PROBLEMATICHE SANITARIE DEI PVS ED IN CONDIZIONI DI

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Manuale di Chirurgia
Giorgio Pasquini, Rossella Campa, Maurizio D’Ambrosio, Giacomo Leonardo
© 2012 – The McGraw-Hill Companies srl
CAPITOLO 16 PROBLEMATICHE EMERGENTI DELL’ASSISTENZA SANITARIA
NEI PAESI IN VIA DI SVILUPPO E NELLE ZONE DI GUERRA
A.M. Angelici
Con il termine Paesi in via di sviluppo, o più modernamente Paesi a risorse limitate, si identifica un
folto gruppo di Paesi, più numeroso di quello dei Paesi industrializzati, nei quali le condizioni di vita
della maggioranza degli abitanti è prossima o al di sotto del limite di povertà.
Geograficamente circoscritta ai Paesi della fascia tropicale, negli ultimi trenta anni la definizione di
PVS si è estesa ai Paesi del Nord Est Europeo, della penisola Araba e del Medio Oriente, nei quali
guerre di vario genere, nuove o mai finite, hanno disintegrato un sistema politico già fragile, basato
comunque sulle disparità sociali ed economiche.
Gli indicatori del malessere sociale di tutti questi Paesi sono sovrapponibili: bassissimo reddito
procapite e spesa sanitaria trascurabile rispetto, per esempio, alle spese per armamenti, bassa
scolarità della popolazione e accesso all’istruzione superiore ristretto a un’elite (politica, religiosa,
di etnia), scarso rispetto dei diritti umani.
La sanità in questi contesti, insieme con quello della scuola o più genericamente dell’istruzione, è il
settore che più rapidamente entra in crisi e altrettanto rapidamente diviene insufficiente, o ancor
peggio aggrava la sua inadeguatezza, peggiorando drasticamente la qualità della vita della
popolazione: non è casuale che quello della sanità sia il settore sul quale focalizzano maggiormente
i loro interventi le agenzie umanitarie internazionali.
Va detto con grande chiarezza che il meccanismo dell’aiuto umanitario, pur se insostituibile per
affrontare i problemi più gravi della sanità, costituisce per i Paesi in via di sviluppo un debito molto
alto in termini di dipendenza dai Paesi donatori, difficile da estinguere.
Tra i problemi di maggiore rilievo che affliggono il sistema sanitario di questi Paesi è certamente la
mancanza di un sistema credibile di raccolta dei dati epidemiologici sulle patologie maggiormente
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incidenti e di identificazione delle risorse sanitarie esistenti: senza questi dati non è possibile la
formulazione di programmi di assistenza e la pianificazioni di interventi di educazione sanitaria e di
medicina preventiva.
Il disagio sociale e la povertà aggravano le conseguenze di una sanità povera e mal funzionante: la
malnutrizione rappresenta l’esempio più evidente di questo paradigma.
Le malattie parassitarie e le loro complicanze sono endemiche, le malattie sessualmente trasmesse
incidono in maniera drammatica sulla salute riproduttiva delle donne e sulle patologie del parto; le
neoplasie sono gravate da una mortalità altissima, legata alla mancanza di qualunque possibilità di
diagnosi precoce e di appropriata terapia.
L’accesso alla cura è in genere difficile, se non impossibile, sia per le difficoltà economiche (nei PVS
la sanità non è mai gratuita e non prevede aiuto da parte del governo ai cittadini malati), che per la
difficoltà a raggiungere i luoghi di cura e per la scarsa dotazione di farmaci e di sussidi diagnostici e
terapeutici degli ospedali.
La chirurgia in particolare vive una realtà doppia: da una parte sempre povera di mezzi, dall’altra
rappresenta spesso l’unica possibilità di diagnosi o di cura, anche in situazioni nelle quali nei Paesi
occidentali la terapia medica o la diagnostica strumentale hanno ridotto la necessità del ricorso
all’intervento: la laparotomia diagnostica può essere irrinunciabile, come la chirurgia nel
trattamento dell’ulcera duodenale.
