinunciare all’esercizio della prelazione, trasferendone la facoltà in capo all’ente interessato. Va da sé che il legislatore non abbia dato troppo peso ai tempi dell’Amministrazione, ma in ogni caso avrebbe dovuto intervenire con una certa omogeneità temporale per
permettere l’adempimento delle sue prescrizioni procedimentali.
Resta fermo, al contrario, il positivo intervento del d.lgs. n. 156/2006 che ha previsto una
necessaria valutazione della richiesta avanzata da regioni o altro ente locale per l’esercizio
della prelazione, che prenda in considerazione le ragioni di valorizzazione del bene che ne
sono alla base. In questa specifica ipotesi, l’Amministrazione è chiamata a valutare la fondatezza della richiesta dell’ente, ai fini dell’eventuale accoglimento.
Il comma 4 dell’art. 62 prevede, come si è visto, l’ipotesi in cui la denuncia dell’atto soggetto a prelazione non sia stata presentata o lo sia stata oltre i 20 giorni dalla sua conclusione, o, se presentata nei termini, risulti incompleta. In questo caso i termini indicati al comma 2 e al comma 3, primo e secondo periodo, dell’art. 62 si intendono di novanta, centoventi e centottanta giorni dalla denuncia tardiva o dalla data di acquisizione degli elementi
costitutivi della denuncia medesima.
In conclusione di argomento, si vuole ricordare due aspetti problematici collegati all’istituto delle prelazione, ed una questione chiarita dall’ufficio legislativo del MIBAC.
Il primo è collegato ad un aspetto della prassi in riferimento alla presentazione della denuncia di trasferimento. Con frequenza agli organi periferici del Ministero vengono presentati
direttamente le copie dell’atto di trasferimento in luogo di una denuncia ad hoc. Viste l’obbligatorietà della sottoscrizione della denuncia ad opera delle parti, appare opportuno che
la prassi dell’invio dell’atto di alienazione venga scoraggiato, in quanto non sempre tutti gli
elementi richiesti dalla norma sono direttamente ricavabili dallo stesso, né è dato riscontrare la presenza di quella sottoscrizione, necessaria (come si è visto indicato nella relazione
illustrativa al codice) all’assunzione della responsabilità di ottemperare alle prescrizioni di
tutela, da parte dei firmatari.
Il secondo aspetto è collegato ad un’errata interpretazione che talvolta nella prassi si dà sul
momento iniziale della decorrenza del termine per l’esercizio della prelazione. Anche recentemente la giurisprudenza si è pronunciata in merito ribadendo che il diritto di prelazione deve essere esercitato dalla Soprintendenza entro il 60° giorno dalla data di ricezione
della denuncia ex art. 59 D. Lgs. n. 42/04, a nulla rilevando la diversa data del protocollo
(TAR Veneto, II sez. 3.12.2004, n. 4241).
Infine, la questione chiarita dall’ufficio legislativo del MiBAC è stata posta dal Consiglio
Nazionale dei notai ed è relativa alla possibilità di esercizio della prelazione artistica in
presenza di ipotesi di trust. La conclusione cui giunge l’ufficio legislativo appare condivisibile basandosi sul presupposto del perseguimento, diretto o indiretto, di un fine ultimo
traslativo a titolo oneroso.
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Capitolo 8
Ufficio Legislativo MiBAC – 18 febbraio 2009
Ammissibilità dell’acquisto in via di prelazione, ex artt. 60 ss. D.Lgs. n. 42/2004, di beni culturali oggetto di conferimento in sede di costituzione di trust.
Si fa riferimento alla (…) questione relativa all’esercizio della cd. prelazione artistica, ex artt. 60 ss.
del Codice dei beni culturali e del paesaggio (D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 e s.m.i.), in occasione
della costituzione di un trust c.d. ‘interno’ (ossia caratterizzato dall’essere costituito da un cittadino
italiano — disponente — dall’avere come amministratore — trustee — e come eventuali beneficiari
altri cittadini italiani, ed infine dall’essere stato dotato, almeno in fase iniziale, con beni che si trovano
in Italia).
Pur con le doverose cautele connesse alla ammissibilità, nell’ordinamento interno, dell’istituto giuridico in argomento, tipico invece del sistema anglosassone, attesa la mancanza di una normativa
nazionale ad esso specificamente dedicata, sembra a questo Ufficio che la questione possa trovare
soluzione nell’ambito di una lettura coordinata e sistematica delle regole comuni pattuite fra le Parti
contraenti in ordine alla legge applicabile ai ‘trusts’ ed al loro riconoscimento, sottoscritte con la Convenzione dell’Aja del 10 luglio 1985 (Convenzione recepita dal nostro ordinamento con legge 16 ottobre 1989, n. 364 e vigente dal 1992) e di quelle che disciplinano, nel nostro ordinamento, i limiti
dell’autonomia contrattuale, con particolare riguardo al disposto di cui all’art. 1322 del codice civile.