Le complicanze del parto e le loro conseguenze, capitoli della patologia ostetrica notevolmente
ridimensionati nei nostri Paesi, costituiscono un problema pesantemente incidente nei PVS; la
traumatologia stradale è gravata non soltanto da numerosissimi decessi, ma soprattutto da un
elevato numero di disabilità dovute anche a trattamenti non idonei.
La non corretta gestione delle trasfusioni e l’impossibilità a testare il sangue di provenienza non
sicura costituiscono ancora oggi un formidabile veicolo di diffusione dell’epatite e dell’HIV.
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La mancanza di una programmazione sanitaria rende impossibile la gestione “simmetrica” dei
problemi: la sanità è ovunque, ma tanto più nei Paesi poveri, una coperta corta che difficilmente
riesce ad affrontare la maggior parte dei problemi, anche quelli più importanti. Se per esempio si
privilegia la struttura ospedaliera a discapito della sanità di base, si avrà inesorabilmente un
incremento della malaria piuttosto che della TB e così via; le problematiche della gestione della
sanità sono presenti nei nostri Paesi, è immaginabile quale possa essere la loro drammaticità in
contesti poveri o poverissimi.
Se possibile peggiore è la condizioni dei Paesi nei quali siano combattute guerre: in questo casi,
almeno per quello che attiene le problematiche sanitarie, occorre distinguere la condizione dei
Paesi che prima dell’inizio del conflitto possedevano una struttura sanitaria non ricca ma in qualche
modo strutturata, da quelli che erano da considerare PVS ancora prima dell’inizio del conflitto.
Nel primo caso, lo scoppio della guerra distrugge le strutture sanitarie esistenti e blocca la
formazione dei medici e degli infermieri, colpendo un sistema che in qualche modo rispondeva alle
richieste in salute della popolazione: la popolazione sanitaria, pazienti e personale sanitario, per
intenderci, si vedono all’improvviso privati degli strumenti operativi sui quali erano abituati a
contare. In un sistema sanitario abituato a contare sulla disponibilità della TC o di altre tecnologie,
quando queste vengono a mancare, i medici necessitano di un lungo periodo di tempo per
“dimenticare” di essere stati in grado di raggiungere soluzioni cliniche anche o soprattutto
attraverso questi sussidi e di essere in grado di raggiungere risultati accettabili con mezzi semplici.
Nella seconda ipotesi, la popolazione sanitaria già abituata alla scarsezza di presidi e di tecnologie,
vede aggravarsi la propria condizione per la quasi completa scomparsa di risorse, anche di quelle
elementari: strutture sanitarie di ogni livello, presidi diagnostici, materiale chirurgico, ma
soprattutto farmaci, di ogni genere e importanza. Le condizioni di guerra, con il gran numero di
feriti e di lesioni traumatiche e quindi di urgenze chirurgiche, abituano i chirurghi ad accettare
risultati non buoni, proprio in nome delle gravi situazioni nelle quali si trovano a dover assistere i
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pazienti, dimenticando che i combattenti sono in genere giovani, non malati, con maggiori
possibilità di recupero a condizioni che ricevano un trattamento dignitoso.
Tra gli obiettivi dei programmi di aiuto internazionale per il retraining dei chirurghi in zone di
guerra, deve esserci quello di ricondizionare i chirurghi di guerra di un PVS a una dignitosa pratica
chirurgica anche per patologie meno complesse (come l’ernia inguinale); il raggiungimento di
questo obiettivo può non essere semplice per l’abitudine alla approssimazione dovuta
all’emergenza.
Anche l’aiuto sanitario ai Paesi che la guerra ha fatto regredire al livello di PVS è certo non
semplice e deve prevedere scelte commisurate: per esempio la restituzione di un apparecchio TC
che in altre realtà rappresenterebbe una soluzione non appropriata, lo diventa in questo contesto,
già abituato a utilizzare una tecnologia più sofisticata.
C’è un’altra variabile della quale occorre tener conto nei contesti di guerra nei PVS nei quali siano
presenti eserciti stranieri: questi dispongono di una Sanità Militare organizzata ed efficiente, ma
strutturata per assistere i propri militari, con tecnologie appropriate alle condizioni sanitarie dei
Paesi di origine, ben differenti rispetto a quelle del Paese nel quale si combatte. Si pensi per
esempio agli antibiotici necessari ai militari stranieri e a quelli attivi sulla popolazione autoctona,
sensibile a principi attivi meno sofisticati, meno costosi, reperibili con maggiore facilità.
Oggi c’è una corrente di pensiero che affida alla Sanità Militare anche compiti “umanitari” e quindi
di cura alle popolazioni coinvolte nel conflitto; occorre dire che una delle motivazioni di questa
scelta è che il contesto di guerra esporrebbe gli operatori umanitari a rischi eccessi.
Sono posizioni sulle quali è ancora necessaria e opportuna una riflessione approfondita.
Il ruolo del personale infermieristico in questi contesti è estremamente rilevante e può essere
identificato in tre momenti: sul territorio, per individuare le priorità sanitarie, organizzare l’attività
di Primary Health Care, rafforzare la formazione degli infermieri locali; nell’ospedale, per
l’organizzazione dell’attività di assistenza insieme con il personale locale, la gestione delle risorse
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(farmaci, presidi sanitari ecc.) la raccolta dei dati epidemiologici; nelle sale operatorie, insieme con
i team medici espatriati, con compiti specialistici: strumentisti, tecnici di anestesia ecc.
È opportuno sottolineare due principi irrinunciabili: il primo è che ogni attività deve essere
considerata di supporto alle strutture e al personale locale; il secondo è che obiettivo di ogni
intervento umanitario in ambito sanitario è quello di essere appropriato, teso pertanto alla
creazione di un omologo al quale trasferire conoscenze e professionalità. Ogni attività di tipo
sostitutivo, gratificante per chi la fa, è estremamente dannosa per chi la subisce, in termini di
demotivazione, non apprendimento, frustrazione professionale.
Con particolare riferimento alle attività in zone di guerra, tutti gli operatori sanitari, medici e
infermieri, devono poter operare con sufficienti condizioni di sicurezza, garantite se possibile dalla
popolazione stessa. Rischiare la propria incolumità oltre un ragionevole limite rappresenta un bel
gesto di generosità, in grado, però, di creare problemi di difficile e non differibile soluzione, che
portano come conseguenza certa la chiusura del programma di aiuto umanitario, a danno solo ed
esclusivo della popolazione beneficiaria.
Riassunto
Con il termine Paesi in via di sviluppo si identifica un folto gruppo di Paesi nei quali le condizioni di
vita della maggioranza degli abitanti è prossima o al di sotto del limite di povertà.
Gli indicatori del malessere sociale di tutti questi Paesi sono sovrapponibili: bassissimo reddito
procapite e spesa sanitaria trascurabile rispetto per esempio alle spese per armamenti, bassa
scolarità della popolazione e accesso all’istruzione superiore ristretto a un’elite (politica, religiosa,
di etnia), scarso rispetto dei diritti umani. La sanità in questi contesti insieme all’istruzione , è il
settore che più rapidamente entra in crisi e altrettanto rapidamente diviene insufficiente. Tra i
problemi di maggiore rilievo che affliggono il sistema sanitario di questi Paesi è certamente la
mancanza di un sistema credibile di raccolta dei dati epidemiologici sulle patologie maggiormente
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incidenti e di identificazione delle risorse sanitarie esistenti. L’accesso alla cura è in genere difficile,
se non impossibile, sia per le difficoltà economiche che per la difficoltà a raggiungere i luoghi di
cura e per la scarsa dotazioni di farmaci e di sussidi diagnostici e terapeutici degli ospedali.
Peggiore è la condizione dei Paesi nei quali siano combattute guerre. Nei contesti di guerra nei
PVS nei quali siano presenti eserciti stranieri si dispone di una Sanità Militare organizzata ed
efficiente, ma strutturata per assistere i propri militari, con tecnologie appropriate alle condizioni
sanitarie dei Paesi di origine, ben differenti rispetto a quelle del Paese nel quale si combatte. Oggi
c’è una corrente di pensiero che affida alla Sanità Militare anche compiti umanitari e quindi di cura
alle popolazioni coinvolte nel conflitto.
Bibliografia
AA. VV., Disease Control Priorities in Developing Countries, Oxford University Press 2006.
AA. VV., Global Burden of Disease and Risk Factors, Oxford University Press 2006.
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