Il richiamo all’art. 1322 c.c. assume un rilievo particolare, poiché consente di porre al centro dell’attenzione, al fine di dare risposta al quesito circa l’assoggettabilità a prelazione del negozio istitutivo
di trust comportante il conferimento di bei culturali, l’indagine, da svolgersi caso per caso, sulla effettiva causa pratico-sociale soggiacente alla complessiva operazione giuridica ed economica che
conduce, anche mediante il collegamento tra più cause negoziali, alla formazione del trust. In tal modo
la medesima indagine svolta dal notaio in ordine alla meritevolezza di tutela del negozio fondativo di
trust, ai sensi dell’art. 1322 c.c., potrà nello stesso tempo valere anche al diverso, ma connesso fine
di stabilire se la complessiva operazione economico-giuridica, esibendo elementi di causa onerosa,
vada sottoposto a prelazione, oppure, in caso diverso (titolo gratuito o di liberalità), alla sola denuncia,
ai sensi dell’art. 59 del codice del 2004.
Al riguardo la giurisprudenza ha bene chiarito che «Si deve valutare se l’atto istitutivo del trust è (o
non è) portatore di interessi che sono meritevoli di tutela per l’ordinamento giuridico, senza limitarsi
alla semplice definizione dello ‘scopo’, ma estendendo l’analisi al ‘programma’ che si è prefissato il
disponente nel momento in cui ha deciso di dar vita al trust». In altri termini, atteso che il trust si risolve nella costituzione, ad opera del disponente e per atto inter vivos o mortis causa, di un patrimonio
separato, affidato in gestione ad un trustee nell’interesse di un beneficiario o per un fine specifico,
occorre di volta in volta esaminare, non solo ai fini della formulazione del giudizio di meritevolezza ex
art. 1322 c.c., ma anche ai fini della sottoponibilità del negozio a prelazione artistica, la causa ‘concreta’ dello strumento giuridico posto in essere, ossia la complessiva operazione economica che si è
inteso realizzare attraverso il collegamento di un patrimonio separato ad una ulteriore finalità che,
come la stessa nota dell’Ufficio Studi di codesto Consiglio Nazionale rileva, può essere «liberale,
solutoria, di gestione o di garanzia, a titolo oneroso etc.».
A ragione di ciò (continua la nota citata, peraltro riportando testualmente un autorevole orientamento
dottrinale) ‘l’atto istitutivo dovrà quindi sempre far emergere la causa e sottostare ad un giudizio di
meritevolezza … È quindi estremamente opportuno che negli atti istitutivi di un atto di trust interno
(alla cui redazione è chiamato il notaio) siano sempre esplicate le ragioni per le quali si istituisce il
trust e le finalità che con lo stesso si vogliono perseguire, in modo da renderne trasparenti gli obiettivi per una loro immediata verifica di meritevolezza e non contrarietà a norme imperative del nostro
ordinamento’ e nel contempo al fine di eliminare in radice qualunque dubbio sulla finalità elusiva
dello stesso contratto».
Orbene, l’esplicitazione delle finalità ultime del trust è «estremamente opportuna» non solo per stabilire se esse consistano nel «realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico»
(ex art. 1322 c.c., secondo comma), ma altresì per appurare se esse integrino i presupposti legittimanti l’acquisto in via di prelazione del bene (o dei beni) di riconosciuto interesse culturale eventual-
La circolazione in ambito nazionale
191
mente oggetto di conferimento al trust. Per conseguenza, a giudizio di questo Ufficio, appare ragionevole ritenere che tutte le volte in cui mediante il ricorso allo strumento del trust si persegua (direttamente o indirettamente) un fine ultimo traslativo a titolo oneroso sussista la legittimazione, in testa
all’Amministrazione, di procedere all’acquisto in via di prelazione del bene culturale oggetto del conferimento. Tale soluzione dà ovviamente per pacifica la sussistenza dell’obbligo, per il disponente il
trust, di provvedere alla denuncia dei relativi atti di costituzione qualora fra i beni costituiti in patrimonio separato ve ne siano alcuni di riconosciuto interesse culturale, tanto mobili, quanto immobili.
Sarebbe, dunque, molto opportuno che codesto Consiglio Nazionale, nel dare (ove lo ritenga) diffusione tra i propri aderenti al presente parere, provveda a richiamare l’attenzione dei Sigg.ri notai
sulla necessità che, in sede di denuncia alla Soprintendenza ex art. 59 del codice, siano fornite adeguate indicazioni sulle ragioni che hanno condotto il notaio rogante ad accertare il titolo non oneroso
del conferimento del bene culturale in sede di costituzione (modificazione o estinzione) del trust, sì
da consentire al Soprintendente di formarsi cognita causa un sereno convincimento circa la non assoggettabilità a prelazione dell’operazione economico-giuridico oggetto di denuncia. Sulla scorta
delle osservazioni che precedono questo Ufficio ha interessato la competente Direzione generale
onde sollecitare l’elaborazione e l’invio di una bozza di circolare esplicativa destinata agli uffici operativi del Ministero.
7.Il commercio
La Sezione III (del Capo IV del Titolo I della Parte Seconda del Codice) è dedicata al commercio di beni culturali.
L’art. 63 riproduce sostanzialmente quanto già previsto nel T.U. all’art. 62, anche se è dato
riscontrare una differenza in merito all’autorità demandata a ricevere la dichiarazione preventiva di esercizio del commercio di cose antiche o usate.
Il primo comma dell’art. 63 precisa, infatti, che è l’autorità locale di pubblica sicurezza
abilitata (in luogo del soprintendente e della regione, come previsto nel T.U.), a ricevere la
dichiarazione preventiva di esercizio del commercio di cose antiche. In capo a quest’ultima,
inoltre, vige l’obbligo di trasmettere copia della dichiarazione al soprintendente e alla regione.
La norma, inoltre, precisa l’oggetto dell’attività de quo facendo riferimento alle sole categorie di cui alla lettera A dell’Allegato A al Codice e non anche al paragrafo B, dedicato ai
valori applicabili alle categorie indicate.
Resta fermo, rispetto alla normativa previgente, l’obbligo per coloro che esercitano il commercio di annotare, di giorno in giorno, le operazioni eseguite nell’apposito registro, prescritto dalla normativa in materia di pubblica sicurezza. L’obbligo di esibizione del registro
non vige solo nei confronti degli organi di polizia giudiziaria, ma anche nei confronti dei
funzionari del MiBAC e della Regione, con riferimento ai beni tutelati.
La novella del 2008 (D.Lgs. 62/2008) ha prodotto una modifica all’articolo 63, comma 3.
In particolare, la previsione dell’esercizio, da parte dei carabinieri preposti alla tutela del
patrimonio culturale, previa delega del soprintendente, di funzioni ispettive, con riferimento alla puntuale ottemperanza dell’obbligo di annotazione dettagliata sul registro di commercio delle cose, il cui valore economico sia superiore a quello definito per ciascuna tipologia, è stata inserita su richiesta del Comando carabinieri.
Un nuovo obbligo è previsto nel comma 4 dell’art. 63, in riferimento al trasferimento, a
titolo oneroso, di documenti di interesse storico. In particolare, coloro che esercitano il
commercio di documenti, i titolari delle case di vendita e i pubblici ufficiali preposti alle
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Capitolo 8
vendite mobiliari hanno l’obbligo di comunicare al soprintendente, i documenti di interesse
storico posti in vendita. Allo stesso obbligo sono soggetti i privati proprietari, possessori o
detentori a qualsiasi titolo di archivi che acquisiscano documenti aventi il medesimo interesse, entro novanta giorni dall’acquisizione. Dalla comunicazione il soprintendente potrà
avviare il procedimento di dichiarazione ex art. 13 del Codice.
Il riferimento temporale contenuto nella seconda parte della norma non esclude dalla sottoposizione di denuncia entro novanta giorni dall’acquisizione anche quelle categorie indicate nella prima parte del comma 4 dell’art. 63: cioè coloro che esercitano il commercio di
documenti, i titolari delle case di vendita, nonché i pubblici ufficiali preposti alle vendite
mobiliari.
È interessante ricordare la novità rappresentata dall’ultimo comma dell’art. 63 che prevede
la possibilità per il soprintendente di accertare d’ufficio l’esistenza di archivi o di singoli
documenti dei quali siano proprietari, possessori o detentori a qualsiasi titolo i privati e di
cui sia presumibile l’interesse storico particolarmente importante.
L’ultima disposizione della sezione dedicata al commercio fa riferimento agli attestati di
autenticità e di provenienza. Sono attribuiti degli obblighi a chiunque eserciti l’attività di
vendita al pubblico, di esposizione a fini di commercio o di intermediazione finalizzata alla
vendita di opere di pittura, di scultura, di grafica, oppure di oggetti di antichità o di interesse storico od archeologico, o che comunque abitualmente vende le opere o gli oggetti
medesimi.
Questi obblighi consistono nel consegnare all’acquirente la documentazione attestante
l’autenticità o almeno la probabile attribuzione e la provenienza. In mancanza, vi è l’obbligo di rilasciare con le modalità previste dalla normativa vigente, una dichiarazione recante tutte le informazioni disponibili sull’autenticità o la probabile attribuzione e la provenienza. Se possibile, la dichiarazione è apposta su copia fotografica dell’opera o dell’oggetto.
La dichiarazione risponde ad un’esigenza di maggior tutela nei confronti dell’acquirente
dell’opera o dell’oggetto, che dovrà ricevere in consegna tutta la documentazione relativa
al bene acquistato. In questo caso, il codice modifica la previsione del T.U., che prevedeva
in luogo dell’obbligo di consegna, quello di mettere a disposizione dell’acquirente gli attestati di autenticità e di provenienza.
Secondo l’orientamento dottrinale prevalente, l’art. 64 del Codice, con positiva innovazione, pone sullo stesso piano chi esercita professionalmente le attività ivi indicate e chi vende
tali opere abitualmente all’evidente duplice scopo di salvaguardare il patrimonio culturale
e di soddisfare le esigenze della regolarità e della correttezza degli scambi nel mercato
dell’arte e della connessa tutela della salute pubblica (TAMIOZZO).
